corretto insegnamento LA FRODE, L’INGANNO i momenti distorsivi dell’educazione FUNDARÒ per primo il traguardo, compiendo una scorrettezza che un ipotetico arbitro avrebbe sicuramente richiamato. L’ambito della µητις è appunto quello in cui mancano regole o arbitri che le facciano rispettare. In mancanza della forza fisica, si deve far ricorso all’astuzia sleale e alla premeditazione: sicché la µητις è un qualcosa che implica, a differenza dell’impulsività della violenza, pianificazione e calcolo. Due antichisti francesi, M. Detienne e J.P. Vernant, nella loro opera “Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia”, hanno eseguito un’eccellente ricostruzione della µητις, mettendo in luce come la cultura greca tenda ad associare sempre le virtù a determinati animali. Così Oppiano di Anazarbo compone un trattatello in cinque libri intitolato Αλιευτικα, ossia “Sulla pesca”, in cui si dilunga nel descrivere la rana di mare e il polipo: quest’ultimo, con i suoi tentacoli innumerevoli e flessibili, simboleggia la doppiezza, la vigilanza e la duttilità della µητις, poiché sa mimetizzarsi sui fondali per poi sferrare gli attacchi alle sue prede; e doppiezza e vigilanza Oppiano ritrova anche nel pescatore, il quale deve esser dotato delle stesse caratteristiche del polipo, deve cioè essere agile, dissimulante, deve saper vedere senza essere visto, deve avere l’occhio sicuro e cogliere il momento opportuno per muoversi. anche significativo il fatto che i pensatori antichi si domandassero con una certa insistenza se i pesci dormissero oppure no: molti ritenevano che essi non dormissero affatto e che perciò rappresentassero un’intelligenza sempre vigile e invincibile per la potenza del sonno. Ancora Plutarco, autore di uno scritto sull’“Intelligenza degli animali”, va sostenendo che la caccia al polipo sviluppa l’intelligenza umana. Di tutt’altro avviso era Platone , il quale – nella “Repubblica” e nelle “Leggi” – parla male della caccia e della pesca, perché convinto che esse sviluppino quella doppiezza e quell’inclinazione all’inganno che stanno agli antipodi delle virtù che la πολις richiede ai suoi cittadini (temperanza, fortezza, saggezza, giustizia). Dal canto suo, Odisseo è il πολυτροπος per antonomasia, è cioè l’uomo “dalle mille risorse” intellettuali ed è nell’Iliade contrapposto ad Achille: questi è l’eroe a tutto tondo, che, nella sua esteriorità passionale, quando gli viene sottratta la serva Briseide si ritira dalla battaglia; è, in definitiva, un eroe tutto muscoli e niente cervello. Sull’altro versante, Odisseo è la complicazione, l’interiorità: ha sì un braccio assai robusto, ma la sua forza non è lì; sa rapportare l’espressione esterna a quella interna, sa escogitare grandi macchinazioni, come il cavallo con cui i Greci espugnano Troia, e non a caso è spesso rappresentato seduto, nell’atto di pensare e con gli occhi abbassati non già perché egli sia umile o incerto, bensì perché concentrato nella progettazione di nuovi stratagemmi. Egli sa tacere, fingere, trattenersi, pazientare: e nell’ultimo libro dell’Odissea, quando regola i conti con i Proci, di fronte al figlio Telemaco che lo incalza a intervenire, Odisseo gli dà una lezione sulla virtù del silenzio e del “frenare la mente”. In generale, l’uomo odisseico usa la menzogna e la reticenza come strategie di autotutela verso l’ignoto: Odisseo, infatti, preclude a se stesso e ai suoi compagni l’abbandono alla rete di quella comunicazione discorsiva che finisce per impigliare gli uomini distogliendoli dai loro obiettivi e facendo loro smarrire la bussola. Il cavallo che, su suo consiglio, i Greci abbandonano sulla spiaggia di fronte a Troia è vuoto al suo interno, proprio come la parola, la quale non garantisce la presenza della cosa (mentendo, infatti, dico una cosa, ma questa non è nelle mie parole): il cavallo è allora anche metafora dell’inganno verbale, al pari dell’episodio dell’incontro con Polifemo. Qui vengono prospettati addirittura cinque elementi di frode e di menzogna: 1) la dichiarazione di essere naufraghi, quando in realtà Odisseo e i compagni si trovano sull’isola del Ciclope per esplorarla; 2) il ricorso al vino per ubriacare il Ciclope; 3) la menzogna verbale riguardante il nome, quando Odisseo dichiara di chiamarsi È 17 LA RIVISTA DELLA SCUOLA Anno XXX, 1/30 aprile 2009, n.8 “Nessuno”; 4) l’accecamento (se l’astuzia si presenta come occhiuta e addirittura dotata di tanti occhi, la vittima della frode ne è priva); 5) il camuffamento di se stesso e dei compagni quando escono avvinghiati ai ventri delle capre: quest’ultimo aspetto denota il fatto che, quando si ricorre alla frode, si entra automaticamente nella dimensione ferina, simboleggiata appunto dal camuffamento con le pecore. Abbiamo in precedenza notato come, da Cicerone fino a Machiavelli e oltre, la volpe sia il simbolo per eccellenza dell’astuzia: essa infatti ha tane con più uscite, in modo tale da poter fuggire per diverse vie; inoltre caccia abbandonandosi come morta sull’erba, in maniera tale che gli uccelli si avvicinino per carpirla e diventino sue prede. ------------------------------------------- “ la volpe é il simbolo per eccellenza dell’astuzia” ------------------------------------------Anche la modernità si interroga con interesse sulla menzogna: così Martha Nussbaum, nel suo “La fragilità del bene”, fa delle acute riflessioni su come la tragedia greca abbia molto da insegnarci in merito. La problematica è affrontata anche nella “Teogonia” di Esiodo in forma di mito, ma, come si sa, dei miti circolano spesso più versioni fra loro incongruenti, cosicché nella tragedia esso ritorna ma con significati e in forme assai diverse. Esiodo ci presenta Metis come la dea compagna di Zeus, dalla quale il padre degli dei aspetta un figlio, ma temendo che il nascituro possa usurpargli il posto ingoia la moglie incinta; da Metis ingoiata nascerà Atena, che esce già adulta dal capo di Zeus. Questo mito sta a significare che, nel consolidamento del potere di Zeus minacciato dalle sue stesse opere (il figlio), il potere stesso tenta di difendersi, consapevole di come occorra sottomettere non solo le potenze che incarnano la forza bruta, ma anche quelle intellettuali dell’astuzia e della frode, che devono essere introiettate (Zeus che divora Metis) facendole proprie come modalità di esistenza. La sovranità dunque si accompagna sempre alla µητις, giacché questa consente di vincere la resistenza senza dover sempre fare ricorso alla violenza. Sull’altro versante, Esiodo, prima nel “Prometeo incatenato”, poi nel “Prometeo liberato”, ci dà una versione del mito assai diversa: nella prima opera, Zeus fa incatenare Prome- teo da Efesto, l’artigiano che esprime la forza materiale al servizio del potere sovrano. Egli ha due aiutanti, i cui nomi - Κρατος (potere) e Βια (violenza) – stanno a significare il fatto che la summa potestas poggia sull’esecutore (Efesto) a sua volta spalleggiato dal potere della violenza. Prometeo, dal canto suo, è incatenato perché colpevole di υβρις nei confronti di Zeus e perché portatore di µητις e di inganno. Nelle sue vicende si vede bene l’intreccio tra l’inganno (δολος) e la tecnica (τεχνη), giacché Prometeo inganna Zeus rubando il fuoco e donandolo agli uomini, facendo cioè ad essi il più ambiguo dei doni: la tecnica. Ciò sta a significare che l’inganno perpetrato da Prometeo è doppio, in quanto rivolto ai danni sia del padre degli déi sia della natura, dal momento che col fuoco e con la tecnica l’uomo può ingannarla e sottometterla in modo obliquo, ossia usando stratagemmi, non frontalmente. Incatenato alla montagna con le aquile che gli rodono perennemente il fegato, Prometeo reagisce con violenza e insolenza alla pena inflittagli da Zeus e ciò fa presagire che alla fine il padre degli déi dovrà scendere a patti con lui. Questo si verifica nel “Prometeo liberato” e avviene in forza del fatto che il potere sovrano ha bisogno di integrare al suo interno l’astuzia, deve cioè consolidare il suo potere puntellandolo con l’astuzia, con l’intelligenza pianificatrice e calcolante. Il nesso intercorrente tra il potere sovrano di Zeus e l’astuzia di Prometeo suggerisce anche il fatto che la politica sia originariamente prometeica, dal momento che Prometeo significa in greco “colui che vede prima” (προµηθευς), o anche “colui che riflette in anticipo”. Com’è noto, Prometeo ha un fratello, di nome Epimeteo, che in greco significa “colui che vede dopo” (επιµηθης), ossia a cose fatte: se la politica è per sua natura prometeica, la filosofia si presenta invece come epimeteica, giacché – per dirla con Hegel – spicca il suo volo sul far della sera, ovvero non può insegnare come il mondo debba andare, ma deve limitarsi ad indagare su ciò che è già compiuto, poiché solamente là si manifesta pienamente il razionale. obbiamo ora esaminare le posizioni sostenute dai filosofi nei confronti della menzogna, partendo dalla “Repubblica” di Platone e, in particolare, dalla fine del libro II e dall’inizio del III. Lo spunto per avviare il discorso ci viene da quanto abbiamo detto prima circa il mito, in quanto la posizione platonica si configura come altamente critica e polemica nei confronti di esso. Essendo la Repubblica un’opera innanzitutto finalizzata all’educazione dei cittadini e dei governanti, non stupisce il fatto che Platone attacchi i miti veicolati dalla tragedia greca, ravvisando in essi qual- D Rimborso spese per l’autoaggiornamento Ricordiamo a tutti gli interessati che il nuovo contratto del personale della scuola prevede il rimborso delle spese per l’autoaggiornamento. A richiesta invieremo opportuna dichiarazione a coloro che hanno versato la propria quota per l’abbonamento alla Rivista o sostenuto la spesa per l’acquisto di volumi. cosa di fortemente diseducativo: come è noto, questi contribuivano all’identificazione collettiva dei cittadini, poiché nelle rappresentazioni pubbliche si acquisiva la consapevolezza di essere una collettività, di avere origini comuni e della costante minaccia della guerra e proprio in ciò era racchiusa la funzione della tragedia attica, ancor prima della funzione catartica in essa individuata da Aristotele. A tal proposito, Platone esprime senza mezzi termini il suo dissenso, notando come le modalità attraverso le quali si persegue l’identità collettiva, cioè i miti, siano assolutamente fallimentari, giacché provocano ciò che dovrebbero scongiurare: il conflitto, la στασις, la disunione. Essi finiscono dunque per alimentare nell’animo umano quei sentimenti di odio e di discordia che dovrebbero invece allontanare. Proprio sul finire del II libro, dopo aver diffusamente parlato della ginnastica e della musica, Platone tratta delle menzogne elaborate dall’arte, avvalorando quello che sarà poi il presupposto di Hannah Arendt, secondo cui il mentire è reso possibile dall’immaginazione: “Ma nella nostra educazione non cominceremo prima dalla musica che dalla ginnastica?” “Come no?” “Nella musica”, chiesi, “includi le opere letterarie oppure no?” “Certo”. “Ed esse sono di due specie, l’una vera, l’altra falsa?” “Sì “. “Allora l’educazione deve svolgersi in entrambi i campi, ma prima in quello falso?” “Non capisco cosa vuoi dire”, rispose. “Non capisci”, ripresi, “che ai bambini raccontiamo innanzitutto delle favole? Ciò nel suo complesso è una menzogna, che però contiene anche un fondo di verità. E noi insegniamo ai bambini le favole prima che la ginnastica”. “È così “. “Ecco perché dicevo che bisogna praticare la musica prima che la ginnastica”. “Giusto”, disse. “E non sai che in ogni opera l’inizio è di fondamentale importanza, tanto più se si tratta di una creatura giovane e delicata? È soprattutto a quell’età che ciascun individuo viene plasmato e segnato con l’impronta che gli si vuole imprimere”. “ Proprio così “. “E permetteremo così, a cuor leggero, che i bambini ascoltino favole di bassa lega plasmate da persone qualsiasi e ricevano nell’anima opinioni per lo più contrarie a quelle che, a nostro giudizio, dovranno avere quando saranno divenuti adulti?” “No, non lo permetteremo in nessun modo”. “Perciò, a quanto pare, dobbiamo innanzitutto sorvegliare i creatori di favole, scegliendo quelle composte bene e scartando quelle composte male. Poi convinceremo le balie e le madri a raccontare ai bambini le favole che abbiamo approvato e a plasmare le loro anime con le favole molto più di quanto plasmino i loro corpi con le mani; ma bisogna rigettare la maggior parte delle favole che si narrano ai giorni nostri”. “Quali?”, domandò. “Nelle favole maggiori”, risposi, “vedremo riflesse anche le minori. Infatti sia le une sia le altre devono avere la stessa impronta e produrre lo stesso effetto. Non credi?” “Sì”, disse, “ma non capisco che cosa intendi per favole maggiori”. “Quelle che ci hanno cantato Esiodo, Omero e gli altri poeti. Sono loro che hanno composto miti falsi e li hanno narrati, e li narrano tuttora, agli uomini”. “Quali sono”, chiese, “e che cosa critichi in essi?” “Ciò che bisogna criticare più d’ogni altra cosa”, risposi, “tanto più se le menzogne narrate non sono neanche belle”. “E cioè?” “Quando nel racconto si dà una cattiva rappresentazione della natura degli dèi e degli eroi, come un pittore che dipinge immagini per nulla simili a quelle che voleva riprodurre”. l raccontare favole è una pratica che si utilizza con i bambini – nota Platone -, cosicché è opportuno domandarsi se sia giusto oppure no raccontarle anche agli adulti, come hanno fatto Omero ed Esiodo: in tale ottica, Platone prende posizione per una rigida censura e non è un caso che in lui Popper scorga uno dei grandi nemici della “società aperta”. Le favole colme di menzogne narrate dai poeti non devono essere ascoltate dai giovani, al massimo possono udirle in segreto pochissimi uomini, giacché esse costituiscono un cattivo esempio nella misura in cui presentano gli dei come intenti a complottare o a guerreggiare fra loro; l’idea stessa di un Olimpo in cui regna la discordia e l’invidia non fa che infiammare nei cittadini l’odio e l’ira. È senz’altro curioso il fatto che Platone non si domandi se quelle raffigurazioni degli dei siano per davvero un’immagine dei complotti divini o se piuttosto non siano una proiezione dei conflitti umani, secondo quella posizione tematizzata da Feuerbach in “L’essenza del cristianesimo”, per cui la teologia non è se non un’antropologia ingigantita. Platone pone I