La stagione 2008-09 - Conservatorio della Svizzera Italiana

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Giovanna Masoni Brenni
capodicastero Cultura del Municipio di Lugano
È con grande piacere che la Città di Lugano festeggia assieme al
Conservatorio ed a Rete Due della RSI i 10 anni della rassegna concertistica
“NOVECENTO E PRESENTE”.
La musica del novecento storico e contemporanea completa la ricca
offerta concertistica nella nostra regione e il fatto che esista una
stagione che, anno dopo anno, ha saputo proporre programmi
innovativi e variegati, spettacoli in coproduzione con le altre realtà
universitarie del Cantone come SUPSI-DACD e Teatro Dimitri, non
può che generare un valore aggiunto di cui Lugano va particolarmente fiera.
Un polo universitario, come quello che abbiamo nella nostra regione,
ha bisogno di giovani preparati ed entusiasti, che sappiano dare alla
società stimoli intellettuali, programmi ed idee innovative ma che
sappiano anche farci riflettere sul recente passato culturale.
Grazie di cuore quindi a questi giovani universitari del Conservatorio
ed ai loro docenti.
Continuate su questa strada!
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Giuseppe Clericetti
responsabile dei programmi musicali di Rete Due
La radio ha assunto fin dai suoi inizi, negli anni Venti del secolo
scorso, grande importanza per la diffusione della musica: attraverso
questo mezzo di comunicazione il grande pubblico ha subito avuto
accesso a concerti e opere. Risulta pure importante da subito la
funzione promotrice delle varie radio, che commissionano nuove
composizioni musicali e che comprendono nel loro mandato la
valorizzazione della musica nazionale: ancora tra il 1990 e il 2000
l’Unione Europea di Radiodiffusione ha censito circa duemila
composizioni frutto di commissioni radiofoniche da parte di
organismi di servizio pubblico.
È quindi tenendo ben presente la storia della radio, attraverso
questa importante tradizione, che la Rete Due della Radio Svizzera
di lingua italiana ha sostenuto attivamente la rassegna dei concerti
di Novecento in questi dieci anni: con l’ospitalità all’Auditorio Stelio
Molo, con la registrazione dei concerti, con la presentazione degli
stessi e con la diffusione nei propri programmi, Rete Due ha parte
attiva nell’organizzazione, nel sostegno e nella divulgazione di
“Novecento e presente”.
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Christoph Brenner
direttore del Conservatorio della Svizzera italiana
Quando siamo partiti 10 anni fa, grazie all’entusiasmo ed alla passione di Giorgio Bernasconi, spiritus rector del progetto, e di Carlo
Piccardi, allora responsabile di Rete Due, nessuno avrebbe pensato
che la stagione sarebbe sopravvissuta per 10 anni. Anzi, i primi commenti esprimevano un grande scetticismo su una rassegna musicale
dedicata alla musica “contemporanea”, e per di più affidata ad un
ensemble di “studenti”.
Eppure, già la prima stagione è stata in grado di attirare su di sé l’attenzione di un pubblico sempre più interessato e di guadagnarsi gli
apprezzamenti della critica. Da allora, quello che sembrava il risultato
di un coraggioso esperimento “di nicchia” è andato crescendo fino a
diventare una stagione che gode del pieno sostegno del pubblico ticinese e che ci ha permesso di guadagnarci la stima dei nostri colleghi
d’oltralpe. Questo aspetto assume per noi “addetti ai lavori” una rilevanza particolare: un istituto di formazione che sia capace di trasformare un progetto didattico in un progetto artistico di grande visibilità
a livello nazionale ed internazionale, com’è successo con “Novecento
e presente” avrà raggiunto un traguardo importantissimo. Un altro
aspetto che mi preme sottolineare è poi quello relativo alla crescita
di “Novecento e presente” rispetto all’allargamento del ventaglio di
discipline e di istituzioni in esso coinvolte: sono oramai nostri partner affiatati i colleghi della Scuola teatro Dimitri e del Dipartimento
Ambiente Costruzioni e Design della SUPSI, che hanno risposto positivamente al nostro invito e, così facendo, hanno inteso riconoscere il
valore intrinseco di un’operazione estremamente impegnativa sia sul
piano didattico, sia su quello artistico.
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Colgo infine l’occasione per ringraziare non solo chi in questi 10 anni
ha lavorato con grande impegno alla riuscita del progetto, ma anche
chi ha creduto in esso, sostenendolo in anni spesso non facili per la
nostra economia: la Rete2, il Cantone, il Percento Culturale Migros,
la Pro Helvetia, la SUISA e per finire la Fondazione Art Mentor di Lucerna
che si è aggiunta recentemente al gruppo.
Non posso quindi che concludere con l’augurio che la stagione possa
continuare a crescere ancora per molti anni, a beneficio dei nostri
studenti e per la soddisfazione del nostro pubblico!
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Giorgio Bernasconi
direttore artistico e musicale della stagione
Un motivo di soddisfazione per chi in questi anni ha vissuto l’avventura
e la responsabilità di immaginare e di proporre un itinerario sulla creatività contemporanea, è constatare come ciò che poteva apparire una
scommessa azzardata si sia rivelata quasi subito una sfida vincente. Diciamolo, le premesse per una sconfitta c’erano tutte: siamo in un’epoca in cui mercato e museo si stanno imponendo sempre più; in cui la
programmazione musicale tende a ripiegarsi sull’entertainment, seppur
raffinato; si privilegiano offerte prive di rischi che attingono al repertorio più tradizionale e consolidato, che non deve disturbare o mettere
a disagio, in cui l’invasione dei media induce alla pigrizia dell’immaginazione riducendo a volte la musica a semplice ornamento o a passatempo mondano, o nel caso migliore all’appagamento e al godimento
del “bello”. Come se quest’ultimo fosse l’unica componente di un linguaggio che invece racchiude in sé anche stimoli culturali e spirituali
indispensabili per farci meglio comprendere il tempo in cui viviamo.
In un’epoca così, riuscire a sopravvivere e a guadagnarsi l’interesse di
un pubblico affezionato e attento costituisce una consolante gratificazione che non può che stimolarci a proseguire con proposte sempre
più coinvolgenti, soprattutto se si pensa che la rassegna “Novecento e
presente”, nata anche con uno scopo didattico indirizzato agli studenti
del CSI, può contare soltanto sulle proprie forze, senza nessuna attrattiva di richiamo sovrastrutturale come possono essere quelle legate allo
star-system o ad un supporto mediatico appariscente.
Nella programmazione degli scorsi anni, e naturalmente anche di
quest’anno, abbiamo sempre evitato di lasciare al caso la scelta dei
repertori, affastellando composizioni senza nessun nesso. Invece, si è
cercato di perseguire una drammaturgia più o meno esplicita che potesse evidenziare le relazioni (o a anche le contraddizioni) tra le opere
proposte.
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Di un secolo, il XX, ricco di sommovimenti artistici, a volte provocatori, ma anche di concilianti dialoghi con le convenzioni del passato,
si è sempre mirato a dare testimonianza, rendendo conto sia delle
opere più significative, sia di quelle meno conosciute ma altrettanto
importanti. Testimonianza di un prezioso e indispensabile bagaglio
culturale che trascenda gli orrori di un secolo terribile.
Anche il programma della rassegna di quest’anno presenterà autori
che appartengono a tempi e a stili differenti, ma che in ogni modo
rappresentano per noi il “presente”; un presente che ci obbligherà a
volte a confrontarci con forme e suoni per noi inusuali, ma che possono acuire i nostri sensi alle sfide dell’immaginazione.
Come consuetudine, alcuni ospiti si affiancheranno ai nostri allievi
offrendo con il loro lavoro un importante contributo: delle due formazioni che saranno presenti nel corso nella rassegna, alla prima,
l’Ensemble Boswil, è stato affidato il compito di aprire la rassegna con
il concerto del 26 ottobre. Dopo circa vent’anni dalla fine della cosiddetta “Cortina di Ferro”, avremo modo di conoscere compositori
provenienti dalle regioni dell’Europa dell’est, finalmente liberi dai dettami del realismo socialista o da una condizione di silenzio coatto.
Il 16 novembre proporremo, come già nella passata stagione, un programma che metterà a confronto i compositori di oggi con la musica
antica di Dufay, di Gesualdo e Dowland, di Machaut, Purcell e Scarlatti, questa volta attraverso l’intervento diretto dei primi sulle musiche
di quegli illustri autori, con adattamenti, contaminazioni, trascrizioni,
strumentazioni che non disdegnano le più avanzate tecnologie esecutive o le più estrose combinazioni sonore. Sarà quasi un modo per
testimoniare la memoria storica della musica di oggi. “Carte blanche” si riferisce alla consuetudine di affidare ad un interprete o a un
compositore, l’intera formulazione di un programma, secondo i propri gusti o affinità. Per il concerto di gennaio abbiamo voluto rendere
omaggio a Luciano Berio, il grande compositore italiano scomparso
pochi anni fa, immaginando per lui un programma che sicuramente
avrebbe approvato e affiancandolo a due autori francesi, Claude Debussy e Darius Milhaud, che sappiamo lui stimava e amava molto.
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Per l’esecuzione di questo concerto, e per la prima volta, “Novecento
e presente” uscirà dai confini della Svizzera italiana per recarsi a Milano, dove, il 24 gennaio, il programma verrà eseguito nel prestigioso
Teatro alla Scala e vedrà riuniti gli studenti del nostro Conservatorio
e l’Ensemble dell’Accademia dello stesso Teatro. Il concerto sarà poi
replicato da noi il giorno dopo.
Un altro omaggio, il 22 febbraio, sarà dedicato a Olivier Messiaen, in
occasione del centenario della nascita; importantissimo autore che
artisticamente nasce a ridosso dei due compositori francesi più importanti del novecento storico, Claude Debussy e Maurice Ravel, per
poi diventare a sua volta capofila e insegnante di tutta una generazione di compositori, diventati protagonisti della musica del secondo
dopoguerra. Di un paio di generazioni successive a Messiaen, nello
stesso programma, figurano due compositori romandi, Eric Gaudibert
e Michael Jarrell, e lo svizzero tedesco Ulrich Gasser, tutti a diverso
titolo debitori, sul piano delle innovazioni armoniche e ritmiche, nei
confronti di Messiaen.
Il 25 marzo, al Palazzo dei Congressi di Lugano, ci sarà l’appuntamento forse più ambizioso dell’intera stagione: Dadamusica. Ambizioso perché, pur proseguendo le collaborazioni interdisciplinari oramai prassi nei nostri concerti, intende esplorare un universo anarchico
e irrazionale, dissacratorio e distruttivo; un movimento artistico che
in verità “non ha mai cessato di morire” che rifugge da classificazioni
tradizionali e di comodo. Verrà approfondito il dadaismo storico e
i suoi rapporti con la musica, con il cinema e con la poesia sonora,
percorrendo un itinerario che dalla sua nascita, a Zurigo nel 1916,
ci porterà a Parigi in compagnia dei protagonisti del suo periodo
più trasgressivo. Collaboreranno a questo progetto gli indispensabili
partner di sempre: la Scuola Teatro Dimitri e il Dipartimento Ambiente
Costruzioni e Design della SUPSI.
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Il Trio Animæ, seconda formazione ospite, ci offrirà il 5 aprile un
insolito concerto che metterà in risalto le diverse sfaccettature del
loro fare musica. Basti questo breve frammento da una recensione
per avere un’idea della particolarità e della qualità del loro lavoro:
“Whether they play Schnittke, Rachmaninoff or Jazz, the Trio Animæ
always stands for inventive, unusual programmes and for highest
quality in chamber music” (Orf, Team Vienne).
Se mai la “drammaturgia” di cui parlavo prima ha un senso, esso
sarà evidente nei concerti del 26 aprile (il 25 a Locarno, in occasione
della Passeggiata del Conservatorio) e del 17 maggio (a Friborgo il 7
giugno) dove le opere di alcuni compositori, pur distanti tra loro per
nascita e linguaggio, sono testimonianza di un coinvolgimento protestatario, etico e umanistico contro la sopraffazione e la tirannide.
“Uomini che s’interessano agli uomini”; l’operina Brundibar di Franz
Kràsa, composta per i bambini del ghetto ebraico di Terezín in Cecoslovacchia creato da nazisti (“il totale delle vittime di Terezín fu di
140.890, dei quali 33.529 morirono nel ghetto e 88.135 nei campi
della morte in Polonia ed ad Auschwitz”),è la struggente testimonianza della volontà di sopravvivere e mantenere vivi i valori dell’umanità,
della speranza e della bellezza. È per questi valori che i compositori
dell’ultimo concerto scrivono le loro composizioni: Luigi Dallapiccola
con i suoi Canti di prigionia del 1941, su testi di Maria Stuarda,
Boezio, Girolamo Savonarola; Luigi Nono con España en el corazón
del 1953, su testi di Federico Garcia Lorca e Pablo Neruda; Arnold
Schoenberg con Un sopravvissuto di Varsavia del 1947, su un testo
proprio che raccoglie la testimonianza di un sopravvissuto. Una sorta
di “Protest Music” per aiutarci a non dimenticare la sofferenza, per
reagire al declino morale, per porre domande alla nostra coscienza.
questo non sarebbe stato possibile. Un ringraziamento particolare
anche a Rete Due della Radio della Svizzera italiana e a Carlo Piccardi,
che da subito ha creduto in questo progetto, e a Giuseppe Clericetti
che ne ha permesso il prosieguo nell’indispensabile Auditorio “Stelio
Molo” della RSI. E come dimenticare chi ci ha sostenuto finanziariamente per tutti questi anni: il Cantone Ticino (Swisslos), il Percento
culturale della Migros, la Pro Helvetia, la Fondazione SUISA e la Fondazione ART MENTOR.
A tutti ancora grazie a nome mio e degli studenti del Conservatorio
della Svizzera italiana.
Per concludere, in occasione dei 10 anni della rassegna, vorrei ringraziare calorosamente il “nostro” pubblico che ci ha seguito durante
questo lungo “itinerario nel meraviglioso” e che ci ha sempre dimostrato un consenso, e in più occasioni un sostegno, senza i quali tutto
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La musica di Mahler sotto l’occhio del boia
di Milan Kundera
Uno o due anni dopo la guerra, adolescente, incontrai una giovane
coppia di ebrei che avevano all´incirca cinque anni più di me; avevano
trascorso la giovinezza a Terezín, e poi in un altro campo. Mi sentivo
intimidito davanti al loro destino. Il mio disagio li irritò: «Finiscila una
buona volta!» e, con insistenza, mi fecero capire che la vita laggiù
aveva conservato tutto il suo ventaglio di possibilità: dalle lacrime agli
scherzi, dall´orrore alla tenerezza. Grazie all´amore nei confronti della
loro stessa vita, essi si difendevano dall’essere trasformati in una leggenda, in statue di dolore o in documenti del libro nero del nazismo.
Da allora li ho persi completamente di vista, ma non ho dimenticato
quello che avevano cercato di farmi capire.
Terezín in ceco, Theresienstadt in tedesco. Una città trasformata in ghetto che i nazisti utilizzarono come paravento, come alibi, dove lasciarono vivere i prigionieri
in modo relativamente civile per poter esporli ai curiosi della Croce
rossa internazionale. Qui sono stati ammassati gli Ebrei dell´Europa
Centrale, soprattutto coloro della parte austro-ceca; fra di loro molti
intellettuali, compositori, scrittori, tutta una grande generazione che
aveva vissuto alla luce di Freud, di Mahler, di Wittgenstein, di Schönberg, di Janácek, dello Strutturalismo praghese.
I prigionieri di Terezín
seppero approfittare meravigliosamente della piccolissima particella
di libertà concessa loro dai carcerieri; la loro attività intellettuale e
artistica ci lascia stupefatti; non penso solo alle opere che riuscirono a
creare (soprattutto i compositori), ma forse ancor di più a quella sete
di vita culturale che s´impadronì di tutta la comunità di Terezín, che,
in condizioni spaventose, frequentava teatri, concerti, mostre.
Che
cosa rappresentava per loro l´arte? La maniera di mantenere completamente dispiegato il ventaglio dei sentimenti e delle idee affinché la
vita non si riducesse alla sola dimensione dell´orrore.
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E per gli artisti detenuti laggiù? Costoro vedevano il loro destino
personale confondersi con quello dell´arte moderna, l´arte cosiddetta «degenerata», l´arte perseguitata, irrisa, condannata a morte.
Guardo la locandina di un concerto tenutosi nella Terezín di allora:
in programma Mahler, Zemlinskij, Schönberg, Haba. Sotto gli occhi
dei boia i condannati suonavano una musica condannata.
Penso agli
ultimi anni del secolo passato, un secolo maledetto che, giunto alla
fine, è stato preso dal desiderio di vomitarsi addosso il disgusto per
se stesso. La memoria, il dovere della memoria, il lavoro della memoria, queste erano le parole d´ordine di quegli anni. Era ritenuto un
atto onorevole perseguire i crimini politici del passato, dare la caccia
perfino alle sue ombre, alle sue ultime sudice macchie.
Tuttavia, tale
memoria del tutto particolare, «incriminatrice», serva premurosa del
castigo, non aveva niente in comune con quella a cui avevano tenuto
così tanto gli ebrei di Terezín, i quali se ne erano infischiati altamente
dell´immortalità dei loro carcerieri e avevano fatto di tutto per conservare il ricordo di Mahler e Schönberg.
Un giorno, discutendo di
questo argomento, chiesi a un amico:
«... conosci Un sopravvissuto
di Varsavia? - Un sopravvissuto? Chi?» Non sapeva di che cosa stessi
parlando. Eppure Un sopravvissuto di Varsavia (Ein berlebender aus
Warschau), oratorio di Arnold Schönberg, è il più grande monumento che la musica abbia mai dedicato all´Olocausto. Tutta l´essenza esistenziale del dramma degli Ebrei del XX secolo è in quest´opera viva
e presente. In tutta la sua atroce grandezza. In tutta la sua bellezza
atroce. Ci si batte perché degli assassini non vengano dimenticati. E
Schönberg, lo abbiamo dimenticato.
© Milan Kundera (traduzione di Massimo Rizzante).
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Parabola musicale del moderno
di Carlo Piccardi
“L’artista è in sciopero generale contro la società”, dichiarava Mallarmé, riconoscendo il carattere antagonistico caratterizzante l’ultima
fase della modernità, cioè il Novecento che abbiamo ormai alle spalle
non solo e tanto in termini cronologici quanto come archiviazione di
un’esperienza secolare da cui si cerca di prendere le distanze attraverso l’uso problematico del termine “postmoderno”. In verità mai come
dopo il Novecento il tentativo di superare la precedente fase artistica
si è rivelato ingannevole, nella misura in cui le esperienze più recenti
hanno rinunciato a guardare al futuro aprendo l’orizzonte verso nuovi linguaggi, trovandosi imbrigliate a ruminare sui portati del passato
(vicino e lontano) non solo sopravvivente in forme frammentate, ma
implicito anche nelle stesse ipotesi dimostrative dell’emancipazione
dal lascito dei padri.
Se dovessimo ricondurre il significato dell’arte del Novecento a un
solo concetto unitario si imporrebbe inevitabilmente quello di “utopia”, proprio come tensione verso una terra promessa che, proprio in
quanto avvicinata e mai raggiunta, ha prodotto in termini radicali lo
sganciamento della coscienza artistica dalle funzioni del presente sospingendola verso traguardi futuri, consumando le sue energie nella
visione di quanto è prefigurabile, di un miraggio più che del conseguimento di un risultato definitivo. Il programma wagneriano che si
reggeva sul principio della “Zukunftsmusik”, destinata al pubblico a
venire più che a quello coevo dai cui condizionamenti mirava a sciogliersi, innescò un processo di accelerazione che portò a bruciare le
tappe dell’innovazione segnando in forme sempre più laceranti il divario tra l’opera d’arte e il contesto di ricezione. “Il mio tempo verrà”
fu il motto di Gustava Mahler, cosciente del grado di incomprensione
che circondava il suo messaggio.
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L’avanguardia artistica è nata da questa situazione di sfasamento tra
espressioni prodotte da profonde intuizioni a cui giunsero i creatori
(sempre più votati alla sperimentazione) e il pubblico, che si è articolato in fasce distinte tra chi è stato in grado di seguirne l’arduo percorso e chi, rimanendo condizionato dalla consuetudine, è rimasto
fedele ai modelli del passato.
Su questo fatto, nelle trattazioni miranti a mettere a fuoco la natura
del fenomeno artistico novecentesco, non si è mai riflettuto abbastanza. Soprattutto per quanto riguarda la musica non possiamo ignorare
che, a fronte di un’evoluzione che ha portato l’arte dei suoni a percorrere stadi di sviluppo sempre più avanzati (attraverso Stravinsky,
Schoenberg, Bartók, il serialismo, l’alea, l’elettronica e via dicendo),
la maggioranza del pubblico ha continuato a coltivare le espressioni
della tradizione dando vita, nella pratica concertistica e attraverso i
vettori della musica riprodotta (radio, televisione, disco, internet), a
un museo permanente che ha rivitalizzato (come non mai era avvenuto prima nella storia) il passato in tutti i suoi gradi (dal più recente a
quello che si perde nella notte dei tempi). In questo senso l’equivalenza tra Novecento e modernità, diventata un luogo comune, andrebbe
relativizzata in una definizione più attenta ai modi in cui l’ipoteca del
passato pesa sull’insieme della realtà artistica del secolo trascorso in
cui ci troviamo ancora immersi. Artisticamente cioè è stato (ed è ancora) possibile che un individuo novecentesco (o contemporaneo) sia
potuto e possa crescere identificandosi con valori e modi appartenenti al passato, annesso come fosse un portato dell’oggi, prescindendo
dalle manifestazioni genuinamente sorte nel presente. Nella misura
in cui l’opera fu una palestra di educazione sentimentale, ad esempio
la Traviata come esaltazione del sentimento in un contesto di sfida
alle convenienze e alle ipocrisie sociali, essa è stata ed è ancora in
grado di costituire un fattore di coinvolgimento delle coscienze a livello emozionale e morale più delle stesse rappresentazioni odierne,
al punto che persino oltre i confini del genere operistico lo stesso
grado di commozione ha debordato in un film di successo quale Pretty Woman. Da questo punto di vista non saprei dire se il Novecento
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sia stato più il secolo dell’innovazione e non piuttosto il secolo della
rivincita del passato in una situazione paradossale che, accanto alla
produzione di opere anche di grande rilievo significative per il grado
di estrema emancipazione dalla tradizione (che ha portato a strappi
anche violenti della continuità), ha parallelamente consolidato i fondamenti dell’eredità che ci è stata trasmessa dai predecessori.
Utopia, abbiamo detto, in questo condividendo l’arte novecentesca
l’aspirazione dei movimenti politici che hanno trascinato le masse nelle rivoluzioni che hanno sconvolto l’Europa e il pianeta tutto,
fino a spegnersi nella disillusione di non essere riuscite a dar vita a
quell’uomo nuovo, emancipato dai condizionamenti del bisogno e
dell’oscurantismo di cui era giunto a prendere coscienza attraverso il
progresso guidato dal pensiero radicale. Non è certamente un caso
che il cammino dell’arte novecentesca nelle sue forme più avanzate abbia seguito un corso cronologicamente parallelo alle rivoluzioni
politiche fondate sul principio della rigenerazione dell’uomo (il comunismo e il fascismo). Il programma era esplicito, come risulta dall’Harmonielehre che Schoenberg elaborò tra il 1909 e il 1911, in cui, pur
essendo ancora lontano lo sbocco estremo del suo pensiero, la direzione era tracciata: “L’artista coraggioso si abbandona completamente alle sue tendenze; e solo chi si abbandona ad esse è
coraggioso, e solo chi è coraggioso è un artista. Manderà allora
per aria la tradizione, si scuoterà di dosso i risultati dell’educazione,
balzeranno in primo piano le sue tendenze, gli ostacoli creeranno un
nuovo corso alla corrente dei suoi sentimenti e si imporrà sugli altri un
colore preciso che, nel quadro precedente, era subordinato: è nata
una nuova personalità, un uomo nuovo !”
In perfetta equivalenza con le istanze di lotta contro la borghesia e il capitalismo, l’arte di rottura d’inizio secolo si dichiarò immediatamente alternativa al sistema esistente e alla stessa classe borghese, dai cui referenti culturali pur sempre dipendeva. La
condanna da parte del nazismo di quell’avanguardia come “arte
degenerata” fu appunto dovuta all’identificazione di quella con
il comunismo (“bolscevismo culturale” era l’epiteto equivalente).
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Il fatto poi che il movimento hitleriano attaccasse a sua volta la raffinata linea artistica borghese sollecitando le forme più populistiche
ne è la conferma in negativo, così come la svolta repressiva dell’URSS
nei confronti dell’élite artistica in favore del risorgere della vieta mentalità sottoforma di “realismo socialista”. Ora non è senza significato
che - dopo i sussulti seguiti ai moti del ‘’68 con esiti anche in campo
artistico attraverso il moltiplicarsi della provocazione nelle manifestazioni alternative (in questo caso estese oltre il confine giurisdizionale
della borghesia) - la chiusura dei conti con quel passato ideologico
sia avvenuta contemporaneamente alla caduta del Muro di Berlino.
L’evento dell’’89 non è stato solo l’inizio dello sconvolgimento dell’ordine mondiale basato sulla dialettica tra due sistemi politici ma - nella
misura in cui l’URSS soccombente aveva preteso di incarnare lo stadio
evolutivo avanzato della società reso possibile attraverso lo strappo
della continuità rispetto al precedente storico, mentre l’Occidente
che prevaleva vi trovava la conferma della ragionevolezza del proprio
modello depositario del moderato sviluppo della tradizione - sanciva
la fine dell’ostracismo verso le forme espressive considerate in ritardo
sui tempi, per non dire regressive.
Il Postmodernismo, con la sospensione dell’idea di evoluzione permanente, vi trovava perciò conferma alla capacità di sottrarsi al passaggio obbligato nella morsa tra conservazione e rivoluzione. Il primo
effetto è stato il venir meno della tensione verso il tempo a venire e
la tentazione di volgere lo sguardo all’indietro, non necessariamente
con intento restaurativo ma certamente senza più pregiudizi verso
ciò che poteva apparire retrodatato. L’esercizio ormai decennale della
pratica di forme emancipate dalla tradizione ha consentito di tornare
a rivolgersi al passato con sguardo non coinvolgente, col senso di
una distanza immunizzante, base di operazioni non necessariamente
scontate. È forse presto per vedervi la costituzione di un’organicità
creativa in grado di consolidare principi altrettanto cogenti rispetto
a quelli che per quasi un secolo hanno retto le sorti delle espressioni
radicali. Probabilmente ci troviamo in una fase dove l’eccitamento per
la liberazione dai lacci dell’imperativo antagonistico spinge disordina-
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tamente al recupero di ciò che prima era vietato, in abbuffate ancora troppo scopertamente compiaciute per costituire un fondamento
all’elaborazione di progetti serenamente emancipati dalla semplice
reazione a una disciplina troppo supinamente subita.
In verità già all’interno del messaggio radicale era costituita l’opposizione tra due ipotesi, quella dirompente lanciata verso il superamento dello stadio integrato nell’ordine acquisito dalla società e quella
tendente a sottomettersi a quell’ordine. Nella sua Filosofia della musica moderna (1949), a sostegno della linea tracciata da Schoenberg e
prima ancora di affrontare il conflitto con l’”alienata” posizione stravinskiana, Adorno metteva in guardia coloro che davano già segno
di utilizzare il metodo dodecafonico non come una chiave per dare
espressionisticamente voce al “dolore non trasfigurato dell’uomo, la
cui impotenza è aumentata tanto da non permetter più né gioco, né
apparenza”, bensì come il fondamento di un sistema in cui il principio di un nuovo ordine portava al riequilibrio del rapporto tra artista
e società. Ciò che invece gli appariva fondamentale era la tensione
dialettica in cui si profilava l’espressione schoenberghiana, capace di
subire il richiamo della matrice espressiva lasciata come ipoteca dal
Romanticismo nel momento stesso in cui se ne emancipava grazie
al metodo dei dodici suoni: “La tecnica dodecafonica è una tenaglia
inesorabile che trattiene le forze che altrettanto inesorabilmente vorrebbero disperdersi: usarla senza l’opposizione di queste forze, organizzarla senza che ci sia nulla che si oppone e nulla da organizzare
è fatica vana”. In questo senso il percorso dell’avanguardia viennese
non è disgiungibile dal radicamento nel passato in cui si specchia,
fosse solo per la deformazione delle strutture ereditate costituenti il
suo punto di partenza. Opposizione quindi, che implica un allontanamento dalla regola, una distanziazione mirante a sciogliersi dal codice imposto dalla società, pagata con la “solitudine come stile”, con
l’opera d’arte privata dei nessi che la integravano nei rapporti sociali
al punto da apparire come “il manoscritto chiuso in una bottiglia”.
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La posizione di Adorno, che ha segnato profondamente l’esegesi del
moderno, con ciò implicava il contrasto con una diversa maniera di
prendere le distanze dal precedente storico, quella di una modernità apparente appunto, che nel confronto con le forme ereditate
rinuncia a rivendicare “la soggettività estetica autonoma, che aspira
ad organizzare l’opera d’arte per impulso proprio, in libertà”, abbandonandosi al compiacimento dell’”abilità artigiana nel disporre a
piacimento di una dimensione staccata del materiale, invece di essere
una coerenza costruttiva che assoggetta tutti gli strati del materiale
alla medesima legge”. È superfluo ricordare che in tale definizione è
adombrata la figura di Stravinsky, additato come l’esponente maggiore del “sacrificio antiumanistico alla collettività: sacrificio senza
tragicità, immolato non all’immagine nascente dell’uomo, ma alla
cieca convalida di una condizione che la vittima stessa riconosce sia
con l’autoderisione che con l’autoestinzione”. Se lo stacco radicale
operato da Schoenberg era dettato dalla preservazione del primato e dell’autonomia del soggetto rispetto alla società che ne gestiva
l’inquadramento, con il compositore russo “Il soggetto, che ormai
musicalmente non ha più nulla da dire di se stesso, cessa in tal modo
di ‘produrre’ in senso proprio, e si accontenta della vuota eco del
linguaggio musicale oggettivo che non è più suo”. Di qui la distanza oggettiva e la fortunata definizione di “musica al quadrato” implicante un rapporto con il passato non più inteso come continuità
della ricerca di verità nel superamento delle forme espressive via via
decadute di senso, bensì come possibilità di manipolare quelle forme
nell’indifferenza al loro significato, assunte come gusci vuoti privati
del succo, come frutti avvizziti non più in grado di generare altre
piante. Al neo-oggettivismo Adorno rimproverava il venir meno della
responsabilità nei confronti del materiale, il “giocare con i mezzi
senza curarsi dello scopo”, il mimare una funzionalità senza produrre
nulla di sostanziale, risolvendosi in gesti puramente ornamentali. In
questo senso la regressione sarebbe doppia, nel senso del marchio
neoclassico proveniente dal preciso ambito stilistico sei-settecentesco
di riferimento, ma anche nel senso della funzione esornativa che in
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quella società era prevalentemente richiesta alla musica. Indifferenza
nella gestione del referente stilistico assunto dal passato che porterebbe alla deresponsabilizzazione nel confronto con esso, non a
caso sconfinante nel grottesco: “Il grottesco è di solito socialmente
la forma sotto cui viene reso accettabile ciò che vi è di estraneo o di
progredito. Il borghese è pronto ad avvicinarsi all’arte moderna se
essa lo rassicura, con il suo aspetto, che non deve essere preso sul
serio”. Se così fosse, tutto l’arco neo-oggettivistico (neoclassico) delle
esperienze primonovecentesche non sarebbe che una restaurazione
mascherata, “musica tradizionale pettinata contropelo” (secondo
l’affermazione di Adorno).
Al di là del fatto che, in base a questa concezione dialettica, tale
contrario opposto alle scelte radicali si erge come una necessità (la
seconda faccia della medaglia senza la quale la prima nel suo carattere antagonistico non si giustificherebbe), questo schema pecca per
le esclusioni, lasciando fuori una moltitudine di esperienze che per il
Novecento hanno contato molto, come la risorgenza delle radici etniche nell’Europa orientale o il pionierismo su terreno vergine che negli
Stati Uniti ha sviluppato una coscienza liberata ab imo dall’ipoteca
storicistica. Senza considerare che ci fu anche un neoclassicismo che,
pur partendo dalla matrice stravinskiana, ha guardato decisamente
più al passato che al futuro. Si tratta della modernità musicale italiana
che ha radice nella “Generazione dell’Ottanta” (Ottorino Respighi,
Franco Alfano, Ildebrando Pizzetti, Alfredo Casella, Gian Francesco
Malipiero) sorta come reazione all’”internazionalismo” dell’opera
italiana da cui prese le distanze in nome di una dignità nazionale
ritenuta offesa dalla sua platealità, per cui, sorretta dal filone neo-oggettivistico già tracciato a livello continentale, vi rifluì con contributi
specifici attingendo al ricco patrimonio di musica strumentale italiana
preottocentesca. In questo caso il prevalere dell’ipoteca nazionalistica
portò a separare l’esperienza italiana dal contesto europeo. Se nel
1924 Casella si era fatto promotore della famosa tournée di Schoenberg chiamato a presentare il suo Pierrot lunaire al pubblico della
penisola, in realtà (accostandovi il proprio Concerto per due violini,
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viola e violoncello) lo scopo era soprattutto quello di dimostrare l’indipendenza degli italiani da una scuola ritenuta estranea alle proprie
radici. Sostenuto dall’evoluzione politica del paese, egli poteva quindi
tranquillamente sentenziare nel 1930 (in 21+26) che “la atonalità è
una musica assolutamente impossibile per noi italiani” e compiacersi
nel vedere “un forte gruppo di compositori risuscitare una musica di
stile indiscutibilmente italiano, cioè forte, ben costruita, chiara, e tutta impregnata di quella luce solare che plasma la nostra vita”. Anche
questo è il Novecento che, con tutte le sue tensioni, le sue priorità,
le sue esclusioni, i suoi integralismi, i suoi deliri e le sue derive, artisticamente è stato il secolo che più si è confrontato con il passato e
con la storia e che per essere compreso appieno non può accettare
di vedersi rappresentato solo dalle esperienze radicali, ma va considerato nella pluralità delle scelte anche contrapposte, tutte in ogni
caso attraversate da una dinamica essenzialmente rivolta a misurare
il rapporto con la tradizione. La sua ricchezza, a conti fatti, sta proprio nella molteplicità delle ipotesi e nella varietà delle realizzazioni
che, insieme con i prodotti che emblematicamente lo caratterizzano
(costituendo un patrimonio di cultura non inferiore ai precedenti), ha
rafforzato notevolmente la coscienza critica dei fruitori.
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Nella Svizzera italiana il ruolo della radio
Nella Svizzera italiana il Novecento artistico si è manifestato con ritardo. Sul tema si è già dibattuto, sia relativamente alla generazione
dei letterati con le prime testimonianze dell’uscita dalle secche tardo
ottocentesche nei primi anni 40 (Circolo italiano di lettura animato
da Giovan Battista Angioletti, Collana di Lugano di Pino Bernasconi),
sia per le aperture dei giovani esponenti dell’arte visiva dello stesso
periodo (Gruppo Terrarossa, ecc.). Per quanto riguarda la musica tale
discorso non è stato ancora affrontato. La marginalità dell’attività
musicale compositiva che la nostra storia ha conosciuto fino a pochi
decenni fa purtroppo non fornisce nemmeno la materia del contendere. Eppure vi sono stati momenti anche rilevanti che meritano di
essere ricordati perlomeno per capire quali sono stati i poli dello sviluppo che oggi ci rende meno sguarniti sulla scena della creazione
moderna. In questo senso è indubbio che il ruolo decisivo va riconosciuto nell’istituzione della radio, fin dall’inizio nata come organismo
chiamato a svolgere il suo compito nel contesto nazionale, quindi
non solo regionale. Per quanto limitata nei mezzi e nelle scarse risorse
culturali ed artistiche del bacino di riferimento, la Radio della Svizzera
italiana, stimolata dal confronto con le altre stazioni nazionali a cui
nei primi decenni era chiamata ad offrire contributi negli spazi di programma in comune, mantenne l’ambizione di tenere alta la guardia e
di non cadere nella facile trappola del dilettantismo e della mediocrità
provinciale. Fin dai primi anni il suo microfono fu messo a disposizione di figure rappresentative del mondo musicale che di persona furono invitate a portare le loro creazioni. Basterà ricordare Frank Martin
il 6 dicembre 1934 sul podio della Radiorchestra in un concerto monografico in cui furono presentati Pavane couleur du temps, le musiche di scena per Edipo a Colono, il Quintetto con pianoforte e
quattro pezzi per pianoforte eseguiti dallo stesso compositore, Darius
Milhaud pure sul podio della Radiorchestra nel 1938,
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Francis Poulenc lo stesso anno ad accompagnare il tenore Pierre Bernac
in una serie di proprie liriche da camera, Arthur Honegger ospitato nel
1939 a presentare tutte le sue composizioni per pianoforte (e per canto
e pianoforte, ritornandovi nel 1946 a dirigere composizioni sue per
orchestra e nel 1947 addirittura per un vero e proprio festival a lui consacrato tra il 23 marzo e il 3 aprile 1947. Da menzionare sono anche
le presenze di Alfredo Casella nella Sonata a tre op. 62 (eseguita al
pianoforte nel 1940 con Arturo Bonucci, violino, e Alberto Poltronieri,
violoncello), di Zoltán Kodály nel 1947 a dirigere la prima esecuzione
svizzera della sua Missa brevis, e, lo stesso anno, quella di Benjamin
Britten ad accompagnare il fido Peter Pears nei Seven Sonnets of Michelangelo, per non parlare di Richard Strauss il quale, in occasione
di un suo lungo soggiorno a Lugano nella primavera del 1947 accettò
l’invito a dirigere alcune proprie composizioni alla testa della Radiorchestra il giorno del suo compleanno (11 giugno), mantenendo la promessa di comporre per il complesso luganese il Duett-Concertino per
clarinetto, fagotto e archi, di cui Nussio assicurò la prima mondiale il
4 aprile 1948.
L’importanza della RSI sta soprattutto nell’aver saputo concedere spazio a personalità di primaria importanza non di origine ticinese, ma
ospitati nella regione. Se ragioni cronologiche non le permisero di onorare Eugen D’Albert, il grande pianista e compositore morto a Riga nel
1932 ma che volle essere sepolto nel cimitero di Morcote dopo avere
preso residenza a Figino nel 1927, in più occasioni onorò la presenza
nella regione di Friedrich Klose, allievo di Bruckner nato a Karlsruhe,
dal 1921 residente a Muralto e poi a Ruvigliana, le cui musiche entrarono nel repertorio della locale Radiorchestra benché non più rappresentative del gusto del tempo. Parimenti agli operatori musicali della RSI
non sfuggì la venuta a Tesserete (residenza che mantenne in alternanza
con Lucerna) di Will Eisenmann, tedesco di orientamento estetico francese e pacifista che nel 1933 con l’avvento di Hitler al potere decise di
non più ritornare in Germania. A lui la radio luganese riservò la prima
esecuzione del Concerto in mi bemolle per sassofono e orchestra
interpretato da Sigurd Rascher e diretto da Otmar Nussio il 5 febbraio
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1939, dopo che Leopoldo Casella il 12 marzo 1937 gli aveva già diretto
Pareti di vetro (impressioni di Davos) e dopo l’Épitaphe pour Maurice
Ravel per pianoforte e orchestra che Hermann Scherchen il 10 marzo 1938 aveva inserito nel suo primo programma approntato per la
RSI. Il 10 maggio 1946 troviamo ancora i suoi Gesänge im Zwielicht
interpretati dal soprano Annette Brun, mentre (diretta da Nussio) il 9
ottobre la Radiorchestra eseguiva la sua Musica in forma di spirale.
Paradossalmente meno evidenza sull’antenna luganese fu riservata a
Max Ettinger, figura di primo piano della scena musicale tedesca negli
anni 20 in cui circolavano almeno tre sue opere teatrali (Judith, Juana,
Clavigo) e dove ricoprì cariche importanti (al Conservatorio Stern di
Berlino), ma il quale in quanto ebreo all’arrivo dei nazisti fu costretto ad emigrare scegliendo la soluzione più a portata di mano, cioè
trasferendosi ad Ascona dove sbarcò il lunario trasformando la casa
che possedeva in pensione gestita insieme con la moglie cantante. La
sua presenza in Ticino non passò inosservata: non solo è documentata
l’esecuzione di alcune sue composizioni cameristiche (la “Sonatina per
due violini” trasmessa il 16 febbraio 1939 e una serie di suoi Lieder
interpretate dal tenore Simons Bermanis), ma si ricorda la sua collaborazione alla RSI come trascrittore di musiche italiane per l’orchestra e il coro.
Più emblematico è il caso di Wladimir Vogel il compositore russo-tedesco attivo dal 1936 in poi tra Comologno ed Ascona ai margini della
vita culturale anche per la sua precaria sopravvivenza con un visto turistico che lo obbligava a lasciare il paese ogni tre mesi. Orbene, prima di
ricevere incarichi significativi come avvenne nel 1946 con la creazione
delle Settimane musicali di Ascona che egli promosse insieme con il
pianista Alessandro Chasen e l’avvocato Leone Ressiga-Vacchini, nel
1941 compose per la RSI le Liriche su testo di Francesco Chiesa che
furono trasmesse il 14 marzo nell’interpretazione di Fernando Corena,
mentre i suoi Madrigali per coro a cappella su testo di Aline Valangin (1938-39), la prima sua composizione scritta in base al metodo
dodecafonico, trovarono fra i primi esecutori il Coro della RSI diretto
da Edwin Loehrer che li presentò al microfono della nostra radio il 12
ottobre 1943, un anno dopo la loro prima esecuzione a Basilea.
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D’altra parte l’arrivo a Lugano (dove avrebbe risieduto fino al 1951)
del compositore e pianista bernese Edward Staempfli (di formazione
cosmopolitica in Germania e a Parigi, la cui Musik für 11 Instrumente aveva ottenuto il Prix Henry Le Boeuf) portò sicuramente una ventata considerevole di modernità, documentata dall’esecuzione l’11
maggio 1942 nello studio del Campo Marzio della sua Sonata in un
programma di musiche per pianoforte a quattro mani con Suzanne
Wetzel-Favez. Lo documenta pure l’esecuzione l’11 settembre 1944
alla RSI del suo Duo per due pianoforti composto nel 1938, eseguito (insieme con l’Andante e Allegro molto dal Concerto per
due pianoforti di un altro compositore svizzero, Peter Mieg) da due
artiste luganesi, Carla Badaracco e Pina Pozzi, quest’ultima detentrice
del secondo premio ottenuto al Concours international d’exécution musicale di Ginevra nel 1943 che le aprì una discreta carriera
concertistica. Di Staempfli il 15 aprile 1945 Loehrer diresse anche i
Sei sonetti per soprano e orchestra da camera insieme con Une des
fins du monde di Rolf Liebermann, che alcuni anni prima era venuto
ad Ascona a perfezionare la composizione con Wladimir Vogel.
Radio Monteceneri costituì quindi un punto di incontro non solo genericamente parlando (surrogando la mancanza di istituzioni musicali) ma per la presenza fisica degli artisti invitati al suo microfono,
fondamentale soprattutto per coloro che per vari motivi si erano stabiliti nella Svizzera italiana e che il polo rappresentato dallo studio
radiofonico tolse dall’isolamento favorendo (come in questo caso) il
loro contatto con la realtà locale.
In proposito occorre perlomeno ridimensionare un certo luogo comune che pretende il Ticino indifferente alla presenza pur cospicua
di personalità di provenienza nordica (anche rilevanti come Hesse,
Hauptmann, Zweig, Ball, Klee, Arp, ecc.), rimaste rintanate nelle loro
residenze senza contribuire allo sviluppo della cultura locale (sottolineando il grado di incompatibilità fra i due livelli). Se questo fu il caso
dei letterati certamente, non lo fu per quanto riguarda la musica, sia
per la sua natura comunicabile al di là della barriera linguistica, sia
per il ruolo che appunto la radio vi svolse come intermediario, dovuto
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all’ambizione di mantenersi all’altezza della funzione che altrove la
radiofonia aveva assunto nei confronti della creatività contemporanea e alla constatazione della scarsa rilevanza dei pochi compositori
indigeni che l’ente non esitò a surrogare adottando in un certo senso
la produzione degli artisti venuti da fuori.
Non si può pertanto passare sotto silenzio il significato dell’incarico
di composizione dato ad Ernst Krenek, allora residente nella regione,
addirittura per un’occasione celebrativa. Per il concerto d’inaugurazione del studio radiofonico il 6 novembre 1938 Radio Monteceneri
commissionò al compositore austriaco l’ouverture Campo Marzio
op. 80, il cui titolo non solo derivava dal nome della zona in cui era
stata edificata la nuova struttura, ma anche da quello dello stadio
attiguo in cui giocava regolarmente la squadra locale, tant’è vero
che la composizione sintetizza il dinamismo dello svolgimento del
gioco calcistico nel contesto fragoroso di folla vociante a giustificare
l’esasperazione sonora, l’intrico ritmico, lo stridore delle dissonanze
di un pezzo che si qualifica accanto ad altre opere di carattere “metropolitano” del tempo (Rugby di Honegger, Foules di Ferroud,
La bagarre di Martinu, Record di Tocchi, ecc.). La scelta si ripeté
nel 1962 per l’inaugurazione della nuova sede radiofonica di Besso
quando all’ufficialità nazionale invitata fu offerta l’esecuzione diretta
da Edwin Loehrer della Meditazione su una maschera di Modigliani commissionata a Wladimir Vogel su testo di Felice Filippini.
Fra i momenti di particolare rilievo è inoltre da ricordare l’occasione
già offerta nel 1937 ad Ernst Krenek di dirigere alla nostra radio varie
sue composizioni, tra cui l’intermezzo Estremadura dall’opera Karl
V che l’anno prima Ansermet aveva diretto al festival della Società
Internazionale di Musica Contemporanea a Barcellona (mentre la prima esecuzione integrale dell’opera, che segna il definitivo approdo
del compositore al sistema dodecafonico, sarebbe stata data a Praga
solo l’anno dopo).
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Lo scotto pagato all’italianità
In verità tale apertura del nostro ente radiofonico non avvenne senza
contraccolpi, dovuti al fatto di trovarsi esso direttamente confrontato
con la realtà d’oltre San Gottardo, da cui giungevano spinte verso una
dimensione cosmopolitica e radicalizzata del fare artistico, in contrasto con la corrente maggioritaria che in ambito italiano aveva portato
all’arroccamento su posizioni nazionalistiche, impegnate a demarcare
il confine tra il senso di continuità rispetto ai valori della classicità ereditati dal proprio glorioso passato e la rottura degli equilibri che si era
manifestata in campo europeo. Il valore dell’italianità particolarmente
sentito e coltivato in Ticino durante gli anni del fascismo (ed anche
oltre la fine della guerra), indipendentemente dalla netta contrapposizione politica, ne ancorava le prospettive artistiche alle conseguenti
forme di autarchia culturale che, sommate alle remore strutturali tipiche della provincia, ritardarono fino agli anni 50 il riallineamento con
il grado avanzato della scena internazionale. In ambito musicale ne
abbiamo il riscontro nella dialettica instauratasi alla RSI tra le aperture
di una figura quale Edwin Loehrer (che alla RSI non solo creò un vero
e proprio punto di riferimento per la riproposta della musica antica italiana ma si distinse anche per le scelte innovative che lo portarono già
all’inizio degli anni 40 a proporre musiche avanzate com’erano quelle
di Vogel citate) e la posizione conservatrice di Otmar Nussio il quale,
pur essendo compositore (ma proprio per la formazione respighiana),
non oltrepassò mai l’orizzonte delle forme tornite e solari di matrice
mediterranea. L’ambito di intervento suo e del secondo direttore della
Radiorchestra, Leopoldo Casella, rimase infatti fino al termine della
loro attività negli anni 60 quello della musica neo-oggettiva che aveva dominato nel periodo tra le due guerre, di autori quali Riccardo
Pick-Mangiagalli, Mario Pilati, Felice Lattuada, Virgilio Mortari, Carlo Alberto Pizzini, Gian Luca Tocchi, Renzo Bossi (gli ultimi quattro
presenti anche sul podio della Radiorchestra), per fare solo pochi
nomi, invitando a dirigere proprie opere direttori di convenienza (a
scopo di scambio) come Gaston Brenta nel 1956, o addirittura
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alcuni compositori-direttori “decotti” (potremmo dire per il ruolo ufficiale detenuto durante il fascismo). Adriano Lualdi (già deputato e
consigliere nazionale alla Camera dei fasci e delle corporazioni attraverso cui si era assicurato incarichi prestigiosi) fu chiamato a più
riprese, ancora nel 1964 a dirigere la sua opera Le furie di Arlecchino. Ennio Porrino, che si era distinto come teorico di un’”arte autarchica” e come autore dell’Inno dei legionari della Repubblica di
Salò, fu più volte sul podio della Radiorchestra.
In tal modo si spiegano i primi interventi critici di Carlo Florindo Semini il quale, indipendentemente dai meriti di promotore culturale
assunti in seguito, al suo arrivo alla RSI stabilì un fronte che, pur non
riuscendo a prevalere del tutto, in forza della sua formazione napoletana lo erse a sentinella di una posizione essenzialmente impegnata a
difendere valori che con la fine della guerra stavano ormai alle spalle.
Commentando un programma dedicato al trentesimo dell’URSS, parlando di Mossolov e Sciostakovic, egli metteva l’accento su “quella
produzione che si scosta e dalle astruserie metafisiche della corrente
scriabiniana e dalla volgarità di effetti propagandistici” (“Radioprogramma”, 1 novembre 1947, p. 4). Presentando i quartetti di Vito
Frazzi e di Carlo Savina elogiava la loro capacità “di liberarsi dal peso
dei riguardi dovuti allo snobismo e della singolarità raggiunta ad ogni
costo [differenziandosi] da quella produzione ove l’anima e la fantasia - cioè le eterne sorgenti dell’arte - sono eliminate dal meccanismo
tecnico come valori provvisori e contingenti” (“Radioprogramma”, 9
agosto 1947, p. 4). È superfluo sottolineare come tali criteri di giudizio fossero ancora intrisi dell’animosità che aveva alimentato l’ostracismo decretato nell’anteguerra contro gli spiriti che rifiutavano di
essere assimilati al dettato organico alle scelte politiche d’ordine e di
autorità, esplicitamente riprodotto nei termini imposti alle “espressioni artistiche contemporanee, che possono essere valide a condizione
che ogni fremito polemico e rivoluzionario sia superato e purificato
dalle libere ed inalterabili ragioni dell’arte” (“Radioprogramma”, 22
luglio 1950, p. 9). Nel commento a tre concerti della Radiorchestra,
che come si vede era particolarmente impegnata a dar voce alle nuo-
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ve espressioni, allo scopo di guidare l’ascolto attraverso la loro varietà
egli riproduceva la stessa terminologia che era servita ai detrattori
della “musica degenerata” a tracciarne il profilo patologico, distinguendo le espressioni “pervenute a risultati concreti (riconoscibili per
solidità e novità di architettura formale, ampio respiro e consistenza
inventiva), [da] altre disperatamente aggirantesi nei meandri del più
grigio cerebralismo e apparentemente illuminate dall’idea di comicità
e di grottesco che, in effetti, non riesce a nascondere l’ipocrisia di una
truccatura, spesso soltanto pirotecnica e chiassosa” (“Radioprogramma”, 22 luglio 1950, p. 3).
Chiaramente il modello era quello italiano, di un’Italia di cui tuttavia
non riconosceva ancora la svolta che anche in campo estetico, oltreché politico, era avvenuta al termine della guerra aprendola alle
prospettive europee, celebrata quindi ancora per i valori restaurativi
di un preteso primato latino proveniente dalla sua storia secolare. Un
concerto pubblico diretto da Bruno Erminero con musiche di Licinio
Refice, Ottorino Respighi, Ildebrando Pizzetti ed Alfredo Casella fu
l’occasione di dichiarare la sua professione di fede: “Assertori convinti della necessità di portare dinanzi al pubblico nostro opere che
parlino un linguaggio nuovo, ma un linguaggio che non abbia l’unico
privilegio della curiosità e dell’anomalia cerebrale, non possiamo che
approvare l’odierna presentazione: musiche italiane moderne non
recentissime ma sempre attuali per il vivo senso di poesia che le sorregge. Segnaliamo particolarmente gli ‘Inni greci’ dalla ‘Festa delle
Panatenee’ di Pizzetti, musica di scena ispirata al mondo classico. Più
di una volta il compositore di Parma ha saputo risuscitare nel suo cuore quel mondo greco che, a preferenza, gli fu prodigo di risonanze
armoniose; ed è proprio questo il Pizzetti che amiamo, perché quelle
visioni Egli sa fermare in un quadro musicale, breve e perfetto, penetrato dagli spirti d’una danza ideale” (“Radioprogramma”, 8 marzo
1947, p. 4).
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Apertura degli orizzonti
Si può capire allora cosa Semini potesse pensare della dodecafonia la
cui affermazione ebbe una tappa importante che coinvolse il Ticino ed
in parte la radio, quando Wladimir Vogel riunì un gruppo di “reduci”
e di neofiti convertiti a quel messaggio (Luigi Dallapiccola, Riccardo
Malipiero, Serge Nigg, Karl Amadeus Hartmann, Eunice Catunda, Hans
Joachim Koellreutter, André Souris, Erich Schmid, Rolf Liebermann,
Alfred Keller, Hermann Meier) in una conferenza tenuta il 12-13 dicembre 1948 all’Hôtel Victoria di Orselina come sessione preparatoria
del Primo Congresso internazionale per la musica dodecafonica che si
sarebbe svolto a Milano il 4-7 maggio 1949. La RSI non vi era parte in
causa, ma sappiamo che vi fu il progetto da parte di Loehrer di tenervi
un concerto di composizioni corali-orchestrali fra cui i cori da Il prigioniero di Dallapiccola, opera che avrebbe avuto la prima esecuzione
solo il 1 dicembre di quell’anno. Per motivi organizzativi e finanziari
il progetto non andò in porto, ma un contributo indirettamente proveniente dalla radio luganese a Milano ci fu comunque attraverso la
partecipazione di Margherita De Landi (soprano del coro di Loehrer)
accompagnata dal marito Edward Staempfli nei Kafkalieder di Krenek, mentre l’anno prima la coppia aveva partecipato al concerto tenuto ad Orselina in margine alla conferenza preparatoria. Comunque,
dopo avere già diretto i Cori di Michelangelo Buonarroti il giovane
di Dallapiccola in esecuzioni dal 1946 in poi, Loehrer ne presentò i
Cinque frammenti di Saffo nel 1949, seguendolo fino alle ultime
opere (Tempus destruendi e Tempus aedificandi nel 1974), mentre
di Riccardo Malipiero avrebbe diretto nel 1949 la cantata Antico sole e
nel 1959 l’opera La donna è mobile. Al contrario il quadro delle esecuzioni di musica moderna affrontate da Nussio e da Leopoldo Casella,
oltre i referenti d’obbligo (Stravinsky, Milhaud, Hindemith, Honegger,
ecc.), rimaneva circoscritto agli autori rappresentativi di una modernità
moderata (Jean Rivier, Benjamin Britten, Arthur Benjamin, Marcel Poot,
solo per fare alcuni nomi).
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Loehrer, che pure non trascurò autori moderati quali Britten, Jean
Françaix, Jean Absil, Jacques Ibert, Marcel Landowsky, Carl Orff, Poulenc, Vaughan Williams, Felice Quaranta, Gian Carlo Menotti e altri,
a Wladimir Vogel garantì la presentazione anche di altre opere (In
memoriam nel 1948, Goethe-Aphorismen nel 1959, Preludio Interludio lirico - Postludio nel 1965, Sei frammenti da “Thyl
Claes” nel 1970), andò anche oltre giungendo fino a Webern (nel
1956), in un ventaglio di autori spazianti tra Frank Martin (di cui nel
1957 eseguì Le vin herbé in versione italiana come “il vin fatto” e
più tardi Pilate), Bohuslav Martinu (What Men Live By nel 1956
e Gilgamesch nel 1959), Michael Tippett che invitò nello studio di
Lugano il 16 dicembre 1951 a dirigere il suo celebre oratorio A Child
of Our Time (poi ripreso diretto da lui stesso), fino alle composizioni
vocali di Olivier Messiaen per le quali invitò nel 1960 Marcel Couraud
a dirigere il suo coro, ad Hans Werner Henze di cui affrontò i Cinque
canti napoletani nel 1966, i Cinque madrigali su testi di Villon e
la Cantata della fiaba estrema nel 1967, ai Canti amorosi di Wilhelm Killmeyer nel 1968, a Psalm of Christ di Klaus Huber, a Psalm
130 di Heinz Marti e a Gelöstes Haar di Peter Wettstein nel 1970, a
Chant de naissance di Wolfgang Fortner nel 1971, a El carbonero
di Sylvano Bussotti e alle Tres cantiones sacrae di Rudolf Kelterborn
nel 1974. Nell’ambito specifico della coralità non è inoltre da sottovalutare il suo impegno sul fronte degli autori che più innovarono in
ambito novecentesco (Janacek, Bartók, Kodaly).
Di Loehrer vanno ricordate anche alcune prime esecuzioni svizzere, in
particolare la Messa di Poulenc nel 1948 e la Messa di Stravinsky che
preparò per la presentazione ufficiale il 22 aprile 1949 alle Settimane
musicali di Ascona sotto la bacchetta di Ernest Ansermet, ma che sotto la sua direzione andò in onda sull’antenna di Radio Monteceneri il
13 marzo. Nella funzione assunta in un organismo dedito alla promozione della cultura italiana, esattamente come si era consacrato alla
valorizzazione della musica italiana antica, era alla musica moderna
del paese di riferimento che consacrò altrettante cure. Nei suoi programmi possiamo quindi trovare Pizzetti e Guido Guerrini abbinati a
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Monteverdi e Pergolesi (22 gennaio 1950), Gian Francesco Malipiero
(Le sette allegrezze d’amore e Li sette peccati capitali nel 1950,
Vergilii Aeneis nel 1964, La passione nel 1966), più volte Giorgio
Federico Ghedini (che invitò a dirigere di persona la prima esecuzione
di Contrappunti il 12 aprile 1962), Goffredo Petrassi di cui diresse La
morte nell’aria nel 1955 e i Mottetti per la passione nel 1970, Valentino Bucchi di cui presentò Il contrabbasso (1955), Giulio Viozzi a
cui riservò l’esecuzione di Un intervento notturno (1955). Altri autori italiani considerati da Loehrer furono Louis Cortese, Guido Turchi,
Flavio Testi, mentre, come nella musica antica era guidato dalla pratica accademica in forme cicliche di programmazione, così in forma
sistematica poteva raggruppare Massimo Toffoletti, Alberto Soresina,
Bruno Bettinelli, Guido Farina come “Giovani compositori milanesi”
(22 luglio 1951), oppure Emilia Gubitosi, Barbara Giuranna, Elsa Respighi, Giulia Recli come “Compositrici italiane” (17 giugno 1951).
L’interesse e l’impegno per la musica contemporanea, a fronte di certe preclusioni riscontrabili nelle scelte di Nussio e di Casella, portò Loehrer a sviluppare una collaborazione organica con un musicista che,
in quanto allievo di Hermann Scherchen, frequentava il maestro nella
sua attività presso lo Studio di musica e elettroacustica fondato a Gravesano nel 1954. Si tratta di Francis Irving Travis, allora alle prime armi
ma affermatosi poi per la sua militanza in favore della musica contemporanea a livello europeo. Entrato in contatto con la RSI, dal 1957
in poi il giovane maestro americano contribuì in modo determinante
ad allargare la paletta della programmazione. Nonostante il compito
di assicurare la produzione vocale-orchestrale Loehrer lo lasciò libero
di mettere in cantiere significative esecuzioni di musica strumentale.
Nel 1957, sicuramente indottovi da Scherchen, il giovane maestro
presentava Dance Rhythms op. 58 dwel dodecafonico americano
Wallingford Riegger, contemporaneamente ai Sex carmina Alcaei
di Dallapiccola e al IV Concerto di Petrassi, due composizioni italiane
lontane l’una dall’altra ma significative per il grado avanzato di modernità esibito quasi programmaticamente, temperata quell’anno dalla presentazione del Canto e ballo sardo di Casella,
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dalla Terza fantasia concertante di Gian Francesco Malipiero e della
Musica notturna di Ghedini, di cui avrebbe diretto due anni dopo il
Concerto dell’Albatro, e ancor più nel 1963 dall’esecuzione della
Sinfonietta di Mario Zafred.
Travis si dimostrò sempre pluralista nella militanza per la musica nuova, rispettata in tutte le sue diramazioni, benché si sia fatto una fama
ponendosi al servizio del fronte radicale. La musica italiana, in base alla
linea dettata da Loehrer, era prioritaria, per cui nel prosieguo ne troviamo molta. Di Petrassi a Lugano avrebbe ancora eseguito nel 1959 i
Quattro inni sacri e Noche oscura nel 1970, mentre di Dallapiccola
nel 1972 avrebbe affrontato Il prigioniero. Questo avveniva senza
mancare alla funzione di valorizzare la modernità nei suoi capisaldi
“stortici”, come dimostra La favola d’Orfeo di Casella registrata nel
1961. L’8 dicembre 1958, accanto ad Universa universis per coro
maschile di Gian Francesco Malipiero (di cui avrebbe eseguito anche
Preludio e morte di Macbeth nel 1964) e alla Corona di sacre
canzoni di Ghedini, troviamo in un suo programma autori italiani fra i
primi a schierarsi sul fronte dodecafonico: Mario Peragallo con la Musica per archi e Alberto Bruni Tedeschi con la Sinfonia in un tempo,
ereditata da Scherchen che l’aveva diretta nell’immediato dopoguerra
a Venezia. Sempre in base alla ciclicità adottata da Loehrer nell’appuntamento con la “Musica moderna italiana” il 21 dicembre 1959 Travis
presentava musiche di Vittorio Fellegara, Petrassi e Ghedini, mentre il
26 aprile 1963 era la volta di Guido Turchi, Orazio Fiume e Petrassi.
Il maestro americano si muoveva a tutto campo, dalle composizioni
corali di Schoenberg (1959), alle “opéras minute” di Milhaud (1962),
all’opera Corinna di Wolfgang Fortner presentata in versione italiana il
18 maggio 1962.
La musica svizzera costituiva l’altro punto cardine della programmazione. A parte qualche concezione alla moderatezza (Tischauser nel 1961,
Julien François Zbinden nel 1961 e nel 1962), le sue scelte erano inequivocabilmente orientate sul versante dodecafonico: Musik (scena
sinfonica), Chinesische Lieder (interpretati da Eric Tappy), Suite sopra
sei canzoni popolari svizzere di Rolf Liebermann (1962), Impromptu
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(1959) e Lyrische Suite (1960) di Robert Suter, con un interesse particolare per una giovane leva quale Rudolf Kelterborn (Suite per ottoni,
archi e percussione nel 1960, Sonate per 16 archi nel 1961).
Molta musica contemporanea figurava anche nei programmi allestiti
dagli altri direttori che Loehrer invitò sul podio a Lugano. Anzi, se per
quanto riguarda la musica antica (o più genericamente del passato) fu lui
a detenere prevalentemente la bacchetta, per la musica del Novecento
concesse ampie possibilità ai maestri ospiti. Oltre a Paul Schmalz, Vittorio Baglioni, Werner Heim, Jean Meylan, Antonio Narducci, Willy Gohl,
Napoleone Annovazzi, Tito Gotti, Räto Tschupp, Martin Turnovsky, Samo
Hubad (per la musica moderna jugoslava), Ivan Marinov (per la musica moderna bulgara), Imre Czenki (per la musica moderna ungherese),
Miltiades Caridis (per la musica moderna greca), significativa fu la presenza di compositori-direttori: Wolfgang Fortner nel 1959 con Nuptiae
Catulli per tenore, coro e orchestra e Aria per contralto e orchestra,
Walter Furrer con Sources du vent (1965) e Türkische Lieder (1970),
Flavio Testi nel 1975 in concerto pubblico con Passio Domini Nostri
Jesu Christi secundum Marcum.
Un apporto di tutto rispetto relativamente alle espressioni più avanzate, con particolare attenzione alla scena italiana, fu assicurato dal maestro torinese Bruno Martinotti, per quanto riguarda Bruno Maderna
(Serenata n. 2, 1966), Riccardo Malipiero (In Time of Daffodils, 1966,
Carnet de notes, 1969, Mosaico, 1971, Muttermusik, 1978), Gianni Ramous (Cantata, 1966, Lettera alla madre, 1971), Dallapiccola
(Piccola musica notturna, 1967, Concerto per la notte di Natale,
1971), Albert Moeschinger (Miracle de l’enfance, 1967), Carlo Jachino
(1967), Vittorio Fellegara (1967, 1975), Petrassi (Recréaction concertante, 1968, Sonata da camera, 1969), Luigi Nono (Ha venido, 1968),
Webern (Cantata op. 31, 1968), Giacomo Manzoni (Don Chisciotte,
1969), Bruno Bettinelli (1971), Luciano Chailly (1975), Eric Gaudibert
(Année, 1977), Lutoslawski (Paroles tissées, 1978). Come si vede,
nonostante qualche oscillazione, il solco era ben tracciato nel campo
dell’innovazione raccogliendo dal contesto italiano, in modo non completo ma sufficientemente rappresentativo, i segnali delle forze migliori.
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L’operazione più originale, sfruttando al meglio le risorse dell’ente, fu
comunque l’iniziativa di Loehrer di affidare a Travis l’organizzazione
di un ciclo di musica contemporanea denominato Podio. Riunendo a
seconda degli organici singoli membri dell’orchestra radiofonica, gli fu
possibile allestire tra il 1960 e il 1961 una serie di programmi trasmessi
la domenica mattina di composizioni in formazione cameristica, che
coprivano l’arco della recente modernità internazionale, come rivelano
gli autori prescelti (Stravinsky, Casella, De Falla, Hindemith, Weill, Dallapiccola, Mathias Seiber, Britten, Lex Van Delden, Walter Piston, Gian
Francesco e Riccardo Malipiero). Purtroppo tale iniziativa non andò
oltre l’arco di alcuni mesi, ma essa rimane uno dei momenti più originali della programmazione di musica contemporanea alla RSI, anche
se tutto questo impegno produttivo rimaneva finalizzato alla trasmissione via etere senza sbocco nel rapporto diretto col pubblico. Questo
capitò solamente l’11 febbraio 1963 con l’esecuzione di Verklärte
Nacht e del Pierrot lunaire di Schoenberg diretti da Travis, che avvenivano in un contesto più favorevole ed interessato rispetto alla prima
occasione che il pubblico ticinese ebbe di confrontarsi con questa musica il 27 febbraio 1947, quando Otmar Nussio presentò il tormentato
ciclo vocale maeterlinckiano del compositore austriaco, accolto “con
derisione e fischi” (come ricorda nella sua autobiografia).
Nel frattempo il pubblico locale aveva infatti avuto l’occasione di confrontarsi con Stravinsky, giunto di persona ai Concerti di Lugano a
due riprese alla testa della Radiorchestra nell’esecuzione dei suoi lavori (il 29 aprile 1954 e il 28 aprile 1955), seguito da Paul Hindemith
nel 1957 pure in veste di compositore-direttore. Inoltre il 20 gennaio
1962, con un concerto della Radiorchestra diretta dal giovane Charles
Dutoit in un programma modernamente orientato su Stravinsky, Frank
Martin e Arthur Honegger, promossa da Carlo Florindo Semini e quindi ancora centrata sulla radio, veniva ufficialmente fondata la sezione
regionale della Gioventù musicale svizzera che in poco tempo giunse
a radunare intorno a sé più di mille aderenti, rivelando la crescita di un
interesse che in realtà andava oltre la musica. Al di là del risultato della formazione di un pubblico di ascoltatori fedeli delle manifestazioni
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musicali che sempre più frequentemente si tenevano, la motivazione
di tale sviluppo rispondeva a stimoli intellettuali derivanti dalla fruizione di occasioni artistiche ancor più frequenti in altre discipline. Non per
niente più che organizzatrice di concerti la Gioventù musicale, attraverso conferenze, sedute d’ascolto e la creazione di un proprio periodico, era impegnata a prospettare una riflessione sui principi estetici,
storici e sociali che informavano il fatto musicale. Sintomaticamente in
quell’ambiente maturarono le scelte di alcune personalità quali Francesco Hoch e Luigi Quadranti, i primi a votarsi alla composizione sul
fronte dell’avanguardia, o di interpreti quali Fabio Schaub, Luca Pfaff
e Giorgio Bernasconi che intrapresero meritevolmente la carriera direttoriale per lo più al servizio dei prodotti della nuova creatività.
Una certa influenza proveniva dall’eco delle iniziative promosse da
Hermann Scherchen nel suo Studio di Gravesano, assurto a centro
di portata europea accanto agli studi consimili creati a Parigi, Colonia, Milano, Varsavia. Le attività portate avanti dalla sua istituzione
(le realizzazioni sonore di Luc Ferrari e di Iannis Yenakis, i soggiorni di studio e i congressi a cui parteciparono personalità quali Pierre
Schaeffer, Werner Meyer-Eppler, Friedrich Trautwein, Oskar Sala, Luigi
Nono, Fritz Enkel, Abrahm M. Moles, Michel Philippot, ecc., nonché la
pubblicazione dei “Gravesaner Blätter”, furono sostenute anche dalla
RSI attraverso i contributi dell’ingegnere del suono Ermanno Briner,
del responsabile tecnico Ausilio Scerri e del direttore Stelio Molo. Fra i
pochi altri ticinesi a seguire anche solo occasionalmente i convegni di
Gravesano fu Fausto Bernasconi, sacerdote-musicista-giornalista prematuramente scomparso. A dire il vero la RSI rimaseguardinga rispetto
all’attività del polo musicale di Gravesano, limitandosi a collaborazioni
di tipo tecnico e a trasmettere alcune esecuzioni delle registrazioni che
Scherchen realizzava con l’Orchestra Ars viva costituita ad hoc (un ciclo
sulla sinfonia del 700 e arrangiamenti di musica leggera) al punto che
alla morte nel 1966 del suo artefice non fu in grado di rilevarne l’iniziativa (come ci si sarebbe potuti attendere con la possibilità di collocare
la RSI nel novero degli studi radiofonici protagonisti dell’innovazione
compositiva allora operanti).
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Un risultato di rilievo riuscì tuttavia a ricavarne. Tra il gennaio e l’aprile
del 1965 in un memorabile ciclo di sei concerti Scherchen fu invitato
sul podio della Radiorchestra a dirigere le nove sinfonie di Beethoven
accoppiate ad altrettante composizioni di fresca creazione o addirittura in prima esecuzione, di Humphrey Searle (Scherzi op.44), Iannis Xenakis (Polla ta dihna), Albert Moeschinger (Capriccio per
fagotto e orchestra), Leon Schedlowsky (Elegia), Tona Scherchen
(Tsu [ambiguità]), Darius Milhaud (Caroles op. 402). Volute da Molo
e gestite da Briner - deliberatamente sottratte alla competenza di
Nussio, evidentemente insensibile di fronte a tale stadio di sviluppo
della musica - le proposte del grande maestro che sarebbe di lì a poco
scomparso, che presentavano a Lugano alcuni compositori dell’ultima generazione, furono di stimolo negli anni successivi a dare spazio
alla musica d’avanguardia fino a quel momento emarginata.
Fu così che ancora la RSI l’11 settembre 1967, questa volta con Carlo
Florindo Semini in prima linea, approfittando del passaggio del celebre Coro della Radio svedese diretto da Eric Ericson (reduce della
prima esecuzione del Requiem di Ligeti al Festival della Biennale di
Venezia) organizzò un memorabile concerto nella Chiesa di S. Pietro
a Biasca rivelatore di come la musica d’avanguardia (in quel caso Lux
aeterna di Ligeti accostato a Friede auf Erden di Schoenberg e
a una vasta rappresentanza del repertorio corale scandinavo) proposta a un pubblico non direttamente predisposto alla musica seria
(complice in quel caso la bravura e l’ammirevole virtuosismo canoro)
potesse infrangere il muro di diffidenza che la circondava.
Per un certo periodo a farsi carico di trainare il pubblico su questo
fronte fu la Gioventù musicale, di cui è importante ricordare il concerto che a Locarno ospitò il gruppo MW 2 di Cracovia l’11 maggio
1968, il quale non del tutto involontariamente rispecchiava la turbolenza internazionale di quel momento critico. Per quanto proveniente
da un paese comunista, il complesso polacco era noto per la capacità
provocatoria dove il suono sconfinava nella gestualità e ci confrontava per la prima volta con eventi sonori programmaticamente dissacranti nel nome di John Cage (Amores e Solo) e di Boguslaw Scäffer
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(Quartetto per due pianisti, soprano e violoncello).
Qualche anno dopo la Gioventù musicale fu in grado di organizzare
in proprio il primo concerto interamente consacrato ad autori rappresentativi delle nuove tendenze, grazie a Fabio Schaub fresco di diploma il quale, con il proprio Ensemble für zeitgenössische Musik
di Friburgo in Brisgovia il 22 novembre 1971, presentò nell’auditorio
della RSI un impegnativo e vasto programma comprendente composizioni di Luciano Berio, Franco Donatoni, Morton Feldman, Niccolò
Castiglioni, Paolo Castaldi e Fausto Razzi (gli ultimi due presenti a
testimoniare il loro grado di militanza).
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Nel territorio oltre il microfono
Nel frattempo, con la cessazione delle funzioni di Otmar Nussio e
di Leopoldo Casella, e la nomina a capo dei programmi musicali di
Ermanno Briner, nel 1966 si era chiuso un capitolo di storia musicale, in parte ancora segnato dall’orizzonte circoscritto di un’italianità
musicale di matrice classicistica poco disposta a confrontarsi con la
spinta evolutiva delle esperienze radicali maturate nel resto del continente. Nel gennaio 1968 Briner diede il via alla rubrica quindicinale
Musica nel nostro secolo, tribuna che selezionava le registrazioni effettuate dalle radio europee nelle canoniche sedi dei festival di
musica contemporanea (Donaueschingen, Darmstadt, La Rochelle,
Venezia, ecc.), mirando a un aggiornamento organico dell’attualità
compositiva.
Con l’arrivo nel 1969, in qualità di direttore stabile dell’Orchestra della RSI, del giovane Marc Andreae (musicista instancabile nella ricerca
di nuove forme comunicative e dai vasti interessi, particolarmente
impegnato ad adeguare il suo lavoro alle necessità radiofoniche,
nel senso di allargare gli orizzonti verso l’inedito in funzione di un
archivio articolato di registrazioni), la stagione dei concerti pubblici
radiofonici assunse un’ampiezza significativa. A differenza dei brevi
cicli precedenti in cui la modernità era rappresentata da personalità
di retroguardia (nella rassegna del 1967 un giovanissimo Riccardo
Muti vi diresse l’atto unico Il rosario di Jacopo Napoli, mentre quella
del 1968 intitolata “Musica di ieri e di oggi” Franco Mannino fu
chiamato a presentare in versione di concerto la sua opera Vivì), si
aprì un nuovo corso che, oltre ad impostare le stagioni concertistiche
intorno al repertorio sinfonico facendo dell’orchestra l’asse portante,
regolarizzò la presenza della musica del nostro tempo. Ciò avvenne a partire dal 1973 con la formula del concerto “Musica viva”
integralmente consacrato ad opere dia autori viventi (il Concerto
per violoncello e orchestra di György Ligeti, il Concerto per oboe
e orchestra di Bernd Aloys Zimmermann, e le prime esecuzioni di
Prove concertanti di Francesco Hoch e di Doktor Faust di Paolo
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Castaldi),in questo senso seguendo il modello dei paesi nordici (modificato in seguito con il semplice inserimento dei brani contemporanei nei normali programmi, a causa dell’appurata estraneità di tale
“ghettizzazione” alle abitudini locali).
Ne uscì una serie ragguardevole di prime esecuzioni di opere commissionate ad autori quali: Robert Majek (1974), Mario Venzago (1974), Bruno Martinotti (Paradigma per orchestra e nastro
magnetico diretta dall’autore), Hans Ulrich Lehmann (1979), Vinko Globokar (1979), Morton Feldman (1981), Gerhard Wimberger
(1982), Salvatore Sciarrino (1983), Sylvano Bussotti (1984), Robert
Suter (1985), Josef Haselbach (1986), Alessandro Lucchetti (1986),
Christian Bänninger (1988), Luca Lombardi (1989). A questi occorre
aggiungere i molti compositori ticinesi attraverso i quali si riflette
l’evoluzione generazionale: Luigi Quadranti (1973, 1978, 1987),
Andreas Pfüger (1974), Claudio Cavadini (1978), Ermano Maggini
(1978, 1987), Francesco Hoch (1978, 1987), Paul Glass (1987), Renzo Rota (1987), Carlo Florindo Semini (1990), Denise Fedeli (1991),
Giorgio Koukl (1981, 1991), Mario Pagliarani (1991), Sergio Menozzi
(1991), ai quali occorre aggiungere Niccolò Castiglioni (Morceaux
lyriques nel 1984), Peter Wettstein (Suono del Ceresio nel 1988,
commissionato dalla Città di Zurigo), e Nguyen Thien-Dao (HoangHon nel 1985) diretto da Luca Pfaff.
Per un certo periodo ad Andreae si affiancò Mario Venzago, attivo
come pianista accompagnatore nella sede radiofonica dal 1971, il
quale assicurò nel 1974 l’esecuzione di Aventures di Ligeti insieme
con una prima esecuzione di Robert Majek, una propria nel 1977
(Gegenzauber) e nel 1981 una di Peter Wettestein. D’altra parte
Giorgio Bernasconi, ospitato regolarmente, si attivò ben presto soprattutto in favore dei compositori ticinesi o residenti nella Svizzera
italiana (Paul Glass, Hoch, Moeschinger, Pflüger, Dalibor Vackar col
Gruppo Musica Insieme di Cremona nel 1978, Vogel, Glass, Renato Grisoni nel 1983), oltre all’occasione di presentare Recital I (for
Cathy) il 7 dicembre 1982 alla testa del suo gruppo cremonese con
Cathy Berberian qualche mese prima della morte della grande can-
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tante la quale, dopo una registrazione di canti armeni, orientali e di
Villa-Lobos, accompagnata da Luciano Sgrizzi risalente al 1960, al
sorprendente concerto pubblico del 1969 intitolato da Monteverdi
ai Beatles e alla serata intitolata Cathy canta l’America appositamente allestita nel 1981 per il ciclo di concerti pubblici dedicato alla
musica degli Stati Uniti lasciò una serie di significative testimonianze
in video della sua singolare e straordinaria arte interpretativa in varie
produzioni della TSI (Melodie di seconda mano nel 1975, Façade
di William Walton nel 1979, Castye (le canzoni russe di Stravinsky)
nel 1980, Esoterik Satie nel 1981.
Particolarmente significativi sono stati i concerti tenuti da compositori-direttori nei cui programmi non sono mancate loro composizioni: Gerhard Maasz più volte dal 1957 al 1966) Ladislav Kupkovic
(1976), Marcello Panni (1976), Christobal Halffter (1977), Gilbert
Amy (1978). Giuseppe Sinopoli (1979), Rudolf Kelterborn (1976,
1982), Friedrich Cerha (1982), Jürg Wyttenbach (1984), a cui occorre aggiungere l’omaggio a Morton Feldman - presente il 25 e il
26 marzo 1981 alla prima esecuzione di The Turfan Fragments e
a commentare una serie di sue composizioni pianistiche eseguite da
Giancarlo Cardini - e quello riservato a Olivier Messiaen il 14 marzo
1987 invitato ad assistere alle Trois petites liturgies de la Présence
Divine dirette da Travis con la partecipazione di Jeanne e Yvonne
Loriod.
L’arrivo a Lugano di Andreae ebbe conseguenze anche sulle scelte di
Edwin Loehrer. Se il maestro sangallese si era già distinto oltre misura
per l’apertura al nuovo, precedentemente era pur sempre stato legato alle manifestazioni della generazione maturata prima e nell’immediato dopoguerra. Dal ’70 in poi, in tacita competizione col più
giovane collega zurighese, è riscontrabile nei suoi programmi un’attenzione più marcata per l’avanguardia in azione. La svolta fu anche
formalmente segnata dall’audace inserimento nel ciclo pubblico di
un memorabile concerto del Coro della RSI affidato alla bacchetta di
Clytus Gottwald, direttore ben noto per le sue scelte estreme collaudate nei festival specializzati e nella discografia di riferimento.
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Invitato già nel 1971 a registrare un impervio ANN di Dieter Schnebel, il 5 aprile 1973, nell’Auditorio della RSI riservò un’intera serata
a una carrellata dimostrativa del fronte più avanzato e provocatorio
della vocalità: Entflieht auf leichten Kaehnen op. 2 di Webern,
Sarà dolce tacere di Luigi Nono, Consolation II di Helmuth Lachenmann, Verzeichnis di Friedrich Cerha, Psalm di Heinz Holliger, Halleluja di Mauricio Kagel. Loehrer lo invitò anche in seguito, nel 1977
a realizzare con voci e strumenti O King di Berio, A Dream of the
Seven Lost Stars di David Bedford e Transfiguracion di Thomas
Marco, e nel 1980 con coro e orchestra Being Beauteous di Henze
e Seven in nomine di Peter Maxwell Davies.
È significativo che, nonostante l’età, a quello stadio in Loehrer maturasse un interesse tanto acceso per la creatività contemporanea apparentemente lontana dalla sua generazione. Fatto sta che nell’ultimo
decennio della sua attività alla RSI lo spazio da lui riservato al confronto con la musica nuova prese una dimensione significativa. Restio
ad assumersi un compito guida in questo campo, fu il principio della
“carta bianca” da lui concessa ai maestri invitati a dirigere. Rudolf
Kelterborn fece da spartiacque dirigendo due sue cantate nel 1970 e
in seguito autori quali Rolf Loser, Wilhelm Killmeyer, Berio, Maderna,
Niccolò Castiglioni, Dallapiccola. Contemporaneamente individuò
in Mario Venzago, che poi si sarebbe rivelato un talento direttoriale indiscusso, un collaboratore particolarmente motivato in questo
campo. Venzago diresse il Coro della RSI nell’esecuzione per certi
versi programmatica non solo di composizioni proprie ma anche dei
maestri di riferimento (Schoenberg, Eric Schmid, Robert Suter, Rudolf
Kelterborn). Ma fu soprattutto al giovane zurighese Werner Bärtschi
(pure inizialmente attivo come ripetitore) che accordò la maggior fiducia, dal giovane pianista ripagata con una motivazione particolare nell’allestire la complessa esecuzione delle pagine allora più rappresentative ma anche più ardue della vocalità. Dopo gli assaggi di
Webern e Bussotti (Il nudo) nel 1971, tra le altre realizzazioni è da
ricordare il concerto del 15 novembre 1973 in cui diresse una serie
impressionante di pagine che da poco avevano rinnovato lo scenario
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della nuova musica: il sestetto Rar’ancora e Bussotti, Atemzüge,
Drei Stücke per 18 voci di Martin Derungs (in prima esecuzione)
e soprattutto Mikrophonie II di Stockhausen, Atemzüge di Dieter
Schnebel e (in prima esecuzione svizzera) l’integrale dei Versuche
dello stesso compositore.
Francis Travis, che aveva continuato ad essere un riferimento di garanzia per la musica contemporanea (come dimostrava la sua interpretazione di Jeux vénitiens di Lutoslawski e della Partita per cembalo concertante e strumenti di Krzysztof Penderecki nel concerto
pubblico del 31 marzo 1977), succedendo Loehrer come maestro del
coro e responsabile della produzione vocale nel 1981, pur varando
una programmazione di repertorio non mancò di lasciar spazio alla
contemporaneità, eseguendo dell’amato Isang Yun Der weise Man
(1981) e Ein Schmetterlingstraum nel 1987 in un concerto pubblico comprendente La mort d’un tyran di Milhaud, due brani dalla
cantata La vita non è un sogno di André Laporte e il Ballet mécanique di George Antheil. Come agli inizi della sua collaborazione
con la RSI con Friede auf Erden di Schoenberg nel 1958 presentò
un saggio di pura geometrica coralità, verso la fine (1987) non mancò
di ritornare su quegli orizzonti siderei col coro a cappella rivisitato da
Rolf Urs Ringger (Tacciono i boschi e i fiumi e Nell’aria i vaghi
spiriti) e partecipando alla valorizzazione di Giacinto Scelsi (Même si
je voyais e Il est grand temps per tenore solo).
Accanto alla tradizionale azione della radio è poi da considerare quella della Televisione della Svizzera italiana. Pur concentrate in produzioni occasionali, essa fu all’origine dell’invito di alcune personalità
della nuova musica a presentare i prodotti della loro arte in veste
di testimoni ed esecutori insieme: Sylvano Bussotti (1974), Mauricio
Kagel (1975), Luciano Berio (1976), Luigi Nono (1976), Hans-Werner
Henze (1980).
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Nel 1981, in occasione dell’82.esima Festa dei Musicisti svizzeri (dedicata al tema musica e televisione) tenuta a Lugano, la TSI commissionò e produsse Claustrophonie di Jürg Wyttenbach, composizione
per violino solista e 12 violini di fila (con la regia di Peter Schweiger)
concepita come “Monodrama” per la destinazione visuale. Nel 1985,
in prospettiva sperimentale, realizzò un successivo lavoro di natura
multimediale, Leonardo e/und Gantenbein di Francesco Hoch, presentato anche in pubblico al Teatro Kursaal.
La RSI e Marc Andreae furono anche all’origine dell’apertura delle
Settimane musicali di Ascona alla musica contemporanea nella forma
di un incarico di composizione attribuito annualmente dal 1977 a un
compositore svizzero, alternando ciclicamente con spirito federalistico uno svizzero italiano, un romando e uno svizzero tedesco. Ciò ha
permesso di offrire un ampio quadro della vivace scena creativa elvetica attraverso i compositori: Wladimir Vogel, Will Eisenmann, Conrad Beck, Jean Derbès, Claudio Cavadini, Jaques Wildberger, Carlo
Florindo Semini, Rudolf Kelterborn, Eric Gaudibert, Francesco Hoch,
Norbert Moret, Jost Meier, Paul Glass, Heinz Holliger, Jean-François
Zbinden, Renzo Rota, e via via (cambiato di nome e statuto) ribattezzata l’Orchestra della RTSI col nome di Orchestra della Svizzera
italiana e sotto la direzione di vari maestri, Robert Suter, Jean-Claude
Schläpfer, Renato Grisoni, Gian Antoni Derungs, Thomas K. J. Mejer,
Pierre Mariétan, Nadir Vassena, Mathias Rüegg, Jean-Luc Darbellay.
Nel contempo, direttamente sostenuta dalla RSI, nel 1977 si arrivò
alla costituzione dell’associazione Oggimusica, dedita alla diffusione
della musica contemporanea con particolare attenzione per le esperienze sperimentali e alle relazioni fra espressioni lontane e di livelli diversi. Sull’arco di un trentennio, oltre ai significativi momenti dedicati
a John Cage (1977), Luigi Nono (1979, 1992), alla musica sovietica
(1987), a Luciano Berio alla presenza del compositore (1985), vi hanno sfilato compositori ed interpreti rappresentativi di una militanza
coinvolgente, giunti di persona a Lugano a portare il loro messaggio:
Dieter Schnebel (1977), Ivan Vandor, Jürg Wyttenbach, Vinko Globokar, Michel Portal, Carlos Roqué Alsina, Giancarlo Cardini (1978), Phi-
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lip Glass (1978, 1991), Laurie Anderson, Alvin Lucier, Giovanna Marini (1979), Cathy Berberian (1980), Terry Riley (1981, 1983, 1991),
Alvin Curran (1981, 1991), Claude Helffter, Bruno Canino, Antonio
Ballista, David Tudor (1983), Ciro Scarponi, John Tilbury, Giancarlo
Schiaffini, Aldo Bennici, Urs Peter Schneider, Pietro Grossi (1985),
Steve Reich, Michael Vetter (1988), Karl-Heinz Stockhausen (1989),
Michael Nyman (1990), Paul Giger (1991), il Kronos Quartet, il Balanescu Quartet (1992), il Klangforum Wien (1993), Walter Fähndrich
(1997).
Sicuramente sull’onda della stessa motivazione, quasi contemporaneamente in periferia si sviluppò una palestra estesa addirittura alle
prime assolute. Con la denominazione Musica nel Mendrisiotto
nel 1978 sorse una rassegna diramata nelle località della regione
meridionale del Ticino, meritevole per l’impegno a proporre musica
preromantica con strumenti originali e pratiche esecutive d’epoca.
Sfruttando la circostanza di rivolgersi a un pubblico in un certo senso
vergine (sicuramente meno condizionato da pregiudizi e più disponibile a recepire prodotti non allineati con i modelli estetici omologati),
vi venne intelligentemente aperto lo spazio alla musica nuova assicurando una sessantina di prime assolute (di Wladimir Vogel, Bruno Bettinelli, Claudio Cavadini, Paul Glass, Renato Grisoni, Francesco Hoch, Ermano Maggini, Mario Pagliarani, Andreas Pfüger, Luigi
Quadranti, Carlo Florindo Semini, Nadir Vassena, Pietro Viviani, Fritz
Vögelin, Rocco Abate, Silvia Bianchera, Roberto Dikmann, Ernesto
Esposito e altri) e presentando più di due centinaia di composizioni
contemporanee di tipo cameristico (molte di autori ticinesi), con interventi estesi al di là dell’esecuzione vera e propria in incontri diretti
con i compositori (Bruno Bettinelli, Renato Dionisi, Franco Donatoni,
Riccardo Malipiero, Azio Corghi).
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Riorientamento
Negli ultimi quindici anni la sete di novità si è purtroppo affievolita,
portando ad esempio Oggimusica sull’orlo della chiusura e le rassegne a diminuire (per non dire a cancellare) le prime esecuzioni. A
fronte di una vita musicale cresciuta anche grazie alla creazione del
Conservatorio della Svizzera italiana e alla moltiplicazione delle occasioni d’ascolto, ciò potrebbe apparire paradossale. A fronte del dialogo instaurato con i poli d’oltre San Gottardo fin dai primi decenni del
secolo, con l’annuale Festa dei musicisti svizzeri (ospitata a Lugano
nel 1921, a Locarno nel 1941 e nel 1957, di nuovo a Lugano nel
1970 e nel 1982), successivamente (anche se in un’originale formula
che ha coinvolto Lugano, Chiasso e Bellinzona) ciò ha avuto un seguito solo nel 2003, ma facendo segnare, con l’allentamento dell’intervallo temporale, anche un certo distacco dal modo organico in cui
nella Svizzera tedesca soprattutto viene coltivata la musica d’oggi.
A questo livello ci troviamo sicuramente confrontati con la disparità
di concezioni e di scelte riferite a matrici culturali diverse. Rispetto al
contesto alemannico, in grado di implicare più facilmente nel fare
artistico il principio del superamento progressivo e senza remore dei
modelli (derivante dall’inappagata ricerca della verità del Romanticismo prioritariamente attecchito in quelle terre), la radice latina ci ha
condizionato ad esperire il fremito delle soluzioni alternative nel quadro di una concretezza in cui la matrice classicistica ha agito ed agisce
ancora come un richiamo all’ordine. Se ciò vale meno per gli artisti,
conta certamente di più per il pubblico da cui provengono gli stimoli
alla creazione. Lo dimostrano dal 1999 gli Swiss Chamber Concerts,
l’unica rassegna contemplante prime esecuzioni diramata su 4 città
(Ginevra, Basilea, Zurigo, Bellinzona dapprima e in seguito Lugano)
che si distingue per le prestazioni interpretative di alta qualità con
significative finestre sulla musica contemporanea, la quale nella puntata ticinese, nonostante la garantita regolarità, riesce ancora a fatica
a fidelizzare uno spicchio di pubblico.
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Una ragione delle recenti difficoltà di affermazione del nuovo va rintracciata però nel venir meno della capacità orientativa dei referenti
estetici agenti fino agli anni 70 come unità di misura, che in seguito
hanno ceduto il posto a una miriade di scelte individuali accomunate
solo dall’ambizione di profilarsi per la novità di impostazione. Caduti
i pregiudizi “partitici” che hanno segnato il prevalere di determinati filoni rispetto ad altri (in particolare la visione deterministica che
dall’Espressionismo porta alle forme radicali dell’atonalità, della dodecafonia, del serialismo, dell’alea e via dicendo), il panorama che le
recenti espressioni offrono ai nostri orecchi si presenta ormai in una
differenziazione e in una complementarità di manifestazioni sorprendentemente varia.
Il ciclo concertistico che ha preso avvio 10 anni fa con la denominazione Novecento, passato e presente (diventato col passaggio di
secolo Novecento e presente) ha assunto la responsabilità di dare
adeguata risposta al paesaggio sonoro frammentato che ci si para
davanti, creando motivi di approfondimento di territori anche lontani
e marginali rispetto al filone consacrato della modernità, considerata
comunque nella dignità dei suoi aspetti diversificati (non mancando
il riferimento alla storia risorgente come interrogazione sullo stadio
raggiunto in rapporto al passato e anche come svelamento di una
derivazione consapevole).
Il Conservatorio della Svizzera italiana ne ha ricavato lo stimolo per
arricchire in forma originale il quadro della propria offerta didattica,
la RSI vi ha trovato la conferma della propria centralità come motore
della vita musicale della regione e il pubblico (si spera) non poche occasioni di chiarimento nell’intricato cammino di un’attualità artistica
sempre più complessa (per non dire confusa) e bisognosa di essere
decifrata attraverso un percorso efficacemente guidato.
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Domenica 26 ottobre 2008 / h 17.30
Aula magna del Consevatorio, Lugano
Sguardo ad Est
Witold Lutoslawski (1913-1994)
Chain (1983) per 14 esecutori
Ensemble Boswil
Direttore Pierre-Alain Monot
Vinko Globokar (*1934)
Augustin, dober je vin (2002) per quintetto a fiati
Firudin Allahverdi (*1980)
“Paradoxes” (2008) per 7 strumenti
Marek Kopelent (*1932)
Stilleben (1968) per ensemble da camera
Vladimir Tarnopolski (*1955)
Kassandra (1991)
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Sguardo ad Est è il titolo del programma che l’Ensemble Boswil porta in tournee
quest’anno nei principali centri della Svizzera. Ma cosa dobbiamo intendere per “Est”,
quello europeo, si intende? Una volta la cortina di ferro aiutava a delineare, anche dal
punto di vista musicale, una realtà distinta dalla nostra. Ma ancor oggi l’Est europeo costituisce per noi occidentali una dimensione poco nota, espressione d’identità musicali dai
contorni sfuggenti, spesso dilaniate da conflitti che ne ridefiniscono nuovamente i contorni. I colori di questa complessa geografia s’illuminano sotto i nostri occhi: dall’Azerbaigian
di Firudin Allahverdi, alla Polonia di Witold Lutoslawski, dalla Repubblica Ceca di Marek
Kopelent alla Russia di Wladimir Tarnopolski, passando per la Slovenia Vinko Globokar,
francese di nascita.
Con il suo brano “Paradoxes”, Firudin Allahverdi è vincitore del Quarto concorso di composizione Pre-Art.
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Ensemble 900
del Conservatorio della Svizzera Italiana
Direttore Giorgio Bernasconi
Domenica 16 novembre 2008 / h 17.30
RSI, Auditorio “Stelio Molo”, Lugano
Presentazione di Giuseppe Clericetti
Passato e presente
John Dowland (1563-1626) / Fabio Vacchi (*1949)
Flow my Dowland (1994)
Guillame Dufay (1397-1474) / Aldo Clementi (*1925)
Agnus Dei (1993)
Soprano Barbara Zanichelli
Henry Purcell (1659-1695) / Oliver Knussen (*1952)
...upon one note...fantasia after Purcell (1990)
Henry Purcell (1659-1695) / George Benjamin (*1960)
Fantasia after Purcell (1995)
Domenico Scarlatti (1685-1757) / Fabio Nieder (*1925)
Sonata in Do maggiore
Guillaume de Machaut (1300-1377) / Nadir Vassena (*1970)
Et non est qui adjuvet - Ha! Fortune - Qui es promesses
(Archivi del tempo, 2005)
Henry Purcell (1659-1695) / Luciano Berio (1925-2003)
The modification and instrumentation
of a famous Hornpipe (1969)
Carlo Gesualdo (1566-1613) / Salvatore Sciarrino (*1947)
Le voci sottovetro (1998) elaborazione per strumenti e voce
1. Gagliarda del Principe di Venosa
2. Tu m’uccidi o crudele (V libro)
3. Canzone francese del Principe 4. Moro, lasso (VI libro)
Soprano Barbara Zanichelli
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Passato e presente. Qual è il nostro rapporto con la tradizione? Dove cerchiamo i nostri
modelli? Cosa intendiamo per classicità? Dove ci proietta il futuro?
Domande retoriche che sottintendono un’unica risposta: siamo in debito nei confronti del
nostro passato.
Nella storia dell’arte la periodicità con cui questo concetto viene recuperato, allo scopo di
elaborare nuove idee, trarre nuovi spunti, recuperare valori estetici o ribadire canoni formali,
è significativo. Essa chiarisce il nostro debito nei suoi confronti e rivela a noi stessi la nostra
identità.
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Sabato 24 gennaio 2009 / h 17.00
Ridotto dei palchi “A. Toscanini” del Teatro alla Scala, Milano
Domenica 25 gennaio 2009 / h 17.30
RSI, Auditorio “Stelio Molo”, Lugano
Darius Milhaud (1892-1974)
Le Carnaval d’Aix (1926) per pianoforte e orchestra
Pianoforte Matteo Schürch
Ensemble 900
del Conservatorio della Svizzera italiana
Ensemble da camera
dell’Accademia del Teatro alla Scala
Direttore Giorgio Bernasconi
Luciano Berio (1925-2003)
“points on the curve to find...”(1974)
per pianoforte e 22 strumentisti
Presentazione di Alessia Ledda,
Accademia del Teatro alla Scala
Pianoforte Fulvio Raduano
Claude Debussy (1862-1918)
La boîte à joujoux (1913)
strumentazione per ensemble di Mathias Steinauer
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L’Ensemble da camera dell’Accademia del Teatro alla Scala sta a Milano come l’Ensemble
900 del Conservatorio della Svizzera italiana sta a Lugano.
L’equazione è presto spiegata, visto che al centro di queste due realtà vi è la stessa persona,
Giorgio Bernasconi, ed un unico obiettivo, quello di avvicinare i giovani alla musica dell’ultimo
secolo cercando di chiarirne le ragioni, le idiosincrasie, le insospettabili parentele con il nostro
passato.
Due istituzioni per la formazione dei musicisti che si confrontano con la stessa questione: qual
è il nostro rapporto con la musica degli ultimi cento anni?
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Domenica 22 febbraio 2009 / h 17.30
RSI, Auditorio “Stelio Molo”, Lugano
Olivier Messiaen (1908-1992)
Trois mélodies (1930)
Soprano Elisabeth Gillming
Pianoforte Sai Sato
Ensemble 900
del Conservatorio della Svizzera italiana
Direttore Giorgio Bernasconi
Presentazione di Giuseppe Clericetti
Huit Préludes (1928-29)
Le merle noir (1951)
Catalogue d’oiseaux (1956-58)
Petites esquisses d’oiseaux (1985)
Michael Jarrell (*1958)
Assonance VI (1991)
Eric Gaudibert (*1936)
Contrechamp (1979)
Ulrich Gasser (*1950)
“...ein Röcheln, von Zeit” (1997/98)
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Banche, orologi, pascoli verdi e mucche felici, tanto latte e buon cioccolato. Ma si può
finalmente andare oltre gli stereotipi dell’oleografia a buon mercato e riconoscere alla Svizzera
un ruolo attivo nel panorama culturale e musicale internazionale? Tre compositori di casa
nostra ci offrono una testimonianza del lavoro compositivo di quest’ultimo secolo, sulla scia di
uno dei riferimenti della musica dei nostri tempi, il francese Olivier Messiaen, di cui il 2008 ha
festeggiato il centenario della nascita.
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Mercoledì 25 marzo 2009 / h 20.30
Palazzo dei Congressi, Lugano
DADAMUSICA
concerto-spettacolo per ripercorrere
il dadaismo e i suoi rapporti con la musica
George Antheil (1900-1959)
Ballet mécanique (1924) per il film di Fernand Léger
Responsabile Regia
Jean-Martin Moncéro
A jazz Symphony (1927)
Testi, poesie e cortometraggi di
Hugo Ball, Marcel Duchamp, Man Ray, Hans Richter, Tristan Tzara,
Jean Arp, Kurt Schwitters, Francis Picabia
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Direttore Giorgio Bernasconi
in collaborazione con:
Scuola Teatro Dimitri
Dipartimento Ambiente Costruzioni e Design
della SUPSI
Pianisti Alessandro D’Onofrio, Nora Doallo,
Redjan Teqja, Sai Sato
Erik Satie (1866-1925)
Cinéma, «Entr-acte symphonique du ballet Relâche
pour le film de René Clair Entr-acte»(1924)
di F.Picabia, J. Borlin
Ensemble 900
del Conservatorio della Svizzera italiana
Collaboratori
Antonella Astolfi, Oliviero Giovannoni,
Corinna Vitale, Filippo Armati
Trucco
Stephanie Metzner
Costumi
Anna Manz
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“DADA; qualsiasi prodotto del disgusto suscettibile di trasformarsi in negazione della famiglia è
DADA; una protesta a suon di pugni di tutto il proprio essere teso nell’azione distruttiva: DADA;
conoscenza di tutti i mezzi repressi fin ora dal sesso pudibondo, dal comodo compromesso
e dalla buona educazione: DADA; abolizione della logica che è il ballo degli impotenti della
creazione: DADA; di ogni gerarchia ed equazione sociale di valori stabiliti a beneficio dei servi
che sono tra noi: DADA; ogni oggetto, tutti gli oggetti, i sentimenti e le oscurità, le apparizioni
e lo scontro inequivocabile delle linee parallele sono armi per la lotta: DADA; abolizione della
memoria: DADA; abolizione dell’archeologia: DADA ; abolizione dei profeti: DADA; abolizione
del futuro: DADA; fede assoluta irrefutabile in ogni Dio che sia il prodotto immediato della
spontaneità: DADA .”
Tristan Tzara, Manifesto del Dadaismo, 1918
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Trio Animæ
Domenica 5 aprile 2009 / h 17.30
Aula Magna del Conservatorio, Lugano
Tomas Dravta pianoforte
Jean-Christophe Gawrysiak violino
Dieter Hilpert violoncello
Souls in blue major
Peter Breiner (*1957)
Praeludum, dalla Partita
“To Dear Mr Bach on His Birthday” (1985/2002)
Saùl Cosentino (*1956)
Toda mi tristeza (2007)
Daniel Schnyder (*1961)
Worlds beyond (2002)
Vladimir Godár (*1956)
Piesen labute (The Swan’s Song) (2004)
Saùl Cosentino (*1935)
Fuerte y Claro (2007)
John Wolf Brennan (*1954)
State of Flux (2008/2009) commissione del Trio Animæ
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Vladimyr Gòdar (*1956)
Variazioni facili (2001)
Saùl Cosentino (*1935)
Fuera de serie (2007)
Vladimir Godár (*1956)
Emmeleia (1999)
Peter Breiner (*1961)
Allegro dalla “Sonata Ostinata” (1984)
Daniel Schnyder (*1961)
Blues for Schubert (2002)
Saùl Cosentino (*1935)
Pandemonium (2007)
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Il Trio Animæ è una delle formazioni da camera più eclettiche del panorama svizzero, con
una discografia che spazia da Donizetti e Glinka a Alfred Schnittke passando per Astor
Piazzolla e José Bragato.
Quest’anno, il Trio Animæ si propone in una tournée in Argentina ed una in Svizzera con un
programma di composizioni recentissime, tra le quali spicca State of Flux commissionata al
compositore irlandese, residente in Svizzera, John Wolf Brennan.
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Sabato 25 aprile 2009, Locarno
passeggiata musicale del Conservatorio
Domenica 26 aprile 2009 / h 17.30
RSI, Auditorio “Stelio Molo”, Lugano
I bambini del ghetto di Terezín
Musica e canzoni scritte per i bambini rinchiusi nel ghetto di Terezín,
in Cecoslovacchia, testimonianza della volontà di sopravvivere e
mantenere vivi i valori dell’umanità e della bellezza.
Hans Krása (1899-1944)
Brundibar (1938)
opera per bambini in due atti, testo di A.Hoffmeister
per coro di voci bianche e strumentisti
Viktor Ullmann (1898-1944)
Tre cori su testi ebraici (1943-44)
per voci bianche
Ensemble 900
del Conservatorio della Svizzera italiana
Direttore Francesco Bossaglia
Coro di voci bianche “Clairière”
del Conservatorio della Svizzera italiana
Direttrice del coro Brunella Clerici
TEATRO D’EUROPA Scuola del Piccolo Teatro di Milano
Regia
Antonella Astolfi
Con una lettura di testi da Primo Levi
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È piccolo il giardino profumato di rose,
è stretto il sentiero dove corre il bambino:
un bambino grazioso come il bocciolo che si apre:
quando il bocciolo si aprirà
il bambino non ci sarà.
Franta Brass, morto ad Auschwitz il 28.10.1944, all’età di 14 anni.
Terezín, a circa settanta chilometri a nord di Praga, è il nome ceco di Theresienstadt, città fortificata che a partire dal 1941 ospitò un campo di concentramento diventato noto come Ghetto
di Terézin.
L’8 maggio del 1945, le truppe dell’Armata Russa giunsero al campo.
Durante il suo funzionamento erano entrate a Theresienstadt 140.890 persone.
Di queste, 88.135 furono deportate verso i campi della morte e i ghetti dell’Est.
Più di 33.000 morirono nel campo.
All’arrivo dei sovietici rimanevano a Theresienstadt poco più di 16.000 persone.
Paradossale ma allo stesso tempo emblematico di una politica di propaganda estremamente
accorta, è il fatto che nel campo di Theresienstadt gli artisti furono sollevati dai lavori pesanti e
lasciati liberi di dedicarsi alle proprie attività.
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Domenica 17 maggio 2009 / h 17.30
RSI, Auditorio “Stelio Molo”, Lugano
Domenica 7 giugno 2009 / h 17.00
Aula de l’Université de Fribourg
PROTEST MUSIC
Luigi Nono (1924-1990)
Epitaffio numero 1: España en el corazón (1952-1953)
Studi per soprano, baritono, coro e strumenti
1.Tarde testo Federico di Garcia Lorca
2. La Guerra (1936) testo di Pablo Neruda
3. Casida de la rosa testo di Federico Garcia Lorca
Soprano Paula Turcas
Ensemble 900
del Conservatorio della Svizzera italiana
Choeur de Chambre de l’Université de Fribourg
Lettura testi Claudio Moneta
Direttore del coro Pascal Mayer
Direttore Giorgio Bernasconi
Presentazione di Anna Ciocca
Luigi Dallapiccola (1904-1975)
Canti di prigionia (1938-1941)
per coro e strumenti su testi di Maria Stuarda,
Boezio e Girolamo Savonarola
Arnold Schoenberg (1874-1951)
A survivor from Warsaw op.46 (1947)
per narratore, coro maschile e orchestra
Testo di A.Schoenberg
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“[Nel giugno 1939] Mi appariva sempre più chiara la necessità di scrivere un’opera che,
nonostante la sua ambientazione storica, potesse essere di toccante attualità; un’opera
che trattasse la tragedia del nostro tempo, la tragedia della persecuzione, sentita e sofferta
da milioni e decine di milioni di uomini. L’opera sarebbe stata intitolata Il prigioniero,
semplicemente. Mi sarebbe sembrato di limitare il problema, ormai comune a tutti gli
uomini, accettando che il protagonista fosse il rabbino Aser Abarbanel che incontriamo nel
racconto…”.
Luigi Dallapiccola
“La musica di noi giovani è vita di noi uomini nella società umana. In questo fondamento vive
la realtà del nostro lavoro. Questa è per noi l’unica possibilità di esistere e soltanto in questo
senso possiamo noi oggi essere musicisti. […] Per noi giovani il ricordo della resistenza al
fascismo era il motore della vita”
Da un’intervista a Luigi Nono di Philippe Albèra, 1987
“Non posso ricordare ogni cosa, dovetti perdere la memoria per quasi tutto il tempo; non
ricordo altro che il grandioso istante nel quale, come per un accordo, tutti si misero a cantare
l’antica preghiera trascurata da tanti anni: la fede dimenticata!”
Arnold Schoenberg scrisse in una settimana Ein Überlebender aus Warshau componendo
un’opera tra le più impressionanti e di “atroce bellezza” su un testo proprio che raccoglie la
testimonianza di un sopravvissuto,.
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Gli interpreti
Giorgio Bernasconi, nato a Lugano, si è diplomato in corno al Conservatorio G. Verdi di Milano. Ha
proseguito gli studi presso la Hochschule für Musik di Friburgo in Germania dove ha studiato composizione con Klaus Huber e direzione d’orchestra con Francis Travis, diplomandosi nel 1976. Nello stesso
anno diventa direttore del Gruppo Musica Insieme di Cremona, un ensemble specializzato nel repertorio
moderno e contemporaneo tra i più reputati in Italia in quegli anni. Fino alla sua scomparsa, collabora
con la grande cantante Cathy Berberian, con cui effettua concerti in Europa e all’estero. Dal 1982, e per
quasi vent’anni, è stato direttore principale dell’Ensemble Contrechamps di Ginevra, con il quale, oltre ad
essere costantemente presente nelle più importanti sedi concertistiche europee, ha effettuato tournées
in America latina, India, Giappone, Russia. Parallelamente a queste attività, inizia nel 1985 una collaborazione come direttore musicale e artistico con l’Accademia strumentale Italiana di Parma, un’orchestra
da camera prevalentemente impegnata nel repertorio del secondo settecento. Ha diretto, come direttore
ospite, diverse orchestre italiane e straniere quali l’Orchestra della Svizzera italiana,l’Orchestra Nazionale
Belga,la Tokyo Symphony Orchestra,l’Orchestra Filarmonica di Radio France,l’Orchestra della Rai di Torino,
laVerdi di Milano. Con l’Orchestra Sinfonica «ArturoToscanini» dell’Emilia Romagna, si instaura un lungo
rapporto di collaborazione; è responsabile per il repertorio contemporaneo, e ha effettuato tournées
in Giappone, Russia, Cina e America del Nord. Dal 1999, presso il Conservatorio della Svizzera italiana,
è responsabile artistico e musicale, della rassegna «Novecento e presente», di sua ideazione, e titolare
dell’insegnamento della direzione d’orchestra per il repertorio contemporaneo. Dal 2007 è insegnante e
responsabile didattico del «Corso di perfezionamento per ensemble da camera sul repertorio del XX secolo» organizzato dall’«Accademia Teatro alla Scala» in collaborazione con la Regione Lombardia.
Francesco Bossaglia, si è diplomato in corno con il massimo dei voti e la lode ed ha conseguito il Bachelor of Music presso la Roosevelt University di Chicago. I suoi molteplici interessi in ambito musicale lo hanno condotto ad occuparsi della interpretazione della prassi esecutiva del repertorio classico e romantico,
della musica jazz e di quella contemporanea, rivestendo ruoli diversi, da strumentista a direttore.
Come direttore, si è dedicato all’approfondimento del repertorio contemporaneo con i Maestri Peter
Eötvös, Sylvain Cambreling, Zsolt Nagy e dal 2006 è allievo del Maestro Giorgio Bernasconi di cui è anche
assistente presso l’Accademia del Teatro alla Scala.
Nel settembre 2008 è stato selezionato per partecipare all’International Ensemble Modern Academy, dirigendo concerti per Klangspuren Festival Schwaz, Transart Festival Bolzano.
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Il Choeur de Chambre de l’Université de Fribourg, coltiva un vasto repertorio che si estende dal rinascimento ai nostri giorni. Privilegiando la musica degli ultimi due secoli. Ha al suo attivo numerose prime
esecuzioni di opere contemporanee, commissionate appositamente. Si occupa allo stesso modo di un
repertorio più leggero che comprende il canto popolare e la commedia musicale.
Pascal Mayer, direttore di coro friburghese, ha completato i suoi studi di canto e di direzione corale ai
conservatori di Friburgo e Zurigo. È stato membro dell’Ensemble Vocal de Lausanne (dir. Michel Corboz),
del coro della Radio Romanda (dir. André Charlet) e del coro da Camera di Stuttgart (dir. Frieder Bernius).
Per cinque anni ha diretto il Coro da Camera di Basilea (Basler Kammerchor) per Paul Sacher et e per dieci
anni il Coro da da Camera de Neuchâtel. Dal 1987 al 1997, ha lavorato come codirettore accanto ad
André Charlet con il Choeur de Chambre Romand.
Pascal Mayer ha fondato il Choeur de l’Université et des Jeunesses Musicales di Fribourgo ed il Choeur
de Chambre de l’Université de Fribourg. Dirige a Lausanne il Coro Pro Arte ed il Choeur Faller, ensemble
con i quali affronta il repertorio dell’oratorio. Insegna musica al Collège Ste-Croix di Fribourg. Dal 1996
è preparatore dei cori per il Festival d’Opéra d’Avenches e collabora con la Scuola Universitaria di Musica
di Lucerna.
Brunella Clerici ha compiuto gli studi musicali al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano dove ha conseguito il diploma di Musica Corale e Direzione di Coro con il M° Bernardino Streito, quello di Composizione
con il M° Niccolò Castiglioni, e quello di Pianoforte con il M.° Vittorio De Col. Oltre all’attività concertistica
si è poi dedicata attivamente ad approfondire le questioni della didattica e dell’insegnamento.
Dal 2001 svolge attività didattica e di direzione corale al Conservatorio della Svizzera italiana all’interno
della Scuola di Musica e della Sezione Professionale. Nel 2001 ha fondato il coro ‘Clairière’, di cui è direttrice, formazione di circa 40 elementi che già nei primi 5 anni di attività ha formato al canto corale oltre
100 allievi e con la quale ha potuto unire la passione per il canto corale con l’attenzione per l’educazione
dei giovani.
Ha avviato il percorso teorico-pratico di ‘Didattica della coralità infantile’, che ha formato educatori provenienti in prevalenza dalle scuole primarie della Svizzera italiana. Dal 2006 è invitata regolarmente a presentare il suo lavoro nell’ambito di Convegni Internazionali; collabora inoltre con il progetto ‘Diffusione
della pratica musicale nelle scuole’ del Ministero della Pubblica istruzione Italiano.
Il Coro di Voci Bianche “Clairière” è dal 2002 ospite assiduo della rassegna “Novecento e Presente”,
nell’ambito della quale ha realizzato “Noi costruiremo una città” di Paul Hindemith (2002), “La mort d’un
tyran” di Darius Milhaud (2003), “Carmina Burana” di Carl Orff (2005).
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Nora Doallo è nata a Buenos Aires e ha studiato pianoforte con Juan Salomon alla Scuola Superiore di
musica dell’Università Nazionale di Cuyo, dove si è diplomata nel 1959. A partire dall’anno successivo, si è
perfezionata con uno dei maggiori didatti del nostro tempo, Vincente Scaramuzza. Nel 1960 ha ottenuto
il primo premio all’unanimità al concorso “Mozart” in Argentina.
Ha tenuto concerti in America Latina, Italia e Germania. Dal 1978 è docente della classe di perfezionamento pianistico al Conservatorio della Svizzera Italiana. Dalla sua scuola sono usciti numerosi pianisti che
si sono imposti in importanti concorsi internazionali ed hanno intrapreso brillanti carriere concertistiche.
Tiene regolarmente Corsi di Perfezionamento in Svizzera e in Argentina.
Alessandro D’Onofrio inizia lo studio del pianoforte sotto la guida di Eke Méndez e Nora Doallo. Nel
1980 consegue il diploma al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma con il massimo die voti e la lode e si
perfeziona in seguito con Jakob Gimpel, Eduardo Vercelli, Aldo Ciccolini, Maria Joào Pires e Alexis Weissnberg. In seguito all’incontro con Alberto Lysy, collabora con la “Camerata Lysy” e si dedica al repertorio
cameristico approfondendo questo genere con musicisti quali Sandor Vegh, Bruno Giuranna, e Riccardo
Brengola, con cui ottiene nel 1988 il diploma di perfezionamento in musica da camera ai corsi dell’Accademia di Santa Cecilia di Roma, con il massimo dei voti e la lode.
Si è esibito in tutta Europa e negli Stati Uniti, dove ha tenuto seminari suonando tra l’altro come solista
con la Camerata Lysy, l’Orchestra di Stato di Mosca e l’Orchestra della Svizzera Italiana. Ha effettuato
numerose registrazioni radiofoniche e discografiche. Attualmente insegna pianoforte e musica da camera
presso il Conservatorio della Svizzera Italiana di Lugano e svolge intensa attività concertistica.
Elisabeth Gillming, francese di nascita, ha studiato canto al Conservatorio Nazionale della Regione di
Strasburgo con Malcolm Walker. In seguito si è perfezionata con Gilles Cachemaille alla Scuola Universitaria di Musica di Ginevra. Attualmente, per coltivare il suo interesse per la musica moderna, è iscritta alla
classe di perfezionamento di canto di Luisa Castellani al Conservatorio della Svizzera Italiana.
Ha inoltre seguito e concluso un master di musicologia all’Università di Oxford, Inghilterra. Si è perfezionata con Edda Moser, Ruben Lifschitz, Barthold Kuijken e William Christie. Ha interpretato Zerlina nel “Don
Giovanni” di W.A. Mozart con l’Oxford City Orchestra e ha cantato come soprano nel “Davide Penitente”
e nel “Requiem” di Mozart. Appassionata del repertorio contemporaneo, ha cantato nel “Pierrot Lunaire”
di A. Schönberg sotto la guida di Kaspar Zehnder e nel ruolo n° 1 di Trasformations di Konrad Susa al
teatro di Losanna. Attualmente fa parte del coro del Grand Théâtre di Ginevra.
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L’ Ensemble Boswil, Schweizer Ensemble für Neue Musik, è un’iniziativa della Fondazione Künstlerhaus
Boswil, in collaborazione con le Scuole Universitarie di Musica della Svizzera. Fondato nel 2005 dalla compositrice Bettina Skrzypczak, ideatrice e direttrice del progetto, l’Ensemble Boswil è concepito come un
progetto di post-formazione destinato a giovani musicisti di talento provenienti dalle Scuole Universitarie
di Musica della Svizzera che muovono i primi passi verso la loro carriera professionale. Esso intende offrire
a questi giovani la possibilità di confrontarsi con le opere e con le tecniche compositive del 20° e del 21°
secolo, sotto la guida di direttori di grande competenza e di realizzare tournée concertistiche in tutto il
paese.
Pierre-Alain Monot, è il direttore ospite dell’Ensemble Boswil per il 2008. Dopo aver completato gli
studi al Conservatorio e all’Università di Neuchâtel, Pierre-Alain Monot ha assunto il ruolo di Tromba solista del Musikkollegium Winterthur. Accanto all’attività solistica e poi a quella di compositore, si avvicina
alla direzione frequentando le master class di David Zinman, Direttore dell’Orchestra della Tonhalle. Dal
1995 Monot è direttore artistico del Nouvel Ensemble Contemporain de La Chaux-de-Fonds, e dal 2003
del „Bern Modern“. Ha diretto le principali orchestre svizzere concentrandosi nella musica del 20° e del
21° secolo e sviluppando un interesse particolare per l’epoca classica e per i compositori meno conosciuti
dell’epoca romantica e tardo-romantica.
Claudio Moneta, nato a Milano nel 1967, è attore, regista e doppiatore. Dopo gli studi in ingegneria
meccanica al Politecnico di Milano, e alla scuola di recitazione CTA di Milano, comincia a lavorare in teatro
come attore e presto anche per il cinema, la televisione (Telemontecarlo, Mediaset, Rai, TSI) e la radio (RSI).
In teatro lavora per anni con la compagnia Calindri-Feldmann, i Filodrammatici, l’Elfo, Atecnici, BallerioTogni. Per il cinema ha recitato in sceneggiati prodotti dalla Rai e dalla Tsi e ha vinto il premio Castrocaro
col film “L’attesa” di Vittorio Rifranti.
L’attività televisiva lo vede impegnato come attore o conduttore in diverse produzioni sia in Italia che in
Svizzera. Per la Radio Svizzera (RSI) recita in numerosi sceneggiati. Partecipa a produzioni musicali con i
Barocchisti di Diego Fasolis, il Conservatorio della Svizzera italiana, il Quintetto Andersen. Con il CD “I tre
porcellini” di Franco Cesarini ha vinto il Prix Suisse 2003. Intensa è anche l’attività legata al doppiaggio e
alla pubblicità.
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Fulvio Raduano compie gli studi musicali e liceali al Conservatorio “G. Verdi” di Torino dove si diploma
in Musica Vocale da Camera con Pianoforte e Violino. In pianoforte si diploma con il massimo dei voti e la
lode nella classe di Claudio Voghera, ricevendo il premio “Giuseppe Berrino” per il miglior diploma e nel
2005 consegue il titolo di II livello ad Indirizzo Concertistico con 110 e lode. In seguito si perfeziona con
Aldo Ciccolini (Parigi, 2000 – 2004), Andrea Lucchesini, Paolo Bordoni e Benedetto Lupo.
Molto attivo in ambito cameristico, dal 2000 al 2004 ha suonato in duo con il violoncellista Umberto
Clerici. Dal 2006 collabora stabilmente con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai come I° pianoforte,
interessandosi al repertorio moderno e contemporaneo. Ha al suo attivo prime esecuzioni di G.Bosco,
F. de Rossi Re e D.Bertotto e nel 2007 ha eseguito al 16° Festival di MilanoMusica “Déserts” di Edgard
Varèse e “Central Park in the Dark” di Charles Ives.
Sai Sato è nata a Tokio nel 1981. Comincia gli studi di pianoforte all’età di 6 anni. Giovanissima, è finalista al concorso giapponese « Kyouiku-Renmei » e poi al prestigioso Concorso Giapponese per Giovani
a Tokio.
Nel 1997 si iscrive alla Scuola Superiore di Musica « Toho-Gakuen » studiando con maestri importanti
come Izumi Komoriya, Natsuko Susami e Nobuhito Nakai, e con Takao Shiraishi e Kazurou Mise per la
musica da camera. In questo periodo ha inoltre la possibilità di suonare a festival musicali quali l’Akita
Oomagari ed il Nichiou Bunkakyoukai.
Nel 2004 ottiene il diploma universitario prendendo il massimo dei voti con la lode, e nello stesso anno
si trasferisce a Lugano per proseguire gli studi al Conservatorio della Svizzera italiana sotto la guida della
Prof. N. Doallo, con cui ottiene il Diploma di Perfezionamento nel 2006 col massimo dei voti e la lode, e
successivamente il diploma di solista.
Matteo Schürch, nato nel 1985 a Locarno, inizia gli studi musicali all’età di 15 anni con la pianista Cinzia
Imburgia. Prosegue poi il suo percorso formativo presso il Conservatorio della Svizzera italiana con il Prof.
Alessandro D’Onofrio e successivamente sotto la guida della Prof.ssa Nora Doallo, con la quale studia
tuttora, frequentando il corso di perfezionamento. Si é distinto ottenendo primi e secondi premi in diversi
concorsi nazionali ed internazionali, tra i quali il Concorso Svizzera della Gioventù nel 2001, il Concorso
Internazionale di Cortemilia (Italia) nel 2002.
È stato invitato a partecipare a numerose manifestazioni musicali quali la stagione concertistica “Novecento e Presente” (Lugano) e il “Festival mondiale dei giovani talenti” (Kirghizstan).
Si é esibito sia come solista che in formazioni di musica da camera in Svizzera, Germania, Grecia, Italia, Kirghizstan e Ungheria. Parallelamente alla formazione musicale Matteo frequenta studi in Scienze economiche presso
l’Università della Svizzera italiana e presiede l’Associazione Studenti del Conservatorio della Svizzera italiana.
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Redjan Teqja, nato nel 1983 a Tirana, inizia lo studio del pianoforte all’età di 5 anni. Nel giugno del 1998
vince il terzo premio al Concorso Nazionale EPTA (European Piano Teachers Association). Terminato il liceo
artistico “Jordan Misja”, nel 2001 viene ammesso nella classe di pianoforte della Prof. Nora Doallo presso
il Conservatorio della Svizzera Italiana, e si trasferisce a Lugano. Nel maggio 2001 giunge in semifinale
all’XI Concorso internazionale per pianoforte e orchestra della città di Cantù. Un anno dopo, nel 2002,
vince il secondo premio al Concorso Yamaha-Europe a Ginevra. All’inizio del 2005 partecipa al concorso
della fondazione “Kiefer-Hablitzel” a Berna e a quello “Giovani talenti” di Losanna. Frequenta corsi di
perfezionamento con docenti quali Till Engel, Gerard Fremi e Elissò Virsaladze. Redjan Teqja si esibisce in
concerto regolarmente, in Albania, con l’Orchestra della Radiotelevisione albanese, nella Svizzera italiana,
ed in Italia.
Il Trio Animæ, composto da Tomas Dratva (pianoforte), Jean-Christophe Gawrysiak (violino) e Dieter Hilpert (violoncello), è stato fondato nel 1993 a Basilea, città dell’umanesimo classico ma anche di musicisti
come Bartók, Strawinsky e Georg Kreisler. Il lavoro del trio è iniziato all’insegna di Astor Piazzolla, seguito
da Kagel, poi Haydn e Ives. Dopo 15 anni di lavoro sono più di 80 le partiture che trovano posto sul leggio
del Trio Animæ, molte delle quali scritte appositamente per il trio, come il Triplo Concerto (2002) di Peter
Breiner, o in collaborazione con compositori come Vasks, Vassena, Bragato, Godar, Krajci, Wolf Brennan,
Cosentino. Il Trio Animæ è presente nelle sale da concerto e nelle programmazioni radiofoniche di tutto il
mondo, dal Giappone al Canada, una delle formazioni europee più rappresentative e più eclettiche della
sua generazione, con una discografia che spazia da Donizetti e Glinka ad Alfred Schnittke, passando per
Astor Piazzolla e José Bragato. Quest’anno, il Trio Animæ si propone in una tournée in Argentina ed una
in Svizzera con un prog
ramma di composizioni recentissime, tra le quali spicca State of Flux commissionata al compositore irlandese, residente in Svizzera, John Wolf Brennan.
Paula Turcas, dopo la prima formazione musicale ed umanistica in Romania, ha completato gli studi presso la Zürcher Hochschule der Künste e la Hochschule der Künste Bern con una specializzazione nell’ambito del teatro d’opera. Il suo repertorio spazia dal repertorio barocco all’operetta fino al primo Novecento,
passando per l’opera italiana del Settecento e dell’Ottocento.
Prosegue la sua formazione a Lugano coltivando il suo interesse per i repertori e le tecniche dell’ultimo
secolo sotto la guida di Luisa Castellani, presso il Conservatorio della Svizzera italiana.
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Barbara Zanichelli, diplomata in violino si è in seguito dedicata al canto, studiando tecnica vocale con
l’insegnante russo Anatoli Goussev a Milano. Si è perfezionata nella prassi esecutiva della musica barocca
con C. Miatello e R. Gini, nel repertorio belcantistico con Luciana Serra e Sergio Bertocchi e nella vocalità
contemporanea con Luisa Castellani, sotto la cui guida consegue ‘con lode’ il Diploma di perfezionamento
presso il Conservatorio della Svizzera Italiana a Lugano. Dal 2005 sta seguendo a Cremona i corsi di semiologia e canto gregoriano. Come soprano del quintetto vocale Vox Altera, ha vinto il primo premio assoluto
al Concorso internazionale «Luca Marenzio» dedicato a formazioni vocali madrigalistiche, tenutosi a Coccaglio (BS) nel settembre ’99. Svolge intensa attività concertistica sia come solista sia in ensemble, come
interprete del repertorio antico e contemporaneo in importanti sale e festival italiani ed esteri, esibendosi
sotto la direzione di musicisti quali M.W. Chung, P. Memelsdorff, E. Gatti, O. Dantone, F.M. Bressan, G.
Bernasconi, R. Platz, F. Hoch, V. Parisi, e collaborando con ensemble quali «Mala Punica», «Ensemble
aurora», «Dèdalo Ensemble», «Mdi ensemble», «I Madrigalisti Ambrosiani», «Accademia del Ricercare»,
«Cappella Artemisia», «Athestis Chorus». È docente di “Prassi esecutiva e repertorio – Canto” ai corsi del
biennio sperimentale presso il Conservatorio “Carlo Gesualdo da Venosa” di Potenza.
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Responsabile produzione Conservatorio, Roberto Valtancoli
Responsabile produzione Rete Due RTSI, Giuseppe Clericetti
Testi a cura di Massimo Zicari
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