la Voce del popolo la Voce del popolo DIECI ANNI CON IL DRAMMA ITALIANO, ORA IN SCENA ANCHE CON LA COMPAGNIA DI QUELLO CROATO: LE STRADE CHE L’HANNO RIPORTATO A FIUME palcoscenico www.edit.hr/lavoce UN CAFFÈ CON... Anno 10 • n. 81 martedì, 4 febbraio 2014 MIRKO SOLDANO DUE ATTORI UN TITOLO Tosca D’Aquino Maurizio Casagrande 4|5 Prigioniero della seconda strada RECENSIONI A PROPOSITO DI CARNET PALCOSCENICO Maratona di New York Henrik Ibsen Il cartellone del mese Un percorso di rapporti Qui e ora Gli occhi su un mondo di gradassi e spacconi 6 Vita, aneddoti, curiosità 7 8 Quattro città (Fiume, Pola, Capodistria, Trieste), sei teatri 2 martedì, 4 febbraio 2014 UN CAFFÈ CON... palcoscenico la Voce del popolo di Bruno Bontempo MIRKO SOLDANO Un momento di grande soddisfazione e rinascita Nuovi orizzonti “Confesso che sto vivendo un lungo momento di grande soddisfazione e rinascita, per certi versi. Incastrando dallo scorso settembre prove e spettacoli con il Dramma Italiano e adesso il mio debutto con il Dramma Croato, ho avuto dei benefici inaspettati, e mi sono alleggerito da certi miei impicci privati e da un momento di grande confusione personale”. Mirko Soldano riassume così il suo momento artistico e umano: il suo impegno si è moltiplicato e il suo sguardo si è allungato su nuovi e per lui inesplorati orizzonti, che lo hanno arricchito come uomo e come attore. A dieci anni dal suo esordio con il Dramma Italiano, lo abbiamo voluto ospite sulle pagine di Palcoscenico per parlare del suo lungo e incisivo vincolo che lo lega alla nostra compagnia di prosa, intercalato da una parentesi che lo ha visto esplorare il mondo del teatro, televisione e cinema italiani. la Voce del popolo C osì si racconta Mirko Soldano, attore eclettico, intenso e intelligente, persona sensibile, simpatica, modesta. “Sono tornato ed ho inanellato un piacere dietro l’altro. ‘Kafka project’ è stata l’occasione per ritrovare i colleghi del Dramma Italiano, capire come il teatro sia lavoro di team e dimostrare che questa compagnia ha delle risorse incredibili - spiega un raggiante Soldano -. Anche in una forma teatrale nuova, diversa da quello che è sempre stato il lavoro del Dramma, sulla parola, se vogliamo, e che spero apra altre possibilità espressive, per me e per il complesso. Con Karina Holla mi sono trovato molto bene, una signora che dall’alto della sua esperienza sicuramente ha la sua da dire. Al progetto abbiamo dedicato tanto tempo, tante ore, tante energie, tanta fatica, buttando via tanto, per poi tenere un precipitato, che era più o meno quello che lei aveva pensato, però sviluppato e interiorizzato dal gruppo, che è veramente una mente con tanti piedini e gambe che si muovono insieme. Ed è stato un successo. ‘Notti romane’ è forse il mio preferito. Riconfrontarmi con Elvia Nacinovich dopo tutti questi anni è stato un lusso e un piacere. Ha un’enorme talento e una grande esperienza e ti mette davanti ai tuoi limiti e alle tue insicurezze, se vogliamo. Quindi, è stata anche una bella sfida che però abbiamo giocato in due e credo che si sia vista. Infine ‘Zajedno’ (Insieme) col Dramma Croato (tratto dal film ‘Togheter’ di Lukas Moodysson), nel ruolo di un italiano che si innamora della Croazia e viene a viverci. Il teatro ci ha messo un tocco di magia, mi ha fatto lavorare con i colleghi del Dramma Croato e mi ha offerto l’occasione di confrontarmi con questa lingua sul palcoscenico, per integrarmi ed essere riconosciuto. Lo scambio di attori, registi, culture, valori tra le due compagnie è sempre più frequente, un’orgia di differenze, uno stimolante mescolarsi, scambiarsi, conoscersi...” Dieci anni con il Dramma Italiano, dall’esordio del maggio 2004 con la Vaccària del Ruzante, portato a Fiume dal veronese Gianfranco De Bosio, oggi quasi novantenne, uno dei più noti (e più longevi) registi italiani palcoscenico di teatro, cinema, televisione e opera lirica. Quali esperienze hanno segnato la prima fase fiumana del tuo percorso professionale? “Se gli spettacoli che ho fatto possono essere un segnatempo, quindi anche dei nodi di cambiamento, beh, così d’acchito mi vengono in mente ‘La vaccària’, certo, perché è stata la scintilla, poi ‘Maratona di New York’, perché è stato il primo incontro con la neodirettrice Laura Marchig, la regista Neva Rošić, che considero come una mia mentore, con Bruno Nacinovich e con un testo di Edoardo Erba, che poi ho rincontrato a Fiume e un anno fa al Teatro Due Roma, dove abbiamo fatto ‘In treno con Albert’, testo e regia dello stesso Erba. Maratona è stata anche il mio primo ruolo importante dopo la Scuola del Piccolo, perché occupare la scena per un un’ora e un quarto con un altro collega, Bruno Nacinovich, anche con un certa fatica fisica, essendo impegnati a correre per l’intera durata della pièce, è stato un autentico battesimo di fuoco. Potrei dire anche ‘Zente refada’, che come spettacolo non mi ha entusiasmato, forse non è il mio tipo, però è stato il primo contatto con Trieste, che è entrata un po’ nel mio cuore, con Ariella Reggio e Maurizio Zacchigna. Era una coproduzione con La Contrada, che poi mi ha chiamato per fare ‘Il Divo Garry’ con Gianfranco Jannuzzo, Daniela Poggi e la regia di Francesco Macedonio. ‘Delitto all’Isola delle capre’, al di là dei successi, dei premi, in partenza era stato un disastro dal punto di vista umano, perché Ivna Bruck e Elvia Nacinovich avevano abbandonato il progetto, il regista Damir Zlatar Frey inveiva contro tutto e tutti in croato e io non capivo niente. Capivo solo che la situazione era molto tesa e il mio sistema corpo-mente mi disse: se stai ancora qui, impazzisci. Così a un certo punto, per l’unica volta nella mia vita, sono andato in escandescenze nei confronti del regista, ho preso il copione e l’ho buttato in aria. Ricordo di aver visto i fogli volare, poi ho preso l’ombrello e il cappotto, ho fatto per uscire ma l’ombrello, che portavo in posizione orizzontale, si mise di traverso sullo stipite della porta e mi sbarrò la strada. Che figuraccia! Buffissimo, nella rabbia, andai su su facendo tutte le scale, fino all’ultimo gradino del coro dello Zajc, poco sotto il graticcio... Poi ci siamo chiariti con tutti, è venuta l’esordiente Elena Brumini al posto di Ivna, Andrea Blagojević ha sostituito Elvia e poi lo spettacolo è andato, intenso, di grande successo, con tanti premi. ‘L’Isola delle capre’, con Rosanna Bubola, Elena e Andrea, mi ha aiutato a rivedere, a rimaneggiare i miei ricordi, anche i più brutti, legati al teatro e rileggerli in una chiave più divertente e mi ha fatto scoprire per la prima volta le potenzialità del Dramma. Poi Dramma Italiano, ancora un testo di Erba, uno spettacolo che mi ha legato molto di più alla città, ai fiumani, a questa storia complicata sulla quale si potrebbero passare delle ore a discuterne senza arrivare a delle soluzioni, ammesso che ce ne siano. Mi è piaciuto come è stato affrontato un tema così delicato e il mio personaggio, Polan, a fare da filo conduttore e testimone di tutte queste storie, che lui attraversa con leggerezza, ma non con superficialità. Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore, come direbbe Calvino... E proprio con Calvino il DI sta per andare in scena tra giorni: la milanese Paola Galassi cura regia e adattamento de ‘Il barone rampante’. “Adoro Calvino, è uno dei miei autori preferiti che ho riscoperto quando ero un po’ più grandicello. Mi piacciono le sue descrizioni, la quantità di simboli che trovi nei suoi testi. Anche questo è apparentemente semplice, un ragazzo in conflitto col padre che si rifugia su un albero, ma dentro, oltre al rapporto padre-figlio, c’è la costituzione, la corporazione, l’idraulica, l’associazionismo e la simbologia massonica (il padre era di famiglia mazziniana repubblicana, anticlericale e massonica e nel ‘Barone rampante’, il protagonista e il narratore vengono iniziati in una Loggia Massonica, nda). Come nelle Cosmicomiche, all’inizio sono delle storielline, poi scava scava, capisci che dentro c’è tutta una trama di simboli. Anche noi attori, non solo la regista, dovremo scavare dentro un testo così complesso, perché vorrei che avesse il livello di comprensione della lettura dei ragazzi, ma anche altri codici di gradimento e acquisizione”. martedì, 4 febbraio 2014 3 Futuro al DI Il tuo futuro è ancora con il DI? “Lo spero, adesso che sono più maturo, guardando avanti, avendo un orizzonte temporale un po’ più ampio e volendolo pianificare, molte strade mi stanno riportando qui e mi auguro che tanto la mia vita personale quanto quella artistica possano coincidere a Fiume, almeno per un po’ di anni...” Parmense, classe 1976, Soldano si è diplomato nel 2002 presso la scuola del Piccolo teatro di Milano ed ha studiato e lavorato con Luca Ronconi, Gianfranco De Bosio, Michele Abbondanza. Dal 2004, fatta eccezione per un’interruzione di alcune stagioni, lavora con il Dramma Italiano al teatro Zajc di Fiume. Ha svolto un corso di alta specializzazione presso Teatro Due a Parma, seminari condotti da Yurij Alschitz all’Akt-Zent di Berlino, workshop di mentalismo con Alexander e Damus, stage tenuti da Bob Mac Andrew a Parigi, un master con Cristina Pezzoli presso lo Spazio Compost a Prato. Nel 2006 ha ottenuto la laurea in Economia politica all’Università di Parma. Parallelamente al lavoro in teatro, in Italia ha partecipato ad alcune fiction televisive fra cui “Distretto”, “Ris”, “I Cesaroni” e produzioni di film indipendenti. Review: una vita discontinua dappertutto, tranne che a Fiume, dove, umanamente parlando ci sono i legami più forti Tutto il mondo nelle relazioni con gli altri “Una cosa che mi ha cambiato molto negli anni passati a Roma è stata l’insorgenza di una patologia rarissima all’osso distale del radio del polso sinistro. Il dolore durava da una settimana, stavo facendo a teatro ‘Chi ha paura di Virginia Woolf,’ non potevo lasciare tutto e andare dal dottore... Allora mi sono inventato una bugia terribile, una caduta, ma al Pronto soccorso hanno capito subito, dalla prima radiografia, che non poteva essere stata una caduta e che ero venuto alla medicina d’urgenza per evitare la fila dal dottore. Fatta la Tac, una dottoressa mi mostra la chiazza nera al centro del radio. E lì inizia tutta una via crucis di cure, di paure, di acrobazie per tenere nascosta la diagnosi, in attesa dei risultati degli accertamenti. È stata dura, ho dovuto usare anche un tutore ortopedico, che ormai metto soltanto nei momenti più complicati, però come persona mi ha cambiato, credo in meglio, mi ha permesso di attivare quelle risorse che ti rendono più consapevole, più flessibile. Ora che il pericolo è passato posso dire di essere stato doppiamente fortunato. Primo per l’esito della malattia, secondo perché vivere questa angoscia in realtà mi ha permesso di generare una serie di nuove considerazioni sulla mia esistenza. Anche come attore. Per me è stato come uno spettacolo nello spettacolo. Poi, tornando a Fiume, ho potuto ritrovare una certa serenità e una certa pace, tra persone con le quali condividere un pezzo di vita. Ho più ricordi qui che non a Parma, a Milano, a Roma. La mia vita, dopo le medie superiori, è stata molto discontinua dappertutto, tranne che a Fiume, la città dove io, rifacendo un review, riconsiderando il tutto, ho le relazioni più forti, umanamente parlando. E oggi le ritrovo tutte, dentro e fuori il teatro. Perché il mondo lo vuoi scoprire, vuoi viaggiarlo, però piano piano ti rendi sempre più conto che non è necessario spostarsi per conoscere. Lo puoi fare, anche meglio, stando fermo e guardando dentro te stesso. Per scoprire, magari, un universo di sensazioni e ritrovare nelle relazioni con gli altri tutto il mondo, senza il bisogno di andare a cercarlo chissà dove. Sta tutto qua, il senso della vita, e del teatro, due cose che non sono poi così slegate... E per capire, pure, che il teatro è un grande sogno, un’utopia, come quella delle bellissime Parole in cammino di Eduardo Galeano: Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare... 4 lalaVoce Voce del popolo del popolo martedì, 4 febbraio 2014 DUE ATTORI UN TITOLO di Rossana Poletti || Ho cominciato con Luca de Filippo e con testi importanti come “Questi fantasmi”, poi con Panariello nel “Borghese gentiluomo” e con tanti altri spettacoli comici e brillanti. Il palcoscenico difficilmente mi ha dato delusioni. “Il teatro non ti abbandona mai” mi diceva spesso Luca ed effettivamente, tornando a questa crisi, lo zoccolo duro degli spettatori c’è. Certo alcuni teatri chiudono, si sono sciolte delle compagnie, si fanno meno produzioni, la crisi ha colpito tutto e a maggior ragione ha colpito anche il teatro || La musica nel passato e nel futuro, con “E la musica mi gira intorno”. Dice: “La musica è un linguaggio senza confini. Andai anni fa in Africa e suonai con un percussionista in un villaggio, senza sapere niente di lui, né chi fosse né cosa facesse, perché la musica non ha bisogno di essere tradotta. Ma poi emerge il bisogno di fare cose nuove e il pubblico lo fai contento quando sei contento tu” ToscaD’AQUINOe MaurizioCASAGRANDE PARTE DA TRIESTE LA LUNGA TOURNÉE CHE LI PORTERÀ NEI TEATRI D’ITALIA CON LA COMMEDIA DI NEIL SIMON «PRIGIONIERO DELLA SECONDA STRADA» NEI RUOLI DI EDNA E MEL TRIESTE. TEATRO LA CONTRADA. T osca D’Aquino e Maurizio Casagrande sono entrambi nati a Napoli negli anni Sessanta. Tosca raggiunge la popolarità con due film di Leonardo Pieraccioni, “I laureati” e “Il ciclone”. Poi lavora in televisione con Panariello in “Torno sabato” e partecipa a numerose fiction, l’ultima in ordine di tempo “Anita Garibaldi”, nel 2012. Casagrande è un appassionato musicista: pianoforte, contrabbasso e canto al Conservatorio. Negli anni Settanta fa parte di una band rock, i Tetra Neon. Fortuitamente viene visto sul palcoscenico da Nello Mascia, che lo scrittura nella sua compagnia teatrale. Lungo il suo sodalizio cinematografico con Vincenzo Salemme, poi vengono le fiction, Carabinieri nel ruolo del maresciallo Morri, le partecipazioni in trasmissioni televisive e in miniserie tv. Maurizio Casagrande e Tosca D’Aquino sono Mel ed Edna nella nuova produzione del Teatro Stabile di Trieste La Contrada, che ha appena cominciato la sua lunga tournée nazionale proprio dal Teatro Bobbio di Trieste. “Prigioniero della seconda strada” è stato scritto da Neil Simon nel 1975. D’AQUINO: Ed è di un’attualità sconcertante. Infatti. Che impressione fa recitare un testo datato e accorgersi che i fatti narrati potrebbero accadere oggi? D’AQUINO: Innanzitutto che la storia non ci insegna niente, perché scritto quarant’anni fa, parla di perdere il lavoro, di disoccupazione, di crisi a livello mondiale, d’inquinamento ambientale e acustico, di nevrosi da sovraffollamento e da vita in città; insomma una serie enorme di problemi attuali. Ecco perché dicevo che la storia non ci insegna nulla, perché a distanza di tanto tempo siamo ancora ad affrontare le stesse questioni. CASAGRANDE: Non amo prendere lavori che sentono gli anni, che risentono di luoghi e culture diverse. Ma in questo caso mi è bastato togliere i riferimenti di piccole cose, specificatamente americane o temporali, come il long playing che non esiste più, è bastato eliminare queste situazioni per rendere attuale il testo. La crisi di cui parla Neil Simon è quella causata dalla rivoluzione sessantottina dei giovani; è una grande crisi sociale in cui si è alla ricerca di nuovi modelli e comunque parla di un uomo che ha perso il lavoro, di una società che sta mettendo in discussione il proprio stile, i propri valori, che si interroga se siano validi, giusti e soprattutto perseguibili. La nostra crisi è molto simile, è quella di chi si domanda se abbiamo fatto bene, visto che siamo arrivati a questo punto, in cui mettiamo in discussione un po’ tutto. Ci si interroga se era giusto sprecare tanta energia dal momento che quello che abbiamo ottenuto è risultato essere un di più. Neil Simon scrive tutto questo però riuscendo a mettere l’ironia e la leggerezza anche nella visione più nera. Questo è il suo grande talento. Crisi diverse, ma nessuna differenza nella sostanza CASAGRANDE: Paradossalmente oggi è un po’ peggio. Quella crisi veniva in un momento in cui avevamo trovato un modo di vivere: scoperto che la società aveva dei problemi, ci si era sforzati di affrontarli. Poi invece di trovare delle soluzioni, abbiamo radicalizzato il nostro stile di vita e l’abbiamo reso ancora più determinato in quella direzione. Perciò la crisi che viviamo oggi non è più e solo una crisi economica, ma è bensì sociale, nel senso più ampio del termine. D’AQUINO: Il testo è scritto però con una mano leggera, quella di uno scrittore e drammaturgo come Neil Simon. Sono argomenti seri e concreti, ma trattati in modo che si rida, nel dramma c’è sempre il lato comico e la battuta e poi il finale è carico di ottimismo e di follia. Il finale è tutto centrato su questa coppia che va avanti facendosi forza dell’amore che li unisce, della reciproca comprensione e appoggio. Che cosa può fare il teatro in questo brutto momento che viviamo? CASAGRANDE: La parte centrale di questo lavoro è la coppia e il messaggio che arriva molto chiaro al pubblico è che, al di là della crisi e al di là del problema che sta fuori dalla porta, che ovviamente non può che entrare anche in casa, nel momento in cui riusciamo a tenere forte strutturata e ben salda la coppia, la famiglia in ogni sua estensione possibile, allora la questione è superata. Il problema grosso di una crisi è quando questa è di valori, quando non hai chiara la strada da seguire. Invece l’idea di questa commedia e quindi il messaggio positivo che arriva alle persone è che, al di là di quello che accade, se tu sai bene quali sono i valori della tua vita, quali sono le cose importanti di cui non puoi fare a meno, affronti molto meglio la difficoltà momentanea. Come tutte le crisi ha una parabola che avrà prima o poi una linea discendente e quindi un’inversione di tendenza. Le crisi vanno attraversate. Se hai valori di riferimento, se sai dove stai andando riesci a navigare, se invece hai perso di vista dove stai andando navighi in un mare in tempesta dove è facile che affondi. Quindi è l’amore la forza vincente? CASAGRANDE: Non basta voler bene ad una persona per risolvere i problemi. Nel “Prigioniero della seconda strada” Edna ama profondamente Mel, l’uomo rimasto senza lavoro, ma non basta che lei gli voglia bene, bisogna che lo stimi, che lo comprenda e condivida con lui le difficoltà. Semplicemente sostenere, dare una stampella ad una persona in difficoltà può voler dire non risolvere quella difficoltà anzi alimentarla. Il significato di questa commedia è quindi che bisogna stimarsi e rispettarsi. Esprimete un ottimismo che oggi non c’è, non si percepisce nella società. D’AQUINO: Io e Maurizio siamo napoletani e per noi vale il detto ‘Ha da passà ‘a nuttata’, che è poi la famosissima frase contenuta nella commedia Napoli milionaria! di Eduardo de Filippo. Si certo è così, ne prendiamo atto, ma dobbiamo anche rimboccarci le maniche, fare qualcosa, essere ottimisti altrimenti si legittimano i tanti suicidi che riempiono le cronache. Un teatro troppo impegnato, drammatico, sempre carico di denuncia se da un verso individua errori e responsabilità, dall’altro sul fronte dell’umore non aiuta. Un teatro meno serio può risollevare morale e sorti di un paese? D’AQUINO: Un testo ti dà una cifra, ma poi sta a te che lo metti in scena spingere il pedale più verso il dramma o più verso la leggerezza. L’attore ha questa chance, ha questa possibilità. Con Maurizio ci siamo trovati concordi su questo, non a caso abbiamo lo stesso background culturale, la stessa infanzia a Napoli, abbiamo maturato esperienze simili. Per noi è stato facile intenderci su questo testo che è serio, che tratta temi scottanti; ma noi l’abbiamo fatto proprio esaltando gli aspetti divertenti e positivi che Simon evidenzia. È giusto che il pubblico affronti lo spettacolo avendo davanti spunti di riflessione, ma poi credo sia un bene che anche si diverta. Noi siamo qui calati nel profondo nordest e gran parte dei nostri lettori stanno ancora più a est di Trieste, c’è un modo diverso di sentire dramma e comicità da parte del pubblico alle diverse latitudini? D’AQUINO: Assolutamente sì. Noi la Voce palcoscenico del popolo martedì, 4 febbraio 2014 5 abbiamo debuttato in prima assoluta a Trieste e questa città fa parte di quelle piazze molto temute dagli attori, questo è un mondo in cui la gente è abituata ad andare a teatro, a me piace paragonare la gente di qua ai napoletani; sono città di mare in cui il pubblico è schietto, se piace sanno essere calorosi, ma se non va te lo fanno capire subito. A proposito di crisi, facendo qualche riflessione su questo territorio possiamo dire che Trieste ha visto crollare la sua strategica importanza economica con la caduta dell’impero asburgico e con il passaggio all’Italia, la città è vissuta di rendita, senza grandi prospettive. Analogamente quasi un secolo dopo, caduti confini ideologici e geografici, Istria e Fiume nella Slovenia e nella Croazia moderne sono entrati a far parte di un mondo in grande crisi. Sembra quasi un destino segnato. D’Aquino: È un brutto momento per tutti. D’altra parte è un po’ la filosofia degli italiani quella di aver visto mille difficoltà, calpestati da tutto e da tutti, ma poi l’abbiamo sempre “svangata” e “svangheremo” anche questo. Sogni nel cassetto. D’AQUINO: Sono nata nel teatro, mi sono diplomata all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico di Roma. Alimentata con film del neorealismo, della commedia italiana e con le opere di registi come Rossellini, De Sica e Fellini, sono quindi cresciuta con il sogno nel cassetto del grande cinema, ma non mi sono lasciata sfuggire le opportunità della televisione di intrattenimento, ho lavorato con Panariello, ho fatto le fiction. Ho provato un po’ di tutto e devo dire che è molto divertente cambiare genere. Il teatro però rimane il primo amore ed è un bel banco di prova. Cito sempre il grande Eduardo che diceva “ecco il baratro, ecco l’attore”. E aveva proprio ragione perché quando si apre il sipario sono proprio due ore, due ore e mezza dalle quali non puoi più tornare indietro. Con la fiction o con il cinema tutto si può correggere e rifare, tutto è perfettibile. E senza teatro non c’è il contatto con il pubblico. D’AQUINO: Altrimenti perché una madre con due figli come me affronterebbe almeno una tournée all’anno, se il calore del pubblico non fosse la leva che ci fa continuare in questo difficile mestiere? Ho cominciato con Luca de Filippo e con testi importanti come ad esempio “Questi fantasmi”, poi con Panariello nel “Borghese gentiluomo” e con tanti altri spettacoli comici e brillanti. Il palcoscenico difficilmente mi ha dato delusioni. “Il teatro non ti abbandona mai” mi diceva spesso Luca ed effettivamente, tornando a questa crisi, lo zoccolo duro degli spettatori c’è. Certo alcuni teatri chiudono, si sono sciolte delle compagnie, si fanno meno produzioni, la crisi mondiale ha colpito tutto e a maggior ragione ha colpito anche il teatro. Mangiare si mangia, non si può farne a meno, senza arte invece nelle difficoltà si sopravvive. Per fortuna la gente continua ad andare a teatro e allora viva il teatro. Nel suo passato c’è la musica, abbandonata per il teatro? CASAGRANDE: Mai completamente, infatti quest’estate ho cominciato a preparare uno spettacolo “E la musica mi gira intorno”, una serata concerto nella quale parto dal presupposto che un uomo senza passato è un uomo senza futuro. Io sono uno smemorato ma voglio un futuro, allora, per ricostruire il mio passato, l’unico modo che ho è di farlo attraverso le canzoni. Ripercorro quelle dagli anni Cinquanta, quando mia madre e mio padre si sono conosciuti fino ai giorni nostri, canzoni famose e popolari. Quando arrivo agli anni Settanta della mia esperienza musicale, mi siedo dietro la batteria e nello stupore generale racconto quei miei anni con le percussioni. La batteria è uno strumento pieno di energia. La musica è un linguaggio senza confini. Andai anni fa in Africa e suonai con un percussionista in un villaggio, senza sapere niente di lui, né chi fosse né cosa facesse, perché la musica non ha bisogno di essere tradotta. Ma poi emerge il bisogno di fare cose nuove e il pubblico lo fai contento quando sei contento tu. ILPRIGIONIERO della seconda strada NELLA QUOTIDIANITÀ DELLA MIDDLE CLASS AMERICANA DI UNA NEW YORK UN PO’ LONTANA NEL TEMPO L’ATTUALITÀ DELLA CRISI ECONOMICA, SOCIALE, PERSONALE. DOVE ABBIAMO SBAGLIATO N eil Simon, nato a New York nel 1927, è un drammaturgo e sceneggiatore. Delle sue opere, tradotte e rappresentate in tutto il mondo, molte debuttarono a Broadway, e di alcune furono tratti veri e propri capolavori umoristici nel cinema degli anni Sessanta. Basti ricordare “La strana coppia”, con Walter Matthau e Jack Lemmon, “Appartamento al Plaza” e “A piedi nudi nel parco”. Successivamente, pur non lasciando il genere della commedia brillante, Simon affrontò temi più introspettivi: “Il prigioniero della seconda strada” fu sicuramente una delle sue opere più riuscite in cui dà voce alla cosiddetta middle-class americana, ai suoi personaggi paurosi ed insicuri. Siamo nel 1975 in una New York calda e afosa. I palazzi sono uno attaccato all’altro, le pareti di cartongesso fanno sentire tutto quello che accade nell’appartamento adiacente, il condizionatore non funziona bene. Mel non riesce a dormire e sveglia così anche Edna. Non vuole confessare alla moglie ciò che lo tormenta: è stato licenziato. Dopo 27 anni di servizio continuato nella stessa azienda, si trova ora senza lavoro. La depressione lo aggredisce e il crollo è definitivo quando viene rapinato della roba che ha in casa. Ha un attacco di nervi, si accanisce contro tutti, ricavandone una secchiata d’acqua da un vicino spazientito dalle sue intemperanze. Edna nel frattempo è riuscita ad impiegarsi in un ufficio e Mel va dallo psicanalista. La moglie convoca i parenti di lui per informarli della grave crisi che ha colpito il loro fratello. Si presentano tre sorelle tirchie e alquanto inadeguate ad affrontare la situazione; vivono in campagna in una sorta di isolamento e non sono capaci di comprendere lo stato in cui si trova Mel. Con sollievo delegano l’altro fratello benestante, ma non proprio con tutte le rotelle a posto, pieno di risentimenti e di gelosia. Ad un certo punto anche Edna perde il lavoro, ma ormai Mel ha deciso di risollevarsi e rifiuta perfino il grosso aiuto economico che il fratello gli ha proposto. Per sottolineare il suo rinsavimento, ha deciso che si vendicherà della secchiata ricevuta, acquistando, in piena estate, una grossa pala con cui gettare chili di neve sul vicino. Sembrerebbe un gesto folle e ridicolo, ma le bizzarrie del clima decidono di dargli una mano. Maurizio Casagrande è un ottimo Mel, capace di rappresentare con efficacia l’uomo isterico, il depresso grave e colui che riprende in mano le redini della sua vita. Se non fosse per la scena, che inequivocabilmente rappresenta uno dei tanti palazzoni della metropoli americana, potremmo veramente pensare di essere di fronte ad un romano della buona periferia capitolina, che affronta una delle tante chiusure aziendali che riempiono le pagine dei giornali di questi tempi. I riferimenti all’attualità sono frequenti, lievi ma evidenti. La moglie Edna è Tosca D’Aquino, che lo asseconda egregiamente in questo percorso di sofferenza, anche se manca di un pizzico in più di ironia. Il cammeo dei quattro fratelli in visita è ben rappresentato da Adriano Giraldi, Barbara Folchitto, Paola Bonesi e Marzia Postogna, che mostrano con molta efficacia i tic e le criticità di tre zitelle e di uno psicotico. Casagrande e D’Aquino sviluppano molto intensamente il senso di responsabilità dell’uno per l’altro, affetto, amore, condivisione delle responsabilità e dei problemi nella coppia, argomenti che ai giorni nostri, in cui l’individualismo sfrenato e l’egoismo edonistico della società attuale regnano indiscutibilmente, rimangono lettera morta, creando ancora più disperazione e solitudine. 6 martedì, 4 febbraio 2014 LA RECENSIONE palcoscenico la Voce del popolo di Rossana Poletti MARATONA DINEWYORK TRIESTE. POLITEAMA ROSSETTI CHISSÀ CHE COSA PASSAVA NELLA TESTA DELL’ATENIESE QUANDO CORSE PER 42 CHILOMETRI PER RIFERIRE DELLA VITTORIA SUI PERSIANI? “D evo smaltire le medicine. Ne prendo troppe” dice Mario all’amico Steve (Stefano), vestendosi per la solita corsa serale di preparazione all’agognata partecipazione alla Maratona di New York. “Chissà che cosa passava nella testa dell’ateniese quando corse per 42 chilometri per riferire della vittoria sui Persiani. Si dice che arrivò così stremato che non si ricordava niente di quello che doveva raccontare”: è Steve a parlare, vuole accelerare il ritmo, entrare subito nella corsa dando il massimo, vuole insomma spingere sull’acceleratore. Sono frasi banali quelle che i due amici si scambiano, i soliti discorsi che gli uomini fanno sulle donne, “non vedono le cose come noi, non capiscono le nostre motivazioni”, si dicono. Parlano di sport rievocando fatti del passato, “ricordi la grande Inter, erano tutti giocatori straordinari, ce l’avevano scritto in faccia che avrebbero vinto”. E poi le consuete domande esistenziali “Steve, Dio esiste? Perché quando ero piccolo credevo e adesso non so più? Dovremmo decidere se crediamo o no, dovremmo farlo adesso”. E intanto Mario è stanco, finge una caduta per riposare: “voglio sentirmi libero, libero di fermarmi”. Steve lo costringe a tener duro, “se non stringi i denti in fondo non ci arrivi”. Ma proprio quest’ultimo che vorrebbe essere forte si ritrova con la milza che comincia a far male sempre di più, resta indietro e Mario diventa finalmente il trascinatore della serata. “Avevi ragione – dice – non sento più la stanchezza, le gambe vanno da sole”. Affiorano ricordi spiacevoli e recriminazioni, “al rumeno che voleva i soldi per pulirmi i vetri l’ho trattato come se fosse il mio cane”, “mi hai portato via Anna, mi hai fregato la donna”, dice Mario. I loro discorsi si fanno intimi, ricorrente l’infanzia, i genitori e le storie di una vita. Intanto sul fondo le immagini di un cielo stellato hanno subito sostituito le foto di una New York notturna illuminata, una metropoli in bianco e nero era apparsa come in sogno ai due amici, che da tanto anelano di andarci, complice la grande maratona. “Non ce la faccio più!” grida Steve. “Quanto ci hai messo a dirlo; a me hai impedito di farlo per tutta la vita”, gli fa eco Mario. Qualcosa è cambiato nei loro racconti, non sono più i dialoghi di due amici partiti assieme per un allenamento serale. Frammenti di discorsi lasciano intendere che qualcosa di grave è accaduto. “Le chiavi dell’auto, dove sono le chiavi? C’era la macchina, ho fatto la curva” chiede Mario a Steve, ma questi si è ormai fermato. “Steve, non sei venuto stasera?”. “No, sono rimasto a casa a vedere la partita” e se ne va, esce di scena mentre Mario ormai “schizzato” urla “Stefano, ma che notizia devo portare?”. Ed è così che l’epilogo se lo deve inventare lo spettatore: Mario è morto nell’incidente della sua macchina, la corsa serale è un sogno di Stefano? Chissà, poco importa. Lo spettacolo è forte, non solo per quello che si dicono i due e che trasmettono al pubblico, ma soprattutto per come lo fanno, per come è costruita la messinscena. Cristian Giammarini e Giorgio Lupano, i due registi protagonisti di “Maratona di New York” di Edoardo Erba, corrono in scena per tutti i sessanta minuti dello spettacolo. La loro fatica è autentica, e così anche le loro storie, i loro dialoghi lo diventano a tal punto da far sorridere per la tanta ironia e addolorare per i momenti drammatici evocati. Ed è questo, solo questo che conta, quello che lo scrittore voleva e che i due attori hanno pregevolmente realizzato. QUIEORA TRIESTE. POLITEAMA ROSSETTI GLI OCCHI PUNTATI SU UN MONDO, QUESTO, FATTO DI GRADASSI, SPACCONI E IRACONDI. CHE FINE HANNO FATTO LA GENTILEZZA E LA «CAVALLERIA»? È proprio vero: i tempi sono cambiati radicalmente da quando ci si chiedeva scusa, per favore, posso? Al giorno d’oggi spesso gli incontri sono improntati all’aggressione verbale, i rapporti diventano in breve conflittuali. Prevale il super io che distrugge ogni accenno di gentilezza e di “cavalleria”. La convivenza civile è relegata ad un lumicino, che solo ogni tanto arde un po’ di più. Questo mondo fatto di gradassi, spacconi e iracondi è ben descritto nel testo “Qui e ora” di Mattia Torre. In scena due attori superlativi, Valerio Mastandrea e Valerio Aprea. Mastrandrea ha peraltro ricevuto il Premio Hystrio 2013 per l’interpretazione in questo spettacolo, che è in corsa per il Premio “Le Maschere del Teatro 2013”. La storia è presto detta: due uomini percorrono una strada poco trafficata in scooter e, non si sa bene come e perché, si scontrano. Apparentemente uno dei due è conciato meglio dell’altro, si alza, ha un certo dolore alla caviglia, recupera il cellulare e chiama il 118. Da subito si accanisce contro il mondo, contro i volontari del soccorso. Chiama un amico e lo rassicura che sarà da lui in pochi minuti. L’idea si scontra immediatamente con la visione in scena di due grosse moto accartocciate una sull’altra. Difficile credere che dopo un tale incidente quest’uomo se ne possa andare di lì a poco, anche perché l’altro, riverso a terra a faccia in giù, non dà segni di vita. Un po’ alla volta si svela il motivo di tanta urgenza; egli è un famoso chef che tiene una rubrica radiofonica di cucina che fa quasi due milioni di ascoltatori, ma essendo insidiato da altri colleghi rampanti, desiderosi di soffiargli il posto, accetterà di fare la trasmissione in diretta attraverso il cellulare dal luogo dell’incidente, inventando di sana pianta, ricette, risposte agli ascoltatori e altre situazioni, che non potranno che essere comiche. “Come in tutte le mie scritture ho cercato di impostare la scrittura in modo che la comicità sia usata come mezzo per raccontare cose spaventose”, racconta Mattia Torre parlando di Qui e Ora, ed è proprio così che quest’ora di attesa dei soccorsi sarà un lungo snodarsi di bestialità che però divertono il pubblico. Ovviamente un riso amaro, per coloro che sanno cogliere la causticità dei personaggi, per quanto il mondo ne è realmente tappezzato. Piano a piano il secondo ferito si riprende, diventando ostaggio dello chef, ferocemente adirato per la situazione e per i danni che ne conseguono alla sua popolarità. Il finale è però tanto grottesco quanto prevedibile, ma non per questo meno efficace. Lo chef morirà, per una probabile emorragia interna, e il presunto investitore si rivelerà uno sciagurato folle, che aveva a monte deciso di investirlo, perché considerato una iattura dell’umanità: aveva infatti meditato una vendetta per il successo che il primo rappresenta a fronte della sua inadeguatezza, della sua miseria umana e materiale. Infatti disoccupato è stato abbandonato dalla moglie e vive perseguitato dalla solita madre invadente. Si materializza così tutto il conflitto di due mondi che vivono paralleli, quello del successo, dell’immagine, della fortuna e della ricchezza, che ingenera spavalderia e superbia, e quello dell’emarginato sociale che accumula odio e rancore. È la drammatica e grottesca descrizione del mondo attuale, che se non riscrive le regole della convivenza rischia un tonfo brutale. Una bella prova di teatro contemporaneo. palcoscenico la Voce del popolo A PROPOSITO DI... martedì, 4 febbraio 2014 7 Lo sapevate che... di Emanuela Masseria - A Ibsen è stato intitolato un cratere suo omonimo sulla Mercurio. - Lo psicologo e filosofo Ludwig Binswange r ha dedicato un importante saggio all’autore norvegese:”Henrik Ibsen. La realizzazione di sé nell’arte”, Quodlibet, Macerata, 2008. - Il quadro di George Grosz “Le Colonne della Società” è un evidente riferimento all’omonima opera di Henrik Ibsen da “La morale e il costume” DI ANTONIO GRAMSCI, 1917 (recensione su Casa di bambola di IBSEN AL CARIGNANO) ”Gli spiriti de lla e della libertà verità sono i pilastri della società” . U n personaggio complesso, quasi un filosofo, costantemente immerso in una tensione critica verso un universo piccolo - borghese. Siamo nella Norvegia di metà Ottocento, dove visse e prosperò Henrik Ibsen, uno dei maggiori autori teatrali di tutti i tempi. Nato a Skien nel 1828 il celebre drammaturgo più di altri incarna, con le sue opere, una concreta aspirazione al sublime, basata sulla metodica scomposizione delle miserie dell’esistente. Nello stesso tempo, la sua ricerca, testimoniata nei testi più vari, incrina l’idealismo sulla base di una solida realtà che però, variamente, si sgretola. Non stupisce quindi che la sua naturale espressione, dopo aver sperimentato vari generi teatrali, si sia riversata soprattutto nel da I pilastri della società dinamiche ibseniane d’elezione, dove il valore di ciascuno spesso è inferiore all’ambizione e alla capacità di realizzarla. Per ognuna delle sue maschere c’è un prezzo da pagare, nelle ferrea moneta del ragionamento nord-occidentale. Non mancano, in tutto questo, influenze di un Protestantesimo mai vissuto, dato che Ibsen era ateo e avvezzo alle speculazioni di grandi pensatori contemporanei come Heidegger e Kierkegaard. Un non credente, insomma, mosso dall’intuizione del Sacro, inteso come scoperta del proprio destino. Fu non solo il suo pensiero, quanto la sua emotività e la sua fantasia a condurlo spesso a magnificare con dettagli controversi le sue eroine femminili, immerse tra le sue analisi acute e disincantate e le violenze dei rapporti familiari, d’amicizia, d’amore. E sempre quest’ultimi riescono al meglio, nella loro potenza comunicativa, quando l’ideale si infrange contro la realtà. Ma da dove partì Ibsen? Strano a dirsi, la sua prima inclinazione fu la pittura, un sogno che naufragò presto conducendolo a un lavoro di apprendista nella farmacia di Grimstad. Trascorse la giovinezza in difficoltà economiche, aggravate dalla nascita di un figlio illegittimo i nel 1846. Nello stesso tempo però - da Spettr non abbandonò le letture, lo studio e le meditazioni rivoluzionarie. Cominciò a scrivere per il teatro e non smise mai. dramma, La sua prima opera fu Catilina, tragedia soggetto alle grandi storica ispirata al pensiero di Schiller e correnti di pensiero di allo spirito risorgimentale europeo. Nel quegli anni, ma anche venato 1850 si trasferì a Cristiania (l’odierna di umanità e comprensione per Oslo) riuscendo a fare rappresentare l’atto i propri combattuti personaggi. Dalla unico Il tumulto del guerriero, opera psicoanalisi veniva la scoperta e la influenzata dal clima nazionalistico e passione per i conflitti, interni e esterni romantico. Dal 1851 ricoprì vari ruoli a all’individuo. Lo strumento narrativo è la teatro (assistente, scrittore e maestro di lotta perenne, tra il singolo e la società, tra scena) e scrisse la commedia La notte il cittadino e lo Stato, tra le convinzioni di San Giovanni (1853) e il dramma personali e le tradizioni. Queste le storico Donna Inger di Østrat (1855), che felicità a l e r a c r e C ” ita, in questa v spirito ecco il vero he diritto di rivolta. C a felicità?” ll abbiamo a “Emma Gramatica, per la sua serata d’onore, ha fatto rivivere, dinanzi a un pubblico affollatissimo di cavalieri e di dame, Nora della Casa di bambola, di Enrico Ibsen. Il dramma evidentemente era nuovo per la maggioranza degli spettatori. E la maggioranza degli spettatori se ha applaudito con convinzione simpatica i primi due atti, è rimasta invece sbalordita e sorda al terzo, e non ha che debolmente applaudito: una sola chiamata, più per l’interprete insigne che per la creatura superiore che la fantasia di Ibsen ha messo al mondo. Perché il pubblico è rimasto sordo, perché non ha sentito alcuna vibrazione simpatica dinanzi all’atto profondamente morale di Nora Helmar che abbandona la casa, il marito, i figli per cercare solitariamente se stessa, per scavare e rintracciare nella profondità del proprio io le radici robuste del proprio essere morale, per adempiere ai doveri che ognuno ha verso se stesso prima che verso gli altri? Il dramma, perché sia veramente tale, e non inutile iridescenza di parole, deve avere un contenuto morale, deve essere la rappresentazione di un urto necessario tra due mondi interiori, tra due concezioni, tra due vite morali. In quanto l’urto è necessario il dramma ha immediata presa sugli animi degli spettatori, e questi lo rivivono in tutta la sua integrità, in tutte le motivazioni da quelle più elementari a quelle più squisitamente storiche. E rivivendo il mondo interiore del dramma, ne rivivono anche l’arte, la forma artistica che a quel mondo ha dato vita concreta, che quel mondo ha concretato in una rappresentazione viva e sicura di individualità umane che soffrono, gioiscono, lottano per superare continuamente se stesse, per migliorare continuamente la tempra morale della propria personalità storica, attuale, immersa nella vita del mondo. Perché allora gli spettatori, i cavalieri e le dame che l’altra sera hanno visto svilupparsi, sicuro, necessario, umanamente necessario, il dramma spirituale di Nora Helmar, non hanno a un certo punto vibrato simpaticamente con la sua anima, ma sono rimasti sbalorditi e quasi disgustati della conclusione? Sono immorali questi cavalieri e queste dame, o è immorale l’umanità di Enrico Ibsen? Né l’una cosa né l’altra. È avvenuta semplicemente una rivolta del nostro costume alla morale più spiritualmente umana.....” famiglia i d a it v a L ” e bellezza à t r e b li i n g perde o onda quando si f ell’io ti do io d sul princip ” ola e tu mi dai. a di bamb anticipa le attenzioni ibseniane ai destini e alle problematiche femminili. Divenuto nel 1857 direttore del Teatro Nazionale di Cristiania, in quegli anni sposò Susanna Thoresen, figliastra della scrittrice Anna Magdalene Thoresen e proseguì nella scrittura di testi teatrali: il dramma fiabesco I guerrieri di Helgeland (1857), il poemetto drammatico Terje Vigen (1862), la satira teatrale La commedia dell’amore (1862), il dramma storico I pretendenti al trono (1863). Dal 1863, grazie ad una borsa di studio per l’estero, iniziò un lungo periodo di soggiorni (1864-91) a Monaco, Dresda e Roma. Nella capitale italiana scrisse Brand (1866), poi Peer Gynt (1867) a Ischia, la commedia brillante in prosa La lega dei giovani (1869) e il dramma Cesare e il Galileo (1873). Il vero cambiamento di registro avvenne dopo l’incontro con il critico letterario e scrittore danese Georg Brandes, che intendeva riportare, nella letteratura - e quindi anche nel teatro - il senso critico verso la società contemporanea e le situazioni quotidiane. Queste istanze furono accolte da Ibsen, che dal 1877 dà inizio alla fase del teatro sociale, dove la menzogna e l’ipocrisia sono un mezzo per far comprendere la libertà individuale e il suo prezzo. Da qui nasce l’attenzione, ad esempio, per l’inferiorità della condizione femminile, ma anche le critiche al potere, al denaro, alle istituzioni, in primis quella matrimoniale. Anche i suoi personaggi nel frattempo diventano realistici, attuali, a volte addirittura troppo per essere digeriti dalla rigida società ottocentesca. Di quel periodo sono I pilastri della società (1877), denuncia della menzogna sociale, Gli spettri (1881) sul tema dell’ereditarietà e L’anatra selvatica (1884). In Casa di bambola (1879) emerge il tema del diritto alla libertà e all’autonomia della donna nelle scelte della - da Cas propria vita, in una società dove esistono solo i ruoli di moglie, madre o amante. Questo dramma venne assunto come bandiera del femminismo, nonostante le intenzioni di Ibsen fossero quelle di difendere la libertà personale in generale, indipendentemente dal sesso; ebbe molto successo in Europa ed Italia, dove la compagnia di Eleonora Duse la rappresentò al Teatro dei Filodrammatici di Milano nel 1891. Altre opere godono di quel vento di novità che furono le scoperte della psicoanalisi di Freud: si ritrovano in Villa Rosmer (1886), La donna del mare (1888), Hedda Gabler (1890). In altre rappresentazioni si affrontano i bilanci della vita o le tragedie della vecchiaia, come ne Il costruttore Solness (1894) e Il Piccolo Eyolf (1894). Al culmine della sua gloria, Ibsen affronta, tra dolore e disincanto, il grande tema delle illusioni d’amore. In Jean Gabriel Borkman (1896) ad esempio afferma: «il grande peccato senza remissione è di uccidere la vita amorosa in un essere umano». Quando noi morti ci destiamo (1899), eloquentemente sottotitolato “Epilogo drammatico”, evoca la caduta di qualsiasi ideale: lo scultore Rubeck e la sua modella Irene finiscono per andare volontariamente verso una valanga che li travolgerà. Ma anche Ibsen a quel punto stava per spegnersi. Morirà nel 1906, cinque anni dopo un attacco apoplettico. 8 palcoscenico martedì, 4 febbraio 2014 CARNET PALCOSCENICO la Voce del popolo di Carla Rotta e Daniela R. Stoiljković CROAZIA ITALIA FIUME TRIESTE Teatro Nazionale Ivan de Zajc Politeama Rossetti Ciclo: Prosa • 4 , 5 e 6 febbraio ore 19.30 L’opera da tre soldi di Bertolt Brecht-Kurt Weill. Regia Eduard Miler. Interpreti Goran Navojec, Dražen Mikulić, Olivera Baljak, Elena Brumini, Alen Liverić, Jelena Lopatić, Denis Brižić, Jasmin Mekić, Predrag Sikimić, Damir Orlić, Žarko Radić, Andreja Blagojević • 12, 13, 14 e 15 febbraio ore 20.30; 13 e 16 febbraio ore 16 La coscienza di Zeno di Tullio Kezich (da I. Svevo). Regia Maurizio Scaparro. Interpreti Giuseppe Pambieri, Nino Bignamini, Giancarlo Condé, Silvia Altrui, Guenda Goria, Margherita Mannino, Marta Ossoli, Antonia Renzella, Raffaele Sincovich, Anna Paola Vellaccio, Francesco Wolf • 7 e 8 febbraio ore 19.30 Turbo folk di e regia Oliver Frljić. Interpreti Anastazija Balaž Lečić, Olivera Baljak, Andreja Blagojević, Alen Liverić, Jelena Lopatić, Jasmin Mekić, Dražen Mikulić, Damir Orlić, Tanja Smoje • 19, 20, 21 e 22 febbraio ore 20.30; 20 e 23 febbraio ore 16 L’importanza di chiamarsi Ernesto di O. WIlde. Regia Geppy Gleijeses. Interpreti Geppy Gleijeses, Marianella Bargilli, Lucia Poli • 8, 10, 11, 12, 13 ore 19.30 Nikola Šubić Zrinski di I. de Zajc. Regia Krešimir Dolenčić • 13, 14, 15, 17, 18, 19 e 20 febbraio ore 19.30 Puttana di Vedrana Rudan. Regia Zijah Sokolović • 21, 22, 24, 25 e 26 febbraio ore 19.30 Il Barone rampante di Italo Calvino. Regia Paola Galassi. Interpreti: la Compagnia del DI • 25, 26, 27 e 28 febbraio ore 19.30 Insieme da Lukas Moodysson. Regia Matjaž Latin. Interpreti Andreja Blagojević, Dražen Mikulić, Nika Ivančić, Tena Antonija Torjanac, Tarik Žižak, Jelena Lopatić, Igor Kovač, Leon Hasančević, Tanja Smoje, Damir Orlić, Jasmin Mekić, Mirko Soldano, Nika Mišković, Aleksandra Stojaković, Sabina Salamon, Davor Jureško, Nenad Tešić, Adnan Palangić, Predrag Sikimić • 28 febbraio ore 20.30 Il padiglione delle meraviglie di Ettore Petrolini. Regia Massimo Verdastro. Interpreti Manuela Kustermann, Massimo Verdastro, Emanuele Carucci Viterbi, Gloria Liberati, Giuseppe Sangiorgi, Luigi Pisani, Chiara Lucisano Alessandro Mizzi, Paolo Rossi. Regia Paolo Rossi. Interpreti Laura Bussani, Stefano Dongetti, Alessandro Mizzi • 25, 26, 27 e 28 febbraio ore 21 Una di Enrico Luttmann. Regia Marco Casazza. Interpreti Maria Grazia Plos Ciclo: Musical & concerti • 4 e 5 febbraio ore 20.30 Othello -la H è muta di Davide Calabrese e Lorenzo Scuda. Interpreti Graziana Borciani, Davide Calabrese, Francesca Folloni, Lorenzo Scuda, Fabio Vagnarelli (Oblivion) • 11 febbraio ore 21 ’70-’80: ritorno al futuro concerto di Antonello Venditti Danza & dintorni • 8 febbraio ore 20.30 Je suis Eleonora Abbagnato Ciclo: Eventi speciali • 4 febbraio ore 21 • 14 febbraio ore 19.30 Lo Schiaccianoci di P. I. Tcajkovskij. Regia Ronald Savković. Interpreti Sabina Voinea Vukman, Laura Orlić, Marta Kanazir, Borna Šebelja, Andrei Köteles, Daniele Romeo, Balazs Baranyai, Paula Rus, Anka Zgurić, Joseph Cane, Martin Grainger, Cristina Lukanec, Marta Voinea Čavrak, Marta Kanazir, Irina Köteles, Leonid Antontsev, Tena Ferić Dokmanović, Tanja Tišma, Dimitrij Andrejčuk, Oxana Brandiboura Obelix e Asterix di e regia Claudio Misculin. Interpreti Claudio Misculin, Dario Kuzma, Giuseppe Feminiano, Donatella Di Gilio, Gabriele Palmano, Ana Dalbello, Giuseppe Denti, David Murcia Gonzalez • 6 febbraio ore 20.30 Nascosto dove c’è più luce di Gioele Dix. Con Gioele di Daniele Cipriani. Regia e coreografie Maurice Béjart, William Forsythe, Nicolas Le Riche, Roland Petit, Angelin Preljocaj, Jerome Robbins. Interpreti Eleonora Abbagnato, Alessandra Amato, Alexandre Gasse, Nicolas Le Riche, Damiano Mongelli, Clairemarie Osta, Benjamin Pech, Alice Renavand • 25 e 26 febbraio ore 20.30 Pasiones 2014 - Tango e musical di e regia Adrian Aragon, Erica Boaglio. Interpreti Adrian Aragon, Erica Boaglio, Leticia Fallacara, Natalia Morales, Pablo Velez, Daniela Kizyma, Mariano Palazon, Natalia Miqueiro, Ariel Leguizamon, Yesica Esquivel, Ariel Perez, David Palo, Mariano Oliva Dix e Cecilia Delle Fratte • 27 febbraio ore 20.30 Una serata unica di e con Maurizio Battista POLA Teatro cittadino • 10 febbraio ore 9.30, 11 e 18 Ciclo: Altri percorsi • 11, 12, 13, 14 e 15 febbraio ore 21; 16 febbraio ore 17 La coscienza di Zeno spiegata al popolo Goulash Blues Explosion di Stefano Dongetti, HaHa2O di Petra Radin. Regia Mario Kovač. Interpreti Ecija Ojdanić, Petra Radin • 18 e 19 febbraio 19.30; 19 e 20 febbraio ore 12 Veli Jože di Vladimir Nazor. Regia Rene Medvešek. Interpreti Božena Delaš, Alex Đaković, Dina Đuka, Karin Fröhlich, Vedran Komerički, David Petrović, Almira Štifanić, Zlatko Vicić • 12 febbraio ore 20 Concerto di Tamara Obrovac e TransMediterranean Jazz Ensemble • 10 febbraio ore 9.30, 11 e 18 Harem Regia Ivan Leo Lemo. Interpreti Nela Kocsis, Barbara Vicković, Petra Dugandžić, Ecija Ojdanić SLOVENIA CAPODISTRIA Teatro Cittadino • 4 febbraio ore 10.30 Dal silenzio alla musica di Jure Ivanušič e Marko Vezovišek. Interprete Jure Ivanušič • 15 febbraio ore 10.30 la Voce del popolo Anno 10 / n. 81 / martedì, 4 febbraio 2014 IN PIÙ Supplementi è a cura di Errol Superina [email protected] Edizione Progetto editoriale Caporedattore responsabile Errol Superina PALCOSCENICO Silvio Forza Redattore esecutivo Carla Rotta Impaginazione Željka Kovačić Collaboratori Rossana Poletti, Emanuela Masseria, Bruno Bontempo, Daniela Rotta Stoiljković. Foto: Dražen Šokčević, Siti teatro La principessa Polona e il Principe Ranocchio di e interprete Tjaša Hrovat • 28 febbraio ore 20 Tutto su Ivan tratto da I. Cankar. Di e regia Mare Bulc. Interpreti Mojca Fatur, Tjaša Hrovat, Lara Jankovič, Igor Štamulak, Gorazd Žilavec Teatro lirico «Giuseppe Verdi» • 11, 13, 14 e 18 febbraio ore 20.30; 15 e 16 febbraio ore 16 L’occasione fa il ladro di Gioacchino Rossini. Regia Elisabetta Brusa. Interpreti Enrico Iviglia, Gianluca Sorrentino, Irina Dubrovskaya, Rita Cammarano, Francisco Brito, Matteo Mezzaro, Domenico Balzani, Antonella Colaianni, Gabriele Sagona, Andrea Porta • 27 e 28 febbraio ore 20.30 Madame Butterfly di Giacomo Puccini. Regia Giulio Ciabatti. Interpreti Amarilli Nizza, Luciano Ganci, Giorgio Caoduro Teatro «Orazio Bobbio» • 14, 15, 17 e 19 febbraio ore 20.30; 16 e 18 febbraio ore 16.30 Elephant man di e regia Giancarlo Marinelli. Interpreti Ivana Monti, Daniele Liotti, Rosario Copollino, Debora Caprioglio, Andrea Cavatorta, Francesco Cordella, Serena Marinelli, Simone Vaio • 22 febbraio ore 16.30 The clown of clowns di, regia e interprete David Larible