Stefano A.E. Leoni, "L'Oriente: tutta un'altra musica. L'Oltre-Bosforo come catalizzatore 1
dell'immaginario musicale occidentale alle soglie dell'età moderna”, in Musica/Realtà, n.
75, 2004, pp 101-122. Copia della bozza di stampa
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L’oltre-Bosforo come catalizzatore dell’immaginario musicale occidentale alle soglie
dell’età moderna
di Stefano A. E. Leoni
… disse Baudolino… perché Giovanni è cristiano, ancorché nestoriano, e se avesse da inviare una lettera lo
farebbe a Federico imperatore.”
“E allora scriviamola, questa lettera,” disse il Poeta …
Decisero di provare. Abdul riuscì a sottrarre nottetempo dallo scriptorium dell’abbazia di San Vittore una
pergamena di gran pregio, mai grattata. Le mancava solo un sigillo per sembrare la lettera di un re. In quella
camera che era per due, e ora ospitava sei persone tutte intorno a un tavolo malfermo, Baudolino, a occhi
chiusi, come ispirato, dettava. Abdul scriveva …1
Baudolino, l’eroe dell’omonimo romanzo di Umberto Eco, gran mentitore (Baudolino), tra le
varie imprese che si attribuisce, si fa autore della prima versione della famosa Lettera del Prete
Gianni (o Giovanni, come preferisce Eco). E’ interessante notare come sia del tutto accessorio
che l’estensore di questa epistola sia questi o altri; è ben vero che un personaggio fittizio di un
romanzo contemporaneo non può esserne stato l’autore, ma quel che importa è la ricezione
della Lettera, il suo esser frutto di un coacervo di desiderata percettivi relativi all’altro da sé.
Tale da rappresentare quasi un archetipo dell’orientalismo, della visione dell’est operata dai
dotti quanto dagli incolti d’occidente; e quindi esser seguita da decine e decine di lettere, di
saggi, di relazioni, ma pure di romanzi, racconti, dipinti e quant’altro, pronti a dare l’immagine, a
fissare i canoni dell’immaginario europeo nei confronti di culture, popoli e genti estranei, si tratti
di Oriente, di “Oriente sotto casa” (la Spagna esotica dei musicisti francesi d’Ottocento e
Novecento, quanto di pittori come John Singer Sargent e il suo Jaleo, quadro “falso” divenuto
icona dello “spagnolismo”, copertina per raccolte di musiche flamenche) e quindi ribaltando
talora anche le coordinate geografiche e, citando Cristobal Colón (vulgo: Cristoforo Colombo), a
Palos, nel 1492, pronti a buscar el levante por el poniente
La Lettera del Prete Gianni rappresentò, fin dal penultimo quarto del XII secolo il prodotto di
punta di un’operazione che coniuga visioni teratologiche proprie del naturalismo pagano e
1
U. Eco, Baudolino, Bompiani, Milano, 2000, pp. 140 e sgg.
2
cultura cristiana, “tesa a ricondurre (anzi, a esorcizzare) il diverso, l’eversivo, all’interno di un
ordine supremo garantito dalla volontà divina”, così da fondere materiali provenienti da Plinio o
da Solino con gli scritti dei Padri della Chiesa e dei primi enciclopedisti medievali “fino a
disegnare la mappa del misterioso regno del Prete Gianni, posto in un Oriente che nei secoli
sarà ora l’India, ora l’Asia, ora l’Africa, ora l’America dell’Eldorado”2
Il Prete Gianni diverrà nei secoli un mito, come il suo regno, producendo volgarizzamenti e
traduzioni anglo-normanne, francesi, inglesi, italiane, tedesche, russe, serbe ed ebraiche di un
“originale” latino e sterminate pagine di letteratura secondaria fino a tutto il XVI secolo,
fondendo e confondendo storia e mito e facendoli modellare l’una sull’altro “e mentre la prima
avanza, il secondo si ritrae, arretra, ma impiegherà lunghi secoli per scomparire” 3, ammesso,
ma davvero non concesso, che sia scomparso, perché
verso l’Oriente, l’Occidente parte infatti per riconoscere e ritrovare, prima che per trovare e conoscere, e lungo il
cammino esso dà libero corso a tutte le sollecitazioni compresse in quel magazzino di desideri ritagliato per
secoli tra le pagine dei libri. Sono quei desideri, quelle immagini, quelle favole se volete, a guidare i passi di chi
si muove verso l’ignoto e verso l’ignoto ci si muove infatti sapendo già tutto. […] Anche noi popoliamo infatti le
nostre terrae incognitae di immagini, di volta in volta accattivanti e terrifiche; anche noi abbiamo bisogno di
proiettare le nostre favole nel vuoto conoscitivo, per ridurre il mistero, per attenuare la paura … La storia di
Gianni ci dice molte cose sul modo in cui l’Occidente europeo ha segnato faticosamente i limiti dell’immaginario.
Ma, tra le tante altre cose, la storia di Gianni ci parla anche di noi.4
Si tratta di relazioni, storie, conflitti, amori, di due tracciati culturali assai distanti tra loro, che
si scontrano, si sovrappongono, e danno vita a immagini in cui si concretizzano i sogni
alternativi dell’Occidente europeo (e non). Sono sogni di purezza, di pace, fantasie di peccato
aborrito, ma anche vagheggiato, desideri di ricchezze offerte spontaneamente dalla natura, di
opulenza, aspirazione a dilatare i confini del mondo, voglia di emancipazione, paura della
libertà. Costruito indipendentemente dall’esperienza, l’Oriente, o meglio la sua immagine,
finisce per rappresentare la faccia nascosta dell’Occidente europeo, un suo modello alternativo,
sostanzialmente stabile per lunghi secoli: tutto l’Altro, il non-Occidente, è il Regno del Prete
Gianni, la sua ricerca è una parte del viaggio iniziato dalla cultura occidentale nel Medioevo e
che è essenzialmente avventura conoscitiva fatta nonostante l’osservazione diretta.
Così un destino di misconoscimento ha segnato i rapporti tra occidente ed oriente, ed oggi
tra nord e sud del mondo: pregiudizi e stereotipi hanno costellato la storia della ricezione
dell’altro da parte dell’universo eurocolto. Ciò è valso, evidentemente, anche per quel fattore di
organizzazione di identità, quel sistema di rappresentazione di sé che è la musica; quando non
si è ricondotta l’osservazione della diversità musicale a manifestazioni più o meno altezzose di
esotismo, la storia della musicografia europea ha mancato di occuparsi di questi fenomeni. Né
più che episodici sono stati gli interventi a favore di una percezione maggiormente oggettiva
2
Cfr. I. Li Vigni, “Il vaso di Pandora, l’Oriente fra Armonia e Caos”, in: Rossi, Li Vigni, Zuffi (a cura di), Armonia Mundi. Armonie
nascoste, Asimmetrie manifeste, Erga, Genova, 1993, pp. 78-79.
3
4
Cfr. G. Zaganelli, “Introduzione”, in: G. Zaganelli (a cura di), La lettera del Prete Gianni, Pratiche, Parma, 1992 (2), p. 23.
Cfr. La lettera del Prete Gianni, p. 23 e p. 36.
3
della cultura musicale orientale, soffocati solitamente da una ridondante pratica rivolta ad un
malinteso orientalismo.
Siamo in fondo di fronte all’altra faccia di una medaglia di conio egualmente élitario; accanto
infatti al filone dell'orientalismo, che conduce dalla "turcherie" al "colore locale", l'esotismo in
musica segue una strada parallela e financo più fertile, quella del confronto con le culture
popolari, europee e anche non strettamente europee. La chiamata al "canto popolare" si
risveglia nell’Ottocento parallelamente alla nascita del sentimento dell'identità nazionale e
diviene elemento primario nelle teorizzazioni e negli esiti pratici delle cosiddette “scuole
nazionali”. Tuttavia il significato primo dell'ingresso del canto popolare nella musica "colta" è
quello di citazione curiosa, capace di donare un colore "caratteristico" a qualche brano
musicale, di materiale nuovo, inusitato, strano. Il tema popolare diviene insomma gustoso
diversivo all'interno di costruzioni estremamente complesse, come una sinfonia o un quartetto
per archi. Esotismo di casa propria, dagli esiti più caserecci appunto, ma dalle intenzioni per
nulla differenti dall’orientalismo esotizzante.
Per secoli lo stato dell’opera è questo e così scarse, scarne, talora distorte, rarissimamente
intellettualmente oneste, sono le testimonianze da parte di scrittori di musica dell’Occidente a
proposito delle abitudini, dei gusti, delle scelte musicali di altre culture. Oggi, di fronte ad un
Oriente che si è mosso verso Occidente, si ha l’opportunità oltreché l’obbligo etico di
riesaminare criticamente la storia del pensiero etnomusicologico sulla base di stimoli
provenienti dall’antropologia musicale così come dalla storia delle teorie, evidenziando e
contestualizzando carenze, pregiudizi, fraintendimenti.
C’è stato un tempo, non così lontano, in cui l’incontro iniziale di un Occidentale con la musica araba difficilmente
generava amore al primo ascolto; l’esposizione a questo particolare universo sonoro sovente ricordava
all’ascoltatore non avvertito un latrar di cani. Nell’Agosto del 1648, il viaggiatore francese M. de Monconys
assistette ad una cerimonia di dervisci al Cairo, che egli descrive in termini raccapriccianti:
Essi danzarono tutti per più di un’ora, gridando e strillando orribilmente; ruotavano impetuosamente a tale
vertiginosa velocità che la loro danza andò di là di qualsiasi cosa che la più sfrenata immaginazione potesse
concepire ad un sabba di streghe ... Le loro voci mutavano frequentemente dall’ululare di lupi furiosi al latrare di
cani.
Questa conclusione si collega perfettamente con il giudizio sulla musica Orientale pronunciato dal grande
compositore Hector Berlioz nella seconda metà del XIX secolo: “Essi chiamano musica ciò che noi definiamo
charivari.” Certo, anche in tempi più antichi vi furono Occidentali come Charles Fonton che ebbero un approccio
più positivo. Nel 1750 Fonton scrisse un opuscoletto sulla musica turca attaccando duramente quello che oggi
potrebbe esser definito Eurocentrismo, sottinteso dal giudizio dei suoi contemporanei sulle musiche di altri
popoli
Così Amnon Shiloah, ad oggi il maggiore studioso di musica e teoria musicale araboebraica, apriva il suo volume Music in the World of Islam.5
5
Amnon Shiloah, Music in the World of Islam: a socio-cultural study, Aldershot, Scolar Press, 1995, p. xiii.
4
Shiloah si era già più volte sull’argomento e a Charles Fonton aveva dedicato un
interessante saggio nel 1990, ripubblicato tre anni più tardi in volume.6 Mi pare doveroso, prima
ancora di esprimere valutazioni sul testo di Fonton e sul commento fattone dallo studioso
israeliano, proporre una – per quanto approssimativa – traduzione di alcuni passi dell’Essay sur
la musique orientale comparée à la musique européenne (1751) di Fonton.
Articolo II. Della musica degli Orientali e del loro particolare gusto
Poiché tutti i popoli presi nel loro complesso, quantunque differenti nei costumi e nei caratteri, tuttavia
concordano sul fascino invincibile della musica e sono sensibili ad esso, ne consegue necessariamente che
ogni popolo preso singolarmente abbia un tipo di musica che gli è proprio e che è in grado di commuoverlo. E
infatti l’Italiano, tenero ed appassionato, si strugge nelle sue arie e manifesta le sue passioni. Al Francese
brillante e allegro piacciono le sonorità gradevoli di una musica che sia giocosa e vivace. L’Inglese ardente e
dalla testa calda si presta solamente alle armonie confacenti al suo carattere. Qualsiasi altra difficilmente lo
toccherebbe. Il severo e triste Tedesco, che gode di sonorità meno dolci e affettuose, non viene infiammato da
un’armonia particolarmente delicata. In una parola: ciascuna nazione ha, fin nelle cose infime, alcuni tratti che la
caratterizzano e la rendono differente dalle altre. Gli Orientali pure fan parte a sé. Lontani dai nostri modi e
costumi in tutto, non ci si avvicinano maggiormente neppure nella loro musica, che non tollera neppure il
minimo rapporto con quella di un qualsiasi popolo Europeo. Noi inoltre non abbiamo necessità di conoscere a
fondo la musica degli antichi per esser in grado di stimare che è completamente la stessa cosa. Ma, almeno, c’è
la possibilità di credere che se son rimaste alcune vestigia di questa, dev’esser presso gli Orientali, presso
coloro la maggior parte delle cui arti si son preservate maggiormente quali erano alle origini, quasi senza alcuno
sviluppo o perfezionamento.
Più di un’opinione pare autorizzare questo parere. La semplicità e la naturalezza che regna nella musica
Orientale; lo stesso gusto universalmente diffuso tra i differenti popoli dell’Oriente; talune arie e talune danze di
cui si parla in ben noti autori antichi fino al giorno d’oggi dalla gente di queste terre. Tutto ciò ci fa presumere
che si possa considerare ciò, se non proprio una prova, almeno come un tratto di somiglianza tra la musica
degli antichi e la moderna musica Orientale.
Comunque sia, è un fatto assodato che questa musica non è poi tanto da scartarsi quanto si immagina, e
nemmeno è così sgradevole da non poter esser compresa. Nel giudizio degli intenditori, essa ha la bellezza
tipica del suo genere. Ma è difficile dare un’idea corretta e precisa di questo, poiché la musica è quel genere di
cosa di cui si sentono gli effetti e non si esprimono. Tutto quel che si può dire in generale, e a dispetto delle
critiche, è che è patetica e toccante. Ispira sentimenti e genera piacere. Adatta allo spirito asiatico, è come
questo popolo, molle e languido, privo di energia e vigore, e non possiede né la vivacità né lo spirito della
nostra. Il grande difetto di cui può esser accusata è quello d’esser troppo monocorde. E’ ignara della mirabile
varietà in un’arte che imita la natura e che sa come destare e mostrare ogni sorta di passione, senza
confonderne l’una con l’altra. Le impressioni che genera la musica non dovrebbero esser uguali così come c’è
differenza tra tenero e aggraziato, tra nobile e sublime. L’anima muta condizione e oggetto in accordo con i
differenti movimenti che le armonie producono in essa ed ai quali essa obbedisce senza esserne costretta. E’
questo successivo passaggio da un sentimento ad un altro, questo subire differenti trasformazioni, che la
6
Amnon Shiloah, “An eighteenth-century critic of taste and good taste” in, A. Shiloah, The Dimension of Music in Islamic and
Jewish Culture, Aldershot, Variorum, 1993, XV, pp. 181-189.
5
mantiene in continuo turbamento, fornendo costantemente spirito di nuove percezioni e mantenendo
l’eccitazione e l’incantamento dei sensi.
E’ raro trovare nella musica Orientale quest’effetto di varietà che origina nella diversificazione delle nostre
sensazioni. L’uniformità e la monotonia che regna in essa pone ad essa un ostacolo. C’è solo, per così dire, una
parte di noi che viene influenzata, poiché c’è una sola delle nostre facoltà in azione. L’anima è toccata, ma non
in tutte le sue potenzialità. E’ ben vero che questa musica eccelle nel genere cromatico, cui è profondamente
legata. Posso giurare che emoziona e s’insinua in noi e fa in modo che ci si senta in una disposizione d’animo
più ricettiva, forse più di quanto faccia qualsiasi altra musica. E’ un piacere che chiunque può esperire, ma è
uno solo tra le migliaia di cui si possa far esperienza. Anche questo piacere vien meno, in considerazione della
sua perduranza, e spesso degenera in una certa languidezza e in una immancabile noia.
Infatti, se una musica è monotona, per quanto possa esser mirabile, inevitabilmente causerà assopimento e
addirittura sonno. La reiterazione delle stesse impressioni sulle fibre dell’organo dell’udito rallenta il moto degli
spiriti animali differendone l’attività e i processi, non permettendo alcun altro mutamento e, come conseguenza
naturale, inducendo il sonno. Ciò che contribuisce inoltre a questo intorpidimento in relazione a noi, è la molesta
effeminatezza della massima parte delle arie Orientali, così contraria alle nostre inclinazioni. La nostra
attenzione non riesce ad esser catturata a lungo se non è risvegliata a tratti da qualcosa di animato e
stimolante. Le orecchie europee richiedono le impressioni più forti, i suoni più vigorosi e più forti, il minor grado
di melanconia e quello più elevato di vivacità. Le genti orientali sono sensibili a sentimenti tutt’affatto opposti. La
stessa differenza che la natura ha posto nelle nostre inclinazioni e nelle nostre indoli, l’ha pure posta
nell’oggetto dei nostre preferenze e dei nostri desideri. Tutto ce ne dà quotidianamente la prova. Dal momento
che siamo divisi in qualsiasi altra cosa, pretenderemmo invano di esser uniti dalle ricorrenti attrattive che la
musica esercita. Ciò significherebbe unire due elementi incompatibili e inserire nello stesso quadro delle figure
male assortite. La musica Orientale è paragonata dai suoi sostenitori ad un ruscello quieto e tranquillo, il cui
mormorio dolce e rasserenante incatena l’anima e la fa riposare in una plaga di delizie. Se mi è concesso
esprimermi esattamente, direi, proseguendo la metafora, che la musica Europea è un grande e maestoso fiume
che spande le sue acque con misura, regola il suo corso con le necessità delle terre che bagna, e porta con sé
ovunque ricchezza e abbondanza. Lascio agli intenditori di decidere sulla legittimità del paragone.7
Nella seconda metà del XVII secolo, quando alcuni filosofi erano affascinati dall’idea del ritorno
alla Natura, musicografi come Sir William Temple e Isaac Vossius, impegnati attivamente, sul
fronte dei primi, nella polemica tra sostenitori della musica antica e partigiani della moderna,
ritennero che le virtù originali degli antichi andassero ricercate nell’Oriente Estremo, tra i Cinesi,
per esempio, che eran stati privati di ogni rilevante contatto con la civilizzazione occidentale. E’
questa, in fondo, la posizione di Fonton. Ma, attenzione: se Shiloah ha ben evidenziato
l’importanza di questo autore da un punto di vista etnologico, le ragioni dell’indifferenza del
mondo musicale e soprattutto dell’intellighenzia musicale (storici, trattatisti, teorici) nei confronti
del saggio di Fonton e di scritti consimili prodotti in forma più o meno privata o pubblica (lettere,
7
Charles Fonton, Essay sur la musique orientale comparée à la musique européenne (1751); da: O. Strunk (ed.), Source
readings in Music History, 1998 (2), pp.721, sgg. (tr. dal manoscritto francese all’inglese di Margaret Murata; la traduzione
dall’inglese è nostra).
6
relazioni di viaggi, ecc.)8 sottolineate da Shiloah stesso, sono tanto rilevanti da averne impedito
la tradizione e la ricezione da parte di chi stava faticosamente costruendo una musicologia
“scientifica” e ne stava chiarendo i fondamenti e la autoreferenzialità. Fonton non era un
musicista professionista e le sue considerazioni si limitano al piano della pratica musicale come
può esser osservata da un amateur. Non riterrei invece così cogente la critica
all’Eurocentrismo, pure evidenziata da Shiloah, ascrivibile – saremmo portati ad affermare – ad
un filone legato all’Orientalismo ed ai suoi prodromi illuministici, più che a consapevolezze
sociali e politiche del tutto odierne.9
Pressoché contemporaneo dello scritto di Fonton è il Trattato di Quantz che, in qualche
misura, ripropone tematiche analoghe:
La diversità di stile è ciò che più influenza i giudizi musicali. Questa diversità si manifesta presso diverse nazioni
che dimostrano di avere il gusto per le belle arti, sebbene essa riguardi meno le materie essenziali di quelle
secondarie, in musica. A tale proposito esamineremo quindi queste differenze di stile, nonostante ne abbia già
parlato in numerose altre occasioni. [...] Non v’è nazione che non abbia qualche cosa di più piacevole delle altre
nella sua musica, eccetto tra quelle barbare, ma questa differenza non è così grande o importante da meritare
un’attenzione particolare....10
Son pur sempre presenti delle riserve, del resto riscontrabili anche in Fonton. Comunque
quest’accostamento tra naturale, primitivo (e primigenio) e barbaro si ritrova altresì in Rousseau
quando egli discute della musica e dell’accento delle parole:
XI. Ecco, a mio giudizio, le cause fisiche più importanti, circa le differenze caratteristiche delle lingue primitive.
Quelle meridionali dovettero essere vive, sonore, accentuate, eloquenti, e spesso oscure per la loro intensa
energia; quelle nordiche dovettero essere sorde, rudi, articolate, rumorose, monotone, chiare, per il grande
numero di parole piuttosto che per la buona costruzione. Le lingue moderne, cento volte mescolate tra loro e
rifuse, conservano ancora qualcosa di queste differenze.
Il francese, l’inglese, il tedesco sono le lingue private di uomini che si aiutano tra loro, che ragionano a sangue
freddo o che si adirano; ma i ministri di Dio che annunciano i sacri misteri, i saggi che danno le leggi ai popoli, i
capi che trascinano la folla devono parlare arabo o persiano [il Turco è una lingua settentrionale]. Le nostre
lingue sono più efficaci scritte che parlate; si prova più piacere a leggerci che ad ascoltarci. Le lingue orientali,
8
Cfr, a solo titolo d’esempio, alcuni testi raccolti in: Frank Harrison (a cura di), Time, Place and Music: An Anthology of
Ethnomusicological Observation c. 1550 to c. 1800, Amsterdam, F. Knuf, 1973, o le lettere di Lady Mary Wortley Montagu
presenti in: Oliver Strunk, (ed.), Source reading in Music History, edizione riveduta a cura di Leo Titler, New York: Norton &
Company,1998, pp. 716-720.
9
“Three reasons may have been instrumental in consigning Fonton’s work to oblivion. (1) He was neither a professional
musician nor a recognized musicographer and therefore may not have been taken seriously by experts in the field. (2) The
essay deals basically with questions related to performance practice and its theory. Consequently, it is not conceived in a
rigorous, systematic manner and excludes more ordinary theoretical aspects such as scales and modes. It may therefore
have been considered merely a curious, rather amateurish endeavor. (3) Last but not least, particularly in its initial pages,
Fonton’s essay contains harsh and cogent criticismi of what may be called ethnocentric European views with regard to
Oriental musical cultures in general.”: Amnon Shiloah, “An eighteenth-century critic of taste and good taste” in The
Dimension of Music in Islamic and Jewish Culture, Aldershot, Variorum, 1993, XV, p.182
10
Johann Joachim Quantz, Versuch einer Anweisung die Flöte traversiere..., Berlin, 1752, cap. XVIII, § 52-53; tr. it (a cura
di L. Ripanti): Saggio di un metodo per suonare il flauto traverso... Milano, Rugginenti, 1992, pp. 360-61.
7
invece, quando sono scritte perdono la loro vita e il loro calore; il senso non sta che per metà nelle parole e tutta
la loro forza è nell’accento. Giudicare il genio degli orientali dai loro libri è come voler ritrarre un uomo dal suo
cadavere. Per apprezzare in giusta misura le azioni umane, bisogna considerare nei loro rapporti complessivi e
nessuno ci prepara a questo compito. Quando ci mettiamo al posto degli altri, in realtà rimaniamo sempre quali
noi siamo, e non assumiamo mai la veste altrui; così quando riteniamo di giudicare gli altri con la nostra
ragione, in realtà non facciamo che raffrontare i pregiudizi altrui ai nostri. Uno che sappia leggere un po’ l’arabo,
sorride sfogliando il Corano, ma se avesse ascoltato Maometto recitarlo di persona in quella lingua eloquente e
cadenzata, con quella voce sonora e persuasiva che seduce l’orecchio prima ancora del cuore, che vivifica le
proprie affermazioni con l’accento dell’entusiasmo, si sarebbe prostrato a terra esclamando: “Grande Profeta
inviato da Dio, conduceteci alla gloria, al martirio; noi vogliamo vincere o morire per voi”. Il fanatismo ci appare
sempre ridicolo, perché non ha il tono giusto per farsi ascoltare nella nostra lingua. I nostri fanatici non sono veri
fanatici, non sono che imbroglioni o pazzi. Le nostre lingue, invece di avere inflessioni per ispirati non hanno
che grida per gente posseduta dal demonio.
XV... Se il grande potere esercitato su di noi dalle sensazioni non avesse cause morali, perché allora saremmo
così sensibili a certe sensazioni che non toccano minimamente un barbaro? Perché allora le nostre musiche più
toccanti non sono che vano rumore per l’orecchio d’un uomo dei Caraibi? I suoi nervi sono forse di altra natura
che i nostri, perché non sono scossi allo stesso modo, o perché la stessa impressione colpisce tanto gli uni e
così poco gli altri?
Si cita come prova del potere fisico dei suoni la guarigione dal morso delle tarantole, ma questo esempio prova
tutto il contrario. Non sono necessari né suoni particolari né le stesse arie per guarire chi è stato punto da
questo insetto, ma ci vogliono arie di melodie conosciute, e frasi familiari: per l’italiano ci vogliono arie italiane,
per il Turco, arie turche. Ognuno è colpito solo dagli accenti che gli sono familiari; i suoi nervi reagiscono
soltanto nella misura in cui lo spirito li dispone. Bisogna comprendere la lingua che ci viene parlata affinché ciò
che viene detto ci solleciti [...].11
La tendenza generale in epoca illuminista di determinare degli standards di buon gusto che
si richiamassero alla naturalezza e alla semplicità, portò diversi autori ad affrontare l’Oriente –
di cui in ogni modo ben poco si sapeva – in maniera più che positiva, quasi ideale. Si tratta di
atteggiamenti limitati nel tempo e nel numero, prontamente corretti dal naturale eurocentrismo
che la cultura occidentale pone come immancabile punto di riferimento: Burney, nel ragionare
della musica “etnica” ne evidenzia la “diversità” e la trova “barbara, zotica, ed inferiore alla vera
musica, che vien generata da una scala completa”12 del resto anche Hawkins, introducendo il
suo lavoro polemizza con Temple e Vossius.13 Ed in precedenza, nella dedica a re Giorgio III,
egli era stato assai chiaro sugli intendimenti della sua opera e sul suo pensiero:
11
Jean-Jacques Rousseau, Essai sur l’origine des langues, Genève, 1781; tr. it. (a cura di E. Fubini) in: Gli illuministi e la
musica, Milano, Principato, 1969, pp. 170 sgg., i corsivi sono nostri.
12
Warren Dwight Allen, Philosophies of Music History. A Study of General Histories of Music 1600-1960, New York,
Dover, 1962, p. 202
13
John Hawkins, A general History of the Science and Practice of Music, London, 1776 (fac simile della seconda edizione,
London, 1875; Graz, Akademische Druck- u. Verlagsanstalt, 1969), Preliminary Discourse I, p. XXIII
8
Deve esser ammesso che in alcune circostanze, ed in particolare nella discussione dei principi primi della
moralità dell’uomo e dell’origine dei suoi costumi, le ricerche degli eruditi si sono estese a popoli o tribù, tra i
quali i semplici dettati della natura paiono costituire l’unica regola da seguire: ma gli argomenti qui trattati sono
la scienza e la pratica scientifica della musica: ora si afferma che la miglior musica dei barbari è costituita di
suoni atroci e sbalorditivi. Di quale importanza può essere investigare su di una pratica che non ha i suoi
fondamenti nella scienza o in un sistema, o sapere quali sono i suoni più graditi ad un Ottentotto, a un selvaggio
Americano o anche a un più raffinato Cinese?. 14
14
John Hawkins, A general History of the Science and Practice of Music, Author’s Dedication and Preface. In effetti,
Hawkins oscilla tra un atteggiamento etnocentrico che gli fa attribuire, per esempio, il “ritardo” della musica spagnola, in
una nota alla voce Christopher Morales alla influenza dei Mori, e nello stesso passo, una lunga ed ammirata disgressione
su Al-farabi, che ci permettiamo di riportare per intero: “... The slow progress of music in Spain may in some degree be
accounted for by the prevalence of Moorish manners and customs for many centuries in that country. The Spanish guitar is
no other than the Arabian Pandura a little improved; and it is notorious that most of the Spanish dances are of Moorish or
Arabian original. With respect to the theory of music, it does not appear to have been at all cultivated in Spain before the
time of Salinas, who was born in the year 1513, and it is possible that in this science, as well as in tohse of geometry and
astronomy, in physics, and other branches of learning, the Arabians, and those descendend from them might be the
teachers of the Spaniards. There is now in the library of the Escurial an Arabic manuscript with this title, ‘Abi Nasser
Mohammed Ben Mohammed Alpharabi ‘Musices Elementa, adjectis Notis Musicis et Instrumentarum Figuris’ plus triginta.
CMVI’
As the date of this MS. and the age when the author lived are prior to the time of Guido Aretinus, we are very much at a
loss to form a judgment of any system which could then prevail, other than that of the anciens, much less can we conceive
of the forms of so great a variety of instruments as are said to be contained in it.
The authors of this book is however sufficiently known. In the Nouveau Dictionnaire Historique Portatif, is the following
article concerning him:‘Alfarabius lived in the tenth century. He did not, like most learned men of his country, employ himself in the
interpretation of the dreams of the Koran, but penetrated the deepest recesses of abstruse and useful science, and
acquired the character of the greatest philosopher among the Mussulmans. Nor was he more distinguished for his
excellence in most branches of learning, than for his great skill in music, and his proficiency on various instruments.
Some idea of the greatness of his talents may be formed from the following relation. Having made a pligrimage to
Mecca, and returning through Syria, he visited the court of the sultan Seifeddoulet. At his arrival he found the sultan
surrounded by a great number of lerned men, who were met to confer on scientific subjects, and joining in the
conversation, argued with such depth of judgment and force of reasoning, as convinced all that heard him. As soon as
the conversation was at an end, the sultan ordered in his musicians, and Alfarabius taking an instrument, joined in the
performance. Waiting for a seasonable opportunity, he took an instrument in his hand of the lute or pandura kind, and
touched it so delicately, that he drew the eyes and attention of all that were present. Being requested to vary his style,
he drew out of his pocket a song, which he sang and accompanied with such spirit and vivacity, as provocked the
whole company to laughter; with another he drew from them a flood of tears; and with a third laid them all asleep. After
these proofs of his extraordinary talents, the sultan of Syria requested of Alfarabius to take up his residence in his
court, but he excused himself, and departing homeward, was slain by robbers in a forest of Syria, in the year 954.
Many of his works in MS. are yet in the public library at Leyden.’
It must be confessed that the foregoing account carries with it much of the appearance of fable: the following,
contained in Mr. Ockley’s translation of Abu Jaafar Ebn Tophail’s Life of Hai Ebn Yokdhan, is of the two perhaps the
nearest the truth: –
Alpharabius, without exception the greatest of all the Mahometan philosophers, reckoned by some very near equal to
Aristotle himself. Maimonides in his epistle to Rabbi Samuel Aben Tybbon, commends him highly; and though he allows
Avicenna a great share of learning and acumen, yet he prefers Alpharabius before him. Nay, Avicenna himself confesses
that when he had read over Aristotle’s Metaphysics forty times, and gotten them by heart, he never understood them till he
happened upon Alpharabius’s exposition of them. He wrote books of rhetoric, music, logic, and all parts of philosophy; and
his writings have been much esteemed not only by Maometans, but Jews and Christians too. He was a person of singular
abstinence and continence, and a despiser of the things of this world. He is called Alpharabius from Farab, the place of his
birth, which, according to Abulpheda, (who reckons his longitude, not from the Fortunate Islands, but from the extremity of
the western continent of Africa) has 88 deg. 30 min. of longitude, and 44 def of northen latitude. He died at Damascus in
the year of the Hagira 339, that is about the year of Christ 950, when he was about fourscore years old.’ (Hawkins, I, 391).
9
Del resto anche Herder, nello stesso periodo, dalla Germania, gli faceva in qualche modo
eco: “C’è una tale differenza marcata tra la musica dell’Oriente e quella dell’Occidente, che
anche se ne sapessimo di più, troveremmo davvero poco di che soddisfare le nostre
orecchie”.15 In altre parole, questi uomini erano intolleranti nei confronti delle diversità (anche
Sir Hubert Parry, fin nel 1911, mantiene giudizi e pre-giudizi impietosi nei confronti della musica
orientale). Un fio pagato certo all’imperialismo e al colonialismo delle nazioni, così come alla
protervia dei singoli studiosi ed ai guasti di un’antropologia (musicale) evoluzionistica piuttosto
che comparativa.
Un riesame critico della storia dell’Occidente rivela quanto la rappresentazione di culture
“altre” da parte dell’Occidente si sia conformata sovente a specifici ordini del giorno politici,
quando non li abbia supportati. Storicamente, il concetto di “Occidente” contrapposto a “il Resto
del Mondo”, l’ “Altro”, prese forma in risposta alla sfida dell’Islam, quando Europa iniziò a
divenire sinonimo di Cristianità. L’idea, divulgata a partire dall’Illuminismo, è ovviamente
arbitraria in quanto presenta l’ “Occidente”, una entità assai differenziata, come omogeneo. Per
di più ciò produce un particolare tipo di conoscenza e di atteggiamento nei confronti di un
oggetto culturale, politico e sociale. Se “la conoscenza è potere”, è evidente che “la conoscenza
ottenuta dai primi esploratori sistematici [...] aprì la strada all’epoca dell’egemonia
occidentale”.16
Si potrebbe sostenere, foucaultianamente, che il “predicato” dell'Occidente circa "il Resto del
Mondo" ha avuto influenza profonda sul modo in cui l'Occidente si è comportato nei confronti de
"il Resto del Mondo" nel quadro del progetto coloniale. “Predicato” in questo senso è così
sinonimo di ciò che i sociologi chiamano “ideologia” (vale a dire un modo di parlare di, di
pensare o di rappresentare un oggetto particolare o dei topoi) per i seguenti motivi: un predicato
ha sempre a che fare con il potere, è uno dei sistemi attraverso cui il potere fa circolare la
conoscenza che è prodotta dal predicato; la sua validità e statuto scientifico sono rafforzati da
coloro che hanno il potere di generarlo.
Ambiguamente il predicato dell’ “Occidente" e de "il Resto del Mondo” non ha rappresentato,
nel tempo, un incontro tra eguali. Un esempio di questo “sistema di verità” è offerto forse
dall’ormai datato, ma certo illuminante studio di Edward Said sull’Orientalismo, del quale si
propongono alcuni passi:17
L’Oriente non è solo adiacente all’Europa; è anche la sede delle più antiche, ricche, estese colonie europee; è
la fonte delle sue civiltà e delle sue lingue; è il concorrente principale in campo culturale; è uno dei più ricorrenti
e radicati simboli del Diverso (pp. 3-4)
Prendendo il tardo secolo XVIII quale approssimativo limite cronologico, l’orientalismo può essere studiato e
discusso come l’insieme delle istituzioni create dall’Occidente al fine di gestire le proprie relazioni con l’Oriente,
15
Cfr. J. G. von Herder, Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit (1784-91), citato in: Allen, Philosophies of
Music History. A Study of General Histories of Music 1600-1960, p. 203.
16 J. M. Roberts, The Triumph of the West, British Broadcasting Corporation, London, 1985, p. 194.
17 E. W. Said, Orientalism, Vintage Books, New York, 1979; tr. it. Orientalismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1991.
10
gestione basata oltre che sui rapporti di forza economici, politici e militari, anche su fattori culturali, cioè su un
insieme di nozioni veritiere o fittizie sull’Oriente (p. 5)
Credere che l’Oriente sia stato creato – o, come mi piace dire, “orientalizzato” – per il solo gusto di esercitare
l’immaginazione, sarebbe alquanto ingenuo, oppure tendenzioso. Il rapporto tra Oriente e Occidente è una
questione di potere, di dominio, di varie complesse forme di egemonia … (p. 8)
… l’orientalismo, quindi, non è solo una fantasia inventata dagli europei sull’Oriente, quanto piuttosto un corpus
teorico e pratico nel quale, nel corso di varie generazioni, è stato effettuato un imponente investimento
materiale. Tale investimento ha fatto dell’orientalismo, come sistema di conoscenza dell’Oriente, un filtro
attraverso il quale l’Oriente è entrato nella coscienza e nella cultura occidentali. (p.9)
L’Orientalismo, quest’attitudine tutta occidentale, venata di mille sfumature, divenne “una
visione politica della realtà la cui struttura favorì la distinzione tra il familiare (l’Europa,
l’Occidente, “noi”) e l’estraneo (l’Oriente, l’Est, “loro”)”.18
Si tratta di un’opposizione binaria che, seppur imprescindibile nei processi linguistici quale
elemento produttore di senso, porta inevitabilmente ad un concetto di “differenza”
straordinariamente semplificato; da qui rappresentazioni idealizzate degli “Altri” nell’età delle
Esplorazioni: come l’Oriente, così tutto “il Resto del Mondo” diventa oggetto di immaginazioni
fantastiche, di sogni e dell’Utopia: ecco allora Paradisi Terrestri, Età dell’Oro, luoghi di delizie e
luoghi asperrimi quanto affascinanti, genti e costumi visti di volta in volta in maniera
estremamente positiva o estremamente negativa; un’incapacità di percepire l’oggettività
dell’Altro ed una visione legata a stereotipi dualistici che ne danno rappresentazioni
intercambiabili (selvaggi nobili/ignobili, nazioni rozze/raffinate) fino ad oggi persistenti in
Occidente ed ovviamente assai distanti dalle realtà di fatto.
Se i mass-media ancora oggi persistono in approcci superficiali e diffondono immagini
musicali che apparentemente riflettono e mettono in atto una conoscenza stereotipizzata de “il
Resto del Mondo”, come avverte Stokes, la “seconda aumentata” che denota l’oriente
nell’immaginario musicale dal tardo Settecento in avanti, ha ben poco a che vedere con la
musica turca, ma ci informa, nel contesto del nostro proprio linguaggio musicale di un mondo
immaginario di violenza e sessualità repressa. Queste immagini fortemente radicate nel
contempo giustificano l’uso occidentale dell’Oriente come base di fantasie sessuali collettive e
consente ai suoi governi di mobilitare le proprie forze armate contro le popolazioni medioorientali nel momento in cui la loro fornitura di olio combustibile è minacciata.
Tanto più questo è stato vero in passato. Gli studiosi, in particolar modo i musicografi, dei
secoli scorsi hanno avuto dunque posizioni tendenzialmente preconcette nei confronti della
musica orientale, mitigate solamente da quella che potrebbe esser definita una prolungata
“esposizione” alla cultura e alla vita de “il Resto del Mondo”. Infatti, tra le prime testimonianze
della musicografia occidentale relative al confronto con l’alterità orientale ecco quella di
18
E. W. Said, Orientalism, p. 45: “a political vision of reality whose structure promoted the difference between the familiar
(Europe, the West, “us”) and the strange (the Orient, the East, “them”).
11
Johannes Kepler noto astronomo e, come sappiamo, valido teorico musicale che, nel 1619,
pubblicando il suo Harmonices Mundi Libri V propone, perlomeno non affidandosi solo a
tradizioni e fonti secondarie, un giudizio comunque severo (ben più di quanto – abbiamo visto –
sarà dato da Rousseau in pieno illuminismo):
Quid sit Cantus naturaliter Concinnus & aptus.
Nihil dicemus de stridulo illo more canendi, quo solent uti Turcae & Ungari pro classico suo: brutorum potius
animantum voces inconditas, quam humanarum Naturam imitari.
Videtur omnino prius author hausisse melodiam hujusmodi in conditam ab instrumento minus apte conformato,
eamque consuetudine diuturna, cum ipsius instrumenti factura, transmississe ad posteros, totamque gentem.
Interfui Pragae precibus, quas Legati Turcici sacerdos horis statis ingeniculatus, terramque fronte crebro
feriens, decantare solebat: apparuit facile, ipsum ex disciplina canere, exercitationemque & promptitudinem
labore comparasse, nihil enim haesitavit; at intervallis usus est miris, insolitis, concisis, abhorrentibus; ut nemo
proprio naturae ductu & ex seipso ultro simile quid constanter unquam meditari posse videatur. Conabor aliquid
proximum illi per nostras notas Musicas exprimere.
Concinnus igitur & humanarum aurium judicio aptus cantus est, qui exorsus a certo quodam sono; ab eo per
intervalla concinna tendit ad sonos consonos & primo illi & plerumque etiam inter se mutuo; dissona cursum (?)
pervolitans intervalla, in consonis vero immorans, seu mensura temporis, Sylla barumque longitudine, seu
crebro ad illos reditu, veluti duarum vocum inter se consonantiam affectans, unicae vocis traductione a loco uno
Systematis ad alium.
Exemplum19
Il passo è puntualmente citato un secolo e mezzo più tardi da Sir John Hawkins. Infatti
nell’analizzare la figura e l’opera di Keplero, ed in particolare soffermandosi sul capitolo XIII del
Terzo Libro dell’Harmonices Mundi egli scrive:
Chap. XIII. The author speaks of the manner of singing, which he says the Turks and Hungarians are
accustomed to, and resembles the noises of brute animals rather than the sounds of the human voice; but this
kind of melody, rude as it is, he supposes not fortuitous, but to be derived from some instrument concinnously
formed, which had led the whole nation into the use of such intervals in singing as nature abhors. To this
purpose he relates that being at Prague, at the house of the Turkish ambassador, at a time when the
accustomed prayers were sung by the priests, he observed one on his knees frequently striking the earth with
his hand, who appeared to sing by rule, for that he did not in the least hesitate, though the intervals he sung
19
Johannes Kepler, Harmonices Mundi libri V, Lib. III, caput XIII, p.61.
12
were wonderfully unaccustomed, mangled, and abhorrent, which, that his reader may judge of them, he gives in
the following notes: – segue esempio –20
Pochi anni più tardi, persino il “buon” padre Marin Mersenne si chiede se non sia
conveniente che anche gli Ebrei e gli Arabi, e tutti gli altri popoli non si conformino alla nostra
maniera di cantare e di scrivere i canti. E’ del tutto evidente che, mascherate da ragioni
scientifiche e di praticità, stanno in agguato certezze di superiorità e desiderio di uniformare (a
sé) “il Resto del Mondo”.21
Gli sforzi degli Europei per giungere ad una comprensione “simpatetica” della musica
orientale si sono sempre scontrati con un etnocentrismo endemico che solo raramente ha
lasciato trasparire atteggiamenti meno trancianti, senza peraltro scadere nell’Orientalismo
acritico.
La musicografia, come voce della cultura musicale, come establishment accademico atto a
conferire dignità e significato a ricerche e materiali, ha – nei secoli – tendenzialmente ignorato
“il Resto del Mondo”.
Negli anni ‘30 del XVI secolo, Guillaume Postel, attaché scientifico presso l’ambasciata
francese a Costantinopoli, descrisse un gruppo di suonatrici che cantavano e si
accompagnavano con un’arpa, tamburo ed altre percussioni e che proponevano quello che
diventò nei secoli, (ma che è tuttora) uno degli stereotipi musical-sessuali più abusati
dell’Oriente: la danza del ventre.
Quindi, per variare, la ragazza maggiore in età e più graziosa inizia una danza alla loro maniera; toltosi lo scialle
e il cappello d’oro, si mette un turbante – che è il copricapo maschile – e prende a mimare, imitando con tanta
veemenza i gesti dell’amore che descriverlo a uomini che non l’han vista susciterebbe più desiderio che
piacere. Dapprima ella ondula sinuosamente, offrendosi per esser apprezzata allo sguardo penetrante dei
personaggi più importanti nel ricevimento e fingendo di offrirsi; sventolando un leggiadro fazzoletto da collo pare
cingere con una corda chi aveva eccitato, solo per fermarsi bruscamente – finché la Pietà tempera questi
fini...22
Gli stessi elementi di sensualità, ma “rimossi”, ritornano in una descrizione che ritroviamo in
una relazione di viaggio di un ebreo italiano, Samuel Romanelli, che visitò il Marocco nel 1787.
In verità Romanelli descrive una danzatrice nell’ambito di un matrimonio ebraico in un contesto
20
21
John Hawkins, A general History of the Science and Practice of Music, II, p. 619.
“...Quant aux chacaracteres des Hebrieux, ou des Iuifs, nous n’avons nulle conoissance de ceux dont les Levites se
servoient dans le Temple: & bien que les Grammaries, & quelques autres livres Hebraiques parlent de leurs accents de
Musique, neantmoins l’on en a si peu de connoissance, qu’il vaut mieux leur conseiller d’user des 8 ou 15 premieres lettres
de leur Alphabet, comme nous faisons, pour chanter tout ce qu’ils voudront, que de s’amuser à leurs accents, dont
s’ilsveulent encore user, ie leur en monstre icy la maniere, à laquelle i’en iounts une autre pour les Grecs; car quant aux
Arabes, aux Persans, &c. ils sepeuvent regler fur l’Hebrieu[x], d’où leurs idiomes semblent avoir pris leur naissance...”,
Marin Mersenne, Harmonie Universelle, Paris, 1636, livre Quatrieme De la Composition, proposition XIX, p. 252.
22
Guillaume Postel, De la République des Turcs, citato in: Turkish Music Quarterly, 2, 2-3, 1989, 6; qui tradotto dalla
citazione in inglese fattane da A. Shiloah in Music in the World of Islam: a socio-cultural study, Aldershot, Scolar Press,
1995, p.139.
13
urbano, Tangeri: il carattere della danza descritta ha però molto in comune con la percezione
comune della danza del ventre:
... E una danzatrice, con la testa piegata lateralmente, tiene un fazzoletto per l’orlo in ciascuna mano, una alta
sopra la sua testa, l’altra che punta al di sotto della vita verso lo stomaco, e poi lentamente, provocantemente,
ella inverte la posizione delle braccia. Pensavo che fosse folle, ma mi dissero che quello era il modo in danzano
nella loro città. Ciò fu accompagnato da giovani ragazze che battevano dolcemente su tamburi a calice ... il
rullio era del tutto casuale, non seguendo alcuna regola di composizione. Come poteva chiunque fosse
presente a questa esibizione trattenersi dallo scoppiare a ridere? 23
L’aspetto erotico della danza del ventre fu poi sottolineato, più tardi, dal famoso orientalista
Edward William Lane, autore di un’opera di grande e genuina erudizione, il quale ammette che
sovente le esibizioni delle danzatrici erano oltremodo lascive, tanto da attirarsi la
disapprovazione di personaggi delle classi elevate e del clero.24 Ma, a proseguire su questa via
entreremmo nell’ambito dell’orientalismo esotizzante da ristorante arabo.
Mentre l’universo culturale mediterraneo in epoca Medioevale e Rinascimentale (almeno fino
alla battaglia di Lepanto) ha vissuto il rapporto tra le sponde di questo mare, troppo piccolo per
separare e troppo grande per unificare, in maniera certo ambigua, ma senz’altro e
paradossalmente (vedi la mitologia delle Crociate, ad esempio) più equilibrata, con il Seicento il
prevalere dell’Eurocentrismo e del Colonialismo ha fatto sentire maggiormente i suoi effetti sulla
ricezione di quello che sempre più si è trasformato, nel bene e nel male, nel mito orientale, in
musica come in altri campi. Così il caso di Charles Fonton nel tentativo (vano) di convincere i
suoi contemporanei che il gusto musicale non è completamente mancante tra le nazioni
barbare e che il gusto è individuale e tipico di ciascun popolo come è universale per tutti
costituirà un tema cui si dedicheranno diversi altri europei nei due secoli successivi. Anche se i
primi etnomusicologi erano interessati nel dare e darsi un’immagine della musica degli “altri”,
sia come mezzo per estendere un’egemonia politica e sociale, sia come tentativo di scoprirne
origini comuni alla “nostra”.
Del resto la tendenza della Musicologia Comparata a imporre nozioni metodologiche
scientifiche di origine europea a pratiche musicali non Occidentali ha finito con il promuovere un
approccio etico allo studio della musica che ha prodotto un falso “comparativismo”; nondimeno
approcci di matrice positivistica che hanno le loro radici nella teorizzazione adleriana della
Musikwissenschaft si dimostrano essere quantitativamente dominanti ancora nelle pubblicazioni
musicologiche correnti.
Si diceva dell’importanza del Mediterraneo. I moderni studi sull’alterità musicale prendono il
via dal Mediterraneo. Storicamente molte delle rappresentazioni più tenaci, persuasive e
distruttive che l’Occidente abbia ereditato dal passato furono generate in questo ambito
geografico che è stato insieme “melting pot” e campo di battaglia culturale e ideologico.
23
Crf. H. Schirmann (a cura di), Romanelli’s Selected Writings, Jerusalem, Mosad Bialik, 1969, p. 29; citato in: A. Shiloah,
Music in the World of Islam: a socio-cultural study, Aldershot, Scolar Press, 1995, p.139 e da qui tradotto.
24
E.W. Lane, An Account of the Manner and Customs of the Modern Egyptians, London, 1860(5), p. 384.
La particolare situazione del Mediterraneo dove la combinazione di testimonianze scritte e14
di
un mondo contemporaneo in cui il passato viene costantemente evocato, ha dato la possibilità
di analizzare le relazioni tra i concetti di tempo, di potere politico e di organizzazione della
memoria, anche attraverso quel privilegiato sistema di rappresentazione, in quanto
organizzatore di identità, che è la musica sia attraverso la sua storia scritta che orale. Nozioni
pluralistiche e confliggenti di tempo e di storia non sono patrimonio esclusivo delle genti del
Mediterraneo, tuttavia qui esse sembrano essere particolarmente e pericolosamente
concentrate in quest’area “due to the sheer profusion of the raw materials from which histories
can be made, and the ideological imperatives of colonial and nationalist research”.25
Le storie delle musiche che hanno preso corpo nel Mediterraneo potrebbero esser criticate in
quanto hanno cancellato, deliberatamente, caratteristiche comuni nella loro cancellazione del
tempo e della geografia. Peraltro il Mediterraneo, a causa delle sue caratteristiche storiche di
“Identità” e “Diversità”, continua a portare alla superficie molti dei problemi principali che
investono l’antropologia musicale. Son state fornite importanti proposte per un riesame critico
dei predicati che storicamente si son focalizzati su una delle culture musicali del Mediterraneo,
quella ebraica, rilevando come il mito della musica ebraica, quale ponte immutabile tra l’Antico
e il Moderno sia stato accettato e diffuso da ebrei come da non-ebrei. In una “geografia
dell’incontro” fuori del comune, Philip Bohlman analizza “i modi in cui (e attraverso i quali) l’altro
Mediterraneo è stato rimosso dal tempo e dalla storia”.26 La musica ebraica ha così acquistato
un ruolo unico sia di interno sia di esterno e una doppia identità sia come “sé” sia come “Altro”
nei predicati storici sulla musica.
Il Mediterraneo – una zona geografica e sociologica di interazione intensa e di lunga durata
e di palese vocazione alla diaspora – costituisce la cartina al tornasole ideale per studiare i
processi di adattamento e intesa, appropriamento e modificazione che rappresentano fatti di
particolare importanza per la creatività sociale umana. Metaforicamente, la diaspora
rappresenta la sintesi etnografica e storica delle diverse storie e antropologie musicali
intrinseche al Mediterraneo e, fatto ancor più importante, le rappresentazioni della diaspora
pongono il Mediterraneo, tanto storicamente quanto etnograficamente, nel quadro dinamico
della storia del mondo, inserendolo in una rete di dati storici collegati per quanto contradditori.
Sviluppandosi come emigrazione ed immigrazione, la diaspora odierna (ovvero i flussi
migratori più o meno seguiti da periodi lunghi di stanzialità) ridefinisce i contorni fra il “Sé” e l’
“Altro” determinati dai criteri di verifica moderni per la definizione dell'identità. La storia indica
che “le culture in diaspora hanno spartito più tra loro di quanto non abbiano fatto con
l’Europa”.27 La musica – una metafora potente e una concretizzazione fisica del border25
Cfr. Martin Stokes, “ Meeting”s Report", in: T. Magrini e M. Stokes (a cura di), Past and Present: Perspectives for the
Anthropology of Mediterranean Music, Meeting of the Study Group on 'Anthropology of Music in Mediterranean Cultures',
International Council for Traditional Music/Fondazione Levi, 1-3 Giugno, 1995, Music and Anthropology (1),
(http://muspe1.cirfid.unibo.it/).
26
Cfr., Stokes, op.cit. e Philip Bolhman “La riscoperta del Mediterraneo nella musica ebraica: Il discorso dell’ “altro” nell’
Etnomusicologia dell’Europa”, in: T. Magrini (a cura di), Antropologia della musica e culture mediterranee, Bologna, Il Mulino,
1993, pp. 107 -124.
27 Philip Bolhman, “Music, Myth, and History in the Mediterranean: Diaspora and the Return to Modernity”, in: Ethnomusicology
OnLine, 1997 (3), (http://research.umbc.edu/efhm).
15
crossing fra Identità e Diversità – ha avuto ed ha un ruolo significativo nella traduzione delle
descrizioni (o dei dati storici) delle differenti Comunità diasporiche in esperienze condivisibili se
non proprio comuni.
Gli etnomusicologi prendono solo oggi atto di come le musiche delle culture contemporanee
in diaspora invariabilmente eludono i confini, si mescolano e creano tradizioni ibride: sicuro
segno di tendenze osmotiche tra “Identità” e “Diversità”.
La moderna etnomusicologia (così come l’antropologia musicale e financo la sociologia della
musica) ha insieme la responsabilità e il dovere, per seguire il suggerimento di Piera Sarasini, 28
di ricordare al pubblico, ai cittadini dell’Est come dell’Ovest che queste narrazioni vengon
codificate in musica oltre il tempo, oltre lo spazio della singola cultura tradizionalmente intesa. 29
28
Cfr. P. Sarasini, How are representations of musical "others" historically and politically implicated?, Belfast,
Queen’s University, 1998 (http://www.geocities.com/College Park/Quad/2271/OTHER.HTM): “are meant to reveal at least some
of the richness and emotional power of music as a means of conceiving of and experiencing time, history and place. Modern
ethnomusicology is thus presented with the responsibility – and duty – to remind humankind of those narratives – often of
unity, and frequently omitted in historical accounts – codified in musics over time and space.”
29
Com’è apparso evidente non ci si è soffermati su questioni importanti per gli esiti pratici del discorso musicale come la
rivisitazione dei concetti di Esotismo ed Orientalismo da parte dei musicisti attivi dal XVIII secolo in avanti, sia nel versante più
accademico della musica colta che in zone border-line. Si è voluto qui privilegiare l’aspetto teoretico, l’idea di musica,
l’immaginario musicale visto e “parlato” dall’esterno in quanto tematiche assai meno frequentate dalla pubblicistica come dalla
musicologia. Per la questione della presenza dell’esotismo nello stile musicale occidentale si rimanda, alla vasta letteratura in
merito e, a solo titolo d’esempio, ai saggi di Derek B. Scott (D. B. Scott, “Orientalism and Musical Style,” in Critical Musicology
Journal A Virtual Journal on the Internet, Dept. of Music, University of Leeds, http://www.leeds.ac.uk/music/Info/CMJ/cmj.html.)
e di Kairos G. Llobrera (K. G. Llobrera, “Orientalism and Exoticism in Music”, in Boundaries and Borderlands,
http://www.oxy.edu/~llobrera/musclogy.htm)