Vita di Edoardo Secondo d’Inghilterra - Andrea Baracco
di Sarah Curati - Paperstreet
Teatro Vascello, Roma - 21 settembre 2015
“Trovami
uno
spettatore
in
sala
che
non
sia
un
regista
o
un
attore”
Basta questa frase captata per caso nel brusio di un teatro Vascello in grande fermento a
fotografare perfettamente la situazione in sala. In effetti, sembra che una buona parte della
comunità teatrale capitolina si sia riunita per andare in gita scolastica, e invece no! siamo tutti a
vedere Vita di Edoardo II d’Inghilterra di Andrea Baracco, nella versione di Brecht, a sua volta
mutuata da Marlowe.
Sicuramente, questo è un pubblico che conosce il grande drammaturgo tedesco, con la cui
scrittura Baracco si confronta per la prima volta, avvicinandosi così a una visione del teatro molto
diversa dalla propria. Se infatti la sua regia mira a toccare le corde emotive degli spettatori,
grazie anche a espedienti visualmente accattivanti, il teatro epico di Brecht – in questo testo agli
albori - richiede invece un distacco “critico” dalla vicenda, in grado di scaturire riflessioni ulteriori.
Come
collidono
questi due
mondi, apparentemente
agli antipodi, in
scena?
All’apertura del sipario, i personaggi principali attendono tutti sul palco in abiti verosimili di
una Londra del 1307 (costumi di Marta Genovese), anno in cui si svolge l’azione, che si protrae
per quasi vent’anni. Un narratore inventato, il personaggio più “brechtiano” in questo senso che
tradisce la volontà del racconto, guida verso la tragica storia di re Edoardo II e del suo amore nei
confronti del suo favorito, Gaveston, ostacolato dai Pari d’Inghilterra – primo fra tutti l’erudito
Mortimer -, mentre una regina Anna inquieta e raminga vive lo strazio di un amore non corrisposto.
Come una nuova Elena di Troia, Gaveston, ragazzaccio di strada in chiodo nero, è la miccia
che scatena la guerra.
L’Inghilterra ristagna in acque torbide: accordi elettronici martellanti seguiti da più malinconiche
note al pianoforte scandiscono intrighi di corte, corruzione, lascivia omoerotica e non solo; luci
dense e cupe si riverberano sui volti della cupidigia (disegno luci Javier Delle Monache), la ragione
viene accantonata in favore di una pulsione dilagante che pretende di ergersi a guida. Gli eventi
scorrono veloci lungo le lancette di un orologio gigante; così re Edoardo, dopo la morte del suo
favorito, ricompare in scena imprigionato da funi che lo legano al suo trono trascinandolo dietro di
sé come fosse una sua escrescenza personale: è imprigionato nel suo amore come nel suo regno,
in una capricciosa ostinazione a non abdicare.
Come gettati in un’arena, gli attori creano una frizione emotiva attraverso un contatto fisico
intenso, un movimento che assorbe su di sé la parola, in un mondo trasfigurato simbolicamente
dove ogni elemento evoca stati d’animo diversi: la terra, “il sangue nero”, la valigia di Anna, i libri di
Mortimer. Mentre le scene si susseguono, nelle dinamiche relazionali dei personaggi Baracco
indaga le ragioni che li portano verso il proprio inferno: gli anni passano, i vestiti si sgualciscono, la
psiche si logora in un progressivo incedere di balbettii, risate isteriche, vaneggiamenti. Tutto
capitola verso l'inevitabile fine, in un ultimo bozzolo di plastica che racchiude per sempre le tre
figure di Edoardo, Anna e Mortimer, contrappasso infame che li condanna a stare vicini come non
lo sono mai stati nella vita.
Baracco rimane quindi fedele al testo e alle intenzioni di Brecht, coniugandolo però con la propria
cifra stilistica. Se il testo si presta bene a rappresentare il contemporaneo, come sottolineano le
note di regia - e in fondo è un discorso che vale per tutti i grandi classici -, tuttavia in questa lettura
appassionata e di fine introspezione psicologica, che si avvale di un gruppo di attori affiatati e
talentuosi (Mauro Conte, Aurora Peres, Nicola Russo, Francesco Sferrazza Papa, Marco Vergani,
e fra cui spicca Gabriele Portoghese nei panni di re Edoardo per la sua capacità di dosare le
emozioni senza cadere nell’urlo facile), sembra mancare quello slancio ulteriore capace di riflettere
davvero il “caos morale” dei nostri tempi.
Chi va a teatro oltre a chi il teatro lo fa? E può questo teatro sfondare gli argini che esso stesso si
è costruito? Lo spettatore fortunato dell’inizio certo si dimenticava di un’altra categoria presente in
sala – quella dei cosiddetti critici – o per lo meno chi ci prova. Non sapeva che anche loro, al suo
pari, si stavano chiedendo esattamente la stessa cosa.