Testo - Camera dei Deputati

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Antonella Vercesi
Il rinvio del Governo alle Camere
1 - Crisi parlamentari e crisi extraparlamentari; 2 - La cosiddetta parlamentarizzazione delle crisi di governo; 3 - Rapporto tra parlamentarizzazione della crisi e
rinvio del Governo alle Camere, in relazione alle diverse fattispecie di rinvio;
4 - Il potere di rinvio: natura, titolarità e vincoli; 5 - Il rinvio del Governo alle
Camere nell’esperienza costituzionale, con particolare riferimento ai profili procedimentali.
1 - Crisi parlamentari e crisi extraparlamentari
Il regime parlamentare ha come fulcro il rapporto di fiducia che intercorre tra gabinetto e Camere elettive, il cui venir meno determina la
cosiddetta crisi di governo. In Italia il legislatore costituente ha espressamente previsto e disciplinato solo la crisi che nasce dalla volontà del
Parlamento di interrompere il rapporto fiduciario. L’articolo 94 della Costituzione, infatti, stabilisce che il Parlamento può revocare la fiducia al
Governo soltanto con l’approvazione di una mozione motivata di sfiducia, secondo le modalità specificatamente previste dai commi 2 e 5 del
medesimo articolo. Dal momento che il rapporto fiduciario è presupposto necessario dell’azione del Governo, e quindi dell’indirizzo politicoamministrativo di cui tale organo è titolare, il voto di sfiducia da parte
anche di una sola Camera determina un obbligo giuridico di dimissioni
per l’esecutivo, obbligo non espressamente previsto dalla Costituzione
ma desumibile ex adverso dal comma 1 del citato articolo 94. L’ipotesi tipica disciplinata dalla Costituzione è quella che la dottrina prevalente definisce come crisi parlamentare.
Il Governo, peraltro, nella sua funzione di organo propulsore dell’indirizzo politico, deve essere considerato anch’esso, al pari del Parlamento, titolare di un autonomo potere di valutazione della sussistenza
del rapporto fiduciario. Di conseguenza, devono considerarsi ammissibili anche le crisi imputabili unicamente alla volontà del gabinetto di dimettersi, che tra l’altro sono le uniche ad essersi verificate in epoca repubblicana. Ciò ha determinato l’ineffettività dell’articolo 94 della Co-
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stituzione, non essendosi aperta alcuna crisi di governo a seguito di un
voto parlamentare di sfiducia.
Accanto alle crisi parlamentari, quindi, si sono affermate per prassi le
cosiddette crisi extraparlamentari, il cui concetto peraltro non è univoco. Assumendo come criterio di classificazione quello che si basa sul testo della Costituzione, la dottrina tradizionale definisce extraparlamentari tutte le crisi non originate da un voto parlamentare sulla fiducia
e conseguenti alle dimissioni volontarie del Governo (1). All’interno di
tale vastissima figura le crisi si possono ulteriormente distinguere in base alle motivazioni, che si ricollegano prevalentemente ad una alterazione
della coalizione ministeriale tale da modificare la formula politica governativa e da incidere in modo sostanziale sul rapporto fiduciario.
La dottrina più recente tende peraltro a distinguere le crisi di governo sotto il profilo degli effetti giuridici in relazione ai poteri del Presidente della Repubblica, che in tale campo svolge un ruolo di notevole rilievo in quanto, fatta eccezione per il caso delle dimissioni governative rispetto alle quali la sua scelta è obbligata (come, ad esempio, quelle
conseguenti a mancata fiducia iniziale o a sfiducia successiva), ha il potere di accettare — sia pure, secondo la prassi, con riserva — o respingere le dimissioni rassegnate dal Governo. Nel primo caso si dà avvio al
procedimento di formazione del nuovo esecutivo, nel secondo caso vi è
la possibilità che lo stesso Presidente della Repubblica rinvii il Governo
alle Camere per verificare la sussistenza o meno del rapporto fiduciario.
La legittimità costituzionale della prassi delle crisi extraparlamentari,
che in passato è stata al centro di un vivace dibattito dottrinale, ormai
viene pacificamente riconosciuta sia sul piano della dottrina sia su quello politico (2). Si ritiene infatti che la tesi opposta contrasti con la posizione di parità del Parlamento e del Governo, che consente ad entrambi di interrompere in qualsiasi momento il rapporto fiduciario, e corrisponda ad una concezione ottocentesca del Parlamento e della
rappresentanza politica, difficilmente sostenibile nell’età contemporanea,
caratterizzata dal fondamentale ruolo di mediazione svolto dai partiti politici. Poiché il nostro regime parlamentare si fonda su questi ultimi, le
crisi di governo tendono ad assumere natura extraparlamentare, avendo
origine al di fuori del Parlamento ed essendo imputabili appunto a scelte dei partiti politici, di cui il Governo non può non tener conto (3). Il
fondamento di questo tipo di crisi può essere individuato nello stesso
articolo 94 della Costituzione, il quale, facendo discendere automaticamente dalla mancanza di fiducia parlamentare un obbligo di
dimissioni per il Governo, non attribuisce rilevanza al fatto che la rottu-
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ra del rapporto fiduciario sia dovuta ad un voto di sfiducia del Parlamento o ad una autonoma valutazione dell’esecutivo.
Concludendo sul punto, deve ritenersi che il costituente si sia limitato a disciplinare una delle possibili ipotesi di crisi governativa, senza
escludere né vietare che se ne possano verificare altre, concepite peraltro come eccezioni rispetto a quella che avrebbe dovuto essere la regola
della crisi parlamentare.
2 - La cosiddetta parlamentarizzazione delle crisi di governo
Negli ultimi tempi è emersa l’esigenza di ricondurre in qualche modo in Parlamento le crisi nate al di fuori di esso e ricollegabili al potere
del Governo di valutare autonomamente la sussistenza del rapporto fiduciario.
A tale esigenza, avvertita in modo particolare sotto le Presidenze Pertini e Cossiga e poi con particolare vigore sotto la Presidenza Scalfaro, si
è provveduto nella prassi attraverso l’inserimento di un dibattito parlamentare nella procedura relativa alla crisi di governo.
La parlamentarizzazione appare principalmente finalizzata non a prevenire o risolvere la crisi di governo, ma a consentire una assunzione di
responsabilità dei partiti in ordine al dissenso politico esistente (4). È
stato osservato altresì che «la parlamentarizzazione della crisi per dimissioni volontarie si è affermata in modo quasi costante a conclusione
di una stagione costituzionale particolare, quella della solidarietà nazionale, e sotto una presidenza ‘istituzionale’, quella di Pertini, come soluzione per superare la lamentata inattuazione costituzionale della crisi
parlamentare» (5).
La parlamentarizzazione è stata inquadrata e qualificata come convenzione costituzionale, per «l’elemento dell’accordo tra i titolari di organi costituzionali» che essa contiene (6).
Se, come sembra preferibile, si individua l’elemento caratterizzante
delle crisi extraparlamentari nell’assenza di un voto delle Camere su una
mozione di sfiducia, da tale qualificazione discende che il coinvolgimento
del Parlamento derivante dalla cosiddetta parlamentarizzazione non fa
venir meno il carattere extraparlamentare della crisi di governo (7). Come è stato osservato, il dibattito parlamentare in cui si sostanzia la parlamentarizzazione «non produce l’effetto di mutare la natura delle crisi»:
si resta dunque nel campo delle crisi extraparlamentari, «il cui segno distintivo è costituito dalla volontarietà delle dimissioni sotto il profilo giu-
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ridico, anche se esse possono essere politicamente necessitate» (8). Semplicemente, si evita che il Parlamento sia tagliato fuori completamente
dal procedimento di apertura della crisi: e ciò attraverso l’inserimento di
una fase parlamentare che si colloca tra il verificarsi del presupposto della crisi e la deliberazione dell’atto volontario di dimissioni (9).
Tale esigenza si è concretizzata nella X legislatura con l’approvazione, da parte peraltro della sola Camera dei deputati in sede di prima deliberazione, del testo unificato delle proposte di legge costituzionale nn.
5219 e 5231, recante una modifica dell’articolo 94 della Costituzione nel
senso di stabilire che le dimissioni del Governo siano comunque precedute da una motivata comunicazione del Presidente del Consiglio dei
ministri alle Camere e dalla conseguente discussione. L’iter relativo al
testo in questione, approvato dalla Camera nella seduta del 29 maggio
1991, si è arenato al Senato, dove l’esame in sede referente da parte della
I Commissione, cui era stato assegnato il 5 giugno 1991, non è mai
iniziato.
La Camera dei deputati aveva inoltre approvato, nella seduta del 15
gennaio 1991, le mozioni Scalfaro ed altri n. 1-00460 e Servello ad altri
n. 1-00461, che erano dirette ad impegnare il Governo, qualora e nel momento in cui avesse inteso dimettersi, a rendere previa comunicazione
motivata alle Camere.
3 - Rapporto tra parlamentarizzazione della crisi e rinvio del Governo alle
Camere, in relazione alle diverse fattispecie di rinvio
In ordine all’istituto del rinvio del Governo alle Camere da parte del
Presidente della Repubblica, il punto preliminare da esaminare, prima
ancora di parlare della titolarità del potere di rinvio e dei relativi vincoli, è quello del rapporto tra parlamentarizzazione e rinvio.
Si era ritenuto infatti in dottrina che la cosiddetta parlamentarizzazione della crisi potesse intervenire su iniziativa dello stesso esecutivo
prima della presentazione delle dimissioni (quindi prima dell’apertura
formale della crisi) oppure dopo tale evento su impulso del Presidente
della Repubblica, il quale, respinte le dimissioni del Governo, rinvia il
Governo stesso alle Camere. In entrambi i casi la crisi verrebbe appunto, per così dire, parlamentarizzata.
È stato osservato che lo sforzo del Presidente della Repubblica di
parlamentarizzare la crisi, «indipendentemente dalle concrete possibilità
di sopravvivenza del governo dimissionario» (e dunque, in definitiva, co-
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me atto di assunzione di responsabilità politica, come prima si è detto),
può essere identificato «nel rinvio del governo dinanzi alle Camere, affinché le ragioni della crisi vengano ad essere dibattute nelle sedi costituzionalmente competenti» (10).
Tuttavia l’approfondimento dell’indagine scientifica, da una parte, e
l’evoluzione dell’istituto del rinvio, dall’altra, hanno condotto ad individuare fattispecie specifiche diverse nell’ambito complessivo dell’istituto
stesso, per talune delle quali l’accostamento con la parlamentarizzazione
non è sostenibile. Ma, al di là e prima ancora di questo, secondo una
classificazione rigorosa (11), si è puntualizzato che la parlamentarizzazione propriamente intesa può aver luogo soltanto prima delle dimissioni
del Governo; una volta intervenute le dimissioni infatti — e sia pure, come vedremo in seguito, subito respinte — può farsi luogo al rinvio alle
Camere, «non mai alla parlamentarizzazione ..., la quale presuppone necessariamente che le dimissioni non siano state ancora presentate» (12).
In sostanza, le peculiarità del rinvio del governo dimissionario alle
Camere da parte del Capo dello Stato hanno indotto a ravvisare in esso
una fattispecie distinta dalla parlamentarizzazione vera e propria. Quest’ultima è caratterizzata dal fatto che il dibattito in Parlamento precede
le dimissioni (la decisione del Presidente del Consiglio, in altre parole,
di presentarsi al Parlamento precede la deliberazione, da parte del Consiglio dei ministri, dell’atto di dimissioni volontarie del Governo) (13); in
genere, tale dibattito si conclude non con una manifestazione di volontà
delle Assemblee parlamentari, ma con la decisione del Presidente del
Consiglio di recarsi, previa riunione del Consiglio dei ministri, dal Capo
dello Stato a rassegnare le dimissioni del Governo.
Il rinvio del governo dimissionario alle Camere, al contrario, presuppone le dimissioni del gabinetto e dà luogo ad una discussione in Parlamento il cui esito può essere un voto di conferma della fiducia oppure il
rinnovo delle dimissioni precedentemente respinte.
Questa distinzione, se appare — come si è detto — rigorosa e ineccepibile sul piano formale (14), non deve però essere spinta fino al punto di mettere in ombra le analogie che, sul piano sostanziale, il rinvio disposto all’atto delle dimissioni del Governo, previa reiezione delle stesse, da parte del Presidente della Repubblica, ha con la cosiddetta
parlamentarizzazione. Se infatti obiettivo essenziale della procedura di
parlamentarizzazione è, come si è detto, quello di provocare una assunzione di responsabilità da parte delle forze politiche, piuttosto che
quello di prevenire la crisi o di raccogliere elementi utili alla sua soluzione, è pur vero che, nella sostanza, le medesime caratteristiche sem-
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brano appartenere al rinvio disposto dal Capo dello Stato subito dopo
aver ricevuto, e immediatamente respinto, le dimissioni del Governo. In
questo senso, il rinvio così disposto può apparire una sorta di sostanziale parlamentarizzazione o, se si vuole, di «parlamentarizzazione postuma», come è stato efficacemente rilevato (15). Del resto, è stato autorevolmente osservato in modo esplicito che il rinvio disposto «appena il
gabinetto ha presentato le dimissioni» ed «invece di avviare le consultazioni», in sostanza «coinciderebbe con il procedimento di parlamentarizzazione della crisi» (16). Altri hanno sottolineato come l’esigenza di
«parlamentarizzare» le crisi di governo, cioè di fare in modo che l’apertura di una crisi «passi in ogni caso attraverso un momento parlamentare», può essere soddisfatta «anche per altra via, cioè con il rinvio
alle Camere, o meglio con l’invito a ripresentarsi ad esse rivolto dal Capo dello Stato al governo che abbia rassegnato le dimissioni senza un
previo dibattito parlamentare» (17).
È opportuno invece precisare che quando il rinvio del Governo alle
Camere viene disposto non già nella fase iniziale della crisi, ma in una fase successiva, esso assume caratteristiche profondamente diverse, tanto
da far venir meno ogni analogia o possibilità di accostamento con la fattispecie della parlamentarizzazione.
Occorre dunque distinguere l’ipotesi in cui, avendo il governo rassegnato le dimissioni, queste siano immediatamente respinte dal Presidente della Repubblica, e contestualmente il Governo invitato a presentarsi
in Parlamento, da quella in cui le dimissioni stesse siano accolte dal Capo dello Stato (sia pure con la consueta riserva: ma intanto l’esecutivo,
in quanto dimissionario, deve limitarsi ai soli affari correnti), si aprano
le consultazioni, e solo in un momento successivo intervenga il rinvio del
governo alle Camere. Nel primo caso, come si è detto, l’istituto opera come una sorta di parlamentarizzazione ex post, provocando una assunzione di responsabilità da parte delle forze politiche in rapporto ad una crisi che si sta aprendo; nel secondo caso, invece, l’istituto opera come modalità di soluzione di una crisi che si è già aperta ed è giunta alla sua fase
conclusiva. In sostanza, in questo secondo caso si ha una soluzione della crisi che passa non già attraverso la formazione di un nuovo governo
da parte dello stesso premier dimissionario o di altra personalità politica, ma attraverso una sorta di «ripresentazione» alle Camere del governo presieduto dallo stesso premier dimissionario, restandone immutata la
composizione (18).
Questo può avvenire per due distinte ragioni. In primo luogo perché
nel frattempo si è giunti ad una composizione tra le forze politiche che
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ha consentito il superamento delle ragioni della crisi, ovvero l’accordo su
una piattaforma programmatica integrata, però con il presupposto di evitare le complicazioni connesse ad un rinnovo degli incarichi ministeriali. In secondo luogo perché il Presidente della Repubblica, verificata
l’insussistenza di possibilità di accordo tra le forze politiche, ritiene opportuno rinviare alle Camere il governo dimissionario, come ultima soluzione, fallita la quale non resta che procedere allo scioglimento delle
Camere stesse.
Giova rilevare che il rinvio disposto come modalità di soluzione di
una crisi, e che si articola nelle due diverse sottospecie appena delineate, si conclude solitamente o con la conferma della fiducia da parte delle Camere, e quindi con la ripresa dell’attività del Governo, ovvero con
la negazione della fiducia da cui discende lo scioglimento delle Camere
stesse. Viceversa il rinvio disposto nel momento stesso in cui il Governo
presenta le sue dimissioni si conclude spesso con la conferma delle dimissioni medesime da parte del Governo. Nel primo caso, infatti, i motivi che avevano portato all’apertura della crisi sono stati superati nel
corso del procedimento, mediante la gestione della crisi operata attraverso i canali istituzionali di cui dispone il Capo dello Stato, e dunque si
è realizzato un sostanziale accordo tra le forze politiche o per riprendere l’esperienza governativa o per contro per andare alle elezioni; nel secondo caso si tratta di dar luogo ad un atto di assunzione di responsabilità ritenuta necessaria od opportuna in vista della crisi che si sta per
aprire: una sorta, cioè, di sostanziale parlamentarizzazione, come si è detto, cui farà seguito, dopo la eventuale conferma delle dimissioni del Governo, l’iniziativa costituzionale del Capo dello Stato attraverso le consultazioni per pervenire alla soluzione della crisi.
La netta distinzione tra le due fondamentali categorie individuabili
nell’ambito del rinvio si evince peraltro anche dall’analisi che è stata
autorevolmente condotta su una specifica vicenda politica del recente
passato (19).
Secondo questa persuasiva ricostruzione, l’ipotesi del rinvio del Governo alle Camere disposto dal Capo dello Stato all’atto della presentazione delle dimissioni da parte del Governo stesso è caratterizzata dai seguenti elementi: il Presidente della Repubblica respinge le dimissioni del
Governo, invitando il Presidente del Consiglio a riferire in Parlamento
sulla situazione politica; in base alle risultanze del dibattito parlamentare, il Presidente del Consiglio decide se recedere dal proposito di rassegnare le dimissioni ovvero confermarle; in questo secondo caso si aprirà
formalmente la crisi ed il Presidente della Repubblica eserciterà le sue
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prerogative costituzionali, avvalendosi anche degli elementi offerti dal dibattito svoltosi dinanzi alle Camere (20). In una simile fattispecie, il voto
sulla fiducia è possibile, ma non è necessario e neppure, come dimostra
l’esperienza, probabile.
L’ipotesi del rinvio come soluzione successiva e destinata a chiudere
la crisi di governo è invece caratterizzata dai seguenti elementi: il Presidente della Repubblica non respinge le dimissioni del Governo, ma «si
riserva di accettarle» (e dunque il Governo resta intanto in carica per i
soli affari correnti); vengono effettuate le consultazioni, dalle quali il Capo dello Stato trae le indicazioni necessarie per le ulteriori fasi del procedimento della crisi; può essere affidato, non importa se allo stesso premier dimissionario o ad altra personalità politica, l’incarico di formare il
nuovo governo, cui segue la rinuncia all’incarico stesso; a questo punto,
tenuto conto della difficoltà di comporre un nuovo governo e del superamento nel frattempo intervenuto del disaccordo tra le parti politiche
che aveva condotto all’apertura della crisi — o, per converso, dell’insussistenza di soluzioni diverse da quella dello scioglimento del Parlamento
— viene disposto il rinvio del Governo alle Camere, questa volta con
l’obbligo di verificare formalmente la sussistenza o meno del rapporto
fiduciario.
È il caso di rilevare come in dottrina si sia messa in dubbio la legittimità stessa di questa seconda forma di rinvio, qualora non intesa come
soluzione estrema, fallita la quale non resta che procedere allo scioglimento delle Camere. Come infatti è stato osservato (21), almeno fino alla crisi del primo Gabinetto Craxi i precedenti di rinvio avevano riguardato due ipotesi: il rinvio immediato del Governo dimissionario alle
Camere, disposto dal Presidente della Repubblica senza aprire le
consultazioni o comunque senza affidare l’incarico; ovvero il rinvio del
governo dimissionario dopo lo svolgimento di un ciclo politico-costituzionale fatto di consultazioni, nuovi incarichi, missioni esplorative, concluso negativamente, e come ultima ratio prima di arrivare allo scioglimento delle Camere. Dunque il rinvio disposto in vista di una prospettata riconferma della fiducia al governo dimissionario ebbe a suscitare
perplessità (22); e ciò tanto più dopo l’affidamento di un nuovo incarico
allo stesso Presidente del Consiglio dimissionario.
È stato però efficacemente osservato che, accettando la tesi per cui il
rinvio del Governo alle Camere — una volta aperta la crisi ed avviate le
consultazioni: e dunque con esclusione dell’ipotesi del rinvio disposto
nella fase iniziale ed inteso come parlamentarizzazione in senso lato —
sarebbe legittimo soltanto come ultimo espediente disponibile prima del-
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lo scioglimento anticipato del Parlamento, ne conseguirebbe che la soluzione fisiologica di ogni crisi sta nella formazione di un nuovo governo. Ma «né i principi costituzionali, né la prassi repubblicana autorizzano una simile affermazione» (23). In altre parole, di fronte alla ricomposizione della situazione politica, comunicata dal Presidente del
Consiglio dimissionario al Presidente della Repubblica, quest’ultimo, valutate le condizioni d’intesa tra le forze politiche della maggioranza, non
potrebbe «non consentire alla verifica parlamentare della originaria formula di governo» (24). Dunque, la riconosciuta legittimità di questa particolare forma di rinvio completa il quadro, già delineato, dell’istituto,
mettendo in risalto la profonda diversità delle fattispecie che in esso sono ricomprese. L’affermazione secondo cui il rinvio del Governo alle Camere dovrebbe considerarsi tendenzialmente estraneo al fenomeno della
parlamentarizzazione, in quanto quest’ultima sottende un intervento del
Parlamento prima che la crisi si apra formalmente, mentre il rinvio costituirebbe un modo o un tentativo di dare soluzione ad una crisi che si
è già aperta (25), appare dunque condivisibile soltanto se riferita esclusivamente alla seconda delle due fondamentali figure di rinvio precedentemente delineate. L’osservazione di vicende recenti, quali il rinvio del
governo Dini, dimostra infatti come talvolta la distinzione tra l’ipotesi di
presentazione del Governo alle Camere per una verifica della fiducia prima della apertura formale della crisi e l’ipotesi di rinvio alle Camere del
Governo che ha appena deliberato le dimissioni, previa reiezione delle
stesse da parte del Capo dello Stato, sia a volte molto sfumata, potendo
la scelta per l’una o l’altra soluzione essere orientata semplicemente da
considerazioni di opportunità politica. Come vedremo meglio in seguito,
infatti, nel caso del governo Dini la verifica della fiducia attraverso la
presentazione in Parlamento prima delle formali dimissioni sarebbe risultata in contrasto con gli impegni presi dal Presidente del Consiglio in
Parlamento durante l’esame della legge finanziaria per il 1996, impegni
che erano risultati determinanti per consentire l’approvazione della legge stessa. Per converso, la finalità di dare, o tentare di dare, soluzione alla crisi si attaglia piuttosto alla fattispecie del rinvio disposto nella fase
conclusiva della crisi di governo.
4 - Il potere di rinvio: natura, titolarità e vincoli
Alla luce dei numerosi casi di rinvio del governo alle Camere verificatisi in epoca repubblicana si può affermare che il potere di rinvio del
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Capo dello Stato sia riconducibile ad una regola non scritta di natura
consuetudinaria, che, nel silenzio del testo costituzionale, si è venuta affermando per via di prassi (26). In dottrina si ritiene che tale consuetudine sia ricollegabile al ruolo presidenziale di commissaire aux crises e al
principio di cooperazione tra gli organi costituzionali (27).
Il ruolo fondamentale che il nostro ordinamento costituzionale assegna al Presidente della Repubblica nella risoluzione della crisi di governo consente di individuare nel rinvio del Governo alle Camere uno dei
mezzi di cui egli dispone per acquisire elementi utili ai fini del superamento della crisi. In ogni caso, non vi è dubbio che il potere di rinvio
sia di pertinenza del Presidente della Repubblica (28).
Riconosciuta ormai pacificamente l’esistenza di un potere presidenziale di rinvio alle Camere del governo dimissionario, la dottrina prevalente ritiene che non si tratti di un potere imperativo, da cui scaturisce conseguentemente un obbligo di osservanza per il Governo, ma che
al contrario occorra, per renderlo operativo, il consenso dell’esecutivo
stesso. Da tale principio discende che quest’ultimo non è giuridicamente obbligato ad accogliere l’invito del Capo dello Stato a presentarsi
in Parlamento, ben potendo sottrarsi al confronto parlamentare ribadendo la sua intenzione di dimettersi ( 29). Ciò, del resto, è quanto si è
concretamente verificato in occasione del rinvio alle Camere del secondo governo Fanfani, in quanto il Presidente del Consiglio dimissionario ritenne allora di non aderire all’invito rivoltogli dal Presidente
Gronchi e confermò le dimissioni senza neppure convocare il Consiglio
dei ministri.
Il carattere non imperativo del potere di rinvio e la conseguente assenza per il Governo di un obbligo di presentarsi in Parlamento traggono conferma, secondo la dottrina dominante, dall’inesistenza di
sanzioni giuridiche per l’eventuale inosservanza dell’obbligo. Infatti, se il
Governo decide di non consentire al rinvio disposto dal Presidente della Repubblica, quest’ultimo non ha alcun mezzo legale per opporsi alle
dimissioni. Di contrario avviso, nell’ambito della dottrina più tradizionale, appariva il Barile, il quale configurava il rinvio come un potere
imperativo da cui scaturisce un invito perentorio per il Governo a presentarsi in Parlamento. Dall’esigenza di rendere esplicite alle Camere e
all’opinione pubblica le ragioni della crisi discendeva, secondo tale autore, non solo un vero e proprio obbligo per il Governo di consentire al
rinvio, ma anche il dovere per il Capo dello Stato di riportare in Parlamento le crisi nate al di fuori di esso. Nella successiva evoluzione del suo
pensiero l’autore in questione ha attenuato tale posizione, affermando
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che solo nel caso in cui le ragioni della crisi non fossero state chiaramente esplicitate dal Presidente del Consiglio dimissionario sarebbe necessario riportare la crisi nell’alveo naturale del Parlamento (30).
La tesi prevalente del carattere non imperativo è stata però anche più
recentemente fatta oggetto di critica. Si è affermato infatti che non è sostenibile l’idea «di una piena ed incondizionata disponibilità dell’ufficio»
da parte del Governo, che precluda quindi al Capo dello Stato qualsiasi
valutazione (31). In relazione al rilievo secondo cui l’atto presidenziale di
non accettazione delle dimissioni, che solitamente precede il rinvio,
presuppone l’assenso da parte del Presidente del Consiglio dimissionario (32), si è dubitato della sua fondatezza, obiettando che comunque il
Capo dello Stato potrebbe teoricamente limitarsi ad un non facere onde
raggiungere l’obiettivo desiderato di ritardare l’accoglimento delle dimissioni del Governo o persuadere quest’ultimo a ritirarle; e al di là di
questo si è affermato che in taluni casi il Presidente della Repubblica ha
il potere di respingere le dimissioni dell’esecutivo, sia pure con determinati limiti e condizioni (33).
Se, come appare preferibile, si ritiene che la presentazione alle Camere presuppone l’adesione del Governo all’invito in tal senso del Presidente della Repubblica — fermo restando, in ogni caso, che a quest’ultimo spetta la titolarità del potere di rinvio, il Governo essendo chiamato a dare un mero assenso (34) —, deve altresì ritenersi che ulteriore
presupposto del dibattito parlamentare sia la presenza di un governo non
dimissionario ma nella pienezza dei poteri. Infatti, l’atto con cui l’esecutivo si presenta al Parlamento e ne sollecita la fiducia, o comunque provoca una discussione politica, non si può dire rientri nel concetto di
«ordinaria amministrazione», cui è vincolato il Governo dimissionario.
Quanto all’atto con cui questo organo cessa di essere dimissionario e
riacquista la piena funzionalità, esso può individuarsi o nel rigetto delle
dimissioni da parte del Capo dello Stato (35), oppure in un ritiro «tacito» delle stesse che si realizza quando il Governo acconsente a presentarsi in Parlamento. La prima tesi, a favore della quale militano i comunicati del Quirinale relativi al rinvio, contrasterebbe peraltro, ad avviso
di una parte della dottrina, con il principio generale di diritto pubblico
che esclude la permanenza in carica di un organo malgrè lui (36) ed attribuirebbe al Presidente della Repubblica un eccessivo potere di ingerenza nei confronti del governo. Si ritiene invece che «l’incidenza dei poteri presidenziali riguarda la permanenza in carica del governo, e non, invece, l’ampiezza dei suoi poteri, che dipende esclusivamente dalla
sussistenza (o insussistenza) del nesso di fiducia con le Camere» (37).
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Connesso al problema del carattere imperativo o meno del potere
presidenziale di rinvio del governo dimissionario alle Camere è il quesito se il Capo dello Stato possa opporsi alle dimissioni nel caso in cui il
governo rinviato insistesse nelle stesse. Occorre procedere ad una distinzione a seconda che ciò avvenga prima o dopo l’incardinamento del dibattito parlamentare originato dal rinvio. Se il governo declina l’invito a
presentarsi alle Camere e insiste nelle dimissioni, la dottrina prevalente
ritiene che dal carattere non imperativo del potere di rinvio derivi l’impossibilità per il Presidente della Repubblica di opporsi alle dimissioni
reiterate dall’esecutivo (38).
Una volta che la discussione parlamentare conseguente al rinvio si è
già incardinata — e quindi dopo che il governo ha aderito all’invito a
presentarsi alle Camere — deve ritenersi che il Presidente della Repubblica non possa non accettare la decisione del governo di rinnovare le dimissioni, poiché dal dibattito è emersa chiaramente l’impossibilità di
portare avanti l’indirizzo politico posto a base del rapporto fiduciario. La
prassi infatti dimostra che, ogniqualvolta il governo ha reiterato le dimissioni senza attendere un voto parlamentare preannunciatosi sfavorevole nei suoi confronti, il Capo dello Stato si è limitato a prendere atto
di tale decisione ed ha avviato la procedura per la formazione del nuovo governo.
L’esercizio del potere presidenziale di rinvio è comunque soggetto ad
una serie di vincoli. Del resto, come è stato osservato (39), è la stessa funzione presidenziale nello svolgimento della crisi e nella formazione del
Governo ad essere vincolata, con particolare riferimento all’esigenza di
perseguire la stabilità dell’indirizzo politico.
In particolare, quando il rinvio del Governo alle Camere è finalizzato al superamento della crisi attraverso la riconferma della fiducia all’esecutivo dimissionario, al Presidente della Repubblica compete di accertare la sussistenza dei motivi che rendono opportuno il rinvio stesso: sulla base degli elementi forniti dal premier dimissionario e di quelli
autonomamente raccolti, convergenti nell’identificare una prevalente opinione di conferma non solo dell’indirizzo politico del gabinetto dimissionario, ma anche della sua struttura.
5 - Il rinvio del governo alle Camere nell’esperienza costituzionale, con
particolare riferimento ai profili procedimentali
In epoca repubblicana il potere di rinvio alle Camere del Governo fu
esercitato per la prima volta nella seconda legislatura (40). Il 10 giugno
1957 il governo Zoli si dimise in quanto nella votazione sulla fiducia al-
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la Camera dei deputati i voti missini erano risultati determinanti per la
maggioranza governativa. Il Presidente della Repubblica Gronchi, dopo
il fallimento di una missione esplorativa affidata al Presidente del Senato Merzagora e la rinunzia del Presidente del Consiglio incaricato Fanfani, decise di non accogliere le dimissioni del Governo e lo invitò «a
presentarsi al Parlamento per chiedere di poter iniziare senza ritardo, insieme con l’esame dell’esercizio provvisorio e dei bilanci, l’attuazione legislativa del programma sottoposto alle Camere» (41).
Alla luce della prassi oggi consolidata in materia, il rinvio in questione presenta caratteristiche particolari. Esso infatti dette luogo ad un dibattito in entrambi i rami del Parlamento che, pur avendo come esito il
rientro della crisi di governo, non si concluse con alcuna pronuncia di
carattere fiduciario da parte delle Assemblee parlamentari. Ciò perché si
ritenne che sarebbe stata necessaria la presentazione di una mozione di
sfiducia ai sensi dell’articolo 94 della Costituzione, che non venne promossa da nessuno. Va rilevato a questo riguardo che di norma, ogniqualvolta il Governo non ha ritenuto di reiterare le dimissioni al termine del dibattito conseguente al rinvio, quest’ultimo si è concluso con la
votazione di una risoluzione (proposta di risoluzione al Senato) sulla
quale il governo ha posto la questione di fiducia. Quando la decisione è
consistita invece nella conferma delle dimissioni, la seduta, sospesa in attesa delle determinazioni del Presidente della Repubblica, è ripresa con
l’annuncio delle dimissioni del Governo, in conseguenza del quale l’attività parlamentare ordinaria (legislativa, di controllo e d’indirizzo) è stata sospesa «secondo una prassi consolidata, conforme ai principi generali
dell’ordinamento costituzionale che considera il governo indispensabile
interlocutore del Parlamento» (42). In tal caso, inoltre, il procedimento
non è proseguito nella seconda Camera.
Da notare che il rinvio alle Camere del governo Zoli non fu oggetto
di formale annunzio da parte dei Presidenti delle Camere, come di norma è sempre avvenuto nei casi successivi, ma fu comunicato dallo stesso
Presidente del Consiglio alle Assemblee parlamentari (convocate entrambe lo stesso giorno — il 25 giugno — con all’ordine del giorno «Comunicazioni del Presidente del Consiglio dei ministri»), e che la conseguente discussione è da ricondurre ad una formale richiesta degli stessi
parlamentari (il deputato Colitto del gruppo liberale e il senatore Lussu
del gruppo socialista).
È da sottolineare che in questo caso di rinvio si applicò la «regola
dell’alternanza», in quanto il dibattito sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio non iniziò nella Camera che per prima aveva concesso
212
Antonella Vercesi
la fiducia al Governo (come dal 1974 in poi è sempre avvenuto, anche
se non in modo pacifico e con l’eccezione del secondo rinvio del governo Goria). In questa occasione la Conferenza dei capigruppo della Camera, riunitasi per organizzare la discussione, decise che la stessa sarebbe iniziata il giorno successivo e che, per abbreviare i tempi, sarebbe intervenuto un solo oratore per gruppo. Analoga decisione fu assunta al
Senato, dove il Presidente, in apertura di discussione il 27 giugno, specificò che gli interventi non avrebbero potuto superare i trenta minuti.
Alla Camera, nel corso del dibattito, la Presidenza considerò inammissibile un ordine del giorno implicante un giudizio di sfiducia al Governo,
avvalendosi della facoltà ad essa attribuita dall’articolo 90 del Regolamento di negare l’accettazione e lo svolgimento di ordini del giorno. Di
fronte all’obiezione che la discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio avrebbe dovuto potersi concludere con la votazione di
un ordine del giorno, il Presidente, dopo aver richiamato i precedenti di
analoghe discussioni concluse senza voto, si rimise all’Assemblea, che si
pronunciò contro l’ammissibilità dell’ordine del giorno presentato (43).
Nella terza legislatura si registrò l’unico caso di rinvio che non ebbe
alcun seguito parlamentare, quello del secondo governo Fanfani, avvenuto nel febbraio 1959. Il Presidente del Consiglio dimissionario, infatti, respinse l’invito del Presidente della Repubblica Gronchi a presentarsi
alle Camere ritenendo di non poter comunque recedere dalle dimissioni.
Nel comunicato del Quirinale relativo alla reiezione delle dimissioni del
Governo e al suo rinvio alle Camere si affermava espressamente l’esigenza, cui si intendeva provvedere con il rinvio, «che il Parlamento assuma le proprie responsabilità in modo che il popolo italiano possa comprendere nei loro effettivi termini le ragioni determinanti della crisi» (44).
Il rinvio in questione può essere considerato un precedente a sostegno
della tesi della dottrina prevalente, secondo cui il potere di rinvio non è
imperativo, essendo subordinata la sua efficacia al consenso del governo
dimissionario.
Affatto anomalo appare altresì il rinvio dinanzi al Senato del governo Tambroni, dimessosi l’11 aprile 1960 a causa delle difficoltà insorte
al suo interno per il carattere determinante dei voti del Movimento sociale nella votazione sulla fiducia alla Camera dei deputati. Esso intervenne infatti nel corso dell’iter fiduciario e fu volto a consentire il completamento dello stesso attraverso la concessione della fiducia da parte
della seconda Camera (45). Ciò si realizzò con l’approvazione di una mozione di fiducia al termine della discussione sulle comunicazioni rese da
Tambroni al Senato il 27 aprile 1960. Come è avvenuto nel caso relativo
Il rinvio del Governo alle Camere
213
al governo Zoli, anche questo rinvio fu preceduto da alcune iniziative del
Capo dello Stato finalizzate alla formazione di un nuovo governo, segnatamente un incarico — fallito — all’onorevole Fanfani e al Presidente della Camera Leone, che rifiutò di costituire un governo di affari.
La singolarità di un dibattito conseguente al rinvio per assolvere «gli
adempimenti prescritti dall’articolo 94 della Costituzione» determinò la
presentazione, da parte del gruppo socialista, di una pregiudiziale volta
ad impedire che al Senato iniziasse la discussione sulle comunicazioni del
Governo, a causa della sostanziale diversità tra le comunicazioni programmatiche rese dal Presidente del Consiglio in entrambe le Camere
prima delle dimissioni e quelle, ritenute «integrative o addirittura sostitutive» delle prime, rese dallo stesso Tambroni dopo l’invito del Capo
dello Stato a presentarsi al Senato. Si sosteneva infatti, da parte dei proponenti la pregiudiziale, che il bicameralismo perfetto vigente nel nostro
ordinamento obbligasse il Governo, in caso di concessione della fiducia
da parte del Senato, a ripresentarsi alla Camera «per ripetervi le sue nuove comunicazioni e chiedere un nuovo voto». La pregiudiziale in questione venne giudicata inammissibile dal Presidente Merzagora, il quale
precisò di aver assunto tale decisione non per sottrarre all’Assemblea il
potere ad essa attribuito dall’articolo 66 del Regolamento di decidere
in ordine alle pregiudiziali, ma per evitare che «una proposta incostituzionale possa essere esposta ad un colpo di maggioranza».
A parte questa singolarità procedurale, la discussione si svolse secondo il copione classico dei dibattiti a carattere fiduciario, con gli interventi dei senatori iscritti a parlare, la replica del Presidente del Consiglio, le dichiarazioni di voto e la votazione per appello nominale sulla
mozione di fiducia (46).
La prassi avviata nelle prime legislature repubblicane subì una interruzione per un periodo di tempo piuttosto lungo. Dal 1960, infatti, bisogna attendere circa quindici anni perché si verifichi un nuovo precedente di rinvio del Governo alle Camere. Nella sesta legislatura la crisi
del quinto governo Rumor si risolse proprio con la conferma della fiducia da parte di entrambe le Camere. È da evidenziare il fatto che siamo
in presenza dell’unico caso in cui il mancato accoglimento delle dimissioni non è stato accompagnato dall’invito del Capo dello Stato al Governo a presentarsi al Parlamento per una verifica della sua maggioranza.
Nel comunicato della Presidenza della Repubblica del 13 giugno 1974,
oltre all’indicazione dei motivi economici che erano alla base del mancato accoglimento delle dimissioni, era contenuto infatti solo l’invito «a
voler compiere ogni sforzo per realizzare un accordo».
214
Antonella Vercesi
Alla Camera dei deputati, la decisione assunta dal Presidente della
Repubblica Leone, annunziata dal Presidente nella seduta del 17 giugno
1974, diede luogo ad una discussione di carattere incidentale in quanto
il gruppo comunista presentò una pregiudiziale, ai sensi dell’articolo 40
del Regolamento, per impedire l’esame di decreti-legge (segnatamente
quello sui prodotti petroliferi) prima dello svolgimento di un dibattito
politico generale. Dopo una votazione che non ebbe esito per mancanza
del numero legale, la pregiudiziale fu respinta (47).
È interessante notare che in questo caso si ebbe soluzione di continuità tra l’annunzio della decisione del Capo dello Stato relativa al rinvio (17 giugno) e l’inizio della discussione parlamentare conseguente alla decisione stessa (27 giugno), essendo quest’ultima intervenuta quando
era stata già fissata una seduta della Camera per la conversione in legge
di decreti-legge. In tale seduta (quella, appunto, del 17 giugno) il rinvio
venne quindi solo annunziato e la Presidenza si riservò di concordare
con i capigruppo la data del dibattito politico generale.
Proprio a partire da questo rinvio si cominciò ad affermare la cosiddetta regola della culla, secondo la quale il governo rinviato alle Camere
si presenta innanzitutto al ramo del Parlamento che per primo gli ha
concesso la fiducia o di fronte al quale sono state rese le comunicazioni
che si sono concluse col preannunzio delle dimissioni. Avendo infatti ottenuto originariamente la fiducia in prima istanza dalla Camera dei
deputati (il 23 marzo), il quinto governo Rumor si presentò a tale ramo
del Parlamento; dal momento che in tale sede la fiducia venne confermata, il procedimento proseguì poi al Senato (48).
Alcuni problemi relativi all’organizzazione del dibattito parlamentare
originato dal rinvio trovarono nella fattispecie in esame una soluzione
che verrà poi confermata nei casi successivi. Quanto all’incardinamento
della discussione, questa si sviluppò sulla base di comunicazioni del governo e pertanto si aprì con l’intervento del Presidente del Consiglio,
svolgendosi per il resto nei modi ordinari. Quanto alla conclusione della discussione, essa — come si è poi sempre verificato quando il dibattito parlamentare si è concluso con la conferma della fiducia — consistette nella votazione per appello nominale di una risoluzione sottoscritta dai
gruppi della maggioranza, su cui il Governo aveva posto la questione di
fiducia. In caso di comunicazioni del Governo, infatti, gli articoli 118 del
Regolamento della Camera e 105 del Regolamento del Senato prevedono che ogni parlamentare possa presentare una proposta di risoluzione,
che è votata al termine della discussione. La posizione della questione di
fiducia conferisce carattere fiduciario alla votazione di cui si parla. È
Il rinvio del Governo alle Camere
215
questa, del resto, la procedura prevista dalle norme vigenti per esprimere fiducia al Governo, in quanto non è configurabile una nuova mozione di fiducia dopo che si è conclusa la fase di formazione del Governo.
Quando il dibattito parlamentare si conclude con la conferma della
fiducia, dunque, si pone di norma in votazione una risoluzione presentata dalla maggioranza e contenente una motivazione ob relationem (che
fa cioè riferimento alle dichiarazioni rese dal Presidente del Consiglio).
Si tratta di una motivazione indiretta condensata nella formula, tipica
della mozione di fiducia, «la Camera (o il Senato), udite le dichiarazioni
del Governo, le approva e passa all’ordine del giorno». Si riscontra quindi una analogia rispetto alla mozione di fiducia, con la sola differenza del
richiamo, in tale caso, alle dichiarazioni programmatiche. Come per tale
strumento, si registra peraltro qualche eccezione. Nel caso del rinvio del
primo governo Craxi, infatti, al Senato la fiducia venne confermata con
un ordine del giorno motivato della maggioranza (49). La risoluzione ob
relationem è stata utilizzata invece in tutti gli altri casi di rinvio con conferma della fiducia.
Giova a questo punto ribadire che esiste un’altra possibile conclusione della discussione, che infatti si riscontrerà nei casi successivi di rinvio
del Governo alle Camere. Anche in presenza di risoluzioni, infatti, il dibattito si è concluso senza votazioni (e il procedimento non è proseguito
nell’altra Camera) quando il Presidente del Consiglio ha dichiarato la sua
intenzione di confermare le dimissioni o di riferire al Capo dello Stato
l’andamento del dibattito. Inoltre, è sempre ipotizzabile la presentazione, ai sensi degli articoli 115 del Regolamento della Camera e 161 del Regolamento del Senato, di una mozione di sfiducia, che concorrerebbe
con eventuali risoluzioni; nella votazione avrebbe priorità, comunque, il
documento su cui il Governo pone la questione di fiducia.
L’esercizio da parte del Capo dello Stato del potere di rinvio dell’esecutivo alle Camere in alcuni casi, come si è già osservato, ha determinato una assunzione di responsabilità dei partiti e dello stesso Governo in ordine alle ragioni della crisi, sfociando per il resto nella reiterazione delle dimissioni precedentemente respinte dal Presidente della
Repubblica. Quando ciò si è verificato, la decisione dell’esecutivo di
reiterare le dimissioni ha comportato che l’iter avviato dal rinvio si è
esaurito nella Camera in cui ha avuto inizio il relativo dibattito senza che
si procedesse ad alcuna votazione.
Nella ottava legislatura il Presidente della Repubblica Pertini non accolse le dimissioni rassegnate dal secondo governo Spadolini e invitò il
Presidente del Consiglio a presentarsi in Parlamento. Questo rinvio è sta-
216
Antonella Vercesi
to interpretato in dottrina come la reazione presidenziale alla mancata
parlamentarizzazione preventiva della crisi apertasi a seguito del ritiro
dalla compagine ministeriale di uno dei partiti che la componevano (50).
La finalità preminente che con esso si intese raggiungere fu quella della
verifica parlamentare delle ragioni della crisi, o meglio «della condizione
istituzionale e politica del governo», secondo l’espressione usata nel comunicato del Quirinale relativo al rinvio (51).
In ossequio alla regola della culla, la discussione parlamentare conseguente al rinvio si svolse alla Camera, che per prima aveva concesso la
fiducia al Governo nel settembre 1982, mentre al Senato (dove il Presidente del Consiglio si limitò, secondo una prassi che si era nel frattempo instaurata, a consegnare il testo delle comunicazioni rese alla Camera) l’annunzio del rinnovo delle dimissioni da parte del Governo impedì
la prosecuzione dell’iter. Sotto il profilo procedurale, alla Camera il dibattito, la cui organizzazione fu come di norma affidata alla Conferenza
dei capigruppo, si articolò nei modi ordinari, concludendosi senza voto
con il preannunzio del rinnovo delle dimissioni, deliberate poi dal Consiglio dei ministri all’uopo convocato dopo la replica del Presidente del
Consiglio.
Nella nona legislatura, il Presidente della Repubblica Cossiga, nel
tentativo di risolvere la crisi del primo governo Craxi, apertasi nell’ottobre 1985 con le dimissioni rassegnate a seguito dei dissensi interni alla
coalizione governativa sulla nota vicenda dell’Achille Lauro, dopo un
lungo iter, invitò l’esecutivo «a presentarsi rapidamente al Parlamento,
anche in considerazione delle rilevanti scadenze istituzionali relative all’esame della legge finanziaria e del bilancio» (52).
Un elemento nuovo è costituito dal reincarico allo stesso Presidente del Consiglio dimissionario, che precedette il rinvio del Governo alle Camere (53). Dopo la rinuncia all’incarico, il rinvio deciso dal Capo
dello Stato ebbe come presupposto l’accertamento, da parte del medesimo (sulla base delle comunicazioni a lui rese dallo stesso onorevole
Craxi, come si evince dal comunicato del Quirinale) dell’esistenza
delle condizioni per la ripresa della collaborazione tra i partiti della
maggioranza.
Da notare che in questo caso non vi fu soluzione di continuità tra
l’annunzio alle Camere della reiezione delle dimissioni e del rinvio del
Governo al Parlamento e il conseguente dibattito (54). Venne inoltre pienamente rispettata la regola della culla, in quanto il Governo si ripresentò in primo luogo alla Camera, il primo dei rami del Parlamento
che gli aveva concesso la fiducia nel lontano agosto del 1983.
Il rinvio del Governo alle Camere
217
Per quanto riguarda l’organizzazione della discussione conseguente
al rinvio, alla Camera fu la Conferenza dei capigruppo a stabilirne le
modalità, una volta incardinato il dibattito con l’intervento del Presidente del Consiglio. Occorre sottolineare che in questa sede il Presidente della Camera Iotti chiarì esplicitamente che la discussione originata dal rinvio del Governo al Parlamento è disciplinata dalle norme regolamentari ordinarie e non da quelle che regolano la discussione sulla
fiducia iniziale al Governo (fatta eccezione per l’applicazione dell’articolo 116 in caso di posizione della questione di fiducia), poiché il Governo stesso, in caso di rinvio, è nella pienezza dei suoi poteri. In considerazione della particolare valenza politica del dibattito, la Presidenza si avvalse della facoltà, ad essa attribuita dal comma 6 dell’articolo 39
del Regolamento (ora comma 5), di ampliare ad un’ora il termine di 45
minuti (ora 30 minuti) previsto per la durata degli interventi di un
deputato per gruppo (55). Altro elemento nuovo, che avremo modo di
rintracciare anche nei successivi casi di rinvio, fu la presentazione di risoluzioni di iniziativa delle opposizioni, che, avendo il Governo posto la
questione di fiducia sulla risoluzione di maggioranza, risultarono precluse a seguito dell’approvazione di quest’ultima (56). Fu confermata, infine, la prassi delle dichiarazioni di voto sulla risoluzione su cui era stata posta la questione di fiducia in ordine inverso rispetto alla consistenza dei gruppi.
Al Senato la discussione sulle comunicazioni del Governo ricalca lo
schema delineato per la Camera, con la sola differenza della presentazione di un unico ordine del giorno motivato da parte della maggioranza. È opportuno segnalare che, a partire dal rinvio alle Camere del secondo governo Spadolini nel 1982, di cui si è detto poc’anzi, si è assistito (con la sola eccezione del rinvio del secondo governo Craxi nell’aprile
1987) all’applicazione estensiva della prassi per cui le dichiarazioni programmatiche rese dal Presidente del Consiglio in una delle due Camere
nell’ambito dell’iter fiduciario, anziché essere ripetute oralmente nell’altra Camera, sono consegnate nel testo scritto e pubblicate in allegato ai
resoconti della seduta in cui la consegna è avvenuta.
Nella nona legislatura si è registrato un ulteriore rinvio dell’esecutivo
alle Camere sfociato nella conferma delle dimissioni a conclusione di un
dibattito che si esaurì in un solo ramo del Parlamento. Nell’aprile 1987,
infatti, il Presidente della Repubblica Cossiga giudicò il rinvio alle Camere «la sola via percorribile, congrua e conforme ai principi del nostro
regime rappresentativo e parlamentare» per risolvere la crisi del secondo governo Craxi. Tale rinvio rappresentò il risultato delle valutazioni
218
Antonella Vercesi
compiute dal Capo dello Stato sulla base di due consultazioni generali,
dell’incarico conferito ad altra personalità per la formazione di un
nuovo governo e del mandato esplorativo svolto dal Presidente della
Camera.
Il Presidente Cossiga, in tale occasione, indicò esplicitamente le motivazioni della sua decisione in una nota di accompagnamento della lettera con cui comunicava al Presidente del Consiglio dimissionario la sua
intenzione di rinviare il Governo alle Camere. Tali motivazioni attenevano all’esigenza di rendere pubblici e trasparenti gli orientamenti e le volontà delle forze politiche in merito alla crisi di governo, in modo da consentire al Capo dello Stato di acquisire gli elementi decisivi per il ripristino del normale funzionamento delle istituzioni (57). In dottrina si è
sostenuto che la finalità di questo rinvio alle Camere fosse quella di «appurare in modo assolutamente definitivo (e formale)... l’impossibilità di
riaprire un dialogo tra i partiti della maggioranza, e anche ... di dar vita
ad un governo sostenuto da una maggioranza diversa da quella del pentapartito» (58).
Quanto alla sede della discussione parlamentare originata dal rinvio,
ancora una volta fu rispettata la regola della culla, in quanto il dibattito
si svolse al Senato, che per primo aveva votato la fiducia al Governo nell’agosto 1986 e dove, tra l’altro, le dimissioni erano state preannunziate
nel marzo 1987. In tale occasione peraltro la prassi in questione fu oggetto, per la prima volta, di opinioni non coincidenti dei Presidenti dei
due rami del Parlamento (59). In particolare, essa venne autorevolmente
contestata dal Presidente della Camera Iotti, la quale, dopo aver rilevato come essa non potesse ritenersi consolidata, a causa della esiguità e
non univocità dei precedenti (i quali tra l’altro, avendo differenti finalità,
non sarebbero stati agevolmente riconducibili ad un’unica fattispecie),
ebbe a sottolineare l’opportunità di una riconsiderazione della stessa
prassi nel caso in esame, in quanto la verifica senza precedenti cui si doveva procedere — concernente i presupposti per lo scioglimento anticipato delle Camere — era tale da consigliare il coinvolgimento di tutti i
gruppi politici rappresentati in Parlamento. In conclusione, il Presidente della Camera espresse l’avviso che in materia di rinvio del Governo alle Camere sarebbe stato opportuno concordare criteri meno rigidi e non
automatici, più idonei ad adattarsi a vicende istituzionali a volte complesse e delicate. In sostanza, si può affermare che, trattandosi — a suo
giudizio — di un rinvio diretto ad una verifica delicata e senza precedenti, il Presidente Iotti sottolineasse la necessità di una deroga alla re-
Il rinvio del Governo alle Camere
219
gola della culla, che rendesse possibile lo svolgimento del dibattito alla
Camera, anziché al Senato.
La posizione espressa dal Presidente del Senato era invece del tutto
favorevole alla prassi consueta, giudicata univoca e mai contestata, perciò degna di essere rispettata, pena il venir meno delle necessarie garanzie di obiettività e certezza dei comportamenti. Preoccupante, per il
pericolo di stravolgimento delle norme sui poteri delle due Camere che
recava in sé, venne piuttosto considerata l’ipotesi, ventilata dal Presidente della Camera, di coinvolgere nella verifica parlamentare tutti i
gruppi rappresentati in Parlamento.
La discussione parlamentare cui il rinvio in esame dette luogo presenta alcune differenze procedurali rispetto ai casi precedenti. Infatti, al
Senato si ebbe una sia pur minima soluzione di continuità — un giorno
— tra il formale annunzio della decisione del Presidente della Repubblica e il relativo dibattito, in quanto nel frattempo era già stata fissata
una seduta destinata alla trattazione di altro argomento. A seguito del
rinvio, il Presidente del Consiglio si presentò al Senato l’8 aprile 1987,
in una situazione politica chiaramente deteriorata, a seguito del ritiro
della delegazione democristiana dal Governo; tuttavia nelle sue comunicazioni non manifestò l’intenzione di rinnovare le dimissioni, e dunque
la Presidenza ritenne ammissibile la discussione sulle comunicazioni stesse. Tale decisione dette luogo ad un dibattito incidentale, essendosi rilevata una contraddizione tra le opposte decisioni assunte dal Presidente
del Senato in situazioni sostanzialmente analoghe: infatti nella precedente seduta del 3 marzo il Presidente del Consiglio, nel rendere comunicazioni al Senato, aveva annunziato l’intenzione di rassegnare le dimissioni del Governo e ciò aveva indotto la Presidenza a non consentire
un dibattito sulle comunicazioni medesime. L’obiezione fu respinta dal
Presidente del Senato in base al rilievo che le due situazioni erano affatto diverse: infatti al contrario di quanto accadde nella seduta del 3 marzo, in quella dell’8 aprile il Presidente del Consiglio non aveva annunciato l’intenzione di dimettersi, ma si riservava di decidere dopo aver
ascoltato l’opinione del Senato. È da segnalare che nel corso della discussione fu presentata la proposta di risoluzione Pecchioli ed altri di
sfiducia al Governo, cui non venne dato alcun seguito per il sopravvenuto rinnovo delle dimissioni (60). A differenza degli altri casi di rinvio,
alla Camera non si procedette alla consegna del testo delle dichiarazioni
rese dal Presidente del Consiglio al Senato.
Nel periodo intercorrente tra il rinvio e il successivo dibattito, come
la Presidenza della Camera ebbe modo di chiarire in tale circostanza, le
220
Antonella Vercesi
sole attività delle commissioni consentite erano l’esame dei disegni di
legge di conversione e l’espressione di pareri su nomine governative
intervenute prima della crisi, restando sospesa l’attività legislativa ordinaria (61).
Nella decima legislatura si verificò l’unico caso di doppio rinvio dello stesso esecutivo, in occasione delle due crisi che ebbero come protagonista il governo Goria nel novembre 1987 e nel febbraio 1988. Entrambi i rinvii furono preceduti da inequivocabili segnali di ricomposizione della maggioranza governativa ed ebbero pertanto come
sbocco il superamento della crisi di governo.
La crisi del novembre 1987 presenta alcune analogie con quella sfociata nel rinvio del primo governo Craxi. Apertasi a seguito del ritiro dalla compagine ministeriale di uno dei partiti che la componevano, fu anch’essa contrassegnata dal reincarico al Presidente del Consiglio dimissionario. La formula con cui la Presidenza della Repubblica comunicava
la decisione di respingere le dimissioni del Governo e di rinviarlo alle
Camere era identica a quella usata in occasione del rinvio del primo governo Craxi. In entrambi i casi, infatti, si faceva riferimento ad una «confermata convergenza volta a proseguire la collaborazione» tra i partiti
della maggioranza governativa e al fatto che gli stessi «ritengono a tal fine adeguata l’attuale struttura di governo» (62).
Anche sotto il profilo procedurale non si riscontrano differenze rispetto al precedente citato, in quanto fu rispettata la regola della culla (il
dibattito originato dal rinvio iniziò infatti al Senato, che per primo aveva accordato la fiducia al Governo nell’agosto 1987), l’annunzio della
reiezione delle dimissioni e del rinvio alle Camere fu contestuale all’avvio della discussione parlamentare e quest’ultima si svolse secondo le
modalità consuete, con la consegna alla Camera del testo delle comunicazioni rese dal Presidente del Consiglio al Senato e la votazione in entrambi i rami del Parlamento della risoluzione di maggioranza su cui il
Governo aveva posto la questione di fiducia, con effetto preclusivo rispetto ai concorrenti documenti presentati (63). Le uniche differenze procedurali da segnalare riguardano la durata degli interventi, che non fu
ampliata, e la deroga — per accordo unanime tra i gruppi ai sensi dell’articolo 116, comma 3, del Regolamento — al previsto intervallo di
ventiquattro ore tra la posizione della questione di fiducia e la relativa
votazione.
Per quanto riguarda la crisi del febbraio 1988, l’ulteriore rinvio del
governo Goria dinanzi alle Camere, a distanza di soli tre mesi dal precedente, fu deciso dal Presidente della Repubblica Cossiga sulla base del-
Il rinvio del Governo alle Camere
221
la «indicazione prevalente in tal senso delle forze politico-parlamentari» (64), e fu preceduto da circostanze tali da indurre i Presidenti delle
Camere a concordare sull’opportunità di derogare alla regola della culla, consentendo quindi l’avvio del dibattito parlamentare alla Camera anziché al Senato, dove era iniziato l’iter fiduciario. L’eccezionalità della deroga e l’opportunità di confermare per il futuro la prassi fino ad allora
seguita costituiscono i punti salienti di un «carteggio» in cui i Presidenti delle Camere concordarono anche sul principio che spettasse loro «la
valutazione di quelle circostanze di particolare natura parlamentare e politica che possono portare, in casi eccezionali, a discostarsi dalla prevalente prassi» (65). Le circostanze speciali che resero opportuna la deroga
alla regola della culla attenevano al fatto che le difficoltà politico-parlamentari che avevano indotto il Governo a dimettersi (cioè i ripetuti voti
contrari sul bilancio dello Stato) si erano verificate alla Camera e che
sempre in tale ramo del Parlamento il Presidente del Consiglio aveva
preannunciato le dimissioni. Sembrerebbe pertanto sussistere una esigenza di continuità nel caso in cui il dibattito originato dal rinvio alle
Camere sia preceduto da un preannunzio di dimissioni in un ramo del
Parlamento.
La discussione conseguente al rinvio del Governo alle Camere non
presenta apprezzabili differenze procedurali rispetto ai casi fin qui esaminati. Gli elementi comuni sono la mancanza di soluzione di continuità tra l’annunzio del rinvio e il conseguente dibattito, la consegna all’altro ramo del Parlamento del testo delle comunicazioni rese alla Camera,
le dichiarazioni di voto in ordine inverso alla consistenza dei gruppi, la
votazione per appello nominale della risoluzione presentata dalla maggioranza su cui il Governo aveva posto la questione di fiducia, che per
accordo unanime tra i gruppi fu effettuata senza attendere il decorso del
termine di ventiquattro ore. Alla Camera fu in tale occasione sollevata la
questione della mancanza di motivazione della risoluzione confermativa
della fiducia. Venne infatti contestata la prassi di mozioni di fiducia o risoluzioni conclusive di discussioni su comunicazioni del Governo consistenti in formule tralatizie, ciò che contrasterebbe con l’obbligo di motivazione posto dall’articolo 94 della Costituzione. La Presidenza, pur
ammettendo che la questione avrebbe meritato un attento esame da parte della Giunta per il Regolamento, si limitò a confermare la prassi di utilizzare la formula tralatizia per le mozioni di fiducia e per le risoluzioni
su cui è posta la questione di fiducia (66).
Il caso più attuale di rinvio alle Camere è quello che ha riguardato il
governo Dini, dimessosi il 30 dicembre 1995 e il giorno stesso rinviato
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Antonella Vercesi
al Parlamento dal Presidente della Repubblica. La ratio del rinvio in questione, quale emerge dal comunicato ufficiale del Quirinale (67), consisteva nell’esigenza di una verifica e di un chiarimento politico, la cui sede
propria non poteva che essere il Parlamento. Si intendeva in sostanza accertare se un esecutivo «tecnico», nato all’insegna della temporaneità e
con limitati obiettivi prefissati, potesse continuare a governare dopo aver
esaurito il proprio compito sulla base di un programma aggiornato.
La decisione adottata di rinviare il Governo alle Camere, inoltre, appare coerente con il principio di assoluta contrarietà alle crisi extraparlamentari sempre sostenuto dal Presidente della Repubblica Scalfaro.
Per altro, come si è già avuto modo di osservare, la strada della parlamentarizzazione propriamente detta non appariva in questo caso politicamente percorribile, dato che il Presidente del Consiglio aveva assunto l’esplicito impegno di rassegnare le dimissioni.
Per la verità, le dimissioni del governo Dini erano già in precedenza
state prospettate o preannunziate (68). Ma il 18 dicembre 1995, durante
la discussione alla Camera del disegno di legge recante misure di razionalizzazione della finanza pubblica, collegato alla legge finanziaria per il
1996, il Presidente Dini ribadiva esplicitamente e formalmente l’impegno a rassegnare le dimissioni del Governo «entro e non oltre il 31
dicembre».
In tali condizioni, l’eventuale decisione del Governo di far precedere le dimissioni formali da un dibattito parlamentare di verifica avrebbe
avuto il sapore di una elusione dell’impegno assunto: impegno — giova
ricordarlo — che era risultato determinante al fine di creare le condizioni
per consentire al Governo di superare un difficile passaggio parlamentare. Invece il percorso prescelto (dimissioni formali del Governo — reiezione delle stesse da parte del Capo dello Stato — rinvio del Governo alle Camere) consentiva di ottenere il medesimo risultato di una sostanziale parlamentarizzazione della crisi assicurando nel contempo il pieno
e formale rispetto dell’impegno richiamato. E dunque, come si è già avuto modo di osservare, risulta confermata dalla vicenda in esame la stretta correlazione tra la fattispecie della parlamentarizzazione della crisi,
nella sua definizione più rigorosa, e quella del rinvio del Governo alle
Camere, disposto nella fase iniziale della crisi stessa.
In conformità alla regola della culla, il dibattito parlamentare originato dal rinvio del governo Dini si svolse alla Camera, cioè di fronte al
ramo del Parlamento che per primo aveva votato la fiducia al Governo.
In questo caso di rinvio non si è registrata soluzione di continuità tra
l’annunzio formale alla Camera del mancato accoglimento delle dimis-
Il rinvio del Governo alle Camere
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sioni e del rinvio del Governo al Parlamento, avvenuto nella seduta del
9 gennaio 1996, e il conseguente dibattito parlamentare, avviato dalle comunicazioni rese dal Presidente del Consiglio nella seconda seduta pomeridiana fissata per lo stesso giorno. Come di consueto, l’organizzazione della discussione sulle comunicazioni del Governo è stata
definita dalla Conferenza dei capigruppo, che ha stabilito anche la relativa data e il contingentamento dei tempi degli interventi. Questi ultimi
sono stati previsti in misura piuttosto ampia per la valenza politica del
dibattito e per consentire alle varie componenti del Parlamento di
esprimersi compiutamente.
Era stata da più parti sottolineata l’esigenza che il dibattito si concludesse con un voto, quindi con una presa d’atto della Camera in merito
al chiarimento politico cui il rinvio era finalizzato. In realtà, tale esigenza non corrisponde ad un obbligo costituzionale ma si ricollega semmai
ad una ragione di opportunità. In ogni modo, poiché in questi casi tecnicamente il Presidente del Consiglio non è dimissionario ma nella pienezza dei poteri, avendo il Capo dello Stato respinto le dimissioni del
Governo, l’iniziativa di promuovere una mozione o risoluzione a carattere fiduciario non spetterebbe a lui ma ai parlamentari.
Di fatto, sono state presentate, come nei casi precedenti, alcune
risoluzioni, le quali, oltre a non essere poste in votazione per il rinnovo
delle dimissioni del Governo, non sono state neppure formalmente
annunciate all’Assemblea ma solo pubblicate in allegato ai resoconti della
seduta (69).
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Antonella Vercesi
Note
(1) Cfr., tra gli altri, M. GALIZIA, voce «Crisi di gabinetto», in Enciclopedia del
diritto, vol. XI, 1962, p. 382; M. VILLONE, «La crisi extraparlamentare», in Commentario della Costituzione, Il Consiglio dei ministri, art. 92-96, Bologna, 1994,
p. 262; L. PALADIN, Lezioni di diritto costituzionale, Padova, 1989, p. 398; S. CASSESE-R. PEREZ, Manuale di diritto pubblico, 1995, p. 281. All’interno di tale
classificazione sono state individuate altre sottospecie. Ad esempio, P. V IRGA, Diritto costituzionale, 9° ed., 1979, pp. 218-219, definisce pseudoparlamentari le
crisi che traggono origine dalla dinamica dei gruppi parlamentari attraverso il ritiro o la revoca della fiducia al Governo; S. TRAVERSA, «I rapporti ParlamentoGoverno con particolare riferimento alla parlamentarizzazione delle crisi e alla
sfiducia individuale», in Rassegna parlamentare, an. 34, 1992, fasc. 4, p. 347,
definisce invece paraparlamentari o pseudoparlamentari le crisi per sfiducia tacita o implicita; F. PERGOLESI, Intervento al dibattito organizzato da Rassegna
parlamentare, 1960, II, 1, su «Le crisi di governo nel sistema costituzionale italiano», pp. 867-868, parla di crisi paraparlamentari con riferimento alle crisi originate da situazioni prodottesi fuori dal Parlamento, ma per fatti o atteggiamenti di membri dello stesso o con il loro concorso; E. CUCCODORO, «Considerazioni istituzionali sulla crisi», in Diritto e società, 1988, pp. 174-175, definisce
semiparlamentare la crisi alimentata da incidenti nelle Aule parlamentari ma non
matura al punto da scalfire formalmente il rapporto fiduciario. Va poi ricordato,
per completezza, che le crisi di governo possono essere classificate in base a criteri diversi. Ad esempio, A. RUGGERI, Le crisi di governo tra ridefinizione delle regole e rifondazione della politica , Milano, 1990, pp. 17 e segg., distingue tra crisi e pseudocrisi con riferimento alle modalità di chiusura della crisi; C. LAVAGNA,
Istituzioni di diritto pubblico, IV ed., 1979, p. 753, distingue le crisi in obbligatorie e facoltative; V. LIPPOLIS, «La parlamentarizzazione delle crisi», in Quaderni costituzionali, 1981, p. 154, distingue le crisi in rituali o formali (secondo la
terminologia proposta da G. GRASSO, «Note in tema di dimissioni del governo»,
in Giurisprudenza costituzionale, 1979, 1, p. 166), tali ritenendo quelle derivanti
da approvazione di mozione di sfiducia o da voto contrario delle Camere su un
argomento su cui il Governo abbia posto la questione di fiducia, e irrituali o non
formali, tali ritenendo tutte le altre, ulteriormente distinguendo in quest’ultima
categoria tra crisi parlamentari e crisi extraparlamentari, a seconda che siano provocate da voti delle Camere o da dibattiti parlamentari su strumenti del sindacato ispettivo, oppure discendano da eventi politici estranei all’attività delle Camere.
Il rinvio del Governo alle Camere
225
(2) In dottrina sono per la legittimità costituzionale delle crisi extraparlamentari, tra gli altri, P. BARILE (secondo il quale, però, tali crisi devono avere uno svolgimento ed una soluzione all’interno del Parlamento), F. PERGOLESI
(che le ritiene peraltro politicamente scorrette), V. CRISAFULLI, A. PREDIERI, tutti in AAVV., op. cit., pp. 834 e segg.; M. GALIZIA, op. cit., pp. 383-384; L. PALADIN, op. cit., p. 398; M. VILLONE, op. cit., p. 264; G. ZAGREBELSKY, «La formazione del governo nelle prime quattro legislature repubblicane», in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1968, pp. 838-839; A. PIZZORUSSO, Sistema
istituzionale del diritto pubblico italiano, 2° ed., 1992, pp. 213 e segg. Contra G.
MARANINI, in AAVV., op. cit., pp. 851 e segg.
(3) A. BOZZI, «Nomina, fiducia e dimissioni», in Rassegna parlamentare, 1960,
II, 1, p. 907, capovolge la prospettiva affermando che in sostanza tutte le crisi sono parlamentari in quanto accentuano la connessione tra Parlamento e partiti.
(4) In tal senso vd. G. PITRUZZELLA, «Il rinvio del governo dimissionario alle Camere. Rinvio e parlamentarizzazione delle crisi di governo», in Commentario della Costituzione, Il Consiglio dei ministri, art. 92-94, Bologna, 1994, p. 53;
S. LABRIOLA, «Dalle dimissioni volontarie alla formazione del governo per l’ordinaria amministrazione», in Giurisprudenza costituzionale, 1979, pp. 191 e segg.,
e «Ancora in tema di cd. parlamentarizzazione della crisi di governo per dimissioni volontarie», in Giurisprudenza costituzionale, an. 25, 1980, fasc. 2-4, p. I,
pp. 578 e 583.
(5) Cfr. C. DE CARO BONELLA, «Cronaca di una crisi annunciata», in Quaderni costituzionali, a. V, 1985, n. 3, p. 553.
(6) Cfr. V. LIPPOLIS, op. cit., p. 150: l’autore sottolinea infatti che «non è possibile individuare né un potere del Capo dello Stato di imporre al governo un dibattito parlamentare prima di presentare le dimissioni, né un obbligo del governo di identico contenuto». Anche S. LABRIOLA, nei suoi numerosi scritti sull’argomento, sottolinea la natura convenzionale della parlamentarizzazione: v., tra gli
altri, «Revoca del ministro e rapporto di fiducia (note sulla crisi del secondo governo Spadolini)», in Rivista trimestrale di diritto pubblico, an. 32, 1983, fasc. 3,
p. 816. Contra A. RUGGERI, op. cit., p. 150, che esclude una consuetudine in ordine alla parlamentarizzazione delle crisi, pur riconoscendo che la tendenza a riportare le stesse in Parlamento ha ricevuto una forte spinta durante la Presidenza Pertini.
(7) C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, I, Padova, 1975, p. 575, ritiene invece che la crisi si trasformi da extraparlamentare in parlamentare.
(8) Cfr. V. LIPPOLIS, op. cit., p. 147.
(9) Cfr. V. LIPPOLIS, op. cit., p. 147 e S. LABRIOLA, Dalle dimissioni volontarie, cit., p. 188.
(10) In tal senso vd. L. PALADIN, voce Presidente della Repubblica, in Enciclopedia del diritto, vol. XXXV, 1986, pp. 165 e segg.
226
Antonella Vercesi
(11) Tale è quella operata da Labriola in numerosi scritti sull’argomento, qui
ampiamente citati.
(12) Cfr. S. LABRIOLA, «Crisi di governo, crisi del procedimento, o crisi della
forma di governo?», in Diritto e società, 1989, p. 627. In senso sostanzialmente
conforme S. TRAVERSA, op. cit., p. 350. Questa distinzione è ripresa da G.
PITRUZZELLA, op. cit., pp. 52-53.
(13) Così C. DE CARO BONELLA, op. cit., p. 553.
(14) Pur se taluni autori, come ad esempio A. RUGGERI, nella sua opera già citata, delineano una fattispecie di parlamentarizzazione assai ampia, che comprende anche i vari casi di rinvio.
(15) Cfr. C. DE CARO BENELLA, op. cit., p. 553.
(16) È di questo avviso S. TOSI, «Prassi inconsueta», in Il resto del Carlino del
26 ottobre 1985, citato da S. LABRIOLA, «Dimissioni del governo, reincarico, rinvio alle Camere: un difficile esordio della Presidenza Cossiga», in Giurisprudenza costituzionale, an. 30, 1985, fasc. 10, p. 2087, nota 32.
(17) In tal senso v. V. LIPPOLIS, op. cit., p. 149.
(18) Ciò perché in tale ipotesi, se non si dovesse accedere al rinvio, non resterebbe che ripercorrere la via, in qualche msura singolare, del «governo-fotocopia» Spadolini: precedente — peraltro rimasto unico — che fu a suo tempo
giustificato sulla base di una novazione essenziale dell’accordo tra le parti politiche che a tale governo davano vita. Al riguardo, cfr. il testo delle dichiarazioni
programmatiche del secondo governo Spadolini, in Resoconto stenografico della
Camera dei deputati del 30 agosto 1982. Tuttavia, come osserva A. RUGGERI, op.
cit., p. 69, nota 45, se pure il cosiddetto «decalogo istituzionale» differenziava in
qualche modo l’indirizzo del Governo — che invece si presentava identico al
precedente sia nel premier che nella compagine ministeriale —, tale indirizzo si
manteneva però sostanzialmente intatto nella sua parte più squisitamente politico-sostanziale.
(19) Cfr. S. LABRIOLA, Dimissioni del governo, cit., pp. 2076 e segg.
(20) Cfr. S. LABRIOLA, Dimissioni del governo, cit., p. 2086. È da ricordare, peraltro, che in questo tipo di rinvio, come in generale nella parlamentarizzazione,
scopo prevalente del passaggio parlamentare è l’assunzione di responsabilità delle forze politiche.
(21) Cfr. C. DE CARO BONELLA, op. cit., p. 562.
(22) Di tali perplessità si fece portavoce S. TOSI, op. cit.
(23) Vd. S. LABRIOLA, Dimissioni del governo, cit., p. 2087, nota 32.
(24) Così rileva C. DE CARO BONELLA, op. cit., p. 562.
(25) In tal senso S. TRAVERSA, op. cit., p. 350.
Il rinvio del Governo alle Camere
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(26) V. in tal senso G. PITRUZZELLA, op. cit., p. 56. Contra A. RUGGERI, op. cit.,
p. 150.
(27) Così G. PITRUZZELLA, op. cit., p. 56.
(28) Cfr. S. LABRIOLA, Dimissioni del governo, cit., p. 2088.
(29) In questo filone dottrinale si inseriscono, tra gli altri, L. PALADIN, op. cit.,
p. 400; M.L. MAZZONI HONORATI, Lezioni di diritto parlamentare, 2° ed., Torino,
1993, pp. 353 e segg.; T. MARTINES, Diritto pubblico, 3° ed., 1995, p. 158, il quale ritiene che, se il Governo rifiuta «con sufficienti motivazioni» di presentarsi alle Camere, il Presidente della Repubblica deve accettare le dimissioni; C. MORTATI, op. cit., pp. 576-577, il quale ritiene che il rifiuto del Governo di aderire all’invito del Presidente della Repubblica sia scorretto, ma «solo indirettamente
potrebbe venire colpito da sanzioni politiche», peraltro distinguendo tra due tipi di rifuto: quello puro e semplice, «non solo scorretto, ma lesivo di esigenze
fondamentali del sistema», e quello fondato «sulla considerazione della sufficienza degli elementi di giudizio emergenti dalla situazione politica»; G.
PITRUZZELLA, op. cit., p. 57; S. LABRIOLA, Dimissioni del governo cit., p. 2086, che
parla di consenso indispensabile del Governo; A.A. ROMANO, La formazione del
governo, Padova, 1977, pp. 57 e segg.; G. ZAGREBELSKY, op. cit., p. 839.
(30) Per la posizione iniziale cfr. l’intervento in AAVV., Le crisi di governo, cit.,
pp. 834-835; per la successiva v. Istituzioni di diritto pubblico, 6° ed., Padova,
1991, p. 315. L’obbligo di parlamentarizzare le crisi di governo è affermato anche da C. LAVAGNA, op. cit., pp. 753-754.
(31) Cfr. A. RUGGERI, op. cit., p. 72.
(32) Cfr. G. PITRUZZELLA, op. cit., p. 59, secondo il quale la decisione di non
accogliere le dimissioni «non sembra che possa essere sottratta al regime della
‘controfirma tacita’, onde il tacito assenso del Presidente del Consiglio dimissionario deve attestare che la scelta di non accogliere le dimissioni è stata presa in
collaborazione tra i due organi, ciascuno dei quali opera nell’ambito delle rispettive competenze»; A.A ROMANO, op. cit., p. 63; cfr. pure P. VIRGA, La crisi e
le dimissioni del gabinetto, Milano, 1948, p. 30, nota 47, secondo il quale il Presidente della Repubblica può respingere le dimissioni solo se a ciò non si
opponga il governo dimissionario perché «ove questo non acconsentisse,
mancherebbe un organo che assuma la responsabilità dell’atto di rifiuto delle
dimissioni».
(33) Cfr. A RUGGERI, op. cit., pp. 73-75.
(34) Cfr. S. LABRIOLA, Dimissioni del governo, cit., p. 2088, il quale osserva che
infatti il Presidente del Consiglio non potrebbe decidere unilateralmente il ritiro delle dimissioni.
(35) A. RUGGERI, op. cit., p. 168, nota 137, ritiene che il rinvio non sarebbe
incompatibile con una situazione per cui il Capo dello Stato «si riserva di deci-
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Antonella Vercesi
dere» in merito all’accoglimento delle dimissioni del Governo, ma aggiunge che
«nella prassi il rinvio è stato sempre ‘rafforzato’ ed irrigidito dalla previa reiezione (o dal non accoglimento) delle dimissioni» stesse.
(36) Per una valutazione critica di tale impostazione, v. A. RUGGERI, op. cit.,
pp. 71-72.
(37) Per questa tesi cfr. G. ZAGREBELSKY, op. cit., p. 844.
(38) V. C. MORTATI, op. cit., p. 576, il quale rileva come il Capo dello Stato
non abbia mezzi legali per opporsi alle dimissioni; M. VILLONE, op. cit., p. 269.
(39) Tale rilievo si deve a S. LABRIOLA, Dimissioni del governo, cit., p. 2088.
(40) In realtà, già nel 1948, all’indomani dell’elezione del primo Parlamento
repubblicano, si registrò il rinvio alle Camere del quarto governo De Gasperi, ma
in questo caso si trattò di dimissioni «di ossequio» verso il nuovo Presidente della Repubblica e la ripresentazione al Parlamento ebbe luogo in quanto, respinte
le dimissioni, fu operato un rimpasto, per cui dopo il voto di fiducia il Governo
venne considerato nuovo rispetto al precedente.
(41) Cfr. il comunicato della Presidenza della Repubblica del 22 giugno 1957.
Per i comunicati della Presidenza della Repubblica relativi ai casi di reiezione o
di non accoglimento delle dimissioni del Governo e di rinvio dello stesso alle Camere v. A. RUGGERI, op. cit., pp. 207 e segg. Il Mortati, op. cit., p. 572, nota 1,
ritiene che l’iniziativa presidenziale sia da condividere poiché «trattandosi di dare esecuzione al programma di governo concordato, l’interesse preminente deve
considerarsi quello di soddisfare le attese del paese, quali valutate con la formulazione del programma stesso».
(42) Così ebbe a precisare il Presidente del Senato Fanfani nella seduta del 3
marzo 1987, a conclusione del dibattito che precedette il rinvio alle Camere del
secondo governo Craxi.
(43) Cfr. Resoconto stenografico della Camera dei deputati del 25 e 26 giugno
1957 e Resoconto stenografico del Senato del 25 e 27 giugno 1957.
(44) Nel comunicato della Presidenza della Repubblica del 3 febbraio 1959 si
legge altresì che «il Presidente della Repubblica, dopo matura riflessione, ha ritenuto opportuno respingere le dimissioni, invitando il governo a presentarsi senza indugio al Parlamento per chiederne la fiducia». Da un ulteriore comunicato
del 5 febbraio risulta che il Presidente del Consiglio «ha comunicato con suo vivo rammarico che egli non giudica di poter recedere dalle dimissioni ed ha illustrato i motivi anche personali che lo inducono a questa decisione». Su questo
rinvio v. M. BON VALSASSINA, «Osservazioni a margine di una recente crisi», in
Foro italiano, 1959, IV, pp. 82 e segg.
(45) Nel comunicato del Quirinale del 23 aprile 1960 si legge che «il Presidente della Repubblica, non accogliendo le dimissioni, ha invitato l’onorevole
Tambroni ed il governo da lui presieduto a presentarsi senza indugio al Senato
della Repubblica per gli adempimenti prescritti dall’articolo 94 della Costituzione».
Il rinvio del Governo alle Camere
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(46) Per la discussione conseguente al rinvio al Senato di questo governo cfr.
Resoconto stenografico del Senato del 27, 28 e 29 aprile 1960.
(47) Allo stesso fine, sempre nella seduta del 17 giugno, venne altresì presentata dal gruppo missino una questione sospensiva, dichiarata improponibile in
base a «precedenti analoghe circostanze di conversione di decreti-legge». Cfr. Resoconto stenografico della Camera dei deputati del 17 e 18 giugno 1974.
(48) Cfr. Resoconto stenografico della Camera dei deputati del 27 e 28 giugno
1974 e Resoconto stenografico del Senato del 1° e 2 luglio 1974.
(49) Si tratta dell’ordine del giorno Mancino ed altri, approvato nella seduta
dell’8 novembre 1985.
(50) Per questa tesi v. G. PITRUZZELLA, op. cit., p. 54. Su tale rinvio v. anche
S. LABRIOLA, Revoca del ministro, cit., pp. 802 e segg., e G. LONG, «Crisi ‘parlamentari’ vere e false», in Quaderni costituzionali, 1982, pp. 666 e segg.
(51) Tale comunicato è dell’11 novembre 1982. Per la discussione conseguente
al rinvio cfr. Resoconto stenografico della Camera dei deputati del 12 e 13 novembre 1982.
(52) Così si legge nel comunicato della Presidenza della Repubblica del 31 ottobre 1985. La crisi si era resa inevitabile a causa delle dimissioni dei ministri e
sottosegretari repubblicani. Il 17 ottobre 1985 Craxi rendeva comunicazioni alla Camera sulla vicenda dell’Achille Lauro nel corso delle quali annunziava le dimissioni del Governo. Tale annunzio precludea il dibattito richiesto in apertura
di seduta da numerosi gruppi. Il Presidente della Camera riteneva inoltre improponibile una risoluzione del gruppo radicale tendente a parlamentarizzare la
crisi perché, a norma di Regolamento, tale strumento presuppone un dibattito,
che invece in questo caso «non può nemmeno iniziare». Cfr. Resoconto stenografico della Camera dei deputati del 17 ottobre 1985. Sulla mancata parlamentarizzazione di questa crisi e sulle relative polemiche v. C. DE CARO BONELLA, op.
cit., pp. 551 e segg; V. LIPPOLIS, «Parlamento e apertura delle crisi di governo: il
discutibile precedente della crisi (rientrata) del governo Craxi (nell’ottobre
1985)», in Diritto e società, 1986, fasc. 2, pp. 395 e segg.; P. CALANDRA, «La crisi
‘rientrata’ del governo Craxi», in Quaderni costituzionali, an. V, n. 3, 1985,
pp. 546-551; S. LABRIOLA, Dimissioni del governo, cit., pp. 2076 e segg.
(53) Elemento, questo, che però non modifica la natura del rinvio successivamente disposto.
(54) Alla Camera nella seduta del 4 novembre 1985 veniva annunziato il rinvio e iniziava la discussione sulle comunicazioni del Governo. Al Senato lo stesso giorno vi era l’annunzio del rinvio, mentre il dibattito iniziava il 7 novembre,
all’indomani della conclusione della discussione alla Camera.
(55) Cfr. Resoconto stenografico della Camera dei deputati del 4 novembre
1985. Tale decisione del Presidente della Camera diede luogo ad un dibattito in-
230
Antonella Vercesi
cidentale in quanto il deputato Pannella, intervenendo per richiamo al Regolamento, lamentò l’introduzione di un’eccezione inammissibile alla parità dei deputati in ordine al diritto di intervento e invitò la Presidenza a consentire a tutti i deputati di parlare per un’ora. Il Presidente replicò sottolineando la diversità
tra il dibattito in corso e quello fiduciario, anche in merito alla durata degli interventi, e precisò che la deroga alle norme ordinarie avrebbe riguardato l’oratore scelto da ciascun gruppo. Poiché il deputato Pannella insistette nel suo richiamo al Regolamento, dopo l’intervento di un oratore contro e uno a favore,
ai sensi del comma 1 dell’articolo 41 del Regolamento, il richiamo stesso fu posto in votazione e respinto.
(56) Si tratta delle risoluzioni Napolitano ed altri n. 6-00058 (poi ritirata),
Gorla ed altri n. 6-00060 e Pannella ed altri n. 6-00061. Da notare che, su richiesta dei deputati Napolitano e Rutelli, il Presidente del Consiglio espresse il
proprio giudizio sulle risoluzioni di cui gli stessi erano firmatari. Per la discussione su questo caso di rinvio cfr. Resoconto stenografico della Camera dei deputati del 5 e 6 novembre 1985 e Resoconto stenografico del Senato del 7 e 8 novembre 1985.
(57) Cfr. la nota del Quirinale letta dal Presidente del Consiglio Craxi al Senato nella seduta dell’8 aprile 1987.
(58) In tal senso v. A. D’ANDREA, «Il rinvio del II governo Craxi alle Camere
e il dibattito parlamentare », in E. BALBONI, F. D’ADDABBO , A. D’ANDREA, G.
GUIGLIA, La difficile alternanza, Milano, 1988, pp. 116-117. Su questo rinvio v.
anche P. ARMAROLI, «1987: Crisi di governo», in Scritti in onore di M.S. Giannini, vol. II, Milano, 1988.
(59) V. su questo punto lo scambio di lettere tra il Presidente della Camera
Iotti e il Presidente del Senato Fanfani pubblicato da Il giornale d’Italia del 4 e
5 aprile 1987.
(60) Cfr. Resoconto stenografico del Senato dell’8 e 9 aprile 1987.
(61) Cfr. Resoconto stenografico della Camera dei deputati dell’8 aprile 1987.
(62) Cfr. i comunicati della Presidenza della Repubblica del 31 ottobre 1985
e del 18 novembre 1987.
(63) Al Senato furono presentate, oltre alla proposta di risoluzione Mancino
ed altri n. 6-00013, su cui il Governo aveva posto la questione di fiducia, le proposte di risoluzione Pecchioli ed altri n. 6-00014, Boato ed altri n. 6-00015 e Spadaccia ed altri n. 6-00016, risultate precluse. Alla Camera la questione di fiducia
fu posta sulla risoluzione Martinazzoli ed altri n. 6-00016, la cui approvazione
precluse le risoluzioni Mattioli ed altri n. 6-00014 e Ronchi ed altri n. 6-00015.
Cfr. Resoconto stenografico del Senato del 20 e 21 novembre 1987 e Resoconto
stenografico della Camera dei deputati del 23, 24 e 25 novembre 1987.
(64) Così si legge nel comunicato della Presidenza della Repubblica del 13
febbraio 1988. Il governo Goria si era dimesso per la seconda volta il 10 feb-
Il rinvio del Governo alle Camere
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braio, dopo che la Camera aveva respinto lo stato di previsione del Ministero delle finanze nel corso dell’esame del bilancio di previsione per l’anno 1988, a conclusione di una serie di votazioni negative per il Governo. Su questa crisi v. E.
CUCCODORO, op. cit., pp. 171 e segg.
(65) Cfr. la lettera inviata il 16 febbraio 1988 dal Presidente della Camera Iotti al Presidente del Senato Spadolini riportata in Circolari e disposizioni interpretative del regolamento emanate dal Presidente della Camera (1979-1992), Segreteria generale-Ufficio del Regolamento della Camera dei deputati, p. 159.
(66) La questione venne sollevata nella seduta del 18 febbraio 1988 dal deputato Franco Russo, del gruppo di Democrazia proletaria, intervenuto per un
richiamo agli articoli 41 e 118 del Regolamento e 94 della Costituzione. Per la
discussione relativa a questo rinvio cfr. Resoconto stenografico della Camera dei
deputati del 17 e 18 febbraio 1988 e Resoconto stenografico del Senato del 19
febbraio 1988.
(67) Cfr. il discorso pronunciato dal Presidente del Consiglio Dini alla Camera in Resoconto stenografico della Camera dei deputati del 9 gennaio 1996.
(68) Ciò era avvenuto nel gennaio 1995, in occasione del dibattito sulla fiducia, e nell’ottobre dello stesso anno. In particolare, il 23 gennaio 1995, nell’intervento pronunciato nell’aula di Montecitorio al momento della presentazione
alle Camere, il Presidente del Consiglio Dini affermava : «Per dissipare equivoci e fraintendimenti, confermo che il governo considererà esaurito il proprio
compito non appena saranno esauriti i quattro impegni assunti come parte essenziale del proprio programma». I quattro impegni cui Dini si riferisce sono la
riforma della legge elettorale regionale, la par condicio nell’utilizzo dei mezzi di
informazione nel periodo elettorale, la riforma del sistema previdenziale e la manovra correttiva di finanza pubblica. Alla Camera, inoltre, il 26 ottobre 1995 il
Presidente del Consiglio, nel corso della discussione della mozione Berlusconi ed
altri di sfiducia al Governo, preannunziava che dopo l’approvazione della legge
finanziaria avrebbe rimesso il proprio mandato nelle mani del Capo dello Stato.
Cfr. Resoconto stenografico della Camera dei deputati del 23 gennaio e del 26 ottobre 1995.
(69) Per la discussione su questo rinvio cfr. Resoconto stenografico della Camera dei deputati del 9, 10 e 11 gennaio 1996. Le risoluzioni cui si fa riferimento
sono le risoluzioni Gnutti n. 6-00045, Mattioli ed altri n. 6-00046, Bertinotti ed
altri n. 6-00047, Bordon ed altri n. 6-00048, Crucianelli ed altri n. 6-00049, Segni n. 6-00050, Andreatta ed altri n. 6-00051 e Berlusconi ed altri n. 6-00052,
pubblicate nell’allegato A ai resoconti della seduta dell’11 gennaio 1996.
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