La mente tra le teste. Interpretazionismo radicale Pietro Perconti Dipartimento di scienze cognitive, Università di Messina [email protected] Il senso comune fornisce due dati contrastanti sulla questione della sede della mente. Da una parte si immagina che la mente sia una creatura immateriale e come tale priva di collocazione spaziale; d’altra parte la si pone in modo abbastanza netto nella testa delle persone. La «topologia» della mente è un problema anche per l’atteggiamento scientifico, oltre che per il senso comune. Immaginare che la mente sia in un luogo piuttosto che in altro, infatti, ha ripercussioni profonde sulla ricerca scientifica. La posizione di gran lunga predominante a questo riguardo segue il senso comune nell’immaginare che le menti siano nelle teste. Questa posizione ha due fonti principali: la diffusione della posizione filosofica nota come solipsismo metodologico e le più recenti acquisizioni delle neuroscienze. Per quanto riguarda quest’ultima fonte i dati, per esempio quelli provenienti dalle tecniche di visualizzazione cerebrale, rendono semplicemente stravagante la tesi che i processi psicologici abbiano luogo in un posto diverso dal cervello. Il solipsismo metodologico è la tesi secondo cui non è necessario presuppone l’esistenza di alcun individuo oltre il soggetto cui è attribuito un certo stato psicologico per la possibilità dell’individuazione di quello stato psicologico. Intrattenere pensieri, in questa prospettiva, è una faccenda completamente privata che potrebbe aver luogo anche in una condizione di totale isolamento. Tutto quello che serve per l’individuazione di uno stato mentale è la testa del soggetto pensante. A questo modo di ragionare sono stati contrapposti molti argomenti che intendono evidenziare la pertinenza dei fattori ambientali nella individuazione del contenuto degli stati mentali. L’esternismo, con la sua tipica tesi che i significati e i concetti non sono nella testa, è probabilmente il più noto. Questa tesi, tuttavia, non mette realmente in discussione l’idea che la sede della mente sia nella testa. Essa infatti è compatibile con la possibilità che la sede dalla mente sia nella testa, purché si aggiunga la clausola che un aspetto di certi suoi prodotti è determinato dall’ambiente. Una sfida ben può pericolosa viene invece dall’interpretazionismo, ossia dalla tesi che parlare di stati mentali non è altro che parlare di certe strategie per la loro attribuzione. Questa posizione è stata sviluppata soprattutto nell’atteggiamento intenzionale di Daniel Dennett e nel simulazionismo. Le due prospettive appena menzionate hanno in comune il fatto di descrivere l’attività mentale in termini attributivi piuttosto che realistici. Il punto non è tanto stabilire cosa passa realmente per la testa delle persone, ma quali attribuzioni conviene fare e in base a quali criteri di efficacia. Quello che conta è l’attività interpretativa in cui siamo impegnati quando ci sforziamo di leggere nella mente delle altre persone, piuttosto che ciò che stiamo presumibilmente interpretando. Prendendo spunto da queste posizioni nel mio intervento vorrei proporre una versione radicale di interpretazionismo che consiste nella tesi che avere uno stato psicologico è questione di essere a un capo del processo attributivo appropriato. Lo slogan intorno a cui vorrei costruire l’argomento è che le menti, piuttosto che abitare nelle teste, si trovano tra le teste delle persone, ossia nelle pratiche sociali attributive. Nella prospettiva dell’interpretazionismo radicale non importa tanto il legame causale che eventualmente esiste tra lo stato psicologico e qualche fatto dell’ambiente, né il processo nervoso in cui tale stato consiste. La strategia dell’interpretazione è una strategia normativa e come tale refrattaria ai tentativi di ricondurre uno stato psicologico a qualcosa di non psicologico che lo ha determinato. Avere una certa credenza, per esempio, vuol dire soltanto che qualcuno sta attribuendo quella credenza. Per saggiare le possibilità di questo modo di ragionare vorrei mostrare alcuni casi in cui l’attribuzione di stati psicologici precede e determina la stessa loro presenza “reale”. Sono utili in questa direzione i casi dell’attribuzione degli stati intenzionali nei bambini piccoli e il recupero che talvolta avviene delle persone in coma in seguito alla sovrainterpretazione delle loro capacità mentali. Vorrei infine distinguere tra l’interpretazionismo radicale, che è la posizione in favore della quale vorrei argomentare, e l’interpretazionismo sfrenato, la posizione secondo cui qualsiasi cosa venga considerata come una mente lo diventa davvero per il solo fatto di essere oggetto di una attività attributiva di tipo psicologico. Per evitare queste indesiderabili conseguenze dell’interpretazionismo cercherò di illustrare alcune limitazioni della strategia dell’interpretazione, soprattutto di tipo biologico e sociale.