Celti e Liguri e il rigetto dello spazio urbano Dispensa 1: Lezioni dell’inverno 2014 Miscellanea a cura di Sandro Caranzano , riservati ai fruitori del corso di archeologia presso l'Università Popolare di Torino 2013-2014 1.1 – La cultura di Golasecca e Castelletto Ticino Fig 1. Tabella riassuntiva dei cinerari fossili guida delle culture della Pianura Padana a cavallo tra età del Bronzo e età del Ferro. Sul finire dell'età del Bronzo, l'Italia nord-occidentale è interessata dalla cultura di Canegrate, che rappresenta un evoluzione della cultura di Alba-Scamozzina e di Viverone della Media età del Bronzo; caratterizzata dalla presenza di recipienti biconici normalmente associati a cremazioni (in armonia con quanto attestato nell'area centro europea con il diffondersi della cosiddetta Cultura dei Campi d’urne), la cultura di Canegrate si evolverà per dar luogo alla successiva cultura di Protogolasecca (XII sec a.C.), considerata da molti studiosi come una potenziale espressione di protoceltismo. I legami dei Campi d'urne del nord Italia con l'area centroeuropea sono rafforzati da alcuni ritrovamenti, primo tra tutti il Ripostiglio della Malpensa, venuto in luce nel giugno del 1977 in un campo arato in località Bellaria. Si tratta di un complesso di oggetti in bronzo sepolti in un sacco di cuoio nel periodo preistorico per ragioni imprecisate. Tra gli oggetti più interessanti si annoverano tre schinieri in bronzo di chiara estrazione centroeuropea del tipo "a lacci", cioè fissati dietro il polpaccio con cinghie di cuoio. Gli oggetti furono trovati associati a tre punte di lancia, un falcetto, frammenti di uno scudo e resti di accette in bronzo e lingotti a sezione piano-convessa; degne di nota le decorazioni degli schinieri, realizzate a sbalzo e borchie: in un caso è rappresentato un uccello acquatico, in un secondo esemplare un disco raggiato afferente a una qualche simbologia solare. La cultura di Golasecca occupa il periodo compreso tra il X e il V sec a.C. e prende il nome da un moderno villaggio situato a sud del Lago Maggiore, presso il quale furono effettuati i primi ritrovamenti documentati. Si tratta, naturalmente, di una denominazione di uso comune alquanto riduttiva ma entrata ormai stabilmente nel lessico archeologico. L'area di pertinenza di tale civiltà è delimitata a occidente dalla Valsesia, a oriente dal corso del Serio e dell'Adda – con estensioni nella pianura del vercellese e del cremasco – , a sud dal corso del Po e a nord dalla catena alpina, attraversata dai passi del San Bernardino, del Gottardo, di Lucomagno e Novena. Benché l'area coperta da tale cultura abbracci una superficie di circa 20.000 km², il suo cuore va comunque ricercato nella fascia subalpina e nelle colline moreniche presso i rilievi alpini, dove il popolamento fu sempre denso e continuativo. Sul finire dell'Ottocento, lo studioso Castelfranco cercò di mettere a fuoco una cronologia di massima della cultura di Golasecca basandosi sull'oggetto più diffuso (il cosiddetto fossile guida) costituito dall’urna cineraria – molto diffusa nelle necropoli dell'epoca – . Castelfranco propose pertanto una distinzione tra un primo 1 Fig. 2 – Il corredo del ripostiglio della Malpensa (XII sec a.C.) Fig. 3 – Planimetria dell’insediamento e delle necropoli di Castelletto Ticino periodo compreso tra il IX e l’VII sec. a.C. caratterizzato dalla presenza di decorazioni a denti di lupo realizzate a falsa cordicella – sfruttando cioè due fili di bronzo avvolti a tortiglione per imprimere sull'argilla il segno di una corda – , e un secondo periodo caratterizzato dalla lucidatura delle pareti (tecnica a stralucido, VI sec a.C.); tale periodizzazione è rimasta viva, in linea di massima, ancora oggi. È poi forse utile ricordare come nell'area golasecchiana più orientale (gravitante attorno a Como) fosse prodotta un’urna cineraria a forma di situla del tutto assente nell'area del Ticino, forse ispirata ai prodotti toreutici veneti.1 Le tombe a incinerazione più comuni sono caratterizzate da una semplice fossa scavata nel terreno (protetta in qualche caso da lastre lapidee) entro la quale veniva deposta l'urna cineraria contenente, oltre alle ceneri, un bicchiere globulare probabilmente connesso a una qualche forma di libagione in onore del defunto. Il biconico veniva poi coperto con una ciotola in terracotta (talora rovesciata) o con una coppa su piede con l’orlo rientrante (e non estroflesso come al solito). Nel periodo golasecchiano, un ruolo particolarmente importante sembra essere stato giocato dal sito di Castelletto Ticino, situato in corrispondenza della confluenza tra il Ticino e il Lago Maggiore; secondo un’ipotesi condivisa da molti studiosi, proprio qui si sarebbe sviluppato un centro capannicolo piuttosto esteso, in risposta ai notevoli benefici economici derivati dal traghettamento per via di terra delle merci dirette verso passi del Sempione e dell'alto Ticino, oltre i quali potevano essere commercializzate sfruttando il corso del Reno e del Danubio. È infatti opportuno precisare che i Celti padani furono in grado di sfruttare con abilità l’ubicazione dei propri insediamenti, disposti su una direttrice commerciale fortemente strategica, lungo la quale raffinati prodotti artigianali e materie prime provenienti dalla Grecia e dall'Etruria (olio, vino, balsami in recipienti di vetro policromo e, in casi eccezionali, persino incenso d'Arabia) potevano raggiungere il cuore dell'Europa ed essere scambiati con materie prime preziosissime, quali lo stagno (un elemento necessario per la lega in bronzo, proveniente dall’Erzgebirge, della Boemia e forse dalla Bretagna,), l'ambra (a cui si attribuivano proprietà medicamentose e magiche), schiavi e bestiame. Una lontana eco di questi traffici è rintracciabile nelle parole delle Pseudo Aristotele che nel De Mirabilibus Ascultationibus scrive: «dicono che dall'Italia fino alla terra dei Celti, dei Celto-liguri e degli Iberici vi sia una strada detta Herakleia, e che se un greco o un indigeno vi passa, viene accudito dalla gente del luogo affinché non gli capiti niente di male. Ci sarà, infatti, una punizione per coloro presso il quale sarà stata commessa l'ingiustizia». Per quanto concerne il sito di Castelletto Ticino, l'esistenza di un salto di quota – una vera e propria cataratta – lungo la strada fluviale che conduceva al Lago Maggiore generò ricchezza nel momento in cui la comunità locale si offrì per il trasbordo lungo una via di terra dei prodotti (forse esigendo un vero e proprio dazio). Per far 1 Con l'espressione centro protourbano si è soliti indicare grandi aggregazioni di villaggi densamente popolati che si formano parallelamente all'emergere di differenziazioni socio-economiche, allo sviluppo degli scambi commerciali a lungo raggio, alla nascita di officine artigianali specializzate nella produzione della ceramica e dei manufatti di metallo, integrati stabilmente nella comunità. Anche se i centri di Como e di Golasecca non furono mai protagonisti di un processo di completa urbanizzazione, essi esercitarono funzioni tipiche dei centri urbani, come l'essere sede delle elites e delle attività artigianale specializzate. Furono pertanto sentiti dai contemporanei come centri di riferimento per l'organizzazione di un ampio territorio e in qualità di importanti scali lungo gli itinerari commerciali. 2 Fig. 4 – Tipica sepoltura in cinerario entro fossa della Cultura di Golasecca. questo fu forse sfruttato un alveo morto del fiume lungo la depressione Valleggia. I proventi dei commerci dovettero essere sensibili, se è vero che possiamo stimare in circa cinquemila gli abitanti nel suo periodo di massimo sviluppo. Si sarebbe dunque formato un centro protourbano con caratteri di eccezionalità, almeno per quanto ci è noto in Pianura padana. Le abitazioni più antiche sembrano ricostruibili in strutture rettangolari edificate su pali di legno con murature in incannicciato e argilla cotta al sole; i pavimenti, raramente conservati, sono costituiti da battuti di argilla concotta con vespai di ciottoli; pozzetti rivestiti con una sorta di camicia in argilla concotta sono stati interpretati come silos per lo stoccaggio delle derrate alimentari. A partire dal VI sec a.C. anche la tecnica costruttiva sembra essere soggetta a un’evoluzione, con la comparsa di basamenti in ciottoli dei muri perimetrali, capaci di creare piani orizzontali in corrispondenza dei pendii garantendo, al contempo, l'isolamento delle pareti dall'umidità del terreno. L'orientamento delle case segue assetti ripetitivi mentre piccole aree semicircolari a ferro di cavallo sembrano da connettersi a lavorazioni artigianali. I resti scoperti nelle necropoli disseminate nel circondario confermano che il sito fu abitato in modo intensivo a partire dall’VIII sec a.C. per poi essere oggetto di un forte ridimensionamento demografico sul finire dell’VI sec a.C. , proprio in concomitanza con un innalzamento del livello del lago di circa 8 m. Questo evento è stato spiegato come effetto di una frana che avrebbe sbarrato l'antico letto del fiume deviando, per un breve periodo, l'acqua nel Rio Valleggia. Secondo tale ricostruzione, sarebbe dunque stato un evento naturale a decretare il declino economico del centro che, rimasto inattivo per una cinquantina d'anni, fu scalzato dal suo primato commerciale da altri centri piuttosto dinamici, in primo luogo Como, da cui si aveva accesso ai passi del S. Gottardo e di Lucomagno (percorrendo la valle Riviera) o a quello del San Bernardino (percorrendo la Valle Mesolcina). 1.2 – L’oppidum di Comum L’oppidum di Comum è ricordato da Tito Livio come una fondazione dell'antica popolazione degli Orobi, ed ebbe uno sviluppo demografico e commerciale particolarmente spinto a partire dal VI sec a.C. grazie ai contatti con gli Etruschi, che avevano stabilito una fiorente attività commerciale in Pianura Padana sfruttando alcuni empori situati nei territori appannaggio delle popolazioni celtoliguri e avvalendosi di basi commerciali create ex novo grazie a speciali concessioni; è questo il caso del sito di Bagnolo S. Vito in provincia di Mantova, scavato in modo sistematico negli ultimi vent'anni e dimostratosi una vera e propria base operativa tirrenica lungo il corso del Mincio e del Po. Il cuore dell'attività insediativa celtica nell'antica Como si localizza alle pendici della cosiddetta Spina verde, una collina boscosa situata a sud-est del lago di Como, dove gli scavi hanno identificato un insediamento che vide la sua massima espansione nel V sec a.C. per poi essere abbandonato a seguito della conquista romana della regione a opera del console Marco Claudio Marcello; quest’ultima precluse alla deduzione coloniale di epoca cesariana avvenuta attorno al 59 a.C. con la fondazione di Como Novum. Nel momento di massima vivacità, l'insediamento di Como sembra aver coperto un'area di ben 150 ettari, cosa che ne fece indubbiamente un'eccezione nell'area padana. Allo stato attuale non sembra di potervi riconoscere una pianificazione urbanistica ortogonale, dal momento che gli edifici si disposero sulle pendici e i pianori di una collina piuttosto accidentata, esprimendo un approccio al paesaggio di carattere ancora arcaico (se non preistorico). Naturalmente, le alterazioni subite dal territorio nel corso dei secoli e l’esistenza di abitati moderni impostati su gran 3 parte dell'area fanno permanere dubbi e interrogativi; caratteristica costante degli insediamenti padano-celtici sembra essere un certo “rigetto dell'ideale urbano” (nel senso greco-romano del termine). In diversi punti è stato possibile riconoscere le escavazioni della roccia necessarie per impostare le cantine e le aree di scarico dell'acqua reflua degli edifici. Quest’ultimi erano costruiti perlopiù nella forma di grandi casoni a pianta rettangolare con fondazioni in pietra e alzato in legno, incannicciato e argilla seccata al sole. È probabile che assumessero un aspetto ibrido tra le abitazioni in materiale effimero dell'età del Ferro che conosciamo per esempio in Etruria e le cosiddette case alpine che venivano costruite sino al secolo corso sulle Alpi. 1.3 – Necropoli e aristocrazia Fig. 5 – Il carrettino cultuale in bronzo dlla tomba del Carrettino di Como, necropoli di Ca’ morta (700 a.C. ca). L'esistenza di una classe aristocratica enucleatasi grazie ai proventi derivati dalle attività commerciali è manifesto in alcune tombe di maggior livello scoperte negli ultimi due secoli. Prima fra tutte, è degna di menzione la cosiddetta Tomba del Fontanile, scoperta nel 1884 dall'antiquario Marazzini a Castelletto Ticino. Quest'ultima era costituita da un semplice cassone lapideo ricoperto da un tumulo di ciottoli che raggiungeva un'altezza di 2,20 m; lo spazio interno era diviso in due settori, di cui il primo ospitante frammenti di vasellame da mensa e il secondo le ceneri vere e proprie, disposte in una cista in bronzo lavorata a martellina, poi coperta da un bacile rovesciato realizzato nel tipico stile orientaleggiante con rappresentazioni di sfingi alate e leoni di ispirazione urartea. Non sembra probabile che il bacile sia stato importato dall'Oriente, ma è più probabile che si tratti di una imitazione realizzata nel centro etrusco settentrionale di Vetulonia attorno al VII sec a.C., giunto poi in area golasecchiana in qualità di dono o scambio tra aristocratici, secondo un costume ben attestato nell'antichità e, ad esempio,riflesso nella letteratura omerica. Non lontano, presso Sesto Calende, è degna di nota la cosiddetta Tomba del guerriero, una sepoltura principesca scoperta nel dicembre del 1928 e che ospitava un carro a due ruote con il timone rivolto a est, i finimenti completi per due cavalli (morsi, ganci per le redini, falere, anelli per le briglie), una situla in lamina bronzea di tipo Kurd (decorata a punti e a borchie sbalzate una teoria di uccelli e da animali condotti in sacrificio), una seconda situla non decorata, una coppia di schinieri in bronzo di un tipo noto nell'area picena ed etrusca, una cuspide di lancia, una daga di ferro, un elmo di bronzo di tipo halstattiano orientale, una spada ad antenne di tipo halstattiano occidentale, un bicchiere a corpo globulare e un carrettino cultuale in bronzo a quattro ruote con bacino. Tali oggetti sono espressione di culture e scambi ad ampio raggio; in particolare, il carro a due ruote sembra strettamente legato alla tradizione del combattimento da carro attestata nel mondo greco e centro-italico (etrusco e piceno); esso trova confronto dal punto di vista stilistico con tipi noti in Etruria e nel mondo paleoveneto. Nel mondo celtico continentale è invece più frequente l'attestazione del carro da trasporto a quattro ruote (800-450 a.C.), con il quale era possibile traslare il corpo del defunto, dal padiglione effimero presso il quale veniva esposto il corpo sino alla camera di sepoltura. Il fatto che la maggior parte di tali carri abbia il timone fissato all'asse anteriore – dunque, senza alcuna possibilità di sterzare – lascia intendere che tali mezzi erano costruiti esclusivamente per la pompa funeraria, percorrevano qualche centinaio di metri per poi essere smontati e disposti a fianco del feretro in qualità status symbol principesco; è bene però sottolineare che con la seconda età del Ferro (periodo lateniano) la tradizione del carro a quattro ruote verrà completamente abbandonata e il carro a due ruote verrà stabilmente a far parte del corredo delle tombe più eminenti. Nel 1997, in località Mulini Bellaria di Sesto Calende, a breve distanza dal corso del Ticino, è stato possibile identificare i resti di una tomba a cassone coperta da un accumulo di ciottoli; saccheggiata nell'antichità, la tomba conteneva ancora cinque coppe su alto piede, un boccale troncoconico decorato a stralucido, una situla in bronzo cordonata e un tripode sostenuto da tre aste in ferro con i piedi conformati 4 Fig. 6 – Tomba a tumulo con cromlech e corridoio cerimoniale da Monsorino. Fig. 7 – Ricostruzione del carro a quattro ruote dalla necropoli di Ca’ Morta nel Museo Archeologico di Como. a gamba umana. La scoperta di alcuni oggetti chiaramente afferenti al costume femminile (una fibula a sanguisuga e una fibula con ambra e pendente) permettono di attribuire la tomba ad una aristocratica celtica deposta tra la metà del VI e l'inizio del V sec a.C. Diverso carattere presenta invece la necropoli di Monsorino – a breve distanza dal corso del Ticino , scoperta all’inizio dell’Ottocento da G.B Giani (un eminente studioso nativo di Golasecca che scambiò però il sito per un accampamento romano) e poi scavata nel 1870 da P. Castelfranco che vi evidenziò 130 tombe e 43 sepolture entro cromlech. Nuove scoperte e scavi sono stati condotti nel 1985 in occasione della costruzione del tronco 32 dell'autostrada dei Trafori. Lo scavo stratigrafico su un'area di circa 3000 metri quadri ha permesso di individuare una necropoli priva di corredi principeschi ma caratterizzata da un’insolita planimetria. Rimasta in uso per circa cento anni – dalla metà del VII alla metà del VI sec a.C. – la necropoli presenta le consuete tombe ad incinerazione all'interno di pozzetti (talora foderati in ciottoli o in cassa litica), con il tipico corredo composto da ciotole, coppe, boccali, olle in ceramica, oggetti in bronzo (placche di cintura, situle, spilloni, anelli, braccialetti, armille, orecchini, collane e pendagli) e oggetti d'uso (rocchetti e fusaiole) ma anche reperti appartenenti al mondo dell'aristocrazia militare, come finimenti equini, coltelli, pugnali, spade, cuspidi di lancia e di freccia. Gli oggetti di corredo sono stati spesso trovati deformati per effetto del calore del rogo o spezzati intenzionalmente prima della deposizione a scopo rituale. L'elemento più interessante riguarda in verità la forma delle singole tombe che, oltre a essere raggruppate per famiglie o clan, presentano la forma del piccolo tumulo circondato da una sorta di cromlech (un termine megalitico derivato dal gallese traducibile come «pietra curva») realizzato in piccoli ciottoli e concluso, su un lato, da un corridoio artificiale la cui funzione non è ben chiara. Potrebbe essersi trattato di un corridoio di accesso per le cerimonie funerarie o anche di un luogo per l’esposizione del defunto (prothesis) prima della tumulazione. Recenti rilevazioni archeoastronomiche hanno permesso di dimostrare che tali corridoi erano orientati rispetto alla levata eliaca di stelle particolarmente visibili nell'antichità: le popolazioni di Golasecca disponevano, come prevedibile, di una sensibile conoscenza dei moti degli astri, per mezzo dei quali costruivano i propri calendari agricoli e religiosi. I cromlech collocati sulla cima del colle del Monsorino non sono un caso isolato perché monumenti simili sono noti nelle vicinanze, a Vigano e Vergiate. Per quanto concerne l'area di Como è necessario citare la cosiddetta tomba «del Carrettino» scoperta fortuitamente nel 1950 in occasione di lavori estrattivi presso una cava locale e databile al periodo attorno al 700 a.C. La tomba ospitava le ceneri di un guerriero celtico e nel corredo spicca un carrettino cultuale in bronzo rappresentante nient'altro che una miniatura dei carrelli porta bacile diffusi nelle corti principesche orientaleggianti. Anche in questo caso, è possibile verificare la contaminazione tra tradizioni centro-europee e mediterranee: se infatti le ciotole bronzee decorate a baccellature sono di provenienza etrusca, il servizio per l'assunzione del vino composto da anfora, attingitoio e ciotola è ancora estraneo al costume del simposio greco e richiama modelli arcaici diffusi nel centro Europa. Alcuni frammenti deformati dal fuoco sembrano poi pertinenti a un veicolo su ruote, segno che il signore della Ca’ Morta si era fatto cremare su un carro a quattro ruote secondo la moda celtica. 5 1.4 – Il problema della lingua Fig. 8 – Trascrizione dell’iscrizione sulla coppa da Castelletto Ticino con iscrizione Kosioiso (VII sec a.C.). Fig. 9 – Stele in pietra da Busca (CN) con iscrizione in ricordo di Larz Muthicus. I gruppi celtici della Pianura padana detengono una serie di primati che ne fecero delle vere e proprie avanguardie, soprattutto se facciamo una comparazione con quanto registrato in Europa centrale. La presenza in serrata sequenza cronologica dei gruppi di Viverone, Scamozzina, Canegrate e Golasecca in un’area persistente nel periodo a cavallo tra età del Bronzo ed età del Ferro, sembra indiziare una celticità piuttosto antica, formatasi almeno sul finire del primo millennio a.C. Molto probabilmente gruppi provenienti dall'Europa centrale filtrarono progressivamente a più ondate (talora pacificamente, talora con impeto bellicoso) attraverso i valichi alpini cercando uno sbocco verso le regioni mediterranee, da sempre apprezzate per il clima mite e la presenza di civiltà più evolute e opulente. Insediatisi in questa zona, i Celti vennero a contatto con una molteplicità di popolazioni caratterizzate da diversi gradi di acculturazione e tecnologia (i Liguri a nord-ovest, i Veneti a nord-est e soprattutto gli Etruschi e i Piceni in Italia centrale); così, la Pianura Padana si trasformò un vero e proprio centro di elaborazione delle più moderne conquiste sociali e tecnologiche del Mediterraneo; quest’ultime furono da qui trasmesse al mondo più arcaico del celtismo mitteleuropeo, dominato da principi che governavano ampi territori ricchi di materie prime e che manifestavano il proprio potere sul territorio per mezzo della costruzione di imponenti cinte difensive e grandi tumuli sepolcrali; manifestazioni monumentali, quest’ultime, non a caso quasi del tutto assenti nelle nostre regioni. Nonostante la vetustà, per la sua stessa diffusione a macchia di leopardo e le frequenti contaminazioni con le civiltà italiche, il celtismo padano si imbastardì progressivamente, dando luogo a una società dinamica e intraprendente, che in un certo senso – anche se un po' schematicamente – anticipa il carattere cosmopolita dell’Italia settentrionale dell'Europa medievale. Per ragioni come queste, l'area piemontese e lombarda vennero ad esprimere primati cronologici di grande valenza. Da Castelletto Ticino proviene la più antica iscrizione in lingua celtica nota fino ad oggi; si tratta di un bicchiere globulare associato a una tomba a incinerazione su cui è riportata l'iscrizione kosioiso (traducibile in «io appartengo a Koiso»). Questo reperto è la logica conseguenza delle modalità con le quali l'alfabeto greco si diffuse nella penisola italiana: sbarcato a Pithekousa grazie all'intraprendenza dei coloni greci dell’Eubea, esso fu presto adottato dagli aristocratici etruschi che associarono con qualche difficoltà e necessità di correzione le singole lettere greche ai suoni della lingua tirrenica, trasmettendo in seguito tale competenza alle popolazioni celtiche confinanti. Il mondo celtico padano fece poi come da trampolino trasferendo, gradatamente, queste conoscenze al nord Europa dove, in effetti, le prime forme di scrittura in lingua celtica appaiono con secoli di ritardo. Lo stesso ragionamento si può estendere ad altri settori, come quello della coroplastica (nella quale si osserva il diffondersi della tecnica del tornio lento, dall'Etruria verso il centro Europa per intermediazione della cultura golasecchiana), o quello della coltivazione della vite vinifera sativa destinata alla produzione del vino. Sembra che nel corso della età golasecchiana la Pianura Padana presentasse una geografia etnica a macchia di leopardo, con un substrato ligure marginalizzato nell'ampio territorio a sud del Po e un grande areale celtico esteso tra l'Appennino e le Alpi, con svariate enclaves etruschizzate. A tal riguardo è particolarmente significativa un’epigrafe sepolcrale su un monolite di forma allungata scoperta presso Busca – nel cuneese – e oggi conservata nel Museo di Antichità di Torino; qui, una iscrizione leggibile da destra a sinistra riporta la formula Mi suthi Larth Muthikus traducibile come «io sono la tomba di Larz Mutikus»; l'iscrizione “a ferro di cavallo” è chiaramente ispirata alla produzione di Vetulonia e l'onomastico e la lingua 6 rimandano all'ambiente etrusco, segno che commercianti tirrenici erano stabilmente insediati nelle pianure a sud del Po in un'area formalmente ligure. Nell'ambito del discorso dedicato alla lingua, può essere opportuno spendere due parole sul cosiddetto «leponzio», termine con il quale si definisce un alfabeto di tipo celtico. La cosiddetta lingua leponzia rientra a pieno titolo nell'ambito del celtico padano di cui è semplicemente una variante provinciale. La ragione per la quale con questa denominazione si tende a raggruppare gran parte delle iscrizioni venute in luce tra Piemonte e Lombardia sta nel fatto che le prime epigrafi riconosciute come celtiche furono scoperte, per l’appunto, nella parte settentrionale del Canton Ticino, nell'Alto Verbano, in Val d'Ossola e in Val Mesoncina, cioè nelle regioni abitate nell'antichità dalla popolazione dei Leponzi. Solo in seguito ci si rese conto che tale realtà linguistica era estesa su un territorio molto più ampio, ma la denominazione era ormai ampiamente accettata dal mondo scientifico e consolidatasi nell'uso. La scrittura leponzia rientra, come si è detto, a pieno titolo nell'ambito delle manifestazioni culturali della cultura di Canegrate che, nella prima età del Ferro espresse la tribù degli Orobi nell'area compresa fra Bergamo e Como, quella degli Insubri dal Ticino fino a tutta la media e bassa pianura lombarda occidentale, ed i Leponzi – per l’appunto – nell'area alpina del territorio coincidente con l'attuale Svizzera italiana a nord del Monte Ceneri e con la Val d'Ossola in Piemonte. 1.5 – La Cultura di Le Tène in nord Italia Fig. 10 - Guarnizioni in bronzo da Cizkovice (Boemia) di tipico stile lateniano (IV sec a.C.). In ambito archeologico con il termine di Cultura di Le Tène s’intende un gruppo culturale indubitabilmente celtico insediato nell'ambiente continentale europeo a partire dal V sec a.C. fino alla conquista romana avvenuta, a seconda delle regioni, tra il I sec a.C. e il II sec d.C.; tracce di tale cultura sono state registrate e documentate in uno spazio estremamente ampio che va dalla Spagna sino alle regioni centro-orientali del Danubio e nelle isole britanniche, con una enclave particolarmente significativa in nord Italia e lungo la costiera adriatica. Una compagine sociale e culturale così ampia non può naturalmente essere frutto di una improvvisazione o di una conquista militare nel senso moderno del termine; è evidente che i gruppi portatori di tale nuova civiltà – particolarmente moderna e dotata di armi sofisticate – si inserì con modalità varie sul substrato culturale celtico stratificatosi i secoli precedenti, in particolare su quello denominato halstattiano che aveva caratterizzato l'Europa centrale a partire dal X sec a.C. Molte ipotesi sono state fatte per tentare di spiegare il diffondersi impulsivo di questa nuova cultura su un territorio così ampio e per definirne l'area di provenienza; certo è, che l'identificazione del «mondo gallico» tout court con il territorio coincidente con le attuali Svizzera, Francia e isole britanniche è un fraintendimento che ci deriva dalla letteratura latina, la quale riporta lo status quo nel periodo delle guerre condotte da Giulio Cesare e dai successivi imperatori; in tale periodo storico, infatti, gran parte dell'areale celtico orientale era stato eroso e assimilato dai popoli germanici, la cui presenza sul confine elvetico fu una delle cause scatenanti dell'intervento romano che condusse alla conquista della Gallia romana, tra il 58 e il 51 a.C. In linea generale, appare evidente che gruppi di guerrieri particolarmente dinamici e ben armati avviarono una serie di scorrerie verso l'Occidente romano ed etrusco e contro l’Oriente greco, travolgendo le popolazioni stanziate da secoli nelle diverse zone. Le fonti storiografiche conservano ampio ricordo di questi movimenti nelle leggende e nei miti (come quello di Arrunte e della presa di Chiusi), ma anche in vere e proprie cronache di scorribande e assalti, come 7 Fig. 11 – Tecnica costruttiva del “murus gallico” descritto da Cesare utilizzato dai Celti per la recinzione dei tipici oppida. quelli condotti dai Galati nel 384 a.C. contro il santuario di Delfi, o come nel caso del famoso assedio di Roma del 390 a.C. condotto da Brenno.2 Non esiste un’unica area di provenienza degli invasori, ma si può individuare archeologicamente una regione caratterizzata da una forte propulsione e proiezione verso l'esterno nella Boemia, non a caso ubicata lungo il corso di importanti affluenti del Danubio e che rappresentava, nell'antichità, un’importante via di comunicazione e di scambio. La denominazione convenzionale di cultura di La Tène è frutto di una convenzione stabilita a tavolino dagli archeologi nel congresso di Oslo del 1874, nel corso del quale vennero presentati e discussi i ritrovamenti effettuati nel 1857 presso il lago di Neuchatel in Svizzera, un invaso lacustre già da tempo noto per la presenza di insediamenti palafitticoli dell'età del Bronzo. Il geologo Emile Desor e l'archeologo Ferdinand Keller – avvertiti dalla scoperta da Hansli Kopp – coordinarono la raccolta del materiale affiorante, annunciando alla comunità scientifica il ritrovamento di una serie di impalcati lignei e di un enorme deposito di bronzi e metalli presso il sito di La Tène (si trattava di spade, fodere, punte e talloni di lance, umboni di scudi, fibule e fibbie di cinture in ferro, mentre sin dall’inizio si notò l’assenza di ceramica e di oggetti in vetro). I resti furono interpretati un po’frettolosamente da Ferdinand Keller come quelli di un antico impianto palafitticolo; Emile Desor, invece, propose di riconoscervi un deposito di armi celtico nascosto per qualche ragione in un momento di estremo pericolo. Ulteriori ricerche furono condotte tra il 1868 e il 1883 quando, in occasione della prima regolamentazione delle acque del Giura, il lago fu prosciugato – in alcuni tratti quasi completamente – con notevoli benefici per le ricerche archeologiche. In tale occasione i primi scavi veri e proprii furono condotti da Emile Vouga – un maestro elementare di Marin – che portò alla luce le vestigia di cinque abitazioni disposte sulla riva del fiume, due ponti, e svariati resti di ossa animali e umane. Il sito di La Tène rappresenta a tutt'oggi un piccolo mistero: migliaia sono gli oggetti portati alla luce su quello che doveva essere una sorta di isolotto naturale stretto tra due bracci dell'estuario di un fiume collegato alla terraferma tramite ponti in legno. L’isolotto era originariamente recintato con una palizzata, ma l'assenza di un qualunque impianto urbanistico e di addensamenti di case sembra indirizzare verso un’interpretazione di carattere culturale. Nel 1952, Klaus Raddatz puntò l'attenzione sul ritrovamento di un gran numero di scheletri maschili con segni di morte cruenta e sulla totale assenza di oggetti di parure e di resti femminili. Su questa base egli effettuò un confronto con alcuni siti scoperti nel nord Europa proponendo di trovarsi di fronte a un grande santuario comunitario dedicato alle divinità delle acque e presso il quale, nel corso dei secoli, sarebbero stati depositati oggetti e armamenti preziosi a scopo votivo e, in casi di eccezionale gravità, praticati sacrifici umani. Attualmente, il sito è stato ricoperto dalle acque e non è possibile effettuare indagini troppo particolareggiate; fatto sta che qualunque sia stata l'origine e il carattere dell'insediamento di La Tène (si è anche proposto di interpretarlo come posto di osservazione, rifugio fortificato, officina adibita alla fabbricazione di armi, magazzino o mercato) il suo nome viene ancora utilizzato per descrivere una varietà di gruppi celtici della seconda età del Ferro, poi a loro volta raggruppati in etnici specifici (secondo quanto riferito dalle fonti antiche o dalle rare attestazioni epigrafiche). 2 Brenno (... – post 390 a.C.) è stato un condottiero gallo, capo della tribù celtica dei Galli Senoni, noto per avere messo a sacco Roma nell'anno 390 a.C. Poco è noto riguardo alle origini di Brenno. Si ritiene che la sua famiglia tribale (i Galli Senoni) fosse originaria di un Pagu celtico nella zona di Yonne, nell'attuale Borgogna in Francia. Intorno al 400 a.C. questa popolazione migrò verso sud, raggiunse l'odierna regione della Romagna e delle Marche, scacciando le originali popolazioni Umbre. La regione occupata dai Senoni si trovava all'interno di quella zona che dai Latini veniva chiamata Gallia Cisalpina. 8 1.6 – Le invasioni celtiche in Italia Fig. 12 – Distribuzione delle diverse tribù galliche in Pianura Padana dopo le invasioni di IV sec a.C. Fig. 13 – le tipiche cavigliere ad ovuli femminili di età lateniana. Le invasioni galliche del 388 a.C. ebbero come effetto il crollo degli equilibri venutisi a creare nella cosiddetta «Etruria padana», interrompendo i commerci tra il mondo Mediterraneo e l'Europa centrale. Nuove tribù celtiche (tramandateci soprattutto dagli storici di età romana) si insediarono nei territori dell'attuale Emilia, Piemonte, Lombardia e Veneto. È il caso dei Cenomani (insediati nel territorio stretto tra Brescia e Verona), dei Boi (il cui nome si lega strettamente alla regione boema, e che si insediarono nell'attuale Emilia) e dei Senoni (stanziati nelle Marche). Più sfumata e complessa sembra la situazione nelle regioni nordoccidentali, in particolare nel Piemonte: qui, l'area a sud del Po continuò a mantenersi ligure nella lingua e nella cultura, mentre a nord del Po le popolazioni dei Taurini e dei Salassi potrebbero trovare origine in un substrato più antico evolutosi a seguito delle invasioni della seconda età del Ferro. Sulla composizione etnica dei Taurini stessi vi è d'altronde incertezza: gli autori antichi li definiscono celto-liguri o semigalli, lasciando intendere una commistione tra diverse culture che si può spiegare solamente con una limitata celtizzazione. Non sembra convincente la riesumazione (a oltre un secolo di distanza) dell'ipotesi secondo la quale i Taurini sarebbero stati un’emanazione dei Taurisci del Bayern e del Santzkammergut (tale teoria si appoggia ad un passo di Catone e su qualche modesto ritrovamento di materiali di importazione al Bric S. Vito sulla collina torinese), perché troppo diverse sono le modalità insediative e culturali dei due gruppi, ed capziose, a mio parere, le argomentazioni a sostegno di questa tesi. Fatto sta, che la nuova cultura di La Tène esercitò un forte influsso sulla popolazioni locali dei Liguri, dei Veneti e dei Reti come appare palese nei corredi tombali, in cui si moltiplicano progressivamente fibule di una nuova tipologia, mentre nella ceramica si assiste a una progressiva evoluzione delle forme e dei tipi. Particolarmente interessanti sembrano le testimonianze letterarie e archeologiche relative alla penetrazione degli Insubri nella regione dell'attuale Lombardia. Secondo lo scrittore latino Tito Livio questa tribù penetrò in Italia già a partire dal VI sec a.C. guidata dal capo Belloveso – dunque nella prima età del Ferro – all’incirca nel periodo in cui i Tarquini regnavano a Roma. Belloveso avrebbe fondato Milano in un luogo dove trovò degli altri Insubri frutto di una immigrazione più antica. Un altro passo di Livio – ripreso da Plutarco, Plinio e altri autori– si concentra sulla seconda migrazione celtica del IV sec a.C., periodo corrispondente – per l’appunto – con lo sviluppo della cosiddetta cultura di La Tène. Narra Tito Livio (Historiae, V, 33) : «vuole la tradizione che questo popolo, attratto dalla dolcezza dei prodotti e soprattutto dal vino (che a quel tempo costituiva per loro un nuovo piacere) abbia attraversato le Alpi e si sia impadronito delle terre precedentemente abitate dagli Etruschi; e che il vino sia stato importato in Italia per allettare quel popolo da uno di Chiusi, Arrunte, sdegnato per essergli stata sedotta la moglie dal lucumone di cui egli era la guardia del corpo; un giovane assai potente e del quale non si sarebbe potuto vendicare senza procurarsi un aiuto 9 Fig. 14 – Epigrafe di età romana da Drubiaglio di Avigliana rappresentante le Matrone, divinità celtiche. Fig. 15 – Elmo di tipo italico-piceno scoperto a Torino in corso Belgio. esterno. E sarebbe stato costui, quando quel popolo attraversò le Alpi, a guidarlo e a istigarlo ad assalire Chiusi». I due racconti di Livio non sono incompatibili tra loro, ma fanno riferimento a due successive penetrazioni da parte della tribù degli Insubri, e il quadro archeologico tratteggiato sino a qui sembra rendere tale proposta interpretativa piuttosto convincente. L'interesse dei Celti per la feracità e le opportunità offerte dai territori dell'Italia antica sono riecheggiati anche in Polibio (Storie, II, 17): «i Celti, che frequentavano gli Etruschi a causa della loro prossimità e che avevano adocchiato la bellezza del paese, preso spunto da un leggero pretesto li attaccarono di sorpresa con un grande esercito, li cacciarono dalla regione del Po e occuparono essi stessi la pianura». In questo passo la Pianura padana non viene indicata come celtica ma piuttosto come appannaggio etrusco; tale testimonianza sembrerebbe stridere con l'attestazione di una colonizzazione celtica molto precoce ma assume una sua logica se immaginiamo che il predominio etrusco sulle regioni del nord fosse di carattere economico e commerciale piuttosto che territoriale; non dobbiamo infatti dimenticare come la civiltà etrusca fu fondamentalmente legata alla città e incernierata sull’esistenza di città-stato stato indipendenti (come Tarquinia, Cere, Vulci …) situate al centro di un proprio territorio ben delimitato; per i principi etruschi non sembra insomma essere stata concepibile la colonizzazione di un territorio senza la fondazione di un centro preminente. Conosciamo però dei tentativi di colonizzazione dell'entroterra da parte degli Etruschi coronati da successo, soprattutto dopo la sconfitta subita dai siracusani nel IV sec a.C., ma essi sembrano essersi arrestati nell'entroterra appenninico e nell'area emiliana (Marzabotto, Norchia, San Giovenale) senza mai giungere a scalzare il predominio territoriale dei Celti delle regioni più settentrionali; anzi, nel momento di maggior debolezza (IV sec a.C.) gli Etruschi sembrano essere stati piuttosto vittima delle pretese dei Celti. Leggiamo infatti nelle storie di Tito Livio (V, 34): «A Segoveso fu quindi destinata dalla sorte la Selva Ercinia; a Belloveso invece gli dei indicavano una via ben più allettante: quella verso l'Italia. Quest'ultimo portò con sé il sovrappiù di quei popoli, Biturigi, Arverni, Senoni, Edui, Ambarri, Carnuti, Aulerci. Partito con grandi forze di fanteria e cavalleria, giunse nel territorio dei Tricastini. Di là si ergeva l'ostacolo delle Alpi […] Ivi, mentre i Galli si trovavano come accerchiati dall'altezza dei monti e si guardavano attorno chiedendosi per quale via mai potessero passare in un altro mondo, attraverso quei giochi che toccavano il cielo […] Essi poi, attraverso i monti Taurini e la valle della Dora, varcarono le Alpi; e sconfitti in battaglia gli Etruschi non lungi dal Ticino, avendo sentito dire che quello in cui si erano fermati si chiamava territorio degli Insubri – lo stesso nome che aveva un cantone degli Edui – accogliendo l'augurio del luogo, vi fondarono una città che chiamarono Mediolanum». Tito Livio, dopo avere consultato una molteplicità di fonti, non ultime quelle annalistiche, affianca nella sua trattazione diversi ricordi sulla penetrazione gallica in Italia e, in quest'ultimo brano, offre qualche dettaglio in più proprio sulla seconda ondata gallica che facciamo coincidere con l’avvento della cultura di La Tène. La seconda occupazione celtica della Lombardia da parte degli Insubri si manifesta archeologicamente attraverso alcuni reperti piuttosto diagnostici, tra cui le tipiche cavigliere in bronzo fuse a cera persa con decorazione ad ovuli utilizzate, con ogni probabilità, dalle donne. Il tratto di pianura che va dall'Olio al Mincio fino al territorio di Verona e al Po fu invece occupato dall'antica popolazione dei Cenomani, guidata da Elitovio (Livio, V, 35); a questa popolazione sembra dovuta la fondazione di Brixia che venne 10 Fig. 16 – Costumi tipici della seconda età del Ferro sulla base dei corredi scoperti nella necropoli di Dormelletto (NO). scelta in qualità di capitale; i Cenomani confinavano a oriente con la popolazione dei Veneti che Polibio ricorda come simile ai Celti per costumi e abitudini ma parlante un'altra lingua (Polibio II, 17,5). La vicinanza con i Veneti indusse i Celti della regione più orientale a un perenne stato di guerra con alcune città, prime tra tutte Padova ed Este; con il tempo, tuttavia, si assistette ad una progressiva integrazione etnica, manifesta attraverso dei matrimoni incrociati e influssi reciproci sul piano dell'artigianato e dell'arte. Grande importanza ebbe poi la migrazione dei cosiddetti Boi, che andarono ad occupare il territorio stretto tra il Po, l’Appennino (presso Parma) e il territorio di Forlì a sud. Secondo Catone, i Boi erano divisi in 112 tribù, con una frammentazione dell'organizzazione politica ben comprensibile in un territorio così vasto e articolato in zone di alta e vasta pianura, con foreste e paludi, e già dominata in precedenza da Etruschi, Umbri e Liguri. Il territorio sembra essere stato articolato in una rete di vici, tecta e castella, su abitanti di pianura, fattorie isolate e centri ubicati in posizione strategica. Tre i centri principali si deve annoverare Bologna (il cui nome è una corruzione di Bononia, ovvero «città dei Boi»); qui è stato possibile individuare alcune tombe il cui corredo manifesta una chiara interruzione della tradizione locale a favore di novità specifiche del mondo celtico come la spada lateniana, talora ritualmente sacrificata. Particolarmente importante è il sito di Monte Bibele, situato nel territorio a oriente della città. Qui è possibile seguire – dal 350 a 250 a.C. – l'evoluzione della cultura lateniana sulla base delle armi, dei foderi e dei cinturoni, che seguono le seriazioni note nei contesti dell'Europa nord-alpina. Il tenore elevato dei corredi indica l'esistenza di un potenziale economico rilevante e di stretti rapporti continuativi con centri della Pianura padana e dell'Etruria tirrenica, in particolare Volterra. In alcuni corredi più ricchi si ritrovano servizi legati al consumo del vino e della carne, oltre a oggetti connessi alle attività atletiche e della palestra: strigili metallici e vasi portaunguenti che manifestano interesse per lo stile di vita e la cultura ellenistica. Nello spazio compreso tra l'Adriatico, il Po, gli Appennini e il confine con i Boi, Polibio (II,17,7) e Livio (V, 35,2) ricordano la popolazione dei Lingoni, insediata nel territorio alla foce del Po, incuneata tra il territorio dei Veneti e quello degli Etruschi; e forse da identificare in costoro la grande «schiera di barbari» che tenendo sotto pressione gli abitanti di Spina obbligarono questi ultimi ad abbandonare la città (Dionigi di Alicarnasso, I, 18, 4-5). Infine, sono degni di nota i Senoni, gli ultimi a giungere in Italia; costoro, per trovare un territorio libero furono costretti a scavalcare le terre già occupate dagli altri Celti e ad insediarsi più a sud, nel territorio delle attuali Marche. I Senoni giocarono un ruolo importante nella guerra contro Roma e furono tra i principali artefici della occupazione di quest'ultima nel 386 a.C. I Galli Senoni mantennero costanti relazioni diplomatiche con la Sicilia governata da Dionigi di Siracusa, ottenendo privilegi per essere, forse, strumentalizzati in funzione delle ambizioni di egemonia sull’Adriatico da parte dei tiranni siracusani. Molti degli oggetti di ornamento in oro scoperti nella regione, non a caso, provengono prevalentemente dall'Italia meridionale (Taranto) e dall'Etruria, e sono attestati servizi da toeletta connessi con la cura del corpo e con la palestra; molto presente è anche il vasellame metallico e ceramico d’importazione etrusca, campana e greca che si lega al consumo del vino, mentre coltelli, spiedi, alari e calderoni si connettono al banchetto e manifestano una assimilazione dei modi di vita dell'ellenismo attraverso le più civilizzate culture confinanti. Spesso sfruttati come mercenari, i Boi vennero definitivamente sconfitti dei Romani nella famosa battaglia di Sentinun del 295 a.C. e quindi nuovamente nel 232 a.C. quando furono ricacciati nelle sedi di provenienza lasciando il proprio territorio ai Romani, che lo distribuirono i coloni con il nome di ager gallicus. Secondo quanto riferito da Strabone, i Boi cercarono all’ultimo di insediarsi nelle regioni lambite dal Danubio accanto ai Taurisci ma, battuti dai Daci, scomparvero dalla storia (Strabone, Geografia V, 1,6). Sandro Caranzano 11