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Pubblicato il 03 Aprile 2012
Libri con musica... delle sfere
Margherita Hack, 'Il cielo intorno a noi'
Recensione di Sergio Stancanelli
La grande stima che nutro per la signora Margherita Hack mi spinse qualche anno addietro ad
acquistare dall’antiquario piemontese Bergoglio, per 8 euro dei 10 chiestimi, il suo libro “il cielo
intorno a noi”, 92 pagine formato atlante piccolo, collana Nuovi documentari dell’Istituto geografico
De Agostini di Novara, rilegato, con in prima di copertina un appezzamento di cielo stellato, e sùbito in
apertura del libro su doppia pagina la Terra vista da un mare della Luna.
La lettura del testo - e la consultazione del libro in generale, poi che una buona metà dello spazio è
occupato da fotografie, disegni e tabelle a colori, - mi occupò per tre mesi, con esiti deludenti in
quanto l’intento divulgativo risultava per me banalizzato dalla avvenuta lettura, a partire da una
cinquantina di anni prima, di testi pur divulgativi ma ad un livello assai più complesso, come quelli
editi da Bompiani in “Avventure del pensiero” a firma fra gli altri di Fred Hoyle, alle cui opere
scientifiche - da non confondere con i romanzi di fantascienza - la Hack dedica già nella prima pagina
un intero capoverso, per ricordarlo poi ancora quasi alla fine del libro (pag. 81). E dalle conversazioni
avute con fisici, astrofisici, astronomi, astrofili, e appassionati.
Non mancano invero osservazioni acute, ed anche divertenti, come quando ricorda, l’autrice, che secondo gli antichi le stelle
esistono per attestare la gloria di Dio, quando non sono esse stesse le divinità: e nega che non servano a niente, infatti …
aiutano ad orientarsi, contrassegnano le stagioni, stabiliscono il calendario. A tale proposito, scrive fra l’altro «Massoni»
facendo pensare ad un antico scienziato di tal cognome mentr’invece allude semplicemente ai massoni, adepti alla società
segreta della massoneria; e cita «Rosacroce» senza spiegare all’incolto, in un libro privo di un indice dei nomi, di cosa si
tratti: poi che siamo nella musica, sarei tentato di suggerire a chi non sappia e sia interessato, di rivolgersi ad Erik Satie, ma
spenderò poche parole per ricordare che Rosecroix fu una confraternita leggendaria fondata agl’inizi del ‘600, pare, da
Christian Rosenkreutz per raccogliere e tramandare superstizioni, alchimia, astrologia e cabala. Dispiace al cronista non
poter nascondere che vi finì dentro anche Tommaso Campanella con il suo utopistico, comunistico e teocratico “La città del
Sole” (nome comune secondo “L’universale”, Garzanti per “Il giornale”, Milano, 2003).
Quanto al musicista francese, nel 1968 furono ritrovati di sua mano tre pezzi per pianoforte titolati “Sonneries de la RoseCroix” composti nel 1891 in occasione della sua adesione alla società dell’ordine del Tempio di cui era profeta Josephin
Péladan detto le Sâr. I tre pezzi sono “Air de l’Ordre”, “Air du Grand maître” (le Sâr) e “Air du Grand prieur” (le comte Antoine de
la Rochefoucauld) e vennero registrati da France Clidat in una riduzione (11’30”) nel Centre musical Bosendorfer in Paris nel
maggio 1982 su microsolco Forlane. Erano però già stati eseguiti in pubblico dal pianista Reinhold De Leew nella versione
integrale dei manoscritti (15’06”) con i titoli tradotti in inglese: “Air of the Order”, “Air of Grand master” e “Air of Head prior”: il
nastro con la registrazione venne acquisito dalla Radio italiana per il Quinto canale della filodiffusione che lo mise in onda la
prima volta il 24 dicembre 1982. L’interpretazione della Clidat invece fu trasmessa da Radiotre soltanto il 23 agosto 1986, e il
“Radiocorriere” l’annunciò come «Sonnerie de la Rose - Crois» (sic).
Già nella seconda pagina di testo si legge una di quelle affermazioni che, mentre incontrano il consenso degli astrofili,
muovono l’incredulità, voglio dire la meraviglia ed il compiacimento degli incompetenti: «Non soltanto ci si propone ormai di
abitare sui pianeti o in colonie spaziali, ma anche su asteroidi, comete e persino stelle. C’è chi pone il raggiungimento di
questi obiettivi in un futuro assai prossimo: ma anche se occorressero dei secoli, non v’è dubbio che ci arriveremo». A parte
le stelle, dalle quali si potrà forse trarre materiali da costruzione ma non andare ad abitarvi, il cronista scrisse le stesse cose
in un articolo pubblicato nel Maggio 1970 sulla rivista svizzera “Cenobio” diretta da P. Riccardo Frigeri, poi ripreso da vari
giornalisti fra cui Tullio Cicciarelli per la terza pagina del quotidiano “Il lavoro” di Genova, J. Pierre Jouvet capo redattore
“L’arena” di Verona, Mino Milani vicedirettore “La provincia pavese”, G. Battista Foti direttore “Il gazzettino del Jonio” di
Catanzaro, Angelo Caruso direttore “La gazzetta” di Catania, Giuseppe M. Valveri direttore “Il domani” di Palermo, Baldassarre
Molossi direttore “La gazzetta di Parma”, e probabilmente altri: «Possiamo preconizzare la costruzione di capaci navi spaziali
che trasferiscano la terrestre umanità su qualche pianeta del nostro o di un altro sistema stellare».
Inutile annotare che la Hack scrive con l’iniziale maiuscola i nomi Sole, Terra, Luna. Per lo meno, quasi sempre: in pagina 10
le sfugge una luna, in pagina 32 un’altra, in pagina 12 una terra, che ci aveva già stupito in pagina 6 - la prima del testo - e
che altrettanto farà - e per due volte consecutive! - in pag. 80; in pagina 27 chiama lune gli altri satelliti del nostro come di altri
sistemi planetarî, e in pagina 35 i due satelliti di Marte. Non basta: in pagina 40 abbiamo anche un sole. Per altro, quando la
Luna è piena scrive maiuscolo anche l’aggettivo.
Racconta la storia della stima dello splendore delle stelle cominciando da Ipparco e la costellazione dello Scorpione, ma
non spiega mai cosa s’intenda per costellazione: che è una figura immaginaria - ideata dall’immaginazione del mitologico
centauro Chirone al dire di Clemente d’Alessandria e di Isaac Newton, - che si ottiene congiungendo i puntini luminosi non
solo di stelle, ma anche di pianeti, e quel più importa - e nessuno sa - di galassie altresì, che lontanissime appaiono ad
occhio nudo con la luminosità di una stella: come nei giochini di punti numerati da congiungere nei passatempi
d’enigmistica. Alcune delle magnitudini indicate in pagina 9 non corrispondono a quelle che risultano a chi scrive. Così,
Sirio, che è la stella più splendente dell’intero cielo, e che in realtà è una stella doppia, vien data di magnitudine - 1,6 (a me
risulta - 1,4), Venere al suo massimo splendore - 4,08 (al suo massimo splendore - 4,4), Marte sempre al suo massimo -
1,24 (qui la differenza è notevolissima, a me risulta - 2,8), Sole apparente media - 26,6 (- 26,7), Luna piena - 12,5 (- 12,7).
L’unica che corrisponde con quella annotata nelle mie schede è la magnitudine di Antares, + 0,9 (+ 0,9 - 1,0).
Cita Paul Couderc senza dirci chi sia, forse un antico astronomo, o un poeta, un filosofo, o magari un suo amico (è mio
fratello Aldo che mi informa trattarsi di un astronomo francese, nato nel 1899 e morto nel 1981); accoglie il termine Cinosura,
al quale io sostituirei Chinosura, o Kinosura, poi che cane in greco si dice κυνος ; qualche sgrammaticatura le sfugge,
«affinché i pianeti e i loro satelliti seguitavano a girare in perpetuo», «l’ipotesi che le particelle cariche venivano intrappolate
dal campo magnetico», qualche più e qualche tuttavia fuori luogo (pag. 14, 1ª colonna); qualche piccolezza come le virgole
fuori posto, e qualche refuso talmente grosso da risultare di tutta evidenza («il mantello della Terra è spesso 2.900
chilometri »: per quanto risulta dai sismogrammi, il mantello è spesso mediamente 35 chilometri, e insieme con la
sovrastante crosta con cui costituisce la litosfera, arriva a una profondità massima di un centinaio di chilometri). A questo
punto smetto di controllare, perché sennò per recensire il libro impiego dieci volte il tempo che ho impiegato per leggerlo:
però consiglierei all’autrice di revisionarlo, in quanto altri dati odorano di refusi. Così, la massa complessiva degli strati
atmosferici che si estendono nello spazio per oltre 2mila chilometri via via rarefacendosi, ammonterebbe a 5.6 milioni di
miliardi di tonnellate. Per carità, sarà proprio così: ma a me sembra inattendibile.
Ad esplorare Venere, la Hack manda un b atiscafo attrezzato per resistere non solo a calore e a pressioni enormi, ma anche
alla corrosione prodotta dall’acido solforico. Dovrebbe resistere anche all’acido cloridrico, perché se i francesi Pierre e
Janine Connes nel 1967 scoprirono la presenza nelle nubi venusiane dell’H 2 SO4 , lo statunitense William S. Benedict scoprì
che piove anche HCl. Scrive, l’autrice, che lo scienziato americano Harold Masursky «vide che Marte era ricco di vulcani». Non
si tratta di secoli addietro, bensì di quando il Mariner 9 scese sul pianeta: il quale quindi è ricco, non «era». Parimenti, padre
(è nome comune) Angelo Sechi scoprì, non che «le stelle erano molto numerose e i loro spettri erano invece riconducibili a
pochi “tipi”», bensì che le stelle sono molto numerose e i loro spettri sono riconducibili. Edwin P. Hubble, negli anni 1920-24,
provò che alcune nebulose sono - non «erano» - galassie esterne alla Via Lattea, e che Andromeda, nota come nebulosa, è non «era» - una galassia composta di stelle alcune delle quali sono - non erano - stelle variabili. In pagina 58, le espressioni
«pensavano che non contenessero elio» e «ritenevano che fossero composte di metalli» mancano del soggetto.
L’espressione «si sbagliavano in pieno» è dozzinale e va sostituita con sb agliavano. Anche peggiore è la frase «… una stella
ci mettereb b e molto più tempo» (pag. 72).
Nella “Discussione filosofica su le orbite dei pianeti” Georg F. Hegel non «dimostrò - “con orgogliosa sicurezza”, curiosa
questa citazione da Armando Diaz - che non potevano esistere più di sette pianeti». Intanto, semmai dimostrò che non
possono esistere. In realtà, non dimostrò proprio nulla, e quando venne smentito - non dalla scoperta di Cerere, Pallade,
Giunone e Vesta - come scrive la Hack, - che sono satelliti, bensì del pianeta Nettuno (1846) - , era morto da quindici anni. Il
suo riferito arrampicarsi su gli specchi appare quindi confusionario. Qualche refuso tipografico: s i deduceva, non «di
deduceva »; un alternativo «o» in luogo della congiunzione «e» in pagina 41; ed anche in un titolo: «si credeva grande e
invece è piccino»: Lo si credeva grande (Plutone: il libro, come detto, è del ’77: non molti anni dopo verrà avanzata l’ipotesi
che sia tanto piccolo da non esistere proprio, o al più sia una sorta di asteroide). In pagina 77, «due massimi si verificarono
negli anni seguenti alla scoperta delle macchie». Non è un refuso invece, ci dice lo Zingarelli, «annichilarsi» in luogo di
annichilirsi. Brutto ma corretto anche «fare a tempo» (pag. 83).
L’espressione «il massimo dei massimi», che per una magnitudine sembra sia « - 31, uguale a 100.000 miliardi di volte
quella del Sole», mi ricorda una mia ex compagna la quale la usava - “méttilo sul massimo dei massimi” - invitandomi ad
avviare il forno a microonde, nella cucina di casa mia, per riscaldare le vivande del pranzo (io mi rifiutavo perché non vedevo
la ragione di sottoporre a sforzo massimo il costoso elettrodomestico). Trovo ammissibile che il giorno 1 del mese, per
esempio del gennaio 1801, sia il 1° gennaio 1801. Non altrettanto che il giorno 2 sia il 2° gennaio 1801 (pag. 35). E’
stimolante, per chi sappia di cosa stiamo parlando, la pagina 57 dedicata alla genesi del diagramma Hertzsprung-Russell:
dove per altro si parla dell’interferometro senza che ci si spieghi cosa sia (è un apparecchio di precisione per la misura di
varie grandezze fisiche). Anche più interessante, per sottolineare la distanza fra una stella e la più prossima ad essa,
leggere, tre pagine dopo, che «due galassie potrebbero vicendevolmente attraversarsi senza che alcuna stella dell’una si
scontri con una stella dell’altra». Al famoso diagramma si ritorna (senza menzionarlo) in pagina 72, quando vien detto che
«una stella come il Sole rimane sulla sequenza principale per dieci miliardi di anni. Il che significa che gli abitanti della Terra
godranno di una esistenza astronomicamente tranquilla ancora per cinque miliardi di anni» (vedi il mio articolo già citato).
Infondato appare che la corona solare possa estendersi oltre l’orbita terrestre (pag. 78): quando ciò avverrà, la Terra, e prima
di essa Mercurio e Venere, ne verranno vaporizzati.
Refusi sono evidentemente quelli in pagina 58 («…la composizione della Terra o degli altri pianeti terrestri » in luogo di solari ;
«i due terzi delle stelle della nostra galassia si trovano raggruppate… in galassie» . Uno strafalcione di distrazione trova
posto in pagina 42, dove si legge «… proseguire oltre i confini del sistema solare, all’esplorazione di Saturno e degli altri
pianeti». Urano, quando fu scoperto, per caso, il 13 marzo 1781, da un astrofilo, William Herschel, che sol per questo diventò
famoso, non era un pianeta «nuovo» (pag. 45) contando invece l’età più o meno dei suoi confratelli del sistema solare. Non
mi perderò ad approvare il discredito che la scrittrice getta su astrologhi e maghi. Richiamo però l’attenzione del lettore su un
passo fondamentale nella filosofia della pensatrice, la quale anni addietro, in una intervista televisiva, alla domanda se
credesse nell’esistenza di un dio, rispose NO con un’aria che sottintendeva mi prende per una sciocca? Qui scrive che
l’esplorazione di Marte «ci dà la possibilità inestimabile di studiare i fenomeni che trasformano la materia inerte in materia
vivente» senza bisogno di interventi fantasmagorici.
Ci ricorda scienziati di grande valore che circostanze particolari hanno coperto d’oblio, come l’astronomo prodigio John
Goodricke, sordomuto, morto in età di 22 anni. Ci ricorda figure bibliche che meriterebbero da parte nostra una meno
superficiale conoscenza: come Lilith, mitica moglie di Adamo… prima della creazione di Eva, e protagonista del romanzo
forse il più bello fra i tanti di Salvator Gotta. Parlando di personaggi noti e notissimi, rivela dettagli ignorati, o dimenticati dai
più: il filosofo Baruch Spinosa per guadagnarsi da vivere faceva l’ottico. Esprimo la mia perplessità quando, senza dar conto
di motivazioni, afferma che Giovanni Keplero era «alquanto malato di pitagoriche stramb erie». E pure, nella prima pagina,
prima colonna del libro, avevo letto: «Nella sua patria, (Abramo) si dedicò all’osservazione dei corpi celesti, calcolò il loro
percorso e si meravigliò della loro armonia… (Corano). Un concetto, quello dell’armonia, che dopo Pitagora acquistò grande
popolarità non solo nell’astronomia ma anche in tutte le altre scienze in genere».
Ecco, siamo alla musica. Una notizia che Margherita Hack definisce curiosa e che io direi di un interesse favoloso, è che nel
libro “Musica delle sfere” - poi non menzionato nella Bibliografia! - di tal Guy Murchie si legge (trascrivo liberamente): «E’ un
grande mistero come gli antichi maori della Nuova Zelanda conoscessero l’esistenza degli anelli di Saturno, fra le cui polveri
e i sassi che li costituiscono si svolge la vicenda narrata in una loro leggenda della quale abbiamo contezza già da parecchi
secoli prima che Galileo Galilei col cannocchiale da lui medesimo costruito sul modello di quello inventato in Olanda (nel
volume “Astronomia e cosmologia”, Garzanti-Corriere della sera 2006, si parla di scoperta, ma evidentemente si trattò invece
di una invenzione) nel ‘600 li scoprisse e che Christian Huygens e G. Domenico Cassini nello stesso secolo e poi Johann F.
Encke due secoli dopo li studiassero. Forse una civiltà poi scomparsa conosceva l’impiego degli specchi concavi parabolici,
in altre parole possedeva il telescopio. Parrebbe incredibile, ma non è facile ipotizzare un’altra spiegazione».
Si è constatato che l’impatto di un oggetto quale il modulo esplorativo su la superficie lunare, fa risuonare il satellite come
una campana, rivelando così che l’interno della Luna è costituito da una massa fredda. Esistono stelle che pulsano con
maestosa lentezza, altre che vibrano come corde di violino. E infine un bell’esempio - di cui meriterebbe menzionare l’autore
che invece non ricordo chi sia - per evidenziare la grandezza dell’universo da noi conosciuto e l’inimmaginabilità delle
distanze: un popolo di microbi così piccoli da non essere visibili ad occhio nudo, abita su un seme di papavero (Terra),
mentre un seme di tabacco (Luna) è proporzionalmente collocato a 4 centimetri di distanza. In tale scala, il più vicino degli
ammassi globulari si troverebbe a 15,6 milioni di chilometri di distanza. Una segnalazione per facilitare i lettori: il grafico
richiamato in pagina 70 si trova invece in pagina 68. Il volume è illustrato con innumerevoli, grandi, affascinanti fotografie: fra
le tante, quella di Andromeda, galassia, non nebulosa, accompagnata da due, non da un solo ammasso globulare.
Le ultime pagine son dedicate alle stelle di neutroni o pulsar, delle quali oggi se ne conoscono più di duecento, e ai buchi
neri, soprattutto ai più piccoli la cui esistenza durò tre secondi - anche meno conosciuti dei grandi, che si consumano in dieci
miliardi di anni -. E a qualche ultimo dato impressionante: nella fornace ch’è il centro del Sole, ogni minuto-secondo 564
milioni di tonnellate di idrogeno vengono trasformate in 560 milioni di tonnellate di elio. La differenza, 4 milioni di tonnellate, è
la quantità di materia irradiata nello spazio ogni minuto secondo. La Via Lattea, la nostra galassia, oltre ai gas e alle polveri,
contiene non meno di un miliardo di stelle. Ha un diametro di 100mila anni luce ed è più piccola della vicina e gemella
Andromeda. Le galassie di cui si è accertata l’esistenza sarebbero in numero non inferiore a trenta miliardi. Se ognuna dei
trenta miliardi di galassie è costituita mediamente da un miliardo di stelle, ed ogni stella presumibilmente conta uno o più
pianeti, qualora la vita si fosse sviluppata su un solo corpo celeste dovremmo sentirci un po’ soli nell’universo (questa
notazione è del cronista, il quale pensa che trilioni di trilioni di trilioni di esseri pensanti l’abbiano pensata prima di lui, ed
espressa meglio di lui).
Alla origine delle galassie, e alla Via Lattea e al gruppo di ventidue galassie di cui la nostra galassia fa parte (“Gruppo
locale”: come tutto è relativo!), son dedicati gli ultimi due capitoli, d ‘interesse indicibilmente affascinante per chi non sia già
esperto in materia: in particolare nella esposizione, chiara ed efficace per tutti, del mistero dei quasar (quasi stellar ob jects ),
che, scrive la Hack, benché oggetti tanto piccoli, emettono tanta energia da poter essere rilevati fino ai limiti dell’universo
osservabile. Più chiaramente, un quasar emette energia quanto cento galassie. Ancora più chiaramente, da una mole che è
un milione di miliardi di volte più piccola dell’intera Via Lattea, viene emessa una luminosità cento volte maggiore. Ciò
riferito, bisogna peraltro tener conto che la Hack scriveva e pubblicava trentacinque anni or sono: nel frattempo, s’è potuto
ipotizzare, e a mio avviso accertare, che ogni quasar è un buco nero di massa cento milioni di volte la massa solare, e che
inghiotte materia della galassia nella quale è situato al ritmo di una massa solare all’anno. L’energia liberata può essere
anche la metà del massimo teoricamente previsto dall’equazione della relatività ( E = mc 2 ), che è comunque una quantità
più che sufficiente per giustificare l’enorme emissione di energia. Un’ultima avvertenza per i lettori: le ultime diciotto righe del
testo, pagina 89, 2ª colonna, sono da depennare perché distrattamente sono state stampate due volte.