la Voce
del popolo
la Voce
del popolo
DIECI ANNI CON IL DRAMMA ITALIANO,
ORA IN SCENA ANCHE CON LA COMPAGNIA
DI QUELLO CROATO: LE STRADE
CHE L’HANNO RIPORTATO A FIUME
palcoscenico
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UN CAFFÈ CON...
Anno 10 • n. 81
martedì, 4 febbraio 2014
MIRKO
SOLDANO
DUE ATTORI UN TITOLO
Tosca D’Aquino
Maurizio Casagrande
4|5
Prigioniero della seconda strada
RECENSIONI
A PROPOSITO DI
CARNET PALCOSCENICO
Maratona di New York
Henrik Ibsen
Il cartellone del mese
Un percorso di rapporti
Qui e ora
Gli occhi su un mondo
di gradassi e spacconi
6
Vita, aneddoti, curiosità
7
8
Quattro città (Fiume, Pola,
Capodistria, Trieste), sei teatri
2
martedì, 4 febbraio 2014
UN CAFFÈ CON...
palcoscenico
la Voce
del popolo
di Bruno Bontempo
MIRKO
SOLDANO
Un momento di grande soddisfazione e rinascita
Nuovi orizzonti
“Confesso che sto vivendo un lungo momento di
grande soddisfazione e rinascita, per certi versi.
Incastrando dallo scorso settembre prove e spettacoli
con il Dramma Italiano e adesso il mio debutto con il
Dramma Croato, ho avuto dei benefici inaspettati, e
mi sono alleggerito da certi miei impicci privati e da
un momento di grande confusione personale”.
Mirko Soldano riassume così il suo momento
artistico e umano: il suo impegno si è moltiplicato
e il suo sguardo si è allungato su nuovi e per lui
inesplorati orizzonti, che lo hanno arricchito come
uomo e come attore.
A dieci anni dal suo esordio con il Dramma Italiano,
lo abbiamo voluto ospite sulle pagine di Palcoscenico
per parlare del suo lungo e incisivo vincolo che lo
lega alla nostra compagnia di prosa, intercalato da
una parentesi che lo ha visto esplorare il mondo del
teatro, televisione e cinema italiani.
la Voce
del popolo
C
osì si racconta Mirko Soldano,
attore eclettico, intenso e
intelligente, persona sensibile,
simpatica, modesta.
“Sono tornato ed ho inanellato un
piacere dietro l’altro. ‘Kafka project’ è
stata l’occasione per ritrovare i colleghi
del Dramma Italiano, capire come il
teatro sia lavoro di team e dimostrare
che questa compagnia ha delle risorse
incredibili - spiega un raggiante Soldano
-. Anche in una forma teatrale nuova,
diversa da quello che è sempre stato
il lavoro del Dramma, sulla parola,
se vogliamo, e che spero apra altre
possibilità espressive, per me e per
il complesso. Con Karina Holla mi
sono trovato molto bene, una signora
che dall’alto della sua esperienza
sicuramente ha la sua da dire. Al
progetto abbiamo dedicato tanto tempo,
tante ore, tante energie, tanta fatica,
buttando via tanto, per poi tenere un
precipitato, che era più o meno quello
che lei aveva pensato, però sviluppato
e interiorizzato dal gruppo, che è
veramente una mente con tanti piedini
e gambe che si muovono insieme. Ed è
stato un successo. ‘Notti romane’ è forse
il mio preferito. Riconfrontarmi con Elvia
Nacinovich dopo tutti questi anni è stato
un lusso e un piacere. Ha un’enorme
talento e una grande esperienza e ti
mette davanti ai tuoi limiti e alle tue
insicurezze, se vogliamo. Quindi, è stata
anche una bella sfida che però abbiamo
giocato in due e credo che si sia vista.
Infine ‘Zajedno’ (Insieme) col Dramma
Croato (tratto dal film ‘Togheter’ di
Lukas Moodysson), nel ruolo di un
italiano che si innamora della Croazia
e viene a viverci. Il teatro ci ha messo
un tocco di magia, mi ha fatto lavorare
con i colleghi del Dramma Croato e mi
ha offerto l’occasione di confrontarmi
con questa lingua sul palcoscenico,
per integrarmi ed essere riconosciuto.
Lo scambio di attori, registi, culture,
valori tra le due compagnie è sempre
più frequente, un’orgia di differenze,
uno stimolante mescolarsi, scambiarsi,
conoscersi...”
Dieci anni con il Dramma
Italiano, dall’esordio del maggio
2004 con la Vaccària del Ruzante,
portato a Fiume dal veronese
Gianfranco De Bosio, oggi quasi
novantenne, uno dei più noti
(e più longevi) registi italiani
palcoscenico
di teatro, cinema, televisione e
opera lirica. Quali esperienze
hanno segnato la prima fase
fiumana del tuo percorso
professionale?
“Se gli spettacoli che ho fatto possono
essere un segnatempo, quindi anche dei
nodi di cambiamento, beh, così d’acchito
mi vengono in mente ‘La vaccària’,
certo, perché è stata la scintilla, poi
‘Maratona di New York’, perché è stato
il primo incontro con la neodirettrice
Laura Marchig, la regista Neva Rošić,
che considero come una mia mentore,
con Bruno Nacinovich e con un testo di
Edoardo Erba, che poi ho rincontrato
a Fiume e un anno fa al Teatro Due
Roma, dove abbiamo fatto ‘In treno con
Albert’, testo e regia dello stesso Erba.
Maratona è stata anche il mio primo
ruolo importante dopo la Scuola del
Piccolo, perché occupare la scena per un
un’ora e un quarto con un altro collega,
Bruno Nacinovich, anche con un certa
fatica fisica, essendo impegnati a correre
per l’intera durata della pièce, è stato
un autentico battesimo di fuoco. Potrei
dire anche ‘Zente refada’, che come
spettacolo non mi ha entusiasmato, forse
non è il mio tipo, però è stato il primo
contatto con Trieste, che è entrata un
po’ nel mio cuore, con Ariella Reggio e
Maurizio Zacchigna.
Era una coproduzione con La Contrada,
che poi mi ha chiamato per fare ‘Il
Divo Garry’ con Gianfranco Jannuzzo,
Daniela Poggi e la regia di Francesco
Macedonio. ‘Delitto all’Isola delle
capre’, al di là dei successi, dei premi, in
partenza era stato un disastro dal punto
di vista umano, perché Ivna Bruck e
Elvia Nacinovich avevano abbandonato
il progetto, il regista Damir Zlatar Frey
inveiva contro tutto e tutti in croato
e io non capivo niente. Capivo solo
che la situazione era molto tesa e il
mio sistema corpo-mente mi disse: se
stai ancora qui, impazzisci. Così a un
certo punto, per l’unica volta nella mia
vita, sono andato in escandescenze
nei confronti del regista, ho preso il
copione e l’ho buttato in aria. Ricordo
di aver visto i fogli volare, poi ho preso
l’ombrello e il cappotto, ho fatto per
uscire ma l’ombrello, che portavo in
posizione orizzontale, si mise di traverso
sullo stipite della porta e mi sbarrò la
strada. Che figuraccia! Buffissimo, nella
rabbia, andai su su facendo tutte le
scale, fino all’ultimo gradino del coro
dello Zajc, poco sotto il graticcio... Poi
ci siamo chiariti con tutti, è venuta
l’esordiente Elena Brumini al posto di
Ivna, Andrea Blagojević ha sostituito
Elvia e poi lo spettacolo è andato,
intenso, di grande successo, con tanti
premi. ‘L’Isola delle capre’, con Rosanna
Bubola, Elena e Andrea, mi ha aiutato a
rivedere, a rimaneggiare i miei ricordi,
anche i più brutti, legati al teatro e
rileggerli in una chiave più divertente e
mi ha fatto scoprire per la prima volta le
potenzialità del Dramma. Poi Dramma
Italiano, ancora un testo di Erba, uno
spettacolo che mi ha legato molto di
più alla città, ai fiumani, a questa storia
complicata sulla quale si potrebbero
passare delle ore a discuterne senza
arrivare a delle soluzioni, ammesso che
ce ne siano. Mi è piaciuto come è stato
affrontato un tema così delicato e il
mio personaggio, Polan, a fare da filo
conduttore e testimone di tutte queste
storie, che lui attraversa con leggerezza,
ma non con superficialità. Prendete la
vita con leggerezza, che leggerezza non
è superficialità, ma planare sulle cose
dall’alto, non avere macigni sul cuore,
come direbbe Calvino...
E proprio con Calvino il DI sta
per andare in scena tra giorni:
la milanese Paola Galassi cura
regia e adattamento de ‘Il barone
rampante’.
“Adoro Calvino, è uno dei miei autori
preferiti che ho riscoperto quando ero
un po’ più grandicello. Mi piacciono le
sue descrizioni, la quantità di simboli
che trovi nei suoi testi. Anche questo è
apparentemente semplice, un ragazzo
in conflitto col padre che si rifugia su
un albero, ma dentro, oltre al rapporto
padre-figlio, c’è la costituzione,
la corporazione, l’idraulica,
l’associazionismo e la simbologia
massonica (il padre era di famiglia
mazziniana repubblicana, anticlericale
e massonica e nel ‘Barone rampante’,
il protagonista e il narratore vengono
iniziati in una Loggia Massonica, nda).
Come nelle Cosmicomiche, all’inizio
sono delle storielline, poi scava scava,
capisci che dentro c’è tutta una trama
di simboli. Anche noi attori, non solo
la regista, dovremo scavare dentro un
testo così complesso, perché vorrei che
avesse il livello di comprensione della
lettura dei ragazzi, ma anche altri codici
di gradimento e acquisizione”.
martedì, 4 febbraio 2014
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Futuro al DI
Il tuo futuro è ancora con il DI?
“Lo spero, adesso che sono più maturo,
guardando avanti, avendo un orizzonte
temporale un po’ più ampio e volendolo
pianificare, molte strade mi stanno
riportando qui e mi auguro che tanto la
mia vita personale quanto quella artistica
possano coincidere a Fiume, almeno per
un po’ di anni...”
Parmense, classe 1976, Soldano si è
diplomato nel 2002 presso la scuola del
Piccolo teatro di Milano ed ha studiato e
lavorato con Luca Ronconi, Gianfranco De
Bosio, Michele Abbondanza.
Dal 2004, fatta eccezione per
un’interruzione di alcune stagioni, lavora
con il Dramma Italiano al teatro Zajc
di Fiume. Ha svolto un corso di alta
specializzazione presso Teatro Due a
Parma, seminari condotti da Yurij Alschitz
all’Akt-Zent di Berlino, workshop di
mentalismo con Alexander e Damus,
stage tenuti da Bob Mac Andrew a Parigi,
un master con Cristina Pezzoli presso lo
Spazio Compost a Prato.
Nel 2006 ha ottenuto la laurea in
Economia politica all’Università di Parma.
Parallelamente al lavoro in teatro, in Italia
ha partecipato ad alcune fiction televisive
fra cui “Distretto”, “Ris”, “I Cesaroni” e
produzioni di film indipendenti.
Review: una vita discontinua dappertutto, tranne che a Fiume, dove, umanamente parlando ci sono i legami più forti
Tutto il mondo nelle relazioni con gli altri
“Una cosa che mi ha cambiato molto
negli anni passati a Roma è stata
l’insorgenza di una patologia rarissima
all’osso distale del radio del polso
sinistro. Il dolore durava da una
settimana, stavo facendo a teatro ‘Chi
ha paura di Virginia Woolf,’ non potevo
lasciare tutto e andare dal dottore...
Allora mi sono inventato una bugia
terribile, una caduta, ma al Pronto
soccorso hanno capito subito, dalla
prima radiografia, che non poteva
essere stata una caduta e che ero
venuto alla medicina d’urgenza per
evitare la fila dal dottore. Fatta la Tac,
una dottoressa mi mostra la chiazza
nera al centro del radio. E lì inizia
tutta una via crucis di cure, di paure,
di acrobazie per tenere nascosta la
diagnosi, in attesa dei risultati degli
accertamenti. È stata dura, ho dovuto
usare anche un tutore ortopedico, che
ormai metto soltanto nei momenti
più complicati, però come persona
mi ha cambiato, credo in meglio, mi
ha permesso di attivare quelle risorse
che ti rendono più consapevole, più
flessibile.
Ora che il pericolo è passato posso
dire di essere stato doppiamente
fortunato. Primo per l’esito della
malattia, secondo perché vivere questa
angoscia in realtà mi ha permesso
di generare una serie di nuove
considerazioni sulla mia esistenza.
Anche come attore. Per me è stato
come uno spettacolo nello spettacolo.
Poi, tornando a Fiume, ho potuto
ritrovare una certa serenità e una
certa pace, tra persone con le quali
condividere un pezzo di vita. Ho più
ricordi qui che non a Parma, a Milano,
a Roma. La mia vita, dopo le medie
superiori, è stata molto discontinua
dappertutto, tranne che a Fiume, la
città dove io, rifacendo un review,
riconsiderando il tutto, ho le relazioni
più forti, umanamente parlando. E
oggi le ritrovo tutte, dentro e fuori
il teatro. Perché il mondo lo vuoi
scoprire, vuoi viaggiarlo, però piano
piano ti rendi sempre più conto
che non è necessario spostarsi per
conoscere. Lo puoi fare, anche meglio,
stando fermo e guardando dentro
te stesso. Per scoprire, magari, un
universo di sensazioni e ritrovare nelle
relazioni con gli altri tutto il mondo,
senza il bisogno di andare a cercarlo
chissà dove. Sta tutto qua, il senso
della vita, e del teatro, due cose che
non sono poi così slegate...
E per capire, pure, che il teatro è un
grande sogno, un’utopia, come quella
delle bellissime Parole in cammino di
Eduardo Galeano: Mi avvicino di due
passi, lei si allontana di due passi.
Cammino per dieci passi e l’orizzonte si
sposta dieci passi più in là. Per quanto
io cammini, non la raggiungerò mai.
A cosa serve l’utopia? Serve proprio a
questo: a camminare...
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lalaVoce
Voce
del popolo
del popolo
martedì, 4 febbraio 2014
DUE ATTORI UN TITOLO
di Rossana Poletti
|| Ho cominciato con Luca de
Filippo e con testi importanti
come “Questi fantasmi”, poi
con Panariello nel “Borghese
gentiluomo” e con tanti altri
spettacoli comici e brillanti.
Il palcoscenico difficilmente
mi ha dato delusioni. “Il
teatro non ti abbandona mai”
mi diceva spesso Luca ed
effettivamente, tornando a
questa crisi, lo zoccolo duro
degli spettatori c’è. Certo
alcuni teatri chiudono, si sono
sciolte delle compagnie, si
fanno meno produzioni, la crisi
ha colpito tutto e a maggior
ragione ha colpito anche il
teatro
|| La musica nel passato e nel
futuro, con “E la musica mi gira
intorno”.
Dice: “La musica è un
linguaggio senza confini.
Andai anni fa in Africa e suonai
con un percussionista in un
villaggio, senza sapere niente
di lui, né chi fosse né cosa
facesse, perché la musica non
ha bisogno di essere tradotta.
Ma poi emerge il bisogno di
fare cose nuove e il pubblico
lo fai contento quando sei
contento tu”
ToscaD’AQUINOe
MaurizioCASAGRANDE
PARTE DA TRIESTE
LA LUNGA TOURNÉE
CHE LI PORTERÀ NEI
TEATRI D’ITALIA CON
LA COMMEDIA DI NEIL
SIMON «PRIGIONIERO
DELLA SECONDA
STRADA» NEI RUOLI DI
EDNA E MEL
TRIESTE. TEATRO LA CONTRADA.
T
osca D’Aquino e Maurizio Casagrande
sono entrambi nati a Napoli negli
anni Sessanta. Tosca raggiunge
la popolarità con due film di Leonardo
Pieraccioni, “I laureati” e “Il ciclone”. Poi
lavora in televisione con Panariello in
“Torno sabato” e partecipa a numerose
fiction, l’ultima in ordine di tempo “Anita
Garibaldi”, nel 2012.
Casagrande è un appassionato musicista:
pianoforte, contrabbasso e canto al
Conservatorio. Negli anni Settanta fa
parte di una band rock, i Tetra Neon.
Fortuitamente viene visto sul palcoscenico
da Nello Mascia, che lo scrittura nella sua
compagnia teatrale. Lungo il suo sodalizio
cinematografico con Vincenzo Salemme,
poi vengono le fiction, Carabinieri nel ruolo
del maresciallo Morri, le partecipazioni in
trasmissioni televisive e in miniserie tv.
Maurizio Casagrande e Tosca D’Aquino sono
Mel ed Edna nella nuova produzione del
Teatro Stabile di Trieste La Contrada, che
ha appena cominciato la sua lunga tournée
nazionale proprio dal Teatro Bobbio di
Trieste. “Prigioniero della seconda strada” è
stato scritto da Neil Simon nel 1975.
D’AQUINO: Ed è di un’attualità
sconcertante.
Infatti. Che impressione fa recitare
un testo datato e accorgersi che i fatti
narrati potrebbero accadere oggi?
D’AQUINO: Innanzitutto che la storia
non ci insegna niente, perché scritto
quarant’anni fa, parla di perdere il
lavoro, di disoccupazione, di crisi a livello
mondiale, d’inquinamento ambientale e
acustico, di nevrosi da sovraffollamento e
da vita in città; insomma una serie enorme
di problemi attuali. Ecco perché dicevo
che la storia non ci insegna nulla, perché
a distanza di tanto tempo siamo ancora ad
affrontare le stesse questioni.
CASAGRANDE: Non amo prendere lavori
che sentono gli anni, che risentono di luoghi
e culture diverse. Ma in questo caso mi è
bastato togliere i riferimenti di piccole cose,
specificatamente americane o temporali,
come il long playing che non esiste più,
è bastato eliminare queste situazioni per
rendere attuale il testo. La crisi di cui parla
Neil Simon è quella causata dalla rivoluzione
sessantottina dei giovani; è una grande crisi
sociale in cui si è alla ricerca di nuovi modelli
e comunque parla di un uomo che ha perso
il lavoro, di una società che sta mettendo in
discussione il proprio stile, i propri valori,
che si interroga se siano validi, giusti e
soprattutto perseguibili. La nostra crisi è
molto simile, è quella di chi si domanda
se abbiamo fatto bene, visto che siamo
arrivati a questo punto, in cui mettiamo
in discussione un po’ tutto. Ci si interroga
se era giusto sprecare tanta energia dal
momento che quello che abbiamo ottenuto è
risultato essere un di più. Neil Simon scrive
tutto questo però riuscendo a mettere l’ironia
e la leggerezza anche nella visione più nera.
Questo è il suo grande talento.
Crisi diverse, ma nessuna differenza
nella sostanza
CASAGRANDE: Paradossalmente oggi
è un po’ peggio. Quella crisi veniva in un
momento in cui avevamo trovato un modo
di vivere: scoperto che la società aveva dei
problemi, ci si era sforzati di affrontarli. Poi
invece di trovare delle soluzioni, abbiamo
radicalizzato il nostro stile di vita e l’abbiamo
reso ancora più determinato in quella
direzione. Perciò la crisi che viviamo oggi
non è più e solo una crisi economica, ma
è bensì sociale, nel senso più ampio del
termine.
D’AQUINO: Il testo è scritto però con
una mano leggera, quella di uno scrittore
e drammaturgo come Neil Simon. Sono
argomenti seri e concreti, ma trattati in
modo che si rida, nel dramma c’è sempre
il lato comico e la battuta e poi il finale
è carico di ottimismo e di follia. Il finale
è tutto centrato su questa coppia che va
avanti facendosi forza dell’amore che li
unisce, della reciproca comprensione e
appoggio.
Che cosa può fare il teatro in questo
brutto momento che viviamo?
CASAGRANDE: La parte centrale di
questo lavoro è la coppia e il messaggio
che arriva molto chiaro al pubblico è che,
al di là della crisi e al di là del problema
che sta fuori dalla porta, che ovviamente
non può che entrare anche in casa, nel
momento in cui riusciamo a tenere forte
strutturata e ben salda la coppia, la famiglia
in ogni sua estensione possibile, allora la
questione è superata. Il problema grosso
di una crisi è quando questa è di valori,
quando non hai chiara la strada da seguire.
Invece l’idea di questa commedia e quindi il
messaggio positivo che arriva alle persone
è che, al di là di quello che accade, se tu
sai bene quali sono i valori della tua vita,
quali sono le cose importanti di cui non
puoi fare a meno, affronti molto meglio la
difficoltà momentanea. Come tutte le crisi
ha una parabola che avrà prima o poi una
linea discendente e quindi un’inversione di
tendenza. Le crisi vanno attraversate. Se
hai valori di riferimento, se sai dove stai
andando riesci a navigare, se invece hai
perso di vista dove stai andando navighi
in un mare in tempesta dove è facile che
affondi.
Quindi è l’amore la forza vincente?
CASAGRANDE: Non basta voler bene
ad una persona per risolvere i problemi.
Nel “Prigioniero della seconda strada”
Edna ama profondamente Mel, l’uomo
rimasto senza lavoro, ma non basta che
lei gli voglia bene, bisogna che lo stimi,
che lo comprenda e condivida con lui le
difficoltà. Semplicemente sostenere, dare
una stampella ad una persona in difficoltà
può voler dire non risolvere quella difficoltà
anzi alimentarla. Il significato di questa
commedia è quindi che bisogna stimarsi e
rispettarsi.
Esprimete un ottimismo che oggi non c’è,
non si percepisce nella società.
D’AQUINO: Io e Maurizio siamo
napoletani e per noi vale il detto ‘Ha da
passà ‘a nuttata’, che è poi la famosissima
frase contenuta nella commedia Napoli
milionaria! di Eduardo de Filippo. Si certo è
così, ne prendiamo atto, ma dobbiamo anche
rimboccarci le maniche, fare qualcosa, essere
ottimisti altrimenti si legittimano i tanti
suicidi che riempiono le cronache.
Un teatro troppo impegnato,
drammatico, sempre carico di denuncia
se da un verso individua errori e
responsabilità, dall’altro sul fronte
dell’umore non aiuta. Un teatro meno
serio può risollevare morale e sorti di un
paese?
D’AQUINO: Un testo ti dà una cifra, ma
poi sta a te che lo metti in scena spingere
il pedale più verso il dramma o più verso
la leggerezza. L’attore ha questa chance, ha
questa possibilità. Con Maurizio ci siamo
trovati concordi su questo, non a caso
abbiamo lo stesso background culturale, la
stessa infanzia a Napoli, abbiamo maturato
esperienze simili. Per noi è stato facile
intenderci su questo testo che è serio, che
tratta temi scottanti; ma noi l’abbiamo fatto
proprio esaltando gli aspetti divertenti e
positivi che Simon evidenzia. È giusto che
il pubblico affronti lo spettacolo avendo
davanti spunti di riflessione, ma poi credo
sia un bene che anche si diverta.
Noi siamo qui calati nel profondo nordest e gran parte dei nostri lettori stanno
ancora più a est di Trieste, c’è un modo
diverso di sentire dramma e comicità da
parte del pubblico alle diverse latitudini?
D’AQUINO: Assolutamente sì. Noi
la Voce
palcoscenico
del popolo
martedì, 4 febbraio 2014
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abbiamo debuttato in prima assoluta a
Trieste e questa città fa parte di quelle
piazze molto temute dagli attori, questo
è un mondo in cui la gente è abituata ad
andare a teatro, a me piace paragonare la
gente di qua ai napoletani; sono città di
mare in cui il pubblico è schietto, se piace
sanno essere calorosi, ma se non va te lo
fanno capire subito.
A proposito di crisi, facendo qualche
riflessione su questo territorio possiamo
dire che Trieste ha visto crollare la sua
strategica importanza economica con
la caduta dell’impero asburgico e con
il passaggio all’Italia, la città è vissuta
di rendita, senza grandi prospettive.
Analogamente quasi un secolo dopo,
caduti confini ideologici e geografici,
Istria e Fiume nella Slovenia e nella
Croazia moderne sono entrati a far parte
di un mondo in grande crisi. Sembra
quasi un destino segnato.
D’Aquino: È un brutto momento per
tutti. D’altra parte è un po’ la filosofia
degli italiani quella di aver visto mille
difficoltà, calpestati da tutto e da tutti,
ma poi l’abbiamo sempre “svangata” e
“svangheremo” anche questo.
Sogni nel cassetto.
D’AQUINO: Sono nata nel teatro, mi
sono diplomata all’Accademia Nazionale
d’Arte Drammatica Silvio D’Amico di Roma.
Alimentata con film del neorealismo, della
commedia italiana e con le opere di registi
come Rossellini, De Sica e Fellini, sono
quindi cresciuta con il sogno nel cassetto
del grande cinema, ma non mi sono lasciata
sfuggire le opportunità della televisione di
intrattenimento, ho lavorato con Panariello,
ho fatto le fiction. Ho provato un po’ di tutto
e devo dire che è molto divertente cambiare
genere. Il teatro però rimane il primo amore
ed è un bel banco di prova. Cito sempre il
grande Eduardo che diceva “ecco il baratro,
ecco l’attore”. E aveva proprio ragione
perché quando si apre il sipario sono proprio
due ore, due ore e mezza dalle quali non
puoi più tornare indietro. Con la fiction o
con il cinema tutto si può correggere e rifare,
tutto è perfettibile.
E senza teatro non c’è il contatto con il
pubblico.
D’AQUINO: Altrimenti perché una madre
con due figli come me affronterebbe
almeno una tournée all’anno, se il calore
del pubblico non fosse la leva che ci fa
continuare in questo difficile mestiere?
Ho cominciato con Luca de Filippo e
con testi importanti come ad esempio
“Questi fantasmi”, poi con Panariello nel
“Borghese gentiluomo” e con tanti altri
spettacoli comici e brillanti. Il palcoscenico
difficilmente mi ha dato delusioni. “Il teatro
non ti abbandona mai” mi diceva spesso
Luca ed effettivamente, tornando a questa
crisi, lo zoccolo duro degli spettatori c’è.
Certo alcuni teatri chiudono, si sono sciolte
delle compagnie, si fanno meno produzioni,
la crisi mondiale ha colpito tutto e a maggior
ragione ha colpito anche il teatro. Mangiare
si mangia, non si può farne a meno, senza
arte invece nelle difficoltà si sopravvive. Per
fortuna la gente continua ad andare a teatro
e allora viva il teatro.
Nel suo passato c’è la musica,
abbandonata per il teatro?
CASAGRANDE: Mai completamente,
infatti quest’estate ho cominciato a
preparare uno spettacolo “E la musica mi
gira intorno”, una serata concerto nella
quale parto dal presupposto che un uomo
senza passato è un uomo senza futuro. Io
sono uno smemorato ma voglio un futuro,
allora, per ricostruire il mio passato,
l’unico modo che ho è di farlo attraverso
le canzoni. Ripercorro quelle dagli anni
Cinquanta, quando mia madre e mio padre
si sono conosciuti fino ai giorni nostri,
canzoni famose e popolari. Quando arrivo
agli anni Settanta della mia esperienza
musicale, mi siedo dietro la batteria e
nello stupore generale racconto quei miei
anni con le percussioni. La batteria è uno
strumento pieno di energia. La musica è
un linguaggio senza confini. Andai anni fa
in Africa e suonai con un percussionista in
un villaggio, senza sapere niente di lui, né
chi fosse né cosa facesse, perché la musica
non ha bisogno di essere tradotta. Ma
poi emerge il bisogno di fare cose nuove
e il pubblico lo fai contento quando sei
contento tu.
ILPRIGIONIERO
della seconda strada
NELLA QUOTIDIANITÀ DELLA
MIDDLE CLASS AMERICANA DI UNA
NEW YORK UN PO’ LONTANA NEL
TEMPO L’ATTUALITÀ DELLA CRISI
ECONOMICA, SOCIALE, PERSONALE.
DOVE ABBIAMO SBAGLIATO
N
eil Simon, nato a New York nel 1927, è un
drammaturgo e sceneggiatore. Delle sue opere,
tradotte e rappresentate in tutto il mondo, molte
debuttarono a Broadway, e di alcune furono tratti veri e
propri capolavori umoristici nel cinema degli anni Sessanta.
Basti ricordare “La strana coppia”, con Walter Matthau e Jack
Lemmon, “Appartamento al Plaza” e “A piedi nudi nel parco”.
Successivamente, pur non lasciando il genere della commedia
brillante, Simon affrontò temi più introspettivi: “Il prigioniero
della seconda strada” fu sicuramente una delle sue opere più
riuscite in cui dà voce alla cosiddetta middle-class americana,
ai suoi personaggi paurosi ed insicuri. Siamo nel 1975 in
una New York calda e afosa. I palazzi sono uno attaccato
all’altro, le pareti di cartongesso fanno sentire tutto quello che
accade nell’appartamento adiacente, il condizionatore non
funziona bene. Mel non riesce a dormire e sveglia così anche
Edna. Non vuole confessare alla moglie ciò che lo tormenta:
è stato licenziato. Dopo 27 anni di servizio continuato nella
stessa azienda, si trova ora senza lavoro. La depressione
lo aggredisce e il crollo è definitivo quando viene rapinato
della roba che ha in casa. Ha un attacco di nervi, si accanisce
contro tutti, ricavandone una secchiata d’acqua da un vicino
spazientito dalle sue intemperanze. Edna nel frattempo è
riuscita ad impiegarsi in un ufficio e Mel va dallo psicanalista.
La moglie convoca i parenti di lui per informarli della grave
crisi che ha colpito il loro fratello. Si presentano tre sorelle
tirchie e alquanto inadeguate ad affrontare la situazione;
vivono in campagna in una sorta di isolamento e non sono
capaci di comprendere lo stato in cui si trova Mel. Con
sollievo delegano l’altro fratello benestante, ma non proprio
con tutte le rotelle a posto, pieno di risentimenti e di gelosia.
Ad un certo punto anche Edna perde il lavoro, ma ormai
Mel ha deciso di risollevarsi e rifiuta perfino il grosso aiuto
economico che il fratello gli ha proposto. Per sottolineare il
suo rinsavimento, ha deciso che si vendicherà della secchiata
ricevuta, acquistando, in piena estate, una grossa pala con
cui gettare chili di neve sul vicino. Sembrerebbe un gesto
folle e ridicolo, ma le bizzarrie del clima decidono di dargli
una mano. Maurizio Casagrande è un ottimo Mel, capace di
rappresentare con efficacia l’uomo isterico, il depresso grave
e colui che riprende in mano le redini della sua vita. Se non
fosse per la scena, che inequivocabilmente rappresenta uno
dei tanti palazzoni della metropoli americana, potremmo
veramente pensare di essere di fronte ad un romano della
buona periferia capitolina, che affronta una delle tante
chiusure aziendali che riempiono le pagine dei giornali
di questi tempi. I riferimenti all’attualità sono frequenti,
lievi ma evidenti. La moglie Edna è Tosca D’Aquino, che lo
asseconda egregiamente in questo percorso di sofferenza,
anche se manca di un pizzico in più di ironia. Il cammeo
dei quattro fratelli in visita è ben rappresentato da Adriano
Giraldi, Barbara Folchitto, Paola Bonesi e Marzia Postogna,
che mostrano con molta efficacia i tic e le criticità di tre
zitelle e di uno psicotico. Casagrande e D’Aquino sviluppano
molto intensamente il senso di responsabilità dell’uno per
l’altro, affetto, amore, condivisione delle responsabilità e dei
problemi nella coppia, argomenti che ai giorni nostri, in cui
l’individualismo sfrenato e l’egoismo edonistico della società
attuale regnano indiscutibilmente, rimangono lettera morta,
creando ancora più disperazione e solitudine.
6
martedì, 4 febbraio 2014
LA RECENSIONE
palcoscenico
la Voce
del popolo
di Rossana Poletti
MARATONA
DINEWYORK
TRIESTE. POLITEAMA ROSSETTI
CHISSÀ CHE COSA
PASSAVA NELLA
TESTA DELL’ATENIESE
QUANDO CORSE
PER 42 CHILOMETRI
PER RIFERIRE DELLA
VITTORIA SUI PERSIANI?
“D
evo smaltire le medicine.
Ne prendo troppe” dice
Mario all’amico Steve
(Stefano), vestendosi per la solita corsa
serale di preparazione all’agognata
partecipazione alla Maratona di New
York. “Chissà che cosa passava nella
testa dell’ateniese quando corse per 42
chilometri per riferire della vittoria sui
Persiani. Si dice che arrivò così stremato
che non si ricordava niente di quello che
doveva raccontare”: è Steve a parlare,
vuole accelerare il ritmo, entrare subito
nella corsa dando il massimo, vuole
insomma spingere sull’acceleratore.
Sono frasi banali quelle che i due amici
si scambiano, i soliti discorsi che gli
uomini fanno sulle donne, “non vedono
le cose come noi, non capiscono le
nostre motivazioni”, si dicono. Parlano
di sport rievocando fatti del passato,
“ricordi la grande Inter, erano tutti
giocatori straordinari, ce l’avevano
scritto in faccia che avrebbero vinto”.
E poi le consuete domande esistenziali
“Steve, Dio esiste? Perché quando ero
piccolo credevo e adesso non so più?
Dovremmo decidere se crediamo o
no, dovremmo farlo adesso”. E intanto
Mario è stanco, finge una caduta per
riposare: “voglio sentirmi libero, libero
di fermarmi”. Steve lo costringe a tener
duro, “se non stringi i denti in fondo
non ci arrivi”. Ma proprio quest’ultimo
che vorrebbe essere forte si ritrova
con la milza che comincia a far male
sempre di più, resta indietro e Mario
diventa finalmente il trascinatore della
serata. “Avevi ragione – dice – non sento
più la stanchezza, le gambe vanno da
sole”. Affiorano ricordi spiacevoli e
recriminazioni, “al rumeno che voleva
i soldi per pulirmi i vetri l’ho trattato
come se fosse il mio cane”, “mi hai
portato via Anna, mi hai fregato la
donna”, dice Mario. I loro discorsi si
fanno intimi, ricorrente l’infanzia, i
genitori e le storie di una vita. Intanto
sul fondo le immagini di un cielo
stellato hanno subito sostituito le foto di
una New York notturna illuminata, una
metropoli in bianco e nero era apparsa
come in sogno ai due amici, che da
tanto anelano di andarci, complice la
grande maratona.
“Non ce la faccio più!” grida Steve.
“Quanto ci hai messo a dirlo; a me hai
impedito di farlo per tutta la vita”, gli fa
eco Mario. Qualcosa è cambiato nei loro
racconti, non sono più i dialoghi di due
amici partiti assieme per un allenamento
serale. Frammenti di discorsi lasciano
intendere che qualcosa di grave è
accaduto. “Le chiavi dell’auto, dove sono
le chiavi? C’era la macchina, ho fatto la
curva” chiede Mario a Steve, ma questi si
è ormai fermato. “Steve, non sei venuto
stasera?”. “No, sono rimasto a casa a
vedere la partita” e se ne va, esce di scena
mentre Mario ormai “schizzato” urla
“Stefano, ma che notizia devo portare?”.
Ed è così che l’epilogo se lo deve inventare
lo spettatore: Mario è morto nell’incidente
della sua macchina, la corsa serale è un
sogno di Stefano? Chissà, poco importa.
Lo spettacolo è forte, non solo per quello
che si dicono i due e che trasmettono
al pubblico, ma soprattutto per come
lo fanno, per come è costruita la
messinscena. Cristian Giammarini e
Giorgio Lupano, i due registi protagonisti
di “Maratona di New York” di Edoardo
Erba, corrono in scena per tutti i sessanta
minuti dello spettacolo. La loro fatica
è autentica, e così anche le loro storie,
i loro dialoghi lo diventano a tal punto
da far sorridere per la tanta ironia e
addolorare per i momenti drammatici
evocati. Ed è questo, solo questo che
conta, quello che lo scrittore voleva e
che i due attori hanno pregevolmente
realizzato.
QUIEORA
TRIESTE. POLITEAMA ROSSETTI
GLI OCCHI PUNTATI SU
UN MONDO, QUESTO,
FATTO DI GRADASSI,
SPACCONI E IRACONDI.
CHE FINE HANNO FATTO
LA GENTILEZZA E LA
«CAVALLERIA»?
È
proprio vero: i tempi sono cambiati
radicalmente da quando ci si
chiedeva scusa, per favore, posso?
Al giorno d’oggi spesso gli incontri sono
improntati all’aggressione verbale, i
rapporti diventano in breve conflittuali.
Prevale il super io che distrugge ogni
accenno di gentilezza e di “cavalleria”.
La convivenza civile è relegata ad un
lumicino, che solo ogni tanto arde un po’
di più. Questo mondo fatto di gradassi,
spacconi e iracondi è ben descritto nel
testo “Qui e ora” di Mattia Torre. In scena
due attori superlativi, Valerio Mastandrea
e Valerio Aprea. Mastrandrea ha peraltro
ricevuto il Premio Hystrio 2013 per
l’interpretazione in questo spettacolo,
che è in corsa per il Premio “Le Maschere
del Teatro 2013”. La storia è presto
detta: due uomini percorrono una
strada poco trafficata in scooter e, non
si sa bene come e perché, si scontrano.
Apparentemente uno dei due è conciato
meglio dell’altro, si alza, ha un certo
dolore alla caviglia, recupera il cellulare
e chiama il 118. Da subito si accanisce
contro il mondo, contro i volontari del
soccorso. Chiama un amico e lo rassicura
che sarà da lui in pochi minuti. L’idea si
scontra immediatamente con la visione
in scena di due grosse moto accartocciate
una sull’altra. Difficile credere che dopo
un tale incidente quest’uomo se ne possa
andare di lì a poco, anche perché l’altro,
riverso a terra a faccia in giù, non dà
segni di vita. Un po’ alla volta si svela il
motivo di tanta urgenza; egli è un famoso
chef che tiene una rubrica radiofonica
di cucina che fa quasi due milioni di
ascoltatori, ma essendo insidiato da altri
colleghi rampanti, desiderosi di soffiargli
il posto, accetterà di fare la trasmissione
in diretta attraverso il cellulare dal luogo
dell’incidente, inventando di sana pianta,
ricette, risposte agli ascoltatori e altre
situazioni, che non potranno che essere
comiche.
“Come in tutte le mie scritture ho cercato
di impostare la scrittura in modo che
la comicità sia usata come mezzo per
raccontare cose spaventose”, racconta
Mattia Torre parlando di Qui e Ora, ed
è proprio così che quest’ora di attesa
dei soccorsi sarà un lungo snodarsi
di bestialità che però divertono il
pubblico. Ovviamente un riso amaro, per
coloro che sanno cogliere la causticità
dei personaggi, per quanto il mondo
ne è realmente tappezzato. Piano a
piano il secondo ferito si riprende,
diventando ostaggio dello chef,
ferocemente adirato per la situazione
e per i danni che ne conseguono alla
sua popolarità. Il finale è però tanto
grottesco quanto prevedibile, ma non
per questo meno efficace. Lo chef
morirà, per una probabile emorragia
interna, e il presunto investitore si
rivelerà uno sciagurato folle, che aveva
a monte deciso di investirlo, perché
considerato una iattura dell’umanità:
aveva infatti meditato una vendetta per
il successo che il primo rappresenta a
fronte della sua inadeguatezza, della
sua miseria umana e materiale. Infatti
disoccupato è stato abbandonato dalla
moglie e vive perseguitato dalla solita
madre invadente. Si materializza così
tutto il conflitto di due mondi che
vivono paralleli, quello del successo,
dell’immagine, della fortuna e della
ricchezza, che ingenera spavalderia
e superbia, e quello dell’emarginato
sociale che accumula odio e rancore. È
la drammatica e grottesca descrizione
del mondo attuale, che se non riscrive
le regole della convivenza rischia un
tonfo brutale. Una bella prova di teatro
contemporaneo.
palcoscenico
la Voce
del popolo
A PROPOSITO DI...
martedì, 4 febbraio 2014
7
Lo sapevate che...
di Emanuela Masseria
- A Ibsen è stato intitolato un cratere
suo omonimo sulla Mercurio.
- Lo psicologo e filosofo Ludwig Binswange
r
ha dedicato un importante saggio all’autore
norvegese:”Henrik Ibsen. La realizzazione di
sé
nell’arte”, Quodlibet, Macerata, 2008.
- Il quadro di George Grosz “Le Colonne della
Società”
è un evidente riferimento all’omonima opera
di
Henrik Ibsen
da “La
morale
e il costume”
DI ANTONIO GRAMSCI, 1917
(recensione su Casa di bambola
di IBSEN AL CARIGNANO)
”Gli spiriti de
lla
e della libertà verità
sono i pilastri
della società”
.
U
n personaggio complesso, quasi un
filosofo, costantemente immerso
in una tensione critica verso un
universo piccolo - borghese. Siamo nella
Norvegia di metà Ottocento, dove visse e
prosperò Henrik Ibsen, uno dei maggiori
autori teatrali di tutti i tempi. Nato a
Skien nel 1828 il celebre drammaturgo
più di altri incarna, con le sue opere, una
concreta aspirazione al sublime, basata
sulla metodica scomposizione delle miserie
dell’esistente. Nello stesso tempo, la sua
ricerca, testimoniata nei testi più vari,
incrina l’idealismo sulla base di una solida
realtà che però, variamente, si sgretola.
Non stupisce quindi che la sua naturale
espressione, dopo aver sperimentato
vari generi teatrali, si sia riversata
soprattutto nel
da I pilastri
della società
dinamiche ibseniane d’elezione, dove
il valore di ciascuno spesso è inferiore
all’ambizione e alla capacità di realizzarla.
Per ognuna delle sue maschere c’è un
prezzo da pagare, nelle ferrea moneta
del ragionamento nord-occidentale. Non
mancano, in tutto questo, influenze di
un Protestantesimo mai vissuto, dato che
Ibsen era ateo e avvezzo alle speculazioni
di grandi pensatori contemporanei
come Heidegger e Kierkegaard. Un non
credente, insomma, mosso dall’intuizione
del Sacro, inteso come scoperta del
proprio destino. Fu non solo il suo
pensiero, quanto la sua emotività e la sua
fantasia a condurlo spesso a magnificare
con dettagli controversi le sue eroine
femminili, immerse tra le sue analisi acute
e disincantate e le violenze dei rapporti
familiari, d’amicizia, d’amore. E sempre
quest’ultimi riescono al meglio, nella
loro potenza comunicativa, quando
l’ideale si infrange contro la realtà.
Ma da dove partì Ibsen? Strano a
dirsi, la sua prima inclinazione fu
la pittura, un sogno che naufragò
presto conducendolo a un lavoro
di apprendista nella farmacia di
Grimstad. Trascorse la giovinezza
in difficoltà economiche, aggravate
dalla nascita di un figlio illegittimo
i
nel 1846. Nello stesso tempo però
- da Spettr
non abbandonò le letture, lo studio e
le meditazioni rivoluzionarie. Cominciò
a scrivere per il teatro e non smise mai.
dramma,
La sua prima opera fu Catilina, tragedia
soggetto alle grandi
storica ispirata al pensiero di Schiller e
correnti di pensiero di
allo spirito risorgimentale europeo. Nel
quegli anni, ma anche venato
1850 si trasferì a Cristiania (l’odierna
di umanità e comprensione per
Oslo) riuscendo a fare rappresentare l’atto
i propri combattuti personaggi. Dalla
unico Il tumulto del guerriero, opera
psicoanalisi veniva la scoperta e la
influenzata dal clima nazionalistico e
passione per i conflitti, interni e esterni
romantico. Dal 1851 ricoprì vari ruoli a
all’individuo. Lo strumento narrativo è la
teatro (assistente, scrittore e maestro di
lotta perenne, tra il singolo e la società, tra
scena) e scrisse la commedia La notte
il cittadino e lo Stato, tra le convinzioni
di San Giovanni (1853) e il dramma
personali e le tradizioni. Queste le
storico Donna Inger di Østrat (1855), che
felicità
a
l
e
r
a
c
r
e
C
”
ita,
in questa v spirito
ecco il vero he diritto
di rivolta. C a felicità?”
ll
abbiamo a
“Emma Gramatica, per la sua
serata d’onore, ha fatto rivivere,
dinanzi a un pubblico affollatissimo
di cavalieri e di dame, Nora della
Casa di bambola, di Enrico Ibsen. Il
dramma evidentemente era nuovo
per la maggioranza degli spettatori.
E la maggioranza degli spettatori
se ha applaudito con convinzione
simpatica i primi due atti, è rimasta
invece sbalordita e sorda al terzo, e
non ha che debolmente applaudito:
una sola chiamata, più per l’interprete
insigne che per la creatura superiore
che la fantasia di Ibsen ha messo al
mondo. Perché il pubblico è rimasto
sordo, perché non ha sentito alcuna
vibrazione simpatica dinanzi all’atto
profondamente morale di Nora
Helmar che abbandona la casa,
il marito, i figli per cercare
solitariamente se stessa, per
scavare e rintracciare nella
profondità del proprio io le
radici robuste del proprio essere
morale, per adempiere ai doveri
che ognuno ha verso se stesso
prima che verso gli altri?
Il dramma, perché sia
veramente tale, e non inutile
iridescenza di parole, deve avere
un contenuto morale, deve essere
la rappresentazione di un urto
necessario tra due mondi interiori, tra
due concezioni, tra due vite morali. In
quanto l’urto è necessario il dramma
ha immediata presa sugli animi
degli spettatori, e questi lo rivivono
in tutta la sua integrità, in tutte le
motivazioni da quelle più elementari
a quelle più squisitamente storiche.
E rivivendo il mondo interiore del
dramma, ne rivivono anche l’arte, la
forma artistica che a quel mondo ha
dato vita concreta, che quel mondo ha
concretato in una rappresentazione
viva e sicura di individualità umane
che soffrono, gioiscono, lottano per
superare continuamente se stesse, per
migliorare continuamente la tempra
morale della propria personalità
storica, attuale, immersa nella vita del
mondo. Perché allora gli spettatori,
i cavalieri e le dame che l’altra sera
hanno visto svilupparsi, sicuro,
necessario, umanamente necessario,
il dramma spirituale di Nora Helmar,
non hanno a un certo punto vibrato
simpaticamente con la sua anima,
ma sono rimasti sbalorditi e quasi
disgustati della conclusione? Sono
immorali questi cavalieri e queste
dame, o è immorale l’umanità di
Enrico Ibsen?
Né l’una cosa né l’altra. È
avvenuta semplicemente una rivolta
del nostro costume alla morale più
spiritualmente umana.....”
famiglia
i
d
a
it
v
a
L
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r
e
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perde o
onda
quando si f ell’io ti do
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sul princip
”
ola
e tu mi dai.
a di bamb
anticipa le attenzioni ibseniane
ai destini e alle problematiche
femminili. Divenuto nel 1857
direttore del Teatro Nazionale di
Cristiania, in quegli anni sposò
Susanna Thoresen, figliastra
della scrittrice Anna Magdalene
Thoresen e proseguì nella scrittura
di testi teatrali: il dramma fiabesco
I guerrieri di Helgeland (1857), il
poemetto drammatico Terje Vigen
(1862), la satira teatrale La commedia
dell’amore (1862), il dramma storico I
pretendenti al trono (1863).
Dal 1863, grazie ad una borsa di studio
per l’estero, iniziò un lungo periodo di
soggiorni (1864-91) a Monaco, Dresda e
Roma. Nella capitale italiana scrisse Brand
(1866), poi Peer Gynt (1867) a Ischia,
la commedia brillante in prosa La lega
dei giovani (1869) e il dramma Cesare
e il Galileo (1873). Il vero cambiamento
di registro avvenne dopo l’incontro con
il critico letterario e scrittore danese
Georg Brandes, che intendeva riportare,
nella letteratura - e quindi anche nel
teatro - il senso critico verso la società
contemporanea e le situazioni quotidiane.
Queste istanze furono accolte da Ibsen,
che dal 1877 dà inizio alla fase del teatro
sociale, dove la menzogna e l’ipocrisia sono
un mezzo per far comprendere la libertà
individuale e il suo prezzo. Da qui nasce
l’attenzione, ad esempio, per l’inferiorità
della condizione femminile, ma anche le
critiche al potere, al denaro, alle istituzioni,
in primis quella matrimoniale. Anche i
suoi personaggi nel frattempo diventano
realistici, attuali, a volte addirittura troppo
per essere digeriti dalla rigida società
ottocentesca. Di quel periodo sono I pilastri
della società (1877), denuncia della
menzogna sociale, Gli spettri (1881) sul
tema dell’ereditarietà e L’anatra selvatica
(1884). In Casa di bambola (1879)
emerge il tema del diritto alla libertà e
all’autonomia della donna nelle scelte della
- da Cas
propria vita,
in una società dove
esistono solo i ruoli di moglie,
madre o amante. Questo dramma
venne assunto come bandiera del
femminismo, nonostante le intenzioni di
Ibsen fossero quelle di difendere la libertà
personale in generale, indipendentemente
dal sesso; ebbe molto successo in
Europa ed Italia, dove la compagnia di
Eleonora Duse la rappresentò al Teatro
dei Filodrammatici di Milano nel 1891.
Altre opere godono di quel vento di novità
che furono le scoperte della psicoanalisi
di Freud: si ritrovano in Villa Rosmer
(1886), La donna del mare (1888), Hedda
Gabler (1890). In altre rappresentazioni si
affrontano i bilanci della vita o le tragedie
della vecchiaia, come ne Il costruttore
Solness (1894) e Il Piccolo Eyolf (1894).
Al culmine della sua gloria, Ibsen
affronta, tra dolore e disincanto, il grande
tema delle illusioni d’amore. In Jean Gabriel Borkman (1896) ad esempio
afferma: «il grande peccato senza
remissione è di uccidere la vita amorosa
in un essere umano». Quando noi morti
ci destiamo (1899), eloquentemente
sottotitolato “Epilogo drammatico”, evoca
la caduta di qualsiasi ideale: lo scultore
Rubeck e la sua modella Irene finiscono
per andare volontariamente verso una
valanga che li travolgerà. Ma anche Ibsen
a quel punto stava per spegnersi. Morirà
nel 1906, cinque anni dopo un attacco
apoplettico.
8
palcoscenico
martedì, 4 febbraio 2014
CARNET PALCOSCENICO
la Voce
del popolo
di Carla Rotta e Daniela R. Stoiljković
CROAZIA
ITALIA
FIUME
TRIESTE
Teatro Nazionale Ivan de Zajc
Politeama Rossetti
Ciclo: Prosa
• 4 , 5 e 6 febbraio ore 19.30
L’opera da tre soldi di Bertolt Brecht-Kurt Weill. Regia
Eduard Miler. Interpreti Goran Navojec, Dražen Mikulić, Olivera
Baljak, Elena Brumini, Alen Liverić, Jelena Lopatić, Denis
Brižić, Jasmin Mekić, Predrag Sikimić, Damir Orlić, Žarko Radić,
Andreja Blagojević
• 12, 13, 14 e 15 febbraio ore 20.30; 13 e 16 febbraio ore 16
La coscienza di Zeno di Tullio Kezich (da I. Svevo).
Regia Maurizio Scaparro. Interpreti Giuseppe Pambieri, Nino
Bignamini, Giancarlo Condé, Silvia Altrui, Guenda Goria,
Margherita Mannino, Marta Ossoli, Antonia Renzella, Raffaele
Sincovich, Anna Paola Vellaccio, Francesco Wolf
• 7 e 8 febbraio ore 19.30
Turbo folk di e regia Oliver Frljić. Interpreti Anastazija Balaž
Lečić, Olivera Baljak, Andreja Blagojević, Alen Liverić, Jelena
Lopatić, Jasmin Mekić, Dražen Mikulić, Damir Orlić, Tanja Smoje
• 19, 20, 21 e 22 febbraio ore 20.30; 20 e 23 febbraio ore 16
L’importanza di chiamarsi Ernesto di O. WIlde.
Regia Geppy Gleijeses. Interpreti Geppy Gleijeses, Marianella
Bargilli, Lucia Poli
• 8, 10, 11, 12, 13 ore 19.30
Nikola Šubić Zrinski di I. de Zajc. Regia Krešimir Dolenčić
• 13, 14, 15, 17, 18, 19 e 20 febbraio ore 19.30
Puttana di Vedrana Rudan. Regia Zijah Sokolović
• 21, 22, 24, 25 e 26 febbraio ore 19.30
Il Barone rampante di Italo Calvino. Regia Paola Galassi.
Interpreti: la Compagnia del DI
• 25, 26, 27 e 28 febbraio ore 19.30
Insieme da Lukas Moodysson. Regia Matjaž Latin.
Interpreti Andreja Blagojević, Dražen Mikulić, Nika Ivančić,
Tena Antonija Torjanac, Tarik Žižak, Jelena Lopatić, Igor Kovač,
Leon Hasančević, Tanja Smoje, Damir Orlić, Jasmin Mekić, Mirko
Soldano, Nika Mišković, Aleksandra Stojaković, Sabina Salamon,
Davor Jureško, Nenad Tešić, Adnan Palangić, Predrag Sikimić
• 28 febbraio ore 20.30
Il padiglione delle meraviglie di Ettore Petrolini.
Regia Massimo Verdastro. Interpreti Manuela Kustermann,
Massimo Verdastro, Emanuele Carucci Viterbi, Gloria Liberati,
Giuseppe Sangiorgi, Luigi Pisani, Chiara Lucisano
Alessandro Mizzi, Paolo Rossi. Regia Paolo Rossi. Interpreti
Laura Bussani, Stefano Dongetti, Alessandro Mizzi
• 25, 26, 27 e 28 febbraio ore 21
Una di Enrico Luttmann. Regia Marco Casazza. Interpreti
Maria Grazia Plos
Ciclo: Musical
& concerti
• 4 e 5 febbraio ore 20.30
Othello -la H è muta di Davide Calabrese e Lorenzo
Scuda. Interpreti Graziana Borciani, Davide Calabrese,
Francesca Folloni, Lorenzo Scuda, Fabio Vagnarelli (Oblivion) • 11 febbraio ore 21
’70-’80: ritorno al futuro concerto di Antonello
Venditti
Danza & dintorni
• 8 febbraio ore 20.30
Je suis Eleonora Abbagnato
Ciclo: Eventi speciali
• 4 febbraio ore 21
• 14 febbraio ore 19.30
Lo Schiaccianoci di P. I. Tcajkovskij. Regia Ronald
Savković. Interpreti Sabina Voinea Vukman, Laura Orlić, Marta
Kanazir, Borna Šebelja, Andrei Köteles, Daniele Romeo, Balazs
Baranyai, Paula Rus, Anka Zgurić, Joseph Cane, Martin Grainger,
Cristina Lukanec, Marta Voinea Čavrak, Marta Kanazir, Irina
Köteles, Leonid Antontsev, Tena Ferić Dokmanović, Tanja Tišma,
Dimitrij Andrejčuk, Oxana Brandiboura
Obelix e Asterix di e regia Claudio Misculin. Interpreti
Claudio Misculin, Dario Kuzma, Giuseppe Feminiano, Donatella
Di Gilio, Gabriele Palmano, Ana Dalbello, Giuseppe Denti, David
Murcia Gonzalez
• 6 febbraio ore 20.30
Nascosto dove c’è più luce di Gioele Dix. Con Gioele
di Daniele Cipriani. Regia e coreografie Maurice Béjart, William
Forsythe, Nicolas Le Riche, Roland Petit, Angelin Preljocaj,
Jerome Robbins. Interpreti Eleonora Abbagnato, Alessandra
Amato, Alexandre Gasse, Nicolas Le Riche, Damiano Mongelli,
Clairemarie Osta, Benjamin Pech, Alice Renavand
• 25 e 26 febbraio ore 20.30
Pasiones 2014 - Tango e musical di e regia Adrian
Aragon, Erica Boaglio. Interpreti Adrian Aragon, Erica Boaglio,
Leticia Fallacara, Natalia Morales, Pablo Velez, Daniela Kizyma,
Mariano Palazon, Natalia Miqueiro, Ariel Leguizamon, Yesica
Esquivel, Ariel Perez, David Palo, Mariano Oliva
Dix e Cecilia Delle Fratte
• 27 febbraio ore 20.30
Una serata unica di e con Maurizio Battista
POLA
Teatro cittadino
• 10 febbraio ore 9.30, 11 e 18
Ciclo: Altri percorsi
• 11, 12, 13, 14 e 15 febbraio ore 21; 16 febbraio ore 17
La coscienza di Zeno spiegata al popolo Goulash Blues Explosion di Stefano Dongetti,
HaHa2O di Petra Radin. Regia Mario Kovač. Interpreti Ecija
Ojdanić, Petra Radin
• 18 e 19 febbraio 19.30; 19 e 20 febbraio ore 12
Veli Jože di Vladimir Nazor. Regia Rene Medvešek. Interpreti
Božena Delaš, Alex Đaković, Dina Đuka, Karin Fröhlich, Vedran
Komerički, David Petrović, Almira Štifanić, Zlatko Vicić
• 12 febbraio ore 20
Concerto di Tamara Obrovac e TransMediterranean Jazz
Ensemble
• 10 febbraio ore 9.30, 11 e 18
Harem Regia Ivan Leo Lemo. Interpreti Nela Kocsis, Barbara
Vicković, Petra Dugandžić, Ecija Ojdanić
SLOVENIA
CAPODISTRIA
Teatro Cittadino
• 4 febbraio ore 10.30
Dal silenzio alla musica di Jure Ivanušič e Marko
Vezovišek. Interprete Jure Ivanušič
• 15 febbraio ore 10.30
la Voce
del popolo
Anno 10 / n. 81 / martedì, 4 febbraio 2014
IN PIÙ Supplementi è a cura di Errol Superina
[email protected]
Edizione
Progetto editoriale
Caporedattore responsabile
Errol Superina
PALCOSCENICO
Silvio Forza
Redattore esecutivo
Carla Rotta
Impaginazione
Željka Kovačić
Collaboratori
Rossana Poletti, Emanuela Masseria, Bruno Bontempo, Daniela Rotta
Stoiljković. Foto: Dražen Šokčević, Siti teatro
La principessa Polona e il Principe Ranocchio di
e interprete Tjaša Hrovat
• 28 febbraio ore 20
Tutto su Ivan tratto da I. Cankar. Di e regia Mare Bulc.
Interpreti Mojca Fatur, Tjaša Hrovat, Lara Jankovič, Igor
Štamulak, Gorazd Žilavec
Teatro lirico «Giuseppe Verdi»
• 11, 13, 14 e 18 febbraio ore 20.30; 15 e 16 febbraio ore 16
L’occasione fa il ladro di Gioacchino Rossini. Regia
Elisabetta Brusa. Interpreti Enrico Iviglia, Gianluca Sorrentino,
Irina Dubrovskaya, Rita Cammarano, Francisco Brito, Matteo
Mezzaro, Domenico Balzani, Antonella Colaianni, Gabriele
Sagona, Andrea Porta
• 27 e 28 febbraio ore 20.30
Madame Butterfly di Giacomo Puccini. Regia Giulio
Ciabatti. Interpreti Amarilli Nizza, Luciano Ganci, Giorgio
Caoduro
Teatro «Orazio Bobbio»
• 14, 15, 17 e 19 febbraio ore 20.30; 16 e 18 febbraio ore 16.30
Elephant man di e regia Giancarlo Marinelli. Interpreti
Ivana Monti, Daniele Liotti, Rosario Copollino, Debora
Caprioglio, Andrea Cavatorta, Francesco Cordella, Serena
Marinelli, Simone Vaio
• 22 febbraio ore 16.30
The clown of clowns di, regia e interprete David Larible