17 - La Rivista della Scuola

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corretto insegnamento
LA FRODE, L’INGANNO
i momenti distorsivi dell’educazione
FUNDARÒ
per primo il traguardo, compiendo una scorrettezza che un ipotetico arbitro avrebbe sicuramente richiamato. L’ambito della µητις è
appunto quello in cui mancano regole o arbitri
che le facciano rispettare. In mancanza della
forza fisica, si deve far ricorso all’astuzia sleale e alla premeditazione: sicché la µητις è un
qualcosa che implica, a differenza dell’impulsività della violenza, pianificazione e calcolo.
Due antichisti francesi, M. Detienne e J.P.
Vernant, nella loro opera “Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia”, hanno eseguito
un’eccellente ricostruzione della µητις, mettendo in luce come la cultura greca tenda ad
associare sempre le virtù a determinati animali. Così Oppiano di Anazarbo compone un
trattatello in cinque libri intitolato Αλιευτικα,
ossia “Sulla pesca”, in cui si dilunga nel
descrivere la rana di mare e il polipo: quest’ultimo, con i suoi tentacoli innumerevoli e flessibili, simboleggia la doppiezza, la vigilanza e la
duttilità della µητις, poiché sa mimetizzarsi
sui fondali per poi sferrare gli attacchi alle sue
prede; e doppiezza e vigilanza Oppiano ritrova anche nel pescatore, il quale deve esser
dotato delle stesse caratteristiche del polipo,
deve cioè essere agile, dissimulante, deve
saper vedere senza essere visto, deve avere
l’occhio sicuro e cogliere il momento opportuno per muoversi.
anche significativo il fatto che i
pensatori antichi si domandassero
con una certa insistenza se i pesci
dormissero oppure no: molti ritenevano che essi non dormissero affatto e che
perciò rappresentassero un’intelligenza sempre vigile e invincibile per la potenza del
sonno. Ancora Plutarco, autore di uno scritto
sull’“Intelligenza degli animali”, va sostenendo
che la caccia al polipo sviluppa l’intelligenza
umana. Di tutt’altro avviso era Platone , il
quale – nella “Repubblica” e nelle “Leggi” –
parla male della caccia e della pesca, perché
convinto che esse sviluppino quella doppiezza e quell’inclinazione all’inganno che stanno
agli antipodi delle virtù che la πολις richiede ai
suoi cittadini (temperanza, fortezza, saggezza, giustizia). Dal canto suo, Odisseo è il
πολυτροπος per antonomasia, è cioè l’uomo
“dalle mille risorse” intellettuali ed è nell’Iliade
contrapposto ad Achille: questi è l’eroe a tutto
tondo, che, nella sua esteriorità passionale,
quando gli viene sottratta la serva Briseide si
ritira dalla battaglia; è, in definitiva, un eroe
tutto muscoli e niente cervello. Sull’altro versante, Odisseo è la complicazione, l’interiorità: ha sì un braccio assai robusto, ma la sua
forza non è lì; sa rapportare l’espressione
esterna a quella interna, sa escogitare grandi
macchinazioni, come il cavallo con cui i Greci
espugnano Troia, e non a caso è spesso rappresentato seduto, nell’atto di pensare e con
gli occhi abbassati non già perché egli sia
umile o incerto, bensì perché concentrato
nella progettazione di nuovi stratagemmi. Egli
sa tacere, fingere, trattenersi, pazientare: e
nell’ultimo libro dell’Odissea, quando regola i
conti con i Proci, di fronte al figlio Telemaco
che lo incalza a intervenire, Odisseo gli dà
una lezione sulla virtù del silenzio e del “frenare la mente”.
In generale, l’uomo odisseico usa la menzogna e la reticenza come strategie di autotutela verso l’ignoto: Odisseo, infatti, preclude a
se stesso e ai suoi compagni l’abbandono alla
rete di quella comunicazione discorsiva che
finisce per impigliare gli uomini distogliendoli
dai loro obiettivi e facendo loro smarrire la
bussola. Il cavallo che, su suo consiglio, i
Greci abbandonano sulla spiaggia di fronte a
Troia è vuoto al suo interno, proprio come la
parola, la quale non garantisce la presenza
della cosa (mentendo, infatti, dico una cosa,
ma questa non è nelle mie parole): il cavallo è
allora anche metafora dell’inganno verbale, al
pari dell’episodio dell’incontro con Polifemo.
Qui vengono prospettati addirittura cinque
elementi di frode e di menzogna:
1) la dichiarazione di essere naufraghi,
quando in realtà Odisseo e i compagni si trovano sull’isola del Ciclope per esplorarla;
2) il ricorso al vino per ubriacare il Ciclope;
3) la menzogna verbale riguardante il
nome, quando Odisseo dichiara di chiamarsi
È
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LA RIVISTA DELLA SCUOLA
Anno XXX, 1/30 aprile 2009, n.8
“Nessuno”;
4) l’accecamento (se l’astuzia si presenta
come occhiuta e addirittura dotata di tanti
occhi, la vittima della frode ne è priva);
5) il camuffamento di se stesso e dei compagni quando escono avvinghiati ai ventri
delle capre: quest’ultimo aspetto denota il
fatto che, quando si ricorre alla frode, si entra
automaticamente nella dimensione ferina,
simboleggiata appunto dal camuffamento con
le pecore.
Abbiamo in precedenza notato come, da
Cicerone fino a Machiavelli e oltre, la volpe
sia il simbolo per eccellenza dell’astuzia: essa
infatti ha tane con più uscite, in modo tale da
poter fuggire per diverse vie; inoltre caccia
abbandonandosi come morta sull’erba, in
maniera tale che gli uccelli si avvicinino per
carpirla e diventino sue prede.
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“ la
volpe é il simbolo per
eccellenza dell’astuzia”
------------------------------------------Anche la modernità si interroga con interesse sulla menzogna: così Martha Nussbaum, nel suo “La fragilità del bene”, fa delle
acute riflessioni su come la tragedia greca
abbia molto da insegnarci in merito. La problematica è affrontata anche nella “Teogonia”
di Esiodo in forma di mito, ma, come si sa, dei
miti circolano spesso più versioni fra loro
incongruenti, cosicché nella tragedia esso
ritorna ma con significati e in forme assai
diverse.
Esiodo ci presenta Metis come la dea compagna di Zeus, dalla quale il padre degli dei
aspetta un figlio, ma temendo che il nascituro
possa usurpargli il posto ingoia la moglie
incinta; da Metis ingoiata nascerà Atena, che
esce già adulta dal capo di Zeus. Questo mito
sta a significare che, nel consolidamento del
potere di Zeus minacciato dalle sue stesse
opere (il figlio), il potere stesso tenta di difendersi, consapevole di come occorra sottomettere non solo le potenze che incarnano la
forza bruta, ma anche quelle intellettuali dell’astuzia e della frode, che devono essere
introiettate (Zeus che divora Metis) facendole
proprie come modalità di esistenza. La sovranità dunque si accompagna sempre alla
µητις, giacché questa consente di vincere la
resistenza senza dover sempre fare ricorso
alla violenza.
Sull’altro versante, Esiodo, prima nel “Prometeo incatenato”, poi nel “Prometeo liberato”, ci dà una versione del mito assai diversa:
nella prima opera, Zeus fa incatenare Prome-
teo da Efesto, l’artigiano che esprime la forza
materiale al servizio del potere sovrano. Egli
ha due aiutanti, i cui nomi - Κρατος (potere) e
Βια (violenza) – stanno a significare il fatto
che la summa potestas poggia sull’esecutore
(Efesto) a sua volta spalleggiato dal potere
della violenza. Prometeo, dal canto suo, è
incatenato perché colpevole di υβρις nei confronti di Zeus e perché portatore di µητις e di
inganno. Nelle sue vicende si vede bene l’intreccio tra l’inganno (δολος) e la tecnica
(τεχνη), giacché Prometeo inganna Zeus
rubando il fuoco e donandolo agli uomini,
facendo cioè ad essi il più ambiguo dei doni:
la tecnica. Ciò sta a significare che l’inganno
perpetrato da Prometeo è doppio, in quanto
rivolto ai danni sia del padre degli déi sia della
natura, dal momento che col fuoco e con la
tecnica l’uomo può ingannarla e sottometterla
in modo obliquo, ossia usando stratagemmi,
non frontalmente. Incatenato alla montagna
con le aquile che gli rodono perennemente il
fegato, Prometeo reagisce con violenza e
insolenza alla pena inflittagli da Zeus e ciò fa
presagire che alla fine il padre degli déi dovrà
scendere a patti con lui. Questo si verifica nel
“Prometeo liberato” e avviene in forza del fatto
che il potere sovrano ha bisogno di integrare
al suo interno l’astuzia, deve cioè consolidare
il suo potere puntellandolo con l’astuzia, con
l’intelligenza pianificatrice e calcolante. Il
nesso intercorrente tra il potere sovrano di
Zeus e l’astuzia di Prometeo suggerisce
anche il fatto che la politica sia originariamente prometeica, dal momento che Prometeo
significa in greco “colui che vede prima”
(προµηθευς), o anche “colui che riflette in anticipo”. Com’è noto, Prometeo ha un fratello, di
nome Epimeteo, che in greco significa “colui
che vede dopo” (επιµηθης), ossia a cose fatte:
se la politica è per sua natura prometeica, la
filosofia si presenta invece come epimeteica,
giacché – per dirla con Hegel – spicca il suo
volo sul far della sera, ovvero non può insegnare come il mondo debba andare, ma deve
limitarsi ad indagare su ciò che è già compiuto, poiché solamente là si manifesta pienamente il razionale.
obbiamo ora esaminare le posizioni sostenute dai filosofi nei confronti della menzogna, partendo
dalla “Repubblica” di Platone e, in
particolare, dalla fine del libro II e dall’inizio
del III. Lo spunto per avviare il discorso ci
viene da quanto abbiamo detto prima circa il
mito, in quanto la posizione platonica si configura come altamente critica e polemica nei
confronti di esso. Essendo la Repubblica
un’opera innanzitutto finalizzata all’educazione dei cittadini e dei governanti, non stupisce
il fatto che Platone attacchi i miti veicolati
dalla tragedia greca, ravvisando in essi qual-
D
Rimborso spese per
l’autoaggiornamento
Ricordiamo a tutti gli interessati
che il nuovo contratto del personale della scuola prevede il rimborso delle spese per l’autoaggiornamento.
A richiesta invieremo opportuna
dichiarazione a coloro che
hanno versato la propria quota
per l’abbonamento alla Rivista o
sostenuto la spesa per l’acquisto
di volumi.
cosa di fortemente diseducativo: come è noto,
questi contribuivano all’identificazione collettiva dei cittadini, poiché nelle rappresentazioni
pubbliche si acquisiva la consapevolezza di
essere una collettività, di avere origini comuni
e della costante minaccia della guerra e proprio in ciò era racchiusa la funzione della tragedia attica, ancor prima della funzione catartica in essa individuata da Aristotele. A tal
proposito, Platone esprime senza mezzi termini il suo dissenso, notando come le modalità attraverso le quali si persegue l’identità
collettiva, cioè i miti, siano assolutamente fallimentari, giacché provocano ciò che dovrebbero scongiurare: il conflitto, la στασις, la
disunione. Essi finiscono dunque per alimentare nell’animo umano quei sentimenti di odio
e di discordia che dovrebbero invece allontanare.
Proprio sul finire del II libro, dopo aver diffusamente parlato della ginnastica e della musica, Platone tratta delle menzogne elaborate
dall’arte, avvalorando quello che sarà poi il
presupposto di Hannah Arendt, secondo cui il
mentire è reso possibile dall’immaginazione:
“Ma nella nostra educazione non cominceremo prima dalla musica che dalla ginnastica?”
“Come no?”
“Nella musica”, chiesi, “includi le opere letterarie oppure no?”
“Certo”.
“Ed esse sono di due specie, l’una vera,
l’altra falsa?”
“Sì “.
“Allora l’educazione deve svolgersi in
entrambi i campi, ma prima in quello falso?”
“Non capisco cosa vuoi dire”, rispose.
“Non capisci”, ripresi, “che ai bambini raccontiamo innanzitutto delle favole? Ciò nel
suo complesso è una menzogna, che però
contiene anche un fondo di verità. E noi insegniamo ai bambini le favole prima che la ginnastica”.
“È così “.
“Ecco perché dicevo che bisogna praticare
la musica prima che la ginnastica”.
“Giusto”, disse.
“E non sai che in ogni opera l’inizio è di fondamentale importanza, tanto più se si tratta di
una creatura giovane e delicata? È soprattutto
a quell’età che ciascun individuo viene plasmato e segnato con l’impronta che gli si
vuole imprimere”.
“ Proprio così “.
“E permetteremo così, a cuor leggero, che i
bambini ascoltino favole di bassa lega plasmate da persone qualsiasi e ricevano nell’anima opinioni per lo più contrarie a quelle che,
a nostro giudizio, dovranno avere quando
saranno divenuti adulti?”
“No, non lo permetteremo in nessun modo”.
“Perciò, a quanto pare, dobbiamo innanzitutto sorvegliare i creatori di favole, scegliendo quelle composte bene e scartando quelle
composte male. Poi convinceremo le balie e
le madri a raccontare ai bambini le favole che
abbiamo approvato e a plasmare le loro
anime con le favole molto più di quanto plasmino i loro corpi con le mani; ma bisogna
rigettare la maggior parte delle favole che si
narrano ai giorni nostri”.
“Quali?”, domandò.
“Nelle favole maggiori”, risposi, “vedremo
riflesse anche le minori. Infatti sia le une sia le
altre devono avere la stessa impronta e produrre lo stesso effetto. Non credi?”
“Sì”, disse, “ma non capisco che cosa
intendi per favole maggiori”.
“Quelle che ci hanno cantato Esiodo,
Omero e gli altri poeti. Sono loro che hanno
composto miti falsi e li hanno narrati, e li narrano tuttora, agli uomini”.
“Quali sono”, chiese, “e che cosa critichi in
essi?”
“Ciò che bisogna criticare più d’ogni altra
cosa”, risposi, “tanto più se le menzogne narrate non sono neanche belle”.
“E cioè?”
“Quando nel racconto si dà una cattiva rappresentazione della natura degli dèi e degli
eroi, come un pittore che dipinge immagini per
nulla simili a quelle che voleva riprodurre”.
l raccontare favole è una pratica che si
utilizza con i bambini – nota Platone -,
cosicché è opportuno domandarsi se sia
giusto oppure no raccontarle anche agli
adulti, come hanno fatto Omero ed Esiodo: in
tale ottica, Platone prende posizione per una
rigida censura e non è un caso che in lui Popper scorga uno dei grandi nemici della
“società aperta”. Le favole colme di menzogne
narrate dai poeti non devono essere ascoltate
dai giovani, al massimo possono udirle in
segreto pochissimi uomini, giacché esse
costituiscono un cattivo esempio nella misura
in cui presentano gli dei come intenti a complottare o a guerreggiare fra loro; l’idea stessa
di un Olimpo in cui regna la discordia e l’invidia non fa che infiammare nei cittadini l’odio e
l’ira. È senz’altro curioso il fatto che Platone
non si domandi se quelle raffigurazioni degli
dei siano per davvero un’immagine dei complotti divini o se piuttosto non siano una proiezione dei conflitti umani, secondo quella posizione tematizzata da Feuerbach in “L’essenza
del cristianesimo”, per cui la teologia non è se
non un’antropologia ingigantita. Platone pone
I
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