Corso di Laurea in Economia e Scienze Sociali Il Dibattito sulla quota del lavoro in Italia: un’analisi Carlo Scalisi [Type the abstract of the document here. The abstract is typically a short summary of the contents of the document.] D o c e n t e T u t o r : C a r l o D e v i l l a n o v a D i p a r t i m e n t o d i A n a l i s i I s t i t u z i o n a l e e M a n a g e m e n t P u b b l i c o Matricola 1353424 1 1. Introduzione Nel giugno 2010 un certo numero di docenti e ricercatori universitari italiani di discipline economiche e statistiche ha prodotto un documento, indirizzato ai principali protagonisti della vita politica italiana, nella fattispecie Governo e Parlamento italiano, sindacati ed altre forze sociali e per opportuna conoscenza al Presidente della Repubblica italiana, intitolato semplicemente “Lettera degli Economisti”, dove veniva argomentata una nuova interpretazione delle cause della recessione che l’economia mondiale ha sperimentato nel triennio 2007-2010 e che, per molti parametri economici, continua ad esistere tuttora. Contrariamente a quanto i maggiori studiosi e, in un primo momento, le più importanti istituzioni economiche avevano affermato, quest’ultima crisi economica è stata causata da una domanda insufficiente espressa dal lato dei consumatori, motivata in larga misura da “un allargamento del divario mondiale tra una crescente produttività del lavoro e una stagnante o addirittura declinante capacità di consumo degli stessi lavoratori” (Lettera degli Economisti, 2010). Secondo i firmatari, le ragioni della recessione che l’economia globale stava (e sta) attraversando erano da attribuire non tanto ad una combinazione di eventi economici infausti dal lato dell’offerta in breve, crescita e crisi del mercato immobiliare, meccanismi di concessione del credito deviati, cartolarizzazione e leva finanziaria ma ad uno scompenso sistematico nella capacità di consumo degli individui, identificati principalmente nella persona dei lavoratori dipendenti. 2 La colpa è da attribuire ai governi dei paesi occidentali ed all’Unione Europea tutta, per liberista” che trova avere le promosso sua un fondamenta “insostenibile profilo nel stesso Trattato dell’Unione e per la “politica economica restrittiva dei Paesi membri” colpevoli di aver incoraggiato in maniera sistematica il disavanzo commerciale con l’estero. La Germania in particolare viene attaccata per la sua tendenza ad effettuare avanzi commerciali con l’estero (presumibilmente l’estremo oriente) di notevole entità, non contribuendo così allo sviluppo economico di altri paesi europei che invece soffrono di deficit commerciali cronici. Anche l’attuale governo italiano non è immune alle critiche degli economisti firmatari, colpevole di una politica economica troppo restrittiva e di aver voluto abbattere il debito pubblico tramite le privatizzazioni d’interi apparati statali; l’opposizione, dal canto suo, non è stata neppure capace di proporre linee d’intervento alternative. In chiusura del documento, gli economisti propongono una serie di politiche fiscali ed interventi vari su diversi piani dell’economia con l’obiettivo di “evitare la distruzione dell’Unione” di cui elenchiamo i principali: - emissione di moneta da parte della BCE senza annessa “sterilizzazione” - finanziare la ripresa economica principalmente tramite spesa pubblica, a sua volta sostenuta da maggiore debito - rallentare e se necessario interrompere ed invertire il processo di privatizzazioni cominciato in Italia negli anni ‘90 3 - regolamentare il mercato finanziario in maniera tale da disincentivare le transazioni a breve termine e restringere l’accesso del piccolo risparmio e dei fondi pensione allo stesso - limitare il libero scambio fra i paesi dell’Unione, sia a livello di merci che di capitali La lettera pubblicata nel giugno 2010 dal Sole 24Ore ha suscitato sin da subito un certo dibattito fra studiosi d’economia, professori universitari ed altri esperti, riguardo le premesse teoriche della lettera, le constatazioni sullo stato attuale dell’economia espresse e sulle proposte d’intervento elencate alla fine. In particolare, la lettera è stata criticata in maniera aspra ed a tratti apertamente ridicolizzata dai redattori di NoiseFromAmerika, un blog d’economia e politica curato da economisti italiani che lavorano e/o insegnano negli Stati Uniti, in un post apparso il 21 giugno 2010, una settimana dopo la pubblicazione del documento (Bisin e Boldrin, 2010). In questo post, tutte le proposizioni principali della lettera vengono prese in esame e sistematicamente “smontate”, tirando in ballo vecchie teorie economiche come quella del sottoconsumo/sovrapproduzione, che, a detta degli autori del post, sono alla base della disamina della cause della crisi proposta dai firmatari della lettera. Il modo in cui le critiche vengono proposte è probabilmente fin troppo aspro e pecca di grande sufficienza nella maniera in cui vengono “demolite” le tesi della lettera, a tratti dando ai firmatari della lettera quasi il ruolo di una “fazione nemica” ai redattori del post, le cui proposizioni teoriche diverse sono ragione sufficiente per aggiudicarsi quasi l’odio degli autori. Le critiche espresse, seppur in un tono sconveniente, da Bisin e Boldrin sono comunque condivisibili e mostrano delle falle nei 4 fondamenti teorici della Lettera, specie quando fanno notare come una crisi del consumo, a detta dei firmatari della Lettera una causa della crisi, sia quanto di più lontano da quello che è realmente successo negli USA nel lustro pre-recessione (Bisin e Boldrin, 2010). La Lettera degli Economisti ha suscitato un certo dibattito in ambiente accademico ma non è riuscita a generare riflessioni serie nell’ambiente politico e nei sindacati, i quali erano peraltro i principali destinatari del documento. A difesa del documento, si può citare una conferenza congiunta Fondo Monetario Internazionale (FMI) – Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), documentata da Devillanova (2010), in cui le posizioni espresse supportano indirettamente alcune delle considerazioni presenti nella lettera. Partendo dal dato assai preoccupante della disoccupazione nel mondo, l’IMF indica gli squilibri della domanda aggregata come possibile determinante, in particolar modo la crescente disuguaglianza nei paesi occidentali che potrebbe spiegare la crescita scarsa e l’aumento del ricorso all’indebitamento ed, in ultima analisi, la crisi dei mutui subprime. L’IMF sostiene anche che sia meglio evitare il fisco restrittivo in un primo momento, senza però incoraggiare maggiore intervento statale come viene auspicato nella Lettera. Infine, seppure rilevando come la globalizzazione abbia contribuito all’aumento della disuguaglianza, l’IMF auspica maggior coordinazione delle politiche economiche e di scambio dei paesi, ma sicuramente non propone una diminuzione del libero scambio, come sostengono invece i firmatari della Lettera. La lettera attribuisce l’origine della crisi ad un’insufficienza della domanda mondiale, una situazione causata da un aumentare della 5 produttività mondiale peggioramento dei del profili lavoro salariali accompagnato dei lavoratori ad dei un paesi occidentali, una combinazione di eventi che, a detta dei firmatari, ha sensibilmente diminuito la capacità di spesa dei consumatori. Gli economisti firmatari sostengono dunque che la quota del lavoro, ossia quella parte di Prodotto Interno Lordo (PIL) che va ai lavoratori, sia diminuita nell’ultimo decennio (anni ’00) mentre la produttività del lavoro aumentava, in Europa come negli Stati Uniti. La quota del lavoro è costituita dal rapporto fra il costo del lavoro totale (salario unitario reale per forza lavoro impiegata) ed il valore aggiunto prodotto nell’economia, vale dire il PIL. Altre quote distributive che sono generalmente oggetto di studio sono quella dei profitti e quella del “capitale”, ossia rendite su immobiliari ed asset finanziari. Per lungo tempo, gli economisti hanno creduto che le quote distributive restassero costanti nel tempo, tramite un meccanismo di aggiustamento attuato mediante i prezzi relativi dei fattori: al diminuire del costo relativo di un fattore, ad esempio il lavoro, rispetto ad un altro, come il capitale, aumenta il suo impiego, sempre relativo, e se questa variazione di impiego si muove in maniera proporzionale alla variazione di prezzo relativo, la quota del primo fattore, in questo caso il lavoro, resta costante nel tempo. Tuttavia, questa convinzione d’invariabilità è stata messa in discussione dalle variazioni, certe e osservabili, che la quota ha subito nel tempo, di cui discuteremo in seguito. Alcune determinanti delle variazioni della quota del lavoro e di altre quote distributive nel tempo sono l’evoluzione delle tecnologia, che determina l’impiego relativo dei fattori produttivi, le variazioni dei prezzi relativi di quest’ultimi, che similarmente ne influenzano 6 l’utilizzo, ed il grado di concorrenza esistente in un mercato, che modificano la ripartizione delle rendite fra capitale e lavoro. L’affermazione della Lettera che vuole la quota del lavoro in grande diminuzione nell’ultimo decennio è stata al centro di un altro filone di dibattito partito da un post pubblicato sempre su NoiseFromAmerika da Giulio Zanella, poco tempo dopo la diffusione della lettera, dal titolo “Gli economisti e i fatti” (Zanella, 2010). A questo post sono seguite svariate repliche, in cui veniva dibattuta la metodologia di calcolo dei dati utilizzata da Zanella, diversa da quella applicata nella “lettera” (Stirati, 2010; Stirati, 2011). Questa discussione sulla metodologia può essere interessante per i tecnici ma risulta un po’ sterile per chi non ha almeno qualche rudimento di economia e contabilità nazionale. Ad ogni modo, verrà esaminata in seguito. L’obiettivo di questo paper è un altro: si vuole analizzare, sulla base della letteratura economica esistente, l’evoluzione della quota del lavoro, o labor share, in Italia, ragionando anche sulle variazioni delle sue componenti, vale a dire studiando l’andamento dei profili salariali dei lavoratori italiani negli ultimi anni. Da quest’analisi si cercherà quindi di venire a capo del dibattito che è sorto dopo la pubblicazione della lettera degli economisti e, se possibile, determinare chi ha torto o ragione. Il resto del paper è organizzato nella seguente maniera: la prima parte esamina e riassume la letteratura economica esistente che ha trattato l’argomento di recente; la seconda cerca di mettere insieme i dati comuni rilevati dai vari autori degli articoli esaminati in precedenza, evidenziando dove necessario le discordanze e le differenze nell’interpretazione. In ultimo, vengono proposte le conclusioni dell’analisi effettuata in precedenza sul fenomeno. 7 2. Letteratura economica recente: un quadro d’insieme 2.1. Evoluzione quota del lavoro Roberto Torrini (Banca d’Italia) ha prodotto un certo numero di studi e ricerche sul tema, sia da solo sia in collaborazione con altri colleghi in Banca d’Italia. Cominciamo con un articolo pubblicato su “Politica Economica” nell’agosto dello scorso anno dal titolo “L’andamento delle quote distributive in Italia” che tratta appunto l’evoluzione delle quote del PIL italiano, in particolare la quota del lavoro, o labor share, negli ultimi trenta anni (Torrini, 2010). Negli ultimi anni si è verificato un certo aumento dell’attenzione rivolta alle quote distributive del PIL, sia del lavoro che dei profitti e delle rendite, fenomeno giustificabile data l’importanza che questi dati assumono per le parti sociali, in quanto danno un’idea, seppur un po’ abbozzata, della distribuzione della ricchezza prodotta dal paese. Gli andamenti essenziali della quota del lavoro negli ultimi trenta anni del secolo scorso vengono subito presentati: la quota del lavoro è cresciuta velocemente negli anni settanta, si è ridotta per tutti gli anni ottanta fino ad arrivare, nei primi anni novanta, ai livelli di fine anni sessanta. Negli anni novanta la quota è diminuita ulteriormente, come conseguenza dei mutamenti istituzionali di quegli anni, vale a dire l’introduzione di nuovi meccanismi di determinazione dei salari e di nuove regole di governo del mercato del lavoro, che causarono una 8 diminuzione dell’occupazione, un rallentamento della crescita del costo del lavoro e in virtù di ciò un contenimento della labor share. Al contempo, i governi di quegli anni intrapresero un esteso programma di privatizzazioni di interi settori statali con l’obiettivo di tagliare il consistente debito pubblico che gravava sul paese; un rapporto debito/PIL sostenibile era infatti uno dei requisiti per adottare a fine millennio la moneta unica. Queste privatizzazioni ebbero l’effetto di moderare ancora di più la dinamica della quota del lavoro attraverso il contributo dei settori dell’economia privatizzati alla definizione della quota del lavoro di tutto il paese: in questi settori, infatti, “i salari unitari aumentano meno della media del settore privato dell’economia e la produttività cresce a tassi comparativamente elevati” (Torrini, 2010). Dal 2000, la tendenza si inverte e la labor share aumenta grazie ad una crescita importante dell’occupazione ed una produttività stagnante, che resterà tale per tutto il decennio. Torrini accenna qua a quello che ha costituito l’argomento principale del dibattito nato fra Zanella e Stirati, vale a dire il calcolo del valore aggiunto, che si può effettuare prendendo il PIL calcolato al costo dei fattori oppure ai prezzi di mercato; la differenza sta principalmente nel fatto che il primo è al netto di imposte indirette e sussidi alla produzione ed al consumo. Torrini fa notare come generalmente si utilizzi questa definizione di valore aggiunto, ossia al costo dei fattori, per il calcolo delle quote distributive. E’ prassi comune in letteratura utilizzare il valore al costo dei fattori perché, essendo al netto d’imposte indirette e contributi, ha il vantaggio di separare la dinamica del carico fiscale dall’andamento del prodotto interno. 9 L’altro argomento al centro del dibattito prima citato è l’inclusione o meno dei lavoratori autonomi nel calcolo del costo del lavoro, poiché esistono dati precisi e facilmente reperibili soltanto per i lavoratori dipendenti. Senza volere addentrarsi troppo nell’argomento, dal momento che verrà ripreso in esame quando ci si occuperà del dibattito fra Zanella e Stirati, basta dire che un modo per ovviare a questo problema è quello di attribuire ai lavoratori autonomi un reddito pari a quello medio dei lavoratori dipendenti. Anche questa è la prassi comune in letteratura, per il semplice motivo che, scegliendo di includere solo i lavoratori dipendenti, si ha a che fare con due variabili: il rapporto tra le retribuzioni totali ed il valore aggiunto prodotto ed il rapporto fra lavoratori dipendenti ed occupazione totale, una situazione che rende le stime poco affidabili. Com’è stato accennato in precedenza, le principali determinanti dell’evoluzione della quota sono la tecnologia utilizzata, il prezzo relativo dei fattori produttivi e il grado di monopolio presente in un mercato. La proprietà di invariabilità della quota è stata fortemente messa in discussione dalle variazioni a cui abbiamo assistito nell’ultimo trentennio. Vale comunque la pena notare come questi aggiustamenti di impieghi relativi di fattori, in seguito ad una variazione dei prezzi degli stessi, richiedano un certo periodo di tempo, generalmente nell’ordine di qualche anno. Secondo alcuni analisti, infatti, le variazioni osservate dalla quota del lavoro in questi ultimi decenni non sono altro che i processi di aggiustamento del rapporto fra fattori utilizzati e che quindi, in linea di principio, i valori della quota prima e dopo questi lunghi periodi di adjusting debbano essere 10 sostanzialmente simili. Ad una prima occhiata, questa tesi è corroborata dal fatto che i livelli della labor share, ad inizio anni novanta, siano tornati a quelli di inizio anni settanta, prima dello shock salariali che ha interessato quel decennio. Non convince però appieno una simile spiegazione: le variazioni della quota sono state troppo importanti negli anni settanta ed ottanta e si fatica a credere che l’impiego di un fattore rispetto ad un altro possa avvenire con la semplicità e l’automatismo quasi, che i propositori di questa teoria assumono. Altri fattori che influenzano il livello delle quote sono il grado di monopolio esistente in un mercato e la ripartizione delle rendite monopolistiche fra capitale e lavoro, condizioni che vengono influenzate da fattori istituzionali come il grado di statalizzazione dell’economia, la presenza e forza di altre forze sociali, l’esistenza di un mercato unico sovranazionale, etc. In ultimo, va notato come la quota del lavoro abbia una tendenza anticiclica, cresce quando l’economia segue un trend recessivo. Questa proprietà è presto spiegata notando come, durante una fase recessiva, il denominatore del rapporto che costituisce la quota del lavoro, ovvero il valore aggiunto prodotto nell’economia, diminuisca, facendo aumentare il valore della frazione; al contempo, nel breve periodo, il costo del lavoro non diminuisce perché le imprese non riescono ad adeguare la forza lavoro impiegata alla diminuita produzione altrettanto velocemente. Nel lungo periodo, tuttavia, la quota lavoro ritorna ai valori precedenti la recessione; ovviamente, vale il viceversa in caso di fasi espansive dell’economia. Il grafico seguente, tratto dall’articolo, mostra l’andamento negli ultimi sessanta anni delle quote distributive, la quota del lavoro (misurata al costo dei fattori), la quota dei profitti e la quota delle 11 rendite immobiliari, che indicano rispettivamente quanto del PIL va ai profitti e alle rendite da locazione di immobili (Torrini, 2010). Notiamo come la quota delle rendite abbia seguito un trend crescente durante tutto il periodo d’interesse mentre la quota dei profitti sia scesa di livello dal 1950 fino al 1985, proprio mentre quella del lavoro aumentava. Viene effettuato anche un confronto fra la quota del lavoro che include solo lavoratori dipendenti con la quota calcolata inserendo nel computo anche gli autonomi (utilizzando per loro la retribuzione media dei dipendenti): a parte un peggioramento più marcato negli anni ottanta del valore calcolato con solo lavoratori dipendenti, dovuto presumibilmente all’aumento dell’incidenza del lavoro autonomo, il livello delle due quote segue un andamento quasi identico, un risultato confermato in un grafico proposto da Zanella (2011). Che cosa ha determinato questa precisa evoluzione della quota del lavoro nell’ultimo quarantennio? 12 La crescita della quota negli anni settanta è stata determinata, come detto in precedenza, da una rapida espansione dei salari, diffusa in buona parte dei paesi dell’Europa occidentale, che ha innalzato improvvisamente il costo del lavoro, gonfiando la quota corrispettiva sul PIL, a tutto svantaggio di quella dei profitti. Solo in un secondo momento, le imprese hanno adeguato la domanda di lavoro ai nuovo salari maggiorati, contenendo l’espansione della labor share, e cercando di sostituire il fattore lavoro con il capitale. Secondo alcuni studiosi, il solo aggiustamento dell’utilizzo del lavoro messo in atto dalle imprese a seguito dello shock salariale non basta a spiegare la rapida espansione ed il successivo crollo della quota del lavoro durante gli anni ottanta. Probabilmente, gli estesi processi di liberalizzazione, attuati da molti governi di paesi occidentali in quegli anni nel tentativo di ridurre gli ingenti debiti pubblici, hanno contribuito alla diminuzione notevole della quota del lavoro. Inoltre, gli anni ottanta sono stati testimoni di un aumento importante del rendimento medio del capitale a livello mondiale, fattore che indubbiamente ha contribuito alla sostituzione del fattore lavoro con quello capitale. E’ interessante notare che, quando la quota del lavoro è cresciuta, sia per un aumento del salario reale, sia per un aumento dell’occupazione, la quota dei profitti si è ridotta in un primo momento, a testimonianza di una diminuzione della redditività delle imprese; una volta operata da queste ultime una riconfigurazione del costo del lavoro tramite una diminuita domanda di lavoro, i profitti sono tornati a crescere, e così la quota. In chiusura, viene analizzato l’andamento della quota dei profitti all’interno di alcuni settori specifici dell’economia, nella fattispecie il manifatturiero, e lo mette a confronto prima con tutto il resto del 13 settore privato e in seguito con tre settori che hanno sperimentato ingenti misure di privatizzazione durante gli anni novanta, l’energetico, i trasporti e le telecomunicazioni e l’intermediazione finanziaria. L’evoluzione della quota dei profitti nel manifatturiero ha seguito pressappoco lo stesso andamento del resto del settore privato, seppure le oscillazioni del primo siano state molto più marcate. Il grafico seguente invece mostra la quota dei profitti nel manifatturiero e nei tre settori privatizzati presi in esame, ponendo come anno base il 1990. Si nota subito come dal 1992 la quota dei profitti sia cresciuta in maniera importante nei settori privatizzati, mentre nel manifatturiero aumentava debolmente per poi ristagnare. In questi settori, il passaggio della proprietà da pubblica a privata ha attuato un processo di riconfigurazione delle rendite monopolistiche prima presenti, che garantivano profili salariali 14 innaturalmente alti ai lavoratori e determinavano livelli di produttività inferiori rispetto ad altri comparti del privato. Dopo la privatizzazione, il contenimento del costo del lavoro e l’aumento della produttività media hanno determinato l’aumento della quota dei profitti osservato sopra. Riassumendo: la convinzione che la quota del lavoro rimanga costante nel tempo è stata messa in discussione da variazioni di livello della quota stessa su un periodo di tempo piuttosto esteso, oscillazioni riconducibili sia a variazioni nelle componenti della quota (profili salariali) sia a fattori istituzionali esterni (programmi di privatizzazione e ristrutturazione di settori dell’economia statalizzati). 2.2. Profili salariali: dinamica e distribuzione Un’altra componente della quota del lavoro che va analizzata è il salario unitario reale dei lavoratori. Tralasciamo per il momento le questioni riguardanti l’occupazione e la forza lavoro. La Banca d’Italia concentrandosi su ha un trattato il fenomeno tema negli resosi più anni che passati, evidente recentemente, il divario generazionale che si è creato nell’ultimo trentennio nei profili salariali dei lavoratori (Rosolia e Torrini, 2007). I fattori più importanti che influenzano l’evoluzione dei salari lungo la vita lavorativa degli individui sono la crescita della produttività di tutta l’economia e l’accumulo di esperienza lavorativa (Rosolia e Torrini, 2007). 15 L’oggetto di ricerca dell’articolo in esame è il “generation gap” che si è venuto a creare fra le diverse coorti di lavoratori che sono entrati nel mercato del lavoro italiano, sin dalla fine degli anni settanta. Sulle basi dei dati INPS sulle retribuzioni di circa 70.000 lavoratori del settore privato non agricolo, gli autori analizzano l’evoluzione dei salari di partenza e dei profili salariali dei lavoratori italiani sul periodo 1975-2004, non disponendo tuttavia di dati sulla “quantità” d’istruzione ricevuta dai lavoratori; questo sarebbe un dato interessante da includere, visto l’aumento importante nel periodo di studio del numero di lavoratori in possesso di un diploma di scuola superiore o di un titolo superiore. Nel periodo d’interesse, si può assistere ad un costante aumento del salario ingresso dei lavoratori di età 21-22 (presumibilmente in possesso soltanto del diploma) fino al 1992, anno dal quale è cominciato un deterioramento mai interrotto. Un’osservazione analoga può essere fatta per le coorti di lavoratori di età di 25-26 anni (si suppone già laureati): crescita più o meno costante fino al 1992 e poi ristagno se non diminuzione fino al 2004 Si potrebbe ragionare che un deterioramento di questo tipo possa essere stato bilanciato nel tempo da profili salariali più “rigidi”, ossia caratterizzati da una crescita della retribuzione rispetto all’età lavorativa più veloce di prima. Così non è stato: ad una prima occhiata, si nota come le coorti di lavoratori più giovani abbiano profili salariali più “piatti” di altre coorti inseritesi nel mondo del lavoro prima. Guardando con più attenzione, si nota pure come questo peggioramento abbia interessato solo chi cominciava a lavorare per la prima volta in quel periodo, la seconda metà degli anni novanta: i lavoratori più anziani non hanno sperimentato nessuna caduta importante dei salari. 16 L’analisi econometrica effettuata dagli autori con variabili di controllo per l’età, il periodo e la coorte conferma i risultati di una prima analisi visiva. Gli autori affermano quindi che dopo un periodo di crescita durato fino ai primi anni novanta, i salari iniziali hanno subito un tracollo, arrivando a perdere fino al 12% rispetto alla prima coorte del periodo analizzato e fino al 20% rispetto alle coorti di fine anni ottanta (Rosolia e Torrini, 2007). Da cosa è stato determinato questo considerevole peggioramento? Vengono proposte tre linee di interpretazione, che si basano rispettivamente su problemi di selezione avversa, su fattori sociodemografici e su interazioni di domanda ed offerta di lavoro. La prima spiegazione mette in relazione alcune riforme del mercato del lavoro dei primi anni novanta che hanno aumentato il grado di flessibilità nel processo di assunzione con l’ingresso nel mondo del lavoro di individui sotto qualificati, a cui veniva attribuito un salario modesto proprio per la loro mediocre preparazione. L’ingresso di un ingente numero di lavoratori meno qualificati avrebbe dovuto diminuire il salario medio d’ingresso ed aumentarne la dispersione. Seppur il primo dato sia indiscutibile (è infatti l’oggetto dello studio), il secondo non viene confermato dalle statistiche, motivo per cui questa linea d’interpretazione non è sostenibile. La seconda si basa invece su caratteristiche come l’età anagrafica e lavorativa, il livello d’educazione ed una serie di variabili sociodemografiche come lo stato civile, il numero di componenti del nucleo famigliare, il numero di percettori di reddito, la residenza, la dimensione della città, etc. Viene subito rilevato come il peggioramento dei salari iniziali degli anni novanta sia conciso con un aumento dell’istruzione dei 17 lavoratori che si immettevano per la prima volta nel mondo del lavoro, in linea di massima quindi più efficienti delle coorti precedenti. Attraverso una regressione econometrica basata su dati più completi della Banca d’Italia, gli autori dimostrano come il declino dei salari iniziali sia robusto rispetto ai parametri elencati sopra, e come queste caratteristiche possano essere ottimi proxy per valori inosservabili (vedi abilità). La terza ed ultima traccia d’interpretazione ragiona sull’offerta relativa di lavoro ed in particolare sull’offerta di lavoratori con almeno un diploma di scuola superiore, ipotizzando che un aumento troppo marcato dell’offerta di questi ultimi non sia stato accompagnato da una domanda adeguata, diminuendo il salario medio. Tuttavia un’altra analisi econometrica rifiuta anche questa tesi d’interpretazione. Vedendo la grande incidenza che i contratti di lavoro a termine hanno assunto in Italia nell’ultimo quindicennio, in particolar modo, presso i lavoratori giovani, rimane il dubbio che questa evoluzione del mercato del lavoro non possa spiegare il deterioramento dei salari d’ingresso dei lavoratori. Lo studio ragiona su dinamiche di domanda e offerta di lavoro e dell’ingresso di lavoratori poco qualificati che avrebbero potuto abbassare il salario d’equilibrio. Quello che potrebbe essere successo, invece, è una creazione progressiva di automatismi nell’attribuzione di contratti a termine a lavoratori giovani, collegati a retribuzioni modeste, modalità di impiego a tempo ridotto che venivano scelte per trovare spazio in un mercato del lavoro sempre più rigido. 18 In presenza di queste tipologie di occupazione, non c’è spazio per accumulare esperienza (“expertise”) nel lavoro che si svolge, perché il sistema di impiego non permette al lavoratore di restare il tempo sufficiente in una posizione per sviluppare economie d’esperienza. Con il diffondersi del lavoro a termine, la capacità di sviluppare conoscenza e capitale umano nel tempo, che è positivamente associata a profili salariali “ripidi” ed a maggiore forza contrattuale, si è andata indebolendo progressivamente, in particolar modo fra i lavoratori giovani. Questa spiegazione del fenomeno richiederebbe ulteriori studi per provarne la bontà ma resta comunque uno spunto interessante di riflessione. In conclusione, gli autori indicano fattori istituzionali come possibili cause di questo deterioramento dei salari, in particolare la rigidità del mercato del lavoro italiano. In un contesto ipotetico dove le retribuzioni dei lavoratori più giovani sono flessibili al ribasso (come quello italiano), uno stimolo negativo all’economia, invece di aumentare la disoccupazione giovanile, non farebbe altro che modificare al ribasso soltanto i salari dei lavoratori giovani, data la natura duplice del mercato del lavoro, appunto l’esistenza di un gap generazionale. Di nuovo, la rigidità del mercato del lavoro italiano ha sicuramente giocato una parte importante nella creazione di un gap generazionale, ma resta comunque l’impressione che siano state le evoluzioni al suo interno (vedi incidenza lavoro a tempo ridotto) più che la natura stessa a contribuire maggiormente. In presenza di una crescita costante dei salari, questo gap generazionale sarebbe un problema meno preoccupante, ma come sappiamo da Torrini (2010) la produttività del lavoro in Italia è stagnante se non in declino da quindici anni e cosi anche i salari 19 medi reali (Bassanetti et al. (2005), Torrini (2005)) rendendo l’esistenza di questo divario un problema serio per la crescita del mercato del lavoro italiano. Passiamo adesso ad un altro lavoro pubblicato su Politica Economica la scorsa estate che studia il percorso evolutivo seguito dalle retribuzioni in Italia negli ultimi 25 anni ad opera di A. Rosolia (2010). L’obiettivo di ricerca è analizzare la composizione e la distribuzione dei salari dei lavoratori italiani, per come si è modificata nell’ultimo quarto di secolo, date le trasformazioni che ha subito il nostro mercato del lavoro. Come indica Rosolia, “Tra il 1980 e il 2004 la quota delle donne sul totale degli occupati dipendenti è passata dal 20 al 40 per cento” e “il numero di occupati stranieri residenti in Italia è più che raddoppiato nel corso dell’ultimo quindicennio”, due delle evoluzioni più evidenti del mercato. Ricordiamo anche che l’ultimo decennio del secolo ha prodotto alcune riforme mirate ad aumentare la flessibilità e l’elasticità dell’impiego in Italia, che hanno determinato l’ingresso nel mondo del lavoro di individui le cui qualificazioni, in mancanza di contratti a termine o a tempo ridotto, non avrebbero consentito loro di trovare un impiego. Lo studio è basato su i dati WHIP (Work Histories Italian Panel) dell’INPS, un campione rappresentativo dei lavoratori presenti nell’archivio dell’istituto, con circa 150.000 osservazioni all’anno e dati su retribuzione complessiva lorda, periodo di versamento di contributi durante l’anno, tipologia contrattuale ed orario di lavoro, etc. Mancano dati sull’istruzione. Il grafico seguente mostra come sia stata importante l’incidenza del lavoro a tempo ridotto a partire dai primi anni novanta. 20 Oltre ad un indice della retribuzione per dipendente, la figura riporta una misura della retribuzione settimanale, calcolata dividendo il monte retributivo annuale per il numero di settimane lavorate e correggendo quelle lavorate a tempo parziale con il fattore 5/8 (Rosolia, 2010). l’andamento delle Questa misura retribuzioni approssima secondo i assai conti meglio nazionali, a testimonianza della grande importanza assunta dal lavoro a termine nell’ultimo ventennio in Italia. Il dato dei salari espressi per dipendente, che non tiene quindi conto del lavoro a tempo ridotto, comincia a peggiorare proprio in corrispondenza del lancio delle riforme che hanno introdotto queste nuove tipologie di contratto; la retribuzione settimanale ed il valore dei conti nazionali espresso in ULA continua invece il suo trend crescente cominciato nella seconda metà degli anni ottanta. L’indice Gini per le retribuzioni annuali segnala un aumento della disuguaglianza fino al 2004 circa seguito da un leggero calo; prevedibilmente la crescita della dispersione è stata meno marcata per i lavoratori a tempo pieno e per i lavoratori maschi. 21 La disuguaglianza nel Sud e nelle isole, assai più alta che al Nord all’inizio degli anni novanta, è diminuita fino ad assestarsi allo stesso livello del Nord Italia. Segue una serie di grafici che illustrano l’evoluzione dei differenziali retributivi rispetto a variabili socio-demografiche come sesso, nazionalità, età, etc. I differenziali retributivi calcolati sia rispetto al dato annuale sia a quello annualizzato (più robusto rispetto a situazioni di lavoro a tempo ridotto) mostrano un divario costante al 40% fra uomini e donne se calcolato annualmente, ma in grande diminuzione se annualizzato, arrivando al 5% nel 2005. Il dato calcolato per nazionalità indica un ampliamento del divario retributivo fra italiani stranieri, sia per retribuzione annuale che settimanale. Come evidenziato da Rosolia e Torrini (2007), il divario retributivo fra giovani e meno giovani si è ampliato nell’ultimo quindicennio, una tendenza appena meno pronunciata nel caso di retribuzioni annualizzate, a testimonianza dell’aumentata natura provvisoria dell’occupazione giovanile, che potrebbe spiegare il peggioramento del divario retributivo. Il differenziale fra Nord e Sud d’Italia è rimasto più o meno costante, leggermente meno accentuato per retribuzioni annualizzate, mentre il divario fra retribuzioni per i lavoratori dell’industria e dei servizi è aumentato a vantaggio dei primi utilizzando il dato annuale, mentre vede i secondi in una posizione più favorevole se usiamo dati annualizzati, a testimonianza della grande incidenza che il lavoro a tempo determinato ha assunto nel settore dei servizi. 22 Ma come è cresciuta in questo periodo la distribuzione delle retribuzioni? Elaborando i dati WHIP, Rosolia dimostra come dal 1986 al 2004 ci sia stata “una compressione della distribuzione delle retribuzioni al di sotto della mediana, per effetto della crescita maggiore di quelle al di sotto del 20° percentile, e un ampliamento della dispersione delle retribuzioni sopra la mediana” (2010). Questo equivale a dire che è cresciuta la quota di percettori di redditi modesti, grazie all’ingresso sul mercato di molti lavoratori stranieri, ed è aumentata la disuguaglianza fra chi riceve redditi più alti, in parte grazie alla crescita dei percentili più elevati al Nord. Se integriamo i dati di un rapporto del 2008 dell’OECD sull’ineguaglianza, vediamo però come quest’ultima sia cresciuta in maniera preoccupante in Italia dai primi anni novanta ad oggi, posizionando ad un livello assai più alto della media dei paesi OECD (OECD, 2008). Altro dato significante è che la ricchezza sia distribuita in maniera ancora più ineguale del reddito: il 10% più ricco del paese detiene il 42% della ricchezza totale mentre il decile più alto dei percettori di reddito detiene il 28% del reddito disponibile totale. In definitiva, la caduta delle retribuzioni pro-capite in Italia nell’ultimo quindicennio viene spiegata in gran parte dal diffondersi dell’occupazione a tempo determinato, che ha aumentato la frammentarietà dell’impiego. Il dato della retribuzione unitaria, che incorpora bene questi cambiamenti istituzionali nel mercato del lavoro, indica, infatti, una sostanziale stazionarietà dei salari in Italia. Tuttavia, il mercato del lavoro italiano è stato interessato da grandi cambiamenti per quanto riguarda la composizione della forza 23 lavoro, che è mutata rispetto a parametri come sesso, provenienza geografica, nazionalità, etc. 2.3. Breve sunto del dibattito sulla quota Dopo aver analizzato il fenomeno della quota del lavoro tramite la letteratura economica che lo ha trattato di recente, passiamo al dibattito vero e proprio. Avevamo accennato prima alla discussione nata dopo la pubblicazione della Lettera degli Economisti e di un post di Giulio Zanella fra quest’ultimo ed Antonella Stirati, sviluppatosi sotto forma di botta e risposta pubblicati rispettivamente su NoiseFromAmerika (NFA) e Economia e Politica fra Giugno 2010 e Maggio 2011. Vediamo di farne un breve riassunto. In risposta alla Lettera, Zanella pubblica un post dal titolo “Gli economisti e i fatti” (Zanella, 2010). Dopo una “breve premessa metodologica” in cui illustra il metodo di ricerca degli studiosi delle scienze sociali, passa ai fatti economici alla base della spiegazione della crisi secondo i firmatari della Lettera: produttività del lavoro crescente e capacità di spesa insufficiente, quest’ultima determinata da reddito disponibile stagnante se non decrescente. Come sono collegati i due dati? Usando dati Eurostat, dove la quota del lavoro è calcolata al netto di imposte e contributi a carico del lavoratore ed include il solo lavoro dipendente, si vede bene come questa sia stata in declino da metà anni settanta circa fino al 2000; nell’ultimo decennio è invece aumentata in Italia. 24 Contrariamente a quanto asserito dagli economisti nella Lettera, la produttività del lavoro è ristagnante in Italia da circa 15 anni, mentre è cresciuta nelle rimanenti economie occidentali, stando alle statistiche OCSE, sicuramente attendibili. Un simile risultato viene anche proposto da Perri (2010), riguardo l’andamento della produttività in Italia. La capacità di consumo dei lavoratori dipendenti è cresciuta in maniera proporzionale alla produzione interna in buona parte dei paesi occidentali, e meno che proporzionalmente in Italia, dove invece i salari sono cresciuti in maniera più che proporzionale rispetto alla produttività del lavoro. È innegabile che la quota del lavoro sia diminuita nel nostro paese negli ultimi trenta anni; come mai? Altre quote distributive del prodotto sono la “capital share”, che include i redditi percepiti tramite rendite su asset immobiliari, finanziari, profitti ed interessi, e la “government share”, quella parte di PIL che viene trattenuta dal governo sotto forma di imposte e tasse su produzione ed importazioni, al netto dei trasferimenti. La prima è storicamente molto alta in Italia e non è variata di molto nell’ultimo trentennio, a testimonianza della grande incidenza nel nostro paese del lavoro autonomo, che contribuisce al computo della capital share. Vale la pena notare come un livello basso di capital share sia indice di un alto tasso di concorrenza all’interno di un’economia; non è una sorpresa che gli USA abbiano un livello molto modesto di capitale share. Secondo Zanella però la diminuzione della quota del prodotto che va ai lavoratori è avvenuta in Italia a tutto vantaggio della government share, in parole povere sono stati i nostri governi ad espropriare i 25 lavoratori dipendenti di una parte sempre più grande del loro reddito. Il grafico seguente mostra l’aumento vertiginoso seguito dalla government share negli ultimi 25 anni. La tesi della Lettera degli Economisti viene completamente rigettata e la cura proposta da questi ultimi (più intervento statale) viene bocciata in pieno. A questa critica cosi totale è seguita una risposta da parte di Antonella Stirati, una delle firmatarie della Lettera, su Economia e Politica, pubblicata nel novembre 2010 (Stirati, 2010). Stirati critica il metodo di computo della quota del lavoro di Zanella, che aveva tralasciato nel calcolo i lavoratori non dipendenti, ossia gli autonomi. Secondo la Stirati, il mancato inserimento dei lavoratori autonomi falsa completamente il risultato, specialmente in virtù della grande 26 quota di lavoratori autonomi presenti in Italia, i cui redditi afferiscono sia al fattore lavoro che a quello capitale. Oltretutto, la procedura utilizzata da Zanella devia da quella standard utilizzata in letteratura che, come abbiamo visto in Torrini (2010), consiste nell’includere i lavoratori autonomi nel computo della quota, attribuendo loro una retribuzione pari a quella media del lavoro dipendente comprensiva di imposte e contributi. Includendo anche i lavori autonomi, si ottengono per tutti i paesi valori della quota assai più alti di quelli proposti da Zanella, anche se, nel periodo in esame, il rapporto lavoro dipendente/lavoro autonomo sia diminuito (Stirati, 2010). La conclusione più in netto contrasto con il contenuto della lettera, quella che voleva spiegare la diminuzione della quota del lavoro con un aumento notevole della government share, viene rifiutata modificando di nuovo il calcolo della labor share, utilizzando questa volta il PIL al costo dei fattori, come del resto è prassi comune in letteratura, separando così la dinamica dell’imposizione fiscale da quella della produzione interna. Come abbiamo visto in Torrini (2010), la quota del lavoro calcolata con il PIL al costo dei fattori incorpora i contributi e le imposte indirette che costituiscono, nella definizione di Zanella (2010), la government share. Anche se calcolata in questa maniera, la quota scende di circa il 10 % per l’Italia nel periodo osservato ed è comunque diminuita per quasi tutti i paesi d’interesse. In sostanza, Stirati rigetta le conclusioni del posto di Zanella semplicemente rifacendosi ai metodi di calcolo della quota che sono prassi consolidata in letteratura. Va notato come tace quasi completamente sull’andamento della produttività del lavoro. 27 A questo post Zanella ha risposto nel gennaio 2011 con un altro intervento su NFA in cui rispondeva alle critiche mossegli da Stirati. Zanella obietta che la sua mancata inclusione del lavoro autonomo sia stata compiuta con piena consapevolezza delle problematicità che comporta, ma convinto che includerla avrebbe creati errori di stima ancora più gravi. Infatti il reddito dei lavoratori autonomi, anche noto come reddito misto, è sia reddito da lavoro che da capitale e non è possibile operare una scomposizione chiara e precisa: le due pratiche che Zanella illustra, quella afferente al Real Business Cycle, e quella di attribuire la retribuzione media del lavoro dipendente, sono secondo l’autore difettose per motivi diversi. Per togliersi dall’imbarazzo, Zanella decide di non includere il lavoro dipendente nella convinzione che quando, nella lettera degli economisti, si mostrava preoccupazione per la diminuzione dei redditi da lavoro, l’attenzione era rivolta principalmente ai lavoratori dipendenti perché sono questi ultimi ad “avere un'elevata propensione al consumo e quindi a rendere la "domanda effettiva" dipendente dalla quota dei redditi da lavoro in un modello keynesiano” (Zanella, 2010). Alla seconda obiezione mossa da Stirati, Zanella risponde rivendicando l’utilizzo del PIL ai prezzi di mercato, sulla base del fatto che le imposte indirette non sono appendici statiche che vengono “attaccate” al bene prodotto ma sono parte integrante del valore del bene, nella fattispecie quella parte che viene appropriata dallo stato, lasciando il resto come retribuzioni ai fattori di produzione. Serve dunque un dato che includa sia il valore aggiunto dei beni prodotti sia la compensazione sotto forma di imposta che lo stato richiede dai questi beni, e in ultima analisi rientra davvero nel 28 valore del bene perché incorporato nel prezzo finale che il consumatore paga. Questo dato è appunto il PIL al prezzo dei fattori. Zanella propone un paio di grafici dove calcola l’andamento della quota del lavoro con o senza inclusione di lavoratori autonomi e utilizzando sia il PIL al prezzo di mercato che il PIL al costo dei fattori. In quello sotto vediamo come la diminuzione della quota sia coincisa con un aumento delle imposte nette su produzione ed importazioni, a sostegno della tesi che vede i punti persi dalla quota del lavoro nel quarantennio “sottratti” dalla government share, ossia dallo stato. A questo post segue la risposta di Stirati, pubblicata nel giugno 2011 su Economia e Politica che (per il momento) chiude la discussione (Stirati, 2011). 29 In un breve post, l’autrice richiama il dibattito nato sull’andamento della quota e difende le sue scelte di calcolo aggiungendo nuove motivazioni. La quota corretta che include il lavoro autonomo va utilizzata perché, se non lo si facesse, escludendo gli autonomi, si avrebbe a che fare con due variabili e non più una: il rapporto tra salario e prodotto medio per lavoratore ed il rapporto tra lavoro dipendente e occupazione totale. Come sappiamo da Torrini (2004) l’incidenza del lavoro dipendente è aumentata notevolmente negli ultimi 30 anni in quasi tutti i paesi occidentali, ed un simile fenomeno pregiudica indubbiamente la precisione della stima della quota se i lavoratori autonomi sono tralasciati dal computo della forza lavoro; la crescita del rapporto lavoro dipendente/lavoro autonomo diminuisce in entità la caduta osservata dalla labor share e falsa il risultato finale. Infine, Stirati fa notare le complicazioni che nascono dall’utilizzo dal PIL al prezzo di mercato spiegando come le imposte indirette, che entrano in questa definizione, in quanto parte del PIL, posso “gonfiarne” artificialmente il valore: a parità di redditi distribuiti, un aumento delle imposte indirette aumenta di pari importo il valore del prodotto interno lordo, ma non questo non corrisponde con un aumento della ricchezza del paese, tuttalpiù una diminuzione del reddito disponibile dei contribuenti. Onde evitare complicazioni contabili, è bene utilizzare sempre il PIL calcolato al costo dei fattori, che, essendo al netto di imposte e sussidi, è un dato più facilmente interpretabile. 3. Che cosa è successo veramente? 30 3.1. Disamina delle varie posizioni Cerchiamo adesso di fare un po’ di chiarezza sulle varie posizioni e su cosa sia successo veramente alla quota del lavoro negli ultimi quarant’anni. L’analisi di Torrini (2010) sulla labor share è stata compiuta utilizzando il PIL al costo dei fattori e includendo il lavoro autonomo, attribuendo a ogni lavoratore il reddito medio del lavoro dipendente, metodi di calcolo standard in letteratura. Il suo studio riporta dei risultati analoghi a quelli su cui è fondata la Lettera degli Economisti: dopo un aumento negli anni settanta, dovuta alla crescita dei salari, la quota ha seguito un trend decrescente per i due decenni successivi, per attestarsi a livelli modesti a fine secolo. Dal 2000 in poi, la quota del lavoro è ricominciata a salire, complice una produttività del lavoro stagnante unita ad una crescita dell’occupazione (Torrini, 2010). La tendenza crescente della quota nell’ultimo decennio è stata confermata anche in un recente studio della Banca d’Italia (2011), secondo cui, fra il 2002 ed il 2010, la quota del lavoro, calcolata nello stesso modo di Torrini (2010), ha subito un aumento del 2.6%. La relazione è stata richiamata da Zanella (2011) in un ultimo post riguardante l’andamento della quota del lavoro. Zanella ragiona sulla solidità dell’impianto teorico della lettera degli economisti, che voleva spiegare lo scoppio della crisi del 2007-2010 con una diminuzione importante dei redditi dei lavoratori dipendenti ed un conseguente decremento dei consumi e della domanda aggregata. 31 La relazione della Banca d’Italia conferma ufficialmente l’aumento della quota del lavoro nell’ultimo decennio e pregiudica pesantemente la solidità della tesi della lettera degli economisti: le retribuzioni dei lavori dipendenti non sono diminuite affatto ma la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza è aumentata, da un valore dell’indice Gini di 27,3 nel 1995 a 32 nel 2006 (CIA Factbook, 2011) (valori più aggiornati non sono purtroppo disponibili). La quota del lavoro è aumentata in Italia in corrispondenza di un periodo di scarsa crescita del prodotto interno se non aperta recessione, come nel 2009, quando ad un aumento della quota in quasi tutti i settori, è coincisa una diminuzione del PIL del 5%. La quota del lavoro è, infatti, un parametro anticiclico; in un periodo di recessione come quello osservato nel 2008-2010, il suo valore aumenta sempre perché diminuisce il denominatore del rapporto, ossia il PIL prodotto nell’economia. Diamo quindi per certo che la quota sia aumentata nell’ultimo decennio e che, se la tesi principale della lettera degli economisti è che la diminuzione dei redditi disponibili dei lavoratori ha causato la crisi, questa vada rifiutata in toto. Che cosa è successo prima dell’ultimo decennio? I dati presentati da Torrini (2010) mostrano una riduzione durata vent’anni della quota, terminata solo alla fine del secolo. Questa riduzione è stata causata in parte da un lento processo di aggiustamento della domanda di lavoro da parte delle imprese, dopo che nel decennio precedente il costo del lavoro era aumentato in misura importante. Oltre alla contrazione della quota causata da questa dinamica di contrazione, i grandi processi di smantellamento del welfare state, cominciati negli anni ottanta, hanno modificato la 32 distribuzione delle rendite tra lavoro e profitti nei settori privatizzati, a tutto vantaggio dei profitti, contribuendo alla diminuzione della labor share, come evidenziato da Torrini (2010). Gli anni novanta sono stati testimoni di una nuova diminuzione della quota del lavoro dovuta all’introduzione di riforme che hanno aumentato la flessibilità e la provvisorietà dell’impiego in Italia, aumentando la provvisorietà del rapporto di lavoro, come un recente studio ha illustrato (Anastasia et al., 2011). È opportuno segnalare come uno studio di Rosolia (2010) dimostri che le retribuzioni durante l’ultimo decennio del secolo e fino ai primi anni del nuovo abbiano avuto una tendenza duplice. Le retribuzioni annuali seguono un trend decrescente a partire dal 1992 circa mentre le retribuzioni settimanali, calcolate tenendo conto della possibilità di impiego a tempo ridotto, crescono fino al 2004. A parità di livello retributivo, un’occupazione a termine contribuisce meno di una a tempo pieno al calcolo della quota del lavoro, semplicemente per durata inferiore in cui si percepisce uno stipendio. La crescente incidenza dell’impiego a tempo ridotto unito al profilo decrescente seguito dalle retribuzioni in Italia ha indubbiamente determinato la diminuzione della quota negli anni novanta e l’aumento corrispondente della quota dei profitti, in seguito alla contrazione del costo del lavoro determinata da questa tendenza di moderazione salariale. Come segnalano Marino e Torrini (2008), l’occupazione è aumentata significativamente in Italia negli anni novanta, ma non abbastanza da risollevare il valore della quota del lavoro. 33 Il fisco ha giocato un certo ruolo nella composizione del reddito disponibile dei consumatori, utilizzando un trattamento preferenziale per i contribuenti con carichi familiari, la cui aliquota media è addirittura diminuita. La restituzione del drenaggio fiscale operato dallo stato ha visto di nuovo favoriti i lavoratori con famiglia a carico, attribuendo loro detrazioni fiscali assai maggiori degli individui senza carichi familiari. Il carico fiscale complessivo non è aumentato però in maniera sufficiente da sostenere la tesi di Zanella, secondo cui la diminuzione della quota del lavoro è avvenuta a vantaggio della government share, la parte di prodotto costituito da imposte e contributi. La crescita del carico fiscale per individui senza carichi, infatti, è stata compensata dalla diminuzione di quello per i contribuenti con famiglia a carico. Nel lungo periodo, una diminuzione della quota del lavoro è avvenuta in molti paesi occidentali ed il tentativo di Zanella di dimostrare il contrario, per quanto rispettabile da un punto di vista intellettuale, non è sostenibile. La lettera degli economisti, seppur debole nella sua costruzione teorica e poco condivisibile nelle proposte di intervento, segnala un fenomeno economico ormai indiscutibile e che ha interessato larga parte del mondo occidentale. Quello che ha causato la diminuzione negli ultimi trent’anni del secolo prima e l’aumento nel decennio successivo della quota lavoro è sostanzialmente una dinamica stagnante della produttività del lavoro in Italia, assai al di sotto dei livelli europei, unita ad una crescita della produzione altrettanto modesta. Come giustamente segnala Perri (2011), in Italia la produttività non cresce da quindici anni ed attribuisce la causa al tipo di 34 specializzazione della nostra economia, pregiudicata da un basso livello di capitale per addetto e dalla dimensione ridotta delle imprese. E’ questa la ragione vera dietro l’andamento della labor share in Italia nell’ultimo quindicennio, la dinamica insufficiente della produttività e del PIL italiano, uniti ad un aumento dei salari non giustificato da una crescita dell’economia adeguata. L’incidenza sempre maggiore di tipologie di impiego a termine o a tempo ridotto, ultimamente l’unica via di accesso al mondo del lavoro per i lavoratori più giovani ha pregiudicato la capacità contrattuale di quest’ultimi, e contribuito al rafforzamento di un gap generazionale fra lavoratori giovani e meno giovani, a tutto svantaggio dei primi (Rosolia e Torrini, 2007). Questo fenomeno si è accompagnato ad un peggioramento dei profili salariali di questi stessi lavoratori, che preoccupa ulteriormente in presenza di crescita stagnante, se non piena decrescita, come nel caso italiano. 3.2. Conclusioni Nel momento in cui questo documento è stato redatto, l’Italia è stata al centro di attacchi speculativi fondati sui dubbi sulla sostenibilità del suo ingente debito pubblico, e sulle aspettative di crescite della sua economia. Il governo è tutt’ora al lavoro sull’approvazione di una manovra finanziaria per tagliare il debito, provvedimento di legge più volte modificato nelle parti sostanziali nel corso dell’estate. 35 Non entrando nel merito della manovra, si vuole qui però segnalare come sia fondamentale per la credibilità del paese e per la sostenibilità del debito che il governo lanci provvedimenti atti a rilanciare una crescita seria e duratura della sua economia, crescita che il paese non sperimenta da almeno un decennio. La crescita del paese va assicurata rilanciando la produttività del lavoro italiano, l’unico intervento serio che può risollevare la dinamica della quota del lavoro e garantire un aumento delle retribuzioni collegato ad un reale aumento del valore delle risorse, in questo caso il lavoro, da retribuire. La crisi economica del 2007-2010 non è stata quasi sicuramente causata da un’insufficienza del consumo espresso dai lavoratori, ma non c’è dubbio che l’economia italiana non può essere rilanciata se non si ravviva la dinamica del consumo da parte dei lavoratori, se non si interviene per assicurare che la produttività del lavoro si allinei a livelli europei. 36