mediatori del sacro e del politico - lettere.uniroma1.it

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medIatorI deL Sacro e deL poLItIco tra memorIa e poStmodernItà
Premessa
la categoria di operatori del sacro evoca immediatamente la rappresentazione di sacerdoti, guaritori, veggenti e persino stregoni, comunque manipolatori di oggetti e/o
parole sacre, impegnati in rituali pubblici o privati, all’interno di contesti in cui sono
implicate entità spirituali sovraordinate rispetto agli umani. Tuttavia, la sfera politica,
e non solo quella religiosa, ci offre figure di rilievo pubblico che in vari modi incarnano, interpretano e manipolano il sacro, producendo a volte manifestazioni di carattere prodigioso, figure di cui sia l’antropologia che la storia si sono molto occupate,
dai re medievali che guarivano dalle scrofole imponendo le mani1, ai cosiddetti re divini o capri espiatori dell’africa2, alla regalità sacra dell’oceania3. l’accostamento
di sacro e politico non è, dunque, insolito, ma il tema che vogliamo presentare qui
presume che queste due categorie possano definirsi sulla base di una implicazione
reciproca. intendiamo, cioè, porre il problema di come sacro e politico possano insieme dotarsi di senso e legittimarsi. Questo presuppone una prospettiva che non è
tanto (o soltanto) quella della perpetuazione politicamente saliente di una funzione
sacra della cosiddetta tradizione, ovvero quella della riscoperta della tradizione e della
sua sacralità in una chiave politica, quanto piuttosto quella di una nuova dimensione
sacra del politico e, insieme, di una inedita dimensione politica del sacro. Questa operazione di duplice valore, su cui vogliamo riflettere, è compiuta da personaggi di rilevante caratura sociale e simbolica che si propongono come interpreti di un nuovo
modo di declinare la sacralità tradizionale del politico e, al tempo stesso, l’ineludibile
valenza politica del sacro. Costoro si dimostrano capaci di operare una costante mediazione tra queste due sfere e incarnare, reinterpretandoli, processi storici di profonda
trasformazione delle rispettive società.
in questo contributo, ci limiteremo a introdurre il tema su cui stiamo lavorando e che
riguarda alcuni particolari agenti sociali appartenenti a contesti molto diversi tra loro:
il ghana postcoloniale, con riferimento all’area akan studiata da Mariano Pavanello,
e i Pays d’Outre-Mer francesi in oceania, con riferimento alle isole della società
(Polinesia francese), terreno di ricerca di Matteo aria. Questi agenti sociali sono, in
ghana, i rappresentanti del potere tradizionale, la chieftaincy, investiti di funzioni ri-
vedi BloCh 1973, per non parlare dei sovrani di natura divina dell’antichità, o le figure simbolicamente
regali protagoniste di rituali cruenti come il “re del bosco di nemi” (Frazer 1965 [1922]).
2
heusCh de 1972, id. 1982; MCCaskie 1995; Muller 1980; siMonse 1992; TardiTs 1990.
3
vedi goldMan 1970; kirCh 2010; lindsTroM, WhiTe 1997; MarCus 1989; oliver 1974; ThoMas
1994; valeri 1985. Merita inoltre segnalare la recente analisi di kirch (kirCh 2010) sulla affermazione
della regalità divina alle hawaii come elemento centrale che segnò il passaggio dal chiefdom allo stato
arcaico. un insieme di condizioni demografiche, economiche, sociali e ideologiche permisero prima
dell’arrivo degli europei la trasformazione di un sistema fondato sui capi, che all’apice di un clan conico
rivendicavano di essere discendenti degli dei, a una regalità divina come classe endogamica separata.
1
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tuali e, al tempo stesso, fortemente proiettati nella dimensione politico-economica
dello “sviluppo”; nella Polinesia francese, alcuni personaggi pubblicamente riconosciuti per la loro capacità di rielaborare la memoria culturale e la tradizione, e protagonisti delle rivendicazioni culturali e politiche che, a partire dagli anni ottanta, si
sono diffuse in quelle isole del Pacifico meridionale. intendiamo quindi soffermare
lo sguardo su due tipi di operatori molto particolari: da una parte i titolari di posizioni
di autorità “tradizionale” che mantengono forti elementi di sacralità; dall’altra quegli
attori locali impegnati a recuperare “tradizioni” ufficialmente perdute e reinterpretandole in contesti di rilevanti istanze politiche fortemente commiste di sacralità. entrambi si caratterizzano per la capacità carismatica di mediare tra due dimensioni forti
della vita sociale, il politico e il sacro, e tra due condizioni della fruizione simbolica
della cultura: la memoria, come campo di gestione conflittuale della storia, del patrimonio e della terra, e la sua proiezione nel presente e nel futuro in una chiave decisamente politica. si tratta di differenti capacità carismatiche in cui sono in gioco, nei
capi tradizionali akan, un potere magico intrinseco al potere politico4; nei rielaboratori polinesiani della tradizione, invece, un forte carisma politico capace di richiamare
le arcaiche strutture magiche del potere. in entrambi i casi, l’abilità a muoversi tra le
due dimensioni mette in scena un potere carismatico che si avvicina molto alla categoria weberiana. nelle funzioni che questi mediatori svolgono − i primi per una sorta
di mandato legato alla supposta legittimità della loro posizione di potere; i secondi,
in virtù di particolarissime qualità che vengono loro riconosciute secondo specifici
processi di costruzione politica dell’identità – si condensano “in una sola volta, e di
colpo”, usando la felice espressione maussiana del “fatto sociale totale”, autenticità
e inautenticità delle tradizioni che incarnano; verità e finzione del potere che esercitano; realtà e irrealtà del potere magico delle operazioni sacrali e simboliche che, soli,
hanno il potere e il dovere di compiere; verità e non verità della memoria storica di
cui sono depositari ufficiali e su cui si fonda la loro legittimità, mettendo chiaramente
in evidenza il ruolo creativo e generativo della tradizione.
Il Ghana: una repubblica di re quasi sacri
la chieftaincy akan rappresenta un caso molto particolare nella vicenda storica dei
poteri tradizionali in africa che, manipolati e disarticolati durante la fase coloniale,
e poi combattuti dai movimenti di indipendenza e dai governi immediatamente postcoloniali, stanno vivendo dalla fine degli anni ’80 del novecento un periodo di reviviscenza straordinaria in quasi tutta l’africa subsahariana5. in questo processo, la
chieftaincy ghanese ha costituito una sorta di modello anche per altri contesti africani.
la presenza di poteri occulti o soprannaturali in titolari di cariche politiche è un tema molto presente
nella letteratura etnologica, e sul carisma connesso al potere magico-politico, vedi anche durkheiM
2005 [1912].
5
vedi PerroT, Fauvelle-ayMar 2003; valseCChi 2006.
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Protagonista della politica coloniale di indirect rule, la chieftaincy ha sempre rappresentato uno degli elementi fondamentali del processo costituzionale del ghana moderno6, fin dalla Commissione Coussey che, negli anni ’50, preparò la base della carta
costituzionale per l’indipendenza della Gold Coast7. nella storia tardo-coloniale e
postcoloniale della chieftaincy in ghana, la retorica del discorso politico ha mirato a
dare l’immagine del potere tradizionale come di una istituzione dotata di un carattere
sacro e risalente al passato precoloniale, dunque un’istituzione puramente indigena
che il colonialismo aveva corrotto. la volontà politica che traspariva da questa retorica, soprattutto all’inizio degli anni ’90 con l’adozione dell’ultima costituzione democratica, era indirizzata a salvaguardare le prerogative e i presunti caratteri
precoloniali della chieftaincy, adottando tutte le necessarie misure a proteggerla dalle
ingerenze del governo, contrariamente al modello dominante durante il periodo coloniale e nei primi anni del ghana indipendente, sotto il regime di nkrumah. si tratta
di un discorso che affonda le proprie radici nell’esigenza di creare un passato perfettamente funzionale alla costruzione del presente. la salvaguardia della chieftaincy e
della sua immagine precoloniale va certamente nella direzione del rafforzamento di
una duplice appartenenza nazionale, ghanese e africana, di cui le identità locali e particolaristiche, che prima venivano bollate come tribalismi, non erano che strumenti e
complementi. si comprende quindi come le scelte concretamente operate nel testo
costituzionale, in termini di definizioni di principio, di procedure e funzioni, siano
tutte orientate verso questa visione della chieftaincy in quanto “bed-rock of stability
in our national life8”, secondo le parole dello storico e antropologo kwame arhin,
membro dell’assemblea costituente e capo tradizionale egli stesso. l’idea di una
chieftaincy al di sopra delle divisioni politiche incarnate dai partiti, e che dunque si
propone come un pilastro morale dell’unità nazionale (“the very fabric of the Ghanaian society9”), ben si combina con l’idea del suo carattere sacro. È per questi motivi
che l’ultima Costituzione del ghana del 1992, nel cap. XXii, ribadisce il divieto ai
capi tradizionali di essere candidati nelle elezioni sia politiche che amministrative.
Tuttavia, i poteri e le prerogative che la Costituzione garantisce alle autorità tradizionali fanno della chieftaincy un corpo istituzionale autonomo e autoreferenziale,
un quarto potere praticamente indipendente oltre i classici tre poteri del moderno
stato di diritto (legislativo, esecutivo e giudiziario). la chieftaincy dispone di propri
organi rappresentativi, le camere regionali e la camera nazionale dei Capi (Houses of
Chiefs), esercita la giustizia consuetudinaria, ha giurisdizione sui casi relativi a dispute
interne alla chieftaincy stessa, ed esercita un diritto allodiale primario sulla maggior
parte del territorio del paese (le stool lands10). Queste caratteristiche costituzionali
vedi odoTei, aWedoBa 2006; Pavanello 2003; id. 2007; raThBone 2000.
il ghana ottenne l’indipendenza il 6 marzo 1957 come paese membro del Commonwealth dal quale
uscì nel 1960 trasformandosi in repubblica. le vicissitudini politiche e istituzionali del ghana videro
susseguirsi svariati regimi, sia militari che democratici, e ben quattro carte costituzionali di cui l’ultima,
varata nel 1992, sancì la forma presidenziale della repubblica del ghana ed è tuttora in vigore.
8
Proceedings of the Consultative assembly, n. 77, col. 2671.
9
Proceedings of the Consultative assembly, n. 76, col. 2564 (intervento di saM BoaTeng).
10
vedi arhin 1985, id. 2002; Pavanello 2003; id. 2007.
6
7
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della chieftaincy impongono ai capi tradizionali un ruolo fondamentalmente ambiguo.
non potendo, infatti, agire apertamente nell’agone politico, ma non potendo neppure
limitarsi alla sola performance dei rituali connessi alle antiche pratiche del potere,
esprime le proprie potenzialità in forme che comunque organizzano e canalizzano il
consenso11. sempre più spesso vengono scelti, per la successione ereditaria sui seggi,
individui dotati di elevata istruzione e professionalmente impegnati in posizioni di
rilevante interesse pubblico. gli amanhene12 sono generalmente selezionati tra i membri dei lignaggi reali che occupano posti importanti nella dirigenza della pubblica
amministrazione o nell’economia. scendendo nella gerarchia del potere tradizionale,
gli ahene e gli adikro13, subordinati agli amanhene, sono in numero crescente selezionati tra gli insegnanti e coloro che esercitano professioni liberali. le funzioni statutarie obbligano i capi a sovraintendere a una serie di aspetti della vita pubblica delle
traditional areas i cui sudditi14 maturano delle aspettative forti nei loro confronti, al
punto che molti capi tradizionali rischiano di vedersi sottoporre alla procedura della
destituzione, prevista dalla Costituzione e dalla legge, se non rispondono a queste
aspettative in modo adeguato. le popolazioni si aspettano che i loro capi si adoperino
per favorire lo sviluppo economico delle aree rurali, il miglioramento e l’ammodernamento delle infrastrutture e dei servizi, interagendo positivamente con i rappresentanti politici e governativi locali e nazionali. l’autorità dei capi tradizionali acquista
così un valore morale molto forte che si accompagna alle loro prerogative sul piano
civile (controllo della terra) e rituale (controllo del tempo ciclico e del sapere storico
locale che si esercita nei grandi rituali pubblici).
in un recente lavoro15, arhin e Pavanello hanno esaminato i casi di quattro amanhene
di altrettante importanti aree tradizionali per illustrare il coinvolgimento dei capi nei
processi di sviluppo socio-economico del ghana. nel 2005, i due autori realizzarono
“Political engineering by the colonial authorities and governments of independent Ghana has left the
institution of chieftaincy with two sets of functions. the first one, defined in the first, second and third
Constitutions of the Republic of Ghana, may be described as statutory and has to do with the settlement
of chieftaincy disputes and the codification of customary laws in their various regions with a view to
their eventual unification. the second set of functions, which may be defined as non-statutory, is derived
from their customary authority. this is to fill in the space in socio-economic development left by the
central and local government agencies. […] Non-statutory functions are those that are carried over
from the past, most of them in modified forms. the first of these is political; through a traditional ruler,
otherwise unrelated groups in a settlement or groups of settlements are united into an organized force
for collective action.» (arhin, Pavanello 2006, pp. 6, 24).
12
Plurale di ɔmanhene, capo supremo di un’area tradizionale (corrispondente generalmente al territorio
di un antico stato precoloniale).
13
Plurale di ɔhene e di ɔdikro, rispettivamente capo di una divisione territoriale e capo di un villaggio.
14
la Costituzione stessa del ghana stabilisce una sorta di equivalenza tra lo statuto di citizen, cittadino
dello stato di diritto, e quello di subject, suddito di un Capo tradizionale: tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, ma quando si trovano ad agire all’interno della loro area tradizionale devono obbedienza
alle norme consuetudinarie che sono interpretate dall’autorità del Capo assumendo quindi la veste di
sudditi (v. arhin 1985, id. 2002; odoTei, aWedoBa 2006; Pavanello 2003, id. 2007; vedi anche MaMdani 1996).
15
arhin, Pavanello 2006.
11
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lunghe interviste con nana otuo sereboɔ ii, capo supremo dell’area Juaben, nella regione ashanti16, osaagyefoɔ oseadeɛyo agyeman Badu ii, capo supremo dell’area
dormaa, nella regione Brong ahafo17, nana Barima kwame nkyi Xii, capo supremo
dell’assin apimanim, nella regione Centrale18, e, infine, osaagyefoɔ amoatia ofori
Panin capo supremo dell’akyem abuakwa, nella regione orientale19. nana otuo sereboɔ ii ha sviluppato a Juaben un programma di sfruttamento delle terre nell’area
tradizionale Juaben per la coltivazione della palma da olio (elaeis guineense), realizzando un grande impianto industriale per l’estrazione dell’olio e stabilendo un accordo con i coltivatori per l’acquisto del loro prodotto. egli ha così promosso
un’agricoltura più razionale ed efficiente nel suo territorio, creando un importante e
immediato sbocco di mercato per il prodotto della coltivazione della palma riducendo
notevolmente la dipendenza dei contadini locali da quella che era un tempo la monocoltura del cacao. oseadeɛyo osaagyefoɔ agyeman Badu ii si è impegnato a dormaa
ahenkro nella rivitalizzazione di un’antica fabbrica per la manifattura dei mattoni
per creare posti di lavoro per la sua gente, oltre che per facilitare la costruzione di
abitazioni a costi inferiori in tutta l’area tradizionale e nelle aree circostanti. nana
Barima kwame nkyi Xii ha realizzato svariati progetti tra cui il più interessante è
senza dubbio un mausoleo della rotta schiavista in cui ha coinvolto la diaspora africana, e particolarmente gli afroamericani degli stati uniti. la sua città, assin Manso,
situata a qualche decina di chilometri a nord di Cape Coast, lungo la carrozzabile che
collega questo importante centro costiero con kumasi, fu storicamente un importante
punto di sosta delle carovane di schiavi che venivano portate dal nord verso la costa.
in questi spostamenti a piedi, gli schiavi dovevano trascorrere le notti, lavarsi e rifocillarsi al sicuro. la dinastia al potere ad assin Manso garantiva uno di questi luoghi
che costituiva l’ultimo punto di sosta nell’itinerario verso Cape Coast. nel mausoleo
hanno trovato sepoltura finale anche i resti di due schiavi le cui spoglie furono riportate in africa all’inizio degli anni ’9020. il luogo è diventato non solo meta di pellegrinaggio soprattutto da parte degli afroamericani, oltre che di flussi turistici di
importante consistenza, ma si è anche trasformato in un simbolo della diaspora africana e punto di riferimento di attività culturali, scientifiche e politiche capaci di attrarre finanziamenti. infine, osaagyefoɔ amoatia ofori Panin è stato protagonista,
insieme al Consiglio tradizionale dei suoi capi subordinati di un’importante battaglia
16
Nana è il titolo che si usa per i capi tradizionali. Juaben è una delle aree tradizionali della regione
ashanti (l’omonima città capitale dell’area conta circa 12.000 abitanti).
1
Osaagyefoɔ, “vincitore in battaglia”, è un titolo che viene riconosciuto in ghana a coloro che si sono
particolarmente distinti in grandi battaglie militari o civili. di questo titolo fu insignito kwame nkrumah.
dormaa è una delle aree tradizionali della regione Brong ahafo ed è storicamente un insediamento akwamu (la capitale, dormaa ahenkro, conta circa 24.000 abitanti).
18
assin Manso, capitale dell’assin apimanim (Central region), conta circa 2500 abitanti.
19
kyebi, capitale dell’akyem abuakwa (eastern region), ha oltre 10.000 abitanti.
20
la traslazione di queste due salme avvenne in occasione di un grande evento da cui ha preso le mosse
la celebrazione periodica a Cape Coast di un festival panafricano e del cosiddetto emancipation Day.
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per la protezione e la conservazione ambientale delle foreste dell’akyem abuakwa.
nell’analisi delle attività di questi quattro capi tradizionali, i due autori hanno voluto
mettere in evidenza i processi di trasformazione nel ruolo dei capi e l’adattamento
dell’istituzione della chieftaincy alle sfide della modernità. Ciò che, tuttavia, emerge
con particolare rilievo, è la capacità di questi esponenti di spicco del potere tradizionale di realizzare una straordinaria opera di mediazione tra il carattere e i contenuti
sacrali della tradizione affidata alla loro custodia e i più diversi obiettivi di natura politica ed economica.
È evidente che la trasformazione in senso democratico e la crescente secolarizzazione
della società ghanese avrebbero avuto un forte impatto negativo sull’istituzione della
chieftaincy, se questa non avesse saputo reinterpretare il proprio ruolo in modo originale. una manifestazione estremamente significativa si coglie nel vistoso processo
di trasformazione dei festival che caratterizzano periodicamente le aree tradizionali.
È un processo che risponde a logiche di coinvolgimento istituzionale delle autorità
tradizionali nei meccanismi politico-amministrativi dello stato post-coloniale21. Come
si armonizzi il divieto costituzionale per i capi di partecipazione alla lotta politica
con la loro generale attitudine a coinvolgersi pesantemente nei processi politico-economici dello sviluppo è forse spiegabile proprio attraverso la particolarissima posizione istituzionale della chieftaincy, e si rivela appieno nelle performance dei
festival22. nel passato, questi erano visti come occasioni di comunione tra i viventi e
gli spiriti invisibili ritenuti i custodi del benessere della popolazione. la diffusione
del Cristianesimo e dell’islam, insieme al mutamento culturale ed economico conseguente al colonialismo e all’indipendenza, hanno decisamente influenzato i festival
tradizionali che hanno progressivamente perduto il loro significato originario. Benché
gli antichi rituali vengano tuttora celebrati, le grandi feste popolari si sono trasformate
in strumenti di modernizzazione. gli amanhene, capi supremi delle comunità politiche
tradizionali, invitano sempre più spesso personalità governative, membri del Parlamento, autorità amministrative locali, ambasciatori di paesi amici, insieme a importanti cittadini stranieri, a partecipare ai momenti culminanti con lo scopo di attrarre
finanziamenti per le necessità e gli obiettivi di sviluppo delle loro aree. di solito, i
festival si concludono con grandi raduni pubblici (durbar) in cui le autorità tradizio“annual festivals, old, revived and newly invented, have become public relations exercises. they bring
together the «home boys», resident in other parts of the country and the world outside Ghana, local
and central government officials, ambassadors, high commissioners, and representatives of development-inclined agencies. On these occasions, traditional rulers inform the assemblies of the facilities
they need for the development of the local community: water, schools, clinics or health posts, modern
places of convenience, electricity and roads. a ruler who assiduously holds such meetings and succeeds
in attracting support for development is acclaimed as a «progressive» ruler”. (arhin, Pavanello 2006,
p. 24).
22
nelle diverse aree tradizionali del ghana vengono realizzati complessivamente ogni anno oltre ottanta
festival, molti dei quali sono versioni locali di una grande festa di capodanno che anticamente celebrava
il raccolto (particolarmente degli ignami) e l’inizio del nuovo ciclo agrario, tra cui le varie edizioni locali
dell’odwira, la grande festa ashanti, o il kundum degli ahanta e degli nzema (v. a rhin, Pavanello
2012). Per l’analisi dei caratteri della grande festa di capodanno, v. lanTernari 1959.
21
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nali fanno grande sfoggio di sé in forme spesso assai attraenti sotto il profilo folklorico. Con l’occasione, gli ospiti vengono invitati a esprimersi sulle questioni che
stanno a cuore ai capi tradizionali e alla loro gente. Così, i moderni festival si trasformano in grandiosi esercizi di relazioni pubbliche e di lobbying in cui gli amanhene e
gli esponenti politici invitati discutono problemi di sviluppo sociale ed economico di
grande rilevanza per le popolazioni interessate23.
l’aspetto che, in particolare, qui ci interessa affrontare è la capacità di questi agenti
sociali, rappresentati dai capi tradizionali, di trasformare in potere politico la loro
funzione sacra, con il suo carico di relazione con gli antenati, la storia e la terra, e di
ricondurre il consenso politico così costruito al rafforzamento della condizione sacrale
del loro status. Concluderemo questa parte, presentando il caso dell’ɔmanhene del
Jomoro (Western Nzema)24, awulae annor adjaye iii, che siede dal 1990 sul seggio
grande (ebia kpolε) di Beyin25. il kundum, o abisa, si svolge normalmente durante
l’ultima settimana di ottobre e la testimonianza più antica di cui disponiamo è quella
del viaggiatore e commerciante olandese Willem Bosman26. il tempo del festival rappresenta una sospensione delle regole normali: i tamburi parlanti, voce del potere,
tacciono e il loro posto è preso dal grande tamburo del kundum e dagli altri tamburi
che suonano la musica popolare che porta lo stesso nome del festival e danno il ritmo
della danza. si tratta di un periodo di sovvertimento simbolico dell’ordine sociale:
gli uomini si vestono da donna e viceversa; i bambini si improvvisano titolari di autorità e comandano agli adulti; il re, ornato di un’umile corona di foglie, viene più
volte simbolicamente dileggiato in pubblico dai suoi sudditi, in un contesto di grande
autenticità tradizionale (fig. 1). il kundum è un periodo in cui è possibile rinfacciarsi
reciprocamente e pubblicamente i torti, reali o presunti, subiti durante l’anno. il popolo, in particolare, può rinfacciare al re tutti i misfatti da questi presuntamente compiuti ai danni dei sudditi. il periodo festivo, caratterizzato ogni giorno da alcuni
particolari momenti rituali che qui non possiamo descrivere, si conclude il settimo
giorno con una grande processione in cui il re viene innalzato di nuovo con tutti i
suoi attributi regali nella celebrazione della rinascita del potere. il capo supremo riproduce così simbolicamente le condizioni della vita sociale mediante la benedizione
della terra e del mare, attraverso l’uso di una medicina sacra, ed è successivamente
portato in trionfo nel luogo in cui viene celebrato il durbar, cioè il grande raduno di
capi subordinati, popolo e invitati. in questo festival, l’autorità tradizionale incarna
il simbolo della perpetuazione della vita sociale attraverso il rapporto diretto con gli
vedi arhin, Pavanello 2012.
l’area propriamente nzema è divisa in due distretti (Jomoro a ovest, ed elemgbenle a est) corrispondenti ai due regni nzema precoloniali che si divisero nel 1851 dopo la morte dell’ultimo re unitario,
kaku aka. i due stati nzema hanno come capitali tradizionali (sedi dei due amanhene) rispettivamente
Beyin e atuabo, due villaggi costieri poco distanti tra loro.
25
Mariano Pavanello ha svolto ricerca etnografica nell’area nzema dal 1989 al 2011 e ha stretto un rapporto molto forte di amicizia e collaborazione con questo personaggio.
26
vedi BosMan 1705 (la descrizione del festival si riferisce alla città di axim e si trova nella lettera X,
alle pp. 158-159 dell’edizione anastatica del 1967).
23
24
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antenati, gli spiriti ancestrali e la terra, simbolicamente connessa a una figura divina
(azɛlɛ, la terra, sorella e sposa di Nyamenle, il cielo). il re è il padrone della terra
(azɛlɛ menle) che, purificato dal lavacro degli insulti dei suoi sudditi, riemerge con
la potenza che gli conferiscono i suoi antenati e lo spirito del seggio (ebia bozonle).
il luogo del durbar è un grande spiazzo tra il suakunlu (palazzo del capo, letteralmente
“utero della città”) e l’edificio di Fort apollonia, piccolo fortilizio costruito dagli inglesi nella seconda metà del settecento (v. fig. 2). Questo forte − che dagli anni ’60
e fino al 2002 funzionò da guest house per i turisti e per gli etnologi italiani − è stato
oggetto di un programma di restauro e musealizzazione realizzato tra il 2008 e il
2010. il progetto, promosso già dal 1998 da M. Pavanello, è stato realizzato con il
contributo finanziario del Ministero degli esteri italiano e di altri donatori. l’intervento, coordinato da una organizzazione non governativa italiana (il Cospe di Firenze), si è concluso con l’inaugurazione, il 30 ottobre 2010, del museo allestito nei
locali del restaurato Fort apollonia. il Fort apollonia Museum27 espone in massima
parte i risultati del lavoro cinquantennale della Missione etnologica italiana fondata
da vinigi l. grottanelli negli anni ’50. l’ideazione e la progettazione del museo è
stata condotta attraverso un costante collegamento con il potere tradizionale, cioè sia
con il re che con i suoi capi subordinati, membri del traditional Council. si è trattato,
in definitiva, di un esperimento di patrimonializzazione condivisa, o “partecipata”
come forse è più corretto dire28. in questo processo, una delle questioni che si è posta
è stata quella della storia. la documentazione di origine coloniale che riguarda l’area
nzema ha riempito un certo spazio negli archivi europei (a londra, amsterdam e altrove) e ghanesi (nell’archivio centrale di accra e in quello regionale di sekondi).
sulla scorta di questa documentazione è stata realizzata una storiografia dello
nzema29 che, nelle sue linee essenziali, coincide solo in parte con la memoria storica
trasmessa oralmente e, talora, custodita in resoconti scritti da esponenti passati del
potere tradizionale, conservati negli archivi privati delle famiglie dei seggi. una ragguardevole massa di documenti, che risalgono al massimo alla prima metà del novecento, è infatti in possesso dei seggi, e soprattutto dei seggi principali, e risulta solo
parzialmente utilizzabile a fini storiografici. Tra questi documenti, una categoria di
particolare interesse è costituita dai verbali delle sedute dei panel giudiziari nominati
dai traditional Councils e incaricati di arbitrare le dispute interne alla chieftaincy
(sui confini e sulla proprietà dei seggi). in questi verbali sono riportate le testimonianze di personaggi appartenenti alle famiglie dei vari seggi che espongono la memoria storica trasmessa all’interno dei lignaggi, memoria che ha il valore di prova
la denominazione completa è: Fort apollonia Museum of the Nzema Culture and History dedicated
to Osaagyefoɔ Dr. Kwame Nkrumah. la progettazione e l’allestimento di questo museo sono stati a cura
della Missione etnologica italiana in ghana, diretta da M. Pavanello, con la partecipazione di M. aria,
M. Cristofano e s. Maltese, insieme ad altri e, particolarmente, con la collaborazione di un importante
gruppo di operatori locali.
28
vedi aria, CrisToFano, MalTese 2011.
29
vedi BaesJou 1988, id. 1998; valseCChi 2002.
27
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giudiziaria. Questo patrimonio di conoscenza storica orale è essenziale per ricostruire
sia la storia del popolamento dell’area, sia la storia dei singoli seggi, ma si tratta di
un patrimonio mantenuto gelosamente segreto (cosa che ovviamente contrasta con
la natura eminentemente pubblica dei documenti in questione30). le dispute sono,
nella maggior parte, in atto da generazioni e non è possibile immaginare se e quando
saranno definitivamente chiuse31. in molti casi, anche in presenza di sentenze della
suprema Corte della repubblica del ghana, molte liti sono riprese a livello di traditional Council, cioè al primo e più elementare livello giurisdizionale, sulla scorta di
elementi presuntamente nuovi. È attualmente in atto un contenzioso particolarmente
rilevante che investe direttamente la legittimità dei poteri tradizionali dei due stati
nzema (Western nzema, Jomoro; eastern nzema, elemgbenle) sorti dopo la morte,
nel 1851, dell’ultimo re unitario, kaku aka. un presunto discendente di quest’ultimo
è stato recentemente intronizzato col nome di kaku aka ii pretendente allo storico
seggio del suo antenato. le possibilità giuridiche di costui di essere riconosciuto come
unico legittimo titolare del seggio unitario sono molto esili, ma i due attuali seggi
principali di Beyin e atuabo sono fortemente impegnati in una battaglia legale contro
colui che accusano di essere un impostore. l’attuale ɔmanhene di elemgbenle, intronizzato poco meno di due anni fa, ha assunto il nome rituale di amihyia kpanyinli
ii, implicitamente asserendo una discendenza lineare dal più famoso amihyia kpanyinli, il re che concesse agli inglesi nella seconda metà del Xviii secolo il terreno
per costruire Fort apollonia. È alquanto dubbio che si possa confermare il legame
genealogico tra i due, ma è evidente come questa scelta sia funzionale all’attuale lotta
per il potere nell’area, in un momento in cui un potenziale rivale rivendica la sua discendenza dal re kaku aka vissuto nella prima metà del XiX secolo. Così come è
strumentale ai fini di questa battaglia legale, l’asserita comunione di carne e ossa
(cioè di parentela matrilinea32) tra i due amanhene di Beyin e atuabo, finalizzata a
stabilirne la comune discendenza proprio dal mitico re amihyia kpanyinli, quando
ancora nel ventesimo secolo i loro più recenti antenati si disputavano il confine tra i
due regni in modi piuttosto cruenti, e ciascuno dei due rivendicava a sé la legittimità
di entrambi i seggi. e, infine, c’è da osservare che, mentre i documenti europei attestano l’esistenza di questo re amihyia kpanyinli nel Xviii secolo, l’ɔmanhene di
Jomoro, annor adjaye i (prozio dell’attuale annor adjaye iii), in un libro da lui
scritto e pubblicato a londra nel 1931 afferma che amihyia kpanyinli avrebbe regnato “nell’anno che gli uomini bianchi chiamano 1400”33. Questa curiosa affermazione, che pone il regno del personaggio più importante della memoria storica locale
all’epoca delle prime esplorazioni portoghesi, ha favorito una straordinaria diffusione
la difficoltà ad armonizzare la conoscenza storica occidentale con la memoria storica locale non ha
tuttora permesso di completare le parti del museo dedicate alla storia.
31
vedi, per questo problema, Pavanello 2000.
32
gli nzema, come quasi tutte le popolazioni akan, sono matrilineari.
33
vedi adJaye 1931, p. 3. l’affermazione è priva di fondamento storico.
30
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di contaminazioni nella tradizione storica orale. Tutti i tradizionisti tendono oggi a
collocare nell’anno 1400 l’atto fondativo di ogni comunità locale con l’arrivo degli
antenati e l’incontro con il re amihyia kpanyinli. nelle dispute, questo elemento è
ormai presente e si arricchisce di particolari finalizzati a dimostrare la maggiore veridicità di una versione a discapito di quelle degli antagonisti.
la complessità determinata dal numero delle dispute in atto ha suggerito ai capi tradizionali di insistere perché il museo venisse realizzato soprattutto nella forma di un
archivio in cui potessero trovare posto tutti i documenti in possesso dei seggi, insieme
a quelli in mano agli studiosi italiani (con implicito riferimento ai documenti reperibili
negli archivi pubblici europei e ghanesi). in questo modo si realizzerebbe un controllo
congiunto di due autorità più simboliche che reali (il potere tradizionale – malgrado
le sue lacerazioni interne − e una supposta istituzione scientifica sovranazionale) sulle
fonti del sapere storico scritto. l’istanza avanzata da un numero consistente di capi
(compresi i capi supremi riuniti in un consesso formale che raggruppa gli amanhene
di tutte le aree nzema e assimilate34) ha assunto il carattere di un vero e proprio programma politico finalizzato alla definizione delle dispute mediante la standardizzazione di una versione storica concordata a livello della chieftaincy locale, e consacrata
dallo stigma della scienza occidentale. Questo obiettivo sembra però ancora lontano,
anche perché fino al momento in cui sarà possibile risolvere il conflitto giudiziario
che oppone, da un lato, i due amanhene attualmente al potere nelle due aree tradizionali di Jomoro ed elemgbenle, e dall’altro il pretendente kaku aka ii, non si potrà
costruire alcuna versione della storia che possa ricevere il crisma dell’autorità. sono
in gioco interessi fortissimi che riguardano sia l’insieme delle prerogative politiche,
religiose e rituali delle famiglie dei seggi principali, sia il possesso e il controllo della
terra (con i connessi diritti di concessione e sfruttamento). Tutto questo è rappresentato dalla relazione con gli antenati e con gli spiriti ancestrali dei luoghi, ed è connesso
ad un insieme di credenze, pratiche rituali e tabuiche che fornisce al potere tradizionale la capacità di esercitare quel carisma cui facevamo cenno nella premessa. in questo quadro, giocano anche dinamiche molto complesse in cui si muovono i capi
subordinati e i loro alleati e antagonisti. la maggior parte delle dispute locali tra capi
subordinati o, all’interno di uno stesso seggio, tra lignaggi avversari in competizione
per il potere, mette in gioco interessi che portano una o l’altra parte ad appoggiare
gli amanhene in carica, ovvero il loro antagonista kaku aka ii. in questo quadro, la
posizione dell’antropologo italiano che ha condotto ricerche etnografiche per oltre
vent’anni (vedendosi riconoscere una legittimità anche in virtù di una continuità con
i suoi maestri e predecessori che avevano calcato le stesse strade da trenta a cinquant’anni prima), e ha promosso il progetto del restauro e della musealizzazione del Fort
apollonia, rischia di essere estremamente delicata.
a questo punto è di grande interesse riferire le parole pronunciate (e registrate dallo
34
si tratta dello Nzema Maanle Council, il consesso che raccoglie i capi supremi delle otto aree nzema
ed evaloè, insieme all’area nzema aduvlé della Costa d’avorio.
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scrivente) nel raduno pubblico a conclusione del kundum dal re annor adjaye iii il
30 ottobre 2010. il re usciva da uno dei rituali del festival in cui il popolo lo aveva
pubblicamente insultato accusandolo, tra gli altri misfatti, di avere “venduto Fort
apollonia agli italiani”. il popolo si riferiva agli eventi che si erano succeduti negli
ultimi anni in cui lo storico edificio, dopo essere stato affidato in esclusiva alla Missione etnologica italiana35, era poi rimasto inagibile (a causa di infiltrazioni dal tetto)
dal 2002, per essere infine affidato a un ente italiano per il restauro. alla conclusione
rituale del festival, il re, ripristinato nella sua autorità e nel suo potere, riprese la parola
e, in presenza dello scrivente, pronunciò il discorso di cui si riportano qui le frasi inziali:
“il popolo mi ha accusato di avere venduto il castello agli uomini bianchi, ma come
tutti sanno, quando io fui messo sul seggio, ormai venti anni or sono, cercai di attivarmi
per trovare i mezzi per favorire lo sviluppo del mio paese. avevo già qualche esperienza di questo genere, ma fu in quel tempo che incontrai il Professor Mariano Pavanello e con lui abbiamo iniziato a promuovere molte cose importanti. lui venne qui
molte volte e con lui vennero molti suoi studenti e collaboratori. venivano sulle tracce
del loro maestro grottanelli. avevano scritto molto su di noi. io stesso, in italia, ho
potuto vedere gli appunti e i libri che sono stati realizzati. ho chiesto che venissero
tradotti in una lingua che noi possiamo capire. Qualcosa è stato fatto e io sono molto
lieto, anche perché noi dobbiamo poter leggere ciò che è stato scritto su di noi per capire se corrisponde al vero oppure no. abbiamo affidato il castello agli italiani perché
lo rinnovassero, e per questo io stesso ho partecipato, insieme al Professor Mariano
Pavanello, a molte riunioni con i signori del governo di accra. oggi, grazie al governo
italiano, il castello è tornato nelle nostre mani, nelle mani del popolo nzema, e sarà il
luogo dove la nostra memoria verrà custodita per le future generazioni.”36.
nel grande durbar che conclude il festival − e che per la maggior parte sembra un
classico convegno politico occidentale con i microfoni, la retorica dei discorsi degli
esponenti politici invitati37 e degli applausi rituali che ne seguono − il re del Jomoro
pronuncia un infuocato discorso politico in cui si propone come il principale intermediario dello sviluppo culturale ed economico del suo territorio, passando con assoluta noncuranza attraverso molteplici registri, dichiarandosi come il fondamentale
mediatore tra la politica dei governi, le istituzioni scientifiche occidentali e la memoria culturale trasmessa dagli antenati suoi e del suo popolo.
Ciò era avvenuto a partire dal 1998 con un accordo formale siglato tra il direttore della Missione, M.
Pavanello, e il Ghana Museum and Monuments Board.
36
dal discorso pronunciato il 30 ottobre 2010 a Beyin dall’ɔmanhene annor adjaye iii, videoregistrazione di M. Pavanello.
37
erano presenti in quella occasione, oltre agli esponenti dei locali distretti, il Ministro della Cultura,
l’ambasciatore d’italia, e samia nkrumah, membro del Parlamento per Jomoro, figlia di kwame nkrumah.
35
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le tradizioni dell’invenzione in Polinesia
il rinnovato ruolo dei capi, icone indiscusse dell’antropologia oceaniana, è uno dei
temi centrali dell’attuale dibattito sull’identità, sul potere e sulla sovranità38 nelle società melanesiane e polinesiane del Pacifico meridionale, coinvolte in processi di rivitalizzazione delle tradizioni, di rivendicazioni dei diritti dei popoli indigeni e di
rafforzamento della chieftainship all’interno di nuovi stati postcoloniali. a diversi decenni dal raggiungimento di una “indipendenza tardiva” e dal fiorire della cosiddetta
Pacific renaissance39, molti paesi dell’oceania si distinguono oggi non solo per un
sistema politico democratico con presidenti, ministri, membri del parlamento, ufficiali
giudiziari e partiti politici, ma anche per la consistente presenza di istituzioni e leader
tradizionali40. Questi ultimi, lontani dal rappresentare una reliquia del passato, hanno
spesso assunto, come simboli dell’ordine consuetudinario e come mediatori del sacro
e del politico, una parte di prim’ordine nel foggiare le identità nazionali e nel gestire
la direzione dello sviluppo politico ed economico. gli sforzi nel mantenere, reintrodurre o ricreare strumenti decisionali tradizionali si fondano su sistemi culturali ben
radicati e capaci di affrontare un nuovo insieme di problemi emersi con i processi di
globalizzazione41.
gran parte della letteratura etnografica recente ha mostrato come in molti casi le istituzioni politiche coloniali o moderne sono state incastonate in un’organizzazione poliarchica alquanto complessa42, dove gli elementi interni preesistenti si sono connessi
e articolati con forme esterne attraverso processi di trasformazione sincretici e selettivi43. diversi studiosi delle isole del Pacifico44 sono stati così orientati a esaltare la
capacità delle culture locali di pensare e di addomesticare il nuovo (dal cristianesimo
al neocapitalismo) a partire da istituzioni tradizionali dinamiche. Come afferma Favole45, vivere nella contemporaneità significa spesso non scegliere la modernità o la
tradizione, la democrazia o il sistema dei capi, il codice civile o il sistema fondiario
tradizionale, ma mantenere vive entrambe le possibilità. Ci sono tuttavia degli elementi strutturali vincolanti per le articolazioni culturali come la memoria condivisa
da cui attingere in maniera selettiva46, i tessuti connettivi della vita sociale47 e i legami
inscindibili con la terra e con gli antenati. le società oceaniane sembrano da questo
punto di vista contraddistinguersi (parafrasando ancora Clifford) per le consolidate
“tradizioni dell’invenzione” e per questa capacità di essere contemporaneamente ravedi gagnÉ, salaun 2010.
vedi ChaPMan, duPon 1989.
40
lindsTroM, WhiTe 1997.
41
van MeiJl 2009.
42
Favole 2010.
43
CliFFord 2001.
44
vedi tra gli altri oltre ai già citati Favole 2010 e CliFFord 2001, vedi sahlins 1993; van MeiJl 2009;
TCherkÉzoFF 1998, id. 2000; FriedMan 2001.
45
Favole 2010.
46
CliFFord 2003, p. 88.
47
FriedMan 2001.
38
39
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dicate e in trasformazione.
le ricerche più recenti hanno posto inoltre particolare enfasi sui differenti sistemi
che permettono ai capi di ottenere ed esercitare il potere, mantenendo, o condividendo
con altre figure, il proprio ruolo di mediatori del sacro. Come sostiene Thomas48, una
parte consistente dell’antropologia contemporanea è sempre più critica nei confronti
di quelle visioni gerarchiche e centralizzate dei sistemi di potere oceaniani che, in
linea con sahlins49, privilegiano esclusivamente il ruolo dei capi nella gestione del
potere e occultano le forze complementari, antagoniste o in certi casi alternative. al
contrario molti autori tendono oggi a rigettare la netta separazione di stile funzionalista tra il politico, l’economico e il religioso e la nozione stessa di gerarchia di dumont, e a concepire il potere come diffuso, ossia segnato da una molteplicità di
autorità (statali, tradizionali e religiose) che agiscono a vari livelli (nazionale, provinciale e locale) e che mediano in modo assai diversificato tra le dimensioni del
sacro e del politico50.
la leadership in oceania viene così esercitata in diverse forme che corrispondono
alle differenti interazioni tra i sistemi tradizionali e le istituzioni moderne (dalla democrazia alla religione cristiana); ed è quello della complessità delle interazioni un
aspetto connotante della cosiddetta epoca postcoloniale delle isole del Pacifico.
in questo scenario la Polinesia si contraddistingue da un lato per una chieftainship
tradizionalmente segnata dal ruolo centrale giocato dal rango e dalla presenza di unità
politiche organizzate intorno a strutture di potere gerarchico, fortemente connesse
agli dei-antenati dai quali ricevono il mana e i diritti sulla terra51; dall’altro per una
ThoMas 1994.
sahlins 1963, introducendo i concetti di big men e chiefs, ha cementato la distinzione in senso evoluzionistico e areale (in Melanesia i primi, in Polinesia i secondi) di due tipi sociologici distinti con differenti poteri, privilegi, diritti e doveri. Questo approccio dicotomico è stato ampiamente criticato e in
parte superato (vedi douglas 1979; lindsTroM 1981; godelier, sTraThern 1991) proprio perché le
realtà etnografiche appaiono molto più complesse e sfaccettate.
50
Come hanno mostrato alcuni recenti studi di antropologia storica, in Polinesia orientale al momento
del contatto con gli europei esisteva una marcata contrapposizione tra una varietà di mediatori del sacro
(tauha) e le forze centralizzate della chieftanship. i tahua si presentavano come forme di autorità alternative e talvolta conflittuali rispetto a quelle dei capi (ThoMas 1994, valeri 1985). le ricerche etnostoriche hanno messo in luce come nelle situazioni in cui il sistema politico gerarchico era indebolito si
rafforzava il ruolo di questi personaggi capaci di stabilire un rapporto diretto con il mondo degli dei e
degli antenati. Con l’evangelizzazione furono però sostituiti dai missionari che mediavano tra il popolo
e la nuova divinità cristiana. il potere coloniale inoltre mise in primo piano i capi tradizionali, marginalizzando i tahua che furono identificati come incarnazioni delle credenze pagane da eliminare. i capi,
che pur basavano il loro potere in virtù di un rapporto con le divinità tradizionali, furono al contrario
visti dai missionari e dai funzionari coloniali come figure politiche adatte a svolgere un ruolo fondamentale nella diffusione del cristianesimo. Con la scomparsa dei tauha si è così rafforzata l’autorità dei
capi e l’immagine cara agli antropologi di società fortemente stratificate e gerarchizzate (Favole 2001).
51
alcuni autori come goldMan 1970; MarCus 1978 e van MeiJl 2009 hanno messo in evidenza che
insieme all’ineguaglianza e al rango ereditario, l’autorità dei capi polinesiani debba anche essere ottenuta
attraverso la competizione e grazie a specifiche qualità, e dunque che il potere non sia solo ascritto ma
anche in parte acquisito.
48
49
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nuova sacralità della sfera del politico in cui si compenetrano, non senza tensioni e
incongruenze52, il potere tradizionale, le chiese protestanti o cattoliche e i valori occidentali53. a Tonga la struttura gerarchica dei capi si è evoluta in una monarchia centralizzata con un apparato di nobili che guida lo stato, anche se sono sempre più forti
i movimenti a favore di riforme democratiche e costituzionali54. a samoa la democrazia è stata vernacolarizzata55 in un’organizzazione dominata da un élite di matai
che esercita il potere a livello nazionale e locale56 in base sia a diritti ereditari, sia
alle capacità di rappresentare i valori samoani57. in entrambe le isole i capi continuano
a incarnare il principio sacro originario rappresentato dal nome dell’antenato e dalla
terra corrispondente. Manifestazioni divine della sorgente di luce58, essi incorporano
la memoria genealogica del gruppo e di conseguenza sono i titolari dei diritti sulle
terre.
il contesto che è al centro della nostra riflessione − le isole della società della Polinesia Francese − pur discostandosi per molti aspetti da quanto fin’ora esposto, mantiene alcuni elementi di continuità che risiedono proprio nel legame con la terra e con
gli antenati e nella capacità di connettere e di articolare questo nucleo tradizionale
con gli elementi giuridici, politici, religiosi e culturali provenienti dall’esterno59.
del sistema politico tradizionale basato sulla gerarchia, sulla stratificazione e sulla
solida classe aristocratica degli ari’i − discendenti diretti delle divinità ancestrali −
non restano oggi altro che le isolate e, per molti versi, anacronistiche azioni di Joinville Pomare, impegnato dai primi anni del XiX secolo a rivendicare la sua discendenza dalla dinastia regale dei Pomare di Tahiti e a far risorgere il potere monarchico
scomparso da tempo60. la Polinesia Francese è infatti un Pays d’outre mer della repubblica francese dove i discendenti degli ari’i non hanno ereditato alcun status e
potere, né svolgono dei ruoli ufficiali all’interno delle moderne istituzioni governative. viceversa, la difesa dei valori e dei diritti fondiari tradizionali contro la giurisdizione dello stato è oggi al centro di una contesa politica che coinvolge gran parte
della popolazione locale61.
Come già accennato nella premessa, l’arrivo dei missionari protestanti all’inizio del
XiX secolo e la successiva dominazione coloniale francese portarono a un insieme
di sconvolgimenti drammatici che, sancendo l’avvio della lunga stagione dell’oblio
della cultura ancestrale62, decretarono anche la fine del potere tradizionale. va altresì
huFFer, sChusTer 2000.
MaCPherson 2000; TCherkÉzoFF 2000.
54
JaMes 1994; lindsTroM, WhiTe 1997.
55
sul concetto di vernacolarizzazione della democrazia vedi MiCheluTTi 2008.
56
MaCPherson 1997, pp. 40-41.
57
vedi iaTi 2000, p. 72; TCherkÉzoFF 2000, p. 117.
58
TCherkÉzoFF 2007, p. 130.
59
BaMBridge 2009.
60
vedi saura 2008, pp. 437-456.
61
vedi BaMBridge 2009.
62
vedi aria 2007.
52
53
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275
sottolineato che, ripercorrendo la storia polinesiana degli ultimi due secoli, si assiste
a una continua ridefinizione delle interazioni tra il sacro e il politico in cui si mostrano,
insieme ai fenomeni di perdita, i vincoli strutturali e la creatività delle tradizioni. in
un primo periodo, alcuni capi dei lignaggi più importanti delle isole della società in
lotta con altri gruppi aristocratici si avvantaggiarono della relazione con gli europei,
rafforzando il processo endogeno già in atto63 della centralizzazione del potere e dell’affermazione di una regalità quasi divina64. Con la conversione di Pomare ii al cristianesimo (1819), il sistema politico fondato sulla sovranità degli ari’i e sulle antiche
divinità fu sostituito dal connubio tra il nuovo dio dei cristiani e la prima monarchia
ma’ohi65. il cambiamento religioso e l’abbandono degli antenati e dei loro marae66
se, da una parte, consolidò l’autorità dei capi di livello più alto che furono identificati
con le nuove credenze e consacrati attraverso nuovi importanti rituali, dall’altra minò
le basi economiche e gerarchiche del loro potere, favorendo l’emergere di nuove autorità locali di rango inferiore e il ruolo politico dei nuovi mediatori del sacro (i pastori
protestanti67). la progressiva affermazione del dominio francese e la successiva annessione sancirono a loro volta la dipendenza politica, il declino definitivo degli ari’i
a favore della nuova classe sociale dei demi − frutto dell’unione tra i polinesiani non
aristocratici e i francesi − e il trionfo dell’assimilazione culturale. il potere coloniale
attaccò i fondamenti del sistema politico tradizionale, ossia il controllo della terra e
l’eredità dei titoli, attraverso l’introduzione di nuove regole in materia fondiaria (libertà di alienazione, censimento delle terre e registrazione dei proprietari) e l’elezione
dei capi di distretto. all’inizio del novecento, ultimata la conquista delle isole, divenne, infatti, necessario per la Francia sviluppare le proprie colonie e trasformare
gli abitanti in entità produttive e funzionali all’economia globale, attraverso norme
giuridiche che permettessero di gestire direttamente le terre. l’amministrazione francese favorì la colonizzazione fondiaria europea e demi, introducendo la proprietà privata e colpendo il sistema tradizionale dell’indivisione dei ma’ohi, che finirono spesso
le fonti etnostoriche sono concordi nel mostrare come alla fine Xviii secolo i capi più importanti
delle isole della società fossero impegnati nel consolidare un processo di cambiamento religioso per
l’affermazione del culto di oro a cui si accompagna una importante trasformazione politica. il rafforzamento del sistema dei capi non fu determinato dall’arrivo degli europei, ma fu il frutto di un processo
endogeno che aveva garantito solo a un ari’i per isola il diritto esclusivo di indossare la cintura di piume
rosse (maro ‘ura), provenienti dall’immagine del dio oro attraverso una cerimonia precisa guidata dai
sacerdoti di opoa (isola di raiatea).
64
vedi neWBury 1967; BaBadzan 1993; kirCh 2010
65
il termine ma’ohi, sinonimo di autoctono della Polinesia, è dei tre termini con cui gli abitanti di queste
isole si definiscono – gli altri due sono polinesiano e tahitiano –, quello che trasmette un’immagine valorizzante della cultura ancestrale.
66
in realtà il periodo precedente alla colonizzazione francese è segnato sia dagli sforzi per mantenere le
vecchie forme di potere sia dalle azioni per far posto alla nuova divinità. Pomare ii fu a lungo impegnato
nell’utilizzare la sua posizione come capo della chiesa e dello stato costruendo al posto dei marae delle
cappelle per le cerimonie, ricevendo tributi e espandendo i commerci, e cercando di esercitare la sua influenza nelle isole vicine. newbury (neWBury 1967) sostiene che con la morte di Pomare ii nel 1821
svanì una intelligente manipolazione dei metodi tradizionali e importati per elevare lo status degli ari’i.
67
vedi neWBury 1967; BarÈ 1985.
63
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per essere spossessati delle proprie terre, della propria memoria genealogica e dell’unità del lignaggio. lo stato francese, rivendicando a sé il diritto eminente del suolo
e costringendo i ma’ohi a trasformare il proprio diritto d’uso in diritto di proprietà,
non colpì a morte solo il potere degli ari’i, ma, sostituendosi in pratica agli antenati,
produsse una precisa opera di desacralizzazione del rapporto tra i ma’ohi e la terra.
da allora una varietà di forme culturali, dall’educazione al Codice Civile, svolsero
un ruolo sempre più importante nel garantire che i ma’ohi imparassero a pensare e a
comportarsi come perfetti francesi, separandosi definitivamente dal passato barbaro
e dalle pratiche tradizionali68. nonostante questo cupo scenario, in molte situazioni
la fine del potere politico tradizionale dei capi non determinò il venir meno della relazione stretta con gli antenati che segna ancora oggi il legame delle comunità locali
con la terra. È proprio in particolare nel tentativo di “desacralizzazione fondiaria”
che la civilizzazione francese mostra le sue crepe e la cultura ma’ohi evidenzia la
propria capacità di resistenza, di adattamento e soprattutto di elaborazione costante
di nuove forme tradizionali in grado di risemantizzare pratiche e istituzioni d’ispirazione occidentale. se, soprattutto nelle zone urbane di Tahiti, la destrutturazione delle
norme tradizionali ebbe successo e la piena affermazione del Codice Civile portò alla
perdita delle terre e della memoria, in molte altre isole l’indivisione persistette insieme
all’instaurarsi di un pluralismo giuridico e culturale nel quale coesistevano forme
funzionanti secondo principi diversi e spesso opposti69. da allora, come fanno notare
Barè70 e Bambridge71, la trasmissione del sapere orale relativo alle genealogie e alle
terre è stata costantemente rielaborata per rappresentare oggi uno strumento compatibile e allo stesso tempo antitetico alla documentazione scritta e alla giurisdizione
dello stato francese.
un esempio ancora più evidente non solo del potere generativo della tradizione ma
anche dell’intima e dinamica relazione tra la sfera del sacro e del politico, è rappresentato infine dalla spettacolare rivalorizzazione della cultura ma’ohi iniziata a Tahiti
negli anni settanta del novecento. Questa riscoperta, che si è sviluppata proprio in
quei contesti urbani dove la perdita della terra e della memoria è stata più radicale, si
è costruita intorno alla necessità di ristabilire un rapporto “autentico” con gli antenati.
al contempo, il ritorno al sacro si è accompagnato alla definizione di un nuovo spazio
di azione politica. Privati della propria religione, dei propri capi, dei propri saperi e
delle proprie terre, e assoggettati al giogo coloniale francese, i celebri senza memoria
di segalen72 hanno inaspettatamente patrimonializzato il passato perduto all’interno
di un vasto movimento di rivendicazione identitaria impegnato a ottenere l’indipendenza dalla Francia73.
vedi aria 2007.
vedi PanoFF 1970; ravaulT 1972; BarÈ 1985; BaMBridge 2009.
70
BarÈ 1985.
71
BaMBridge 2009.
72
vedi segalen 2000.
73
vedi saura 2008.
68
69
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Protagonisti del cosiddetto “rinascimento ma’ohi” e di un nuovo modo di interpretare
la sacralità del politico, attribuendo al contempo una particolare valenza politica al
sacro, sono stati alcuni personaggi che, solo dopo aver abbandonato per un certo periodo le proprie isole ed essersi confrontati con altre realtà, si sono dotati di quelle
visioni e di quegli strumenti indispensabili per ricordare, e poter così ritornare, risvegliando la memoria di quelli che sono rimasti. Questi personaggi sono assurti all’attenzione dell’opinione pubblica, a volte in un quadro di reviviscenza politica delle
tradizioni, altre volte in contesti più dichiaratamente folklorici e turistici. in tutti i
casi, hanno rappresentato modalità innovative di recupero politico delle identità “dimenticate”.
le molte possibilità offerte dal “cercare nel vuoto” hanno permesso a ciascuno di
loro di riappropriarsi delle tradizioni attraverso nuovi modi di lavorare simbolicamente sul corpo (ridando vita alle antiche pratiche del tatuaggio, della danza e della
marcia sul fuoco), sugli antichi luoghi sacri (ristabilendo una relazione diretta con i
marae), sulla parola, sulla lingua e sui miti. i limiti posti dalla perdita della memoria
hanno reso invece necessario affermare il proprio carisma e legittimare la propria autorità politica rivendicando una discendenza diretta con i lignaggi regali degli ari’i,
sconfessando le pratiche degli avversari “concorrenti” nello stesso campo, difendendosi dagli attacchi degli anziani e confrontandosi, in modo spesso conflittuale, con
le autorità politiche, religiose e culturali. non ultimo questi traghettatori di frammenti
di culture e di memorie si qualificano non solo come detentori di un sapere oggettivabile, ma anche come autori creativi che costruiscono le loro rappresentazioni (del
politico, del sacro, della storia, ecc.) in una continua dinamica di appropriazione, resistenza o manipolazione di tutta quella serie di esotismi positivi e negativi prodotti
e inventati nel tempo dal cosiddetto occidente. in questo senso, le loro azioni e le
loro narrazioni rivolte al recupero di aspetti del passato appaiono così fortemente
orientate verso la costruzione di pratiche e politiche innovative, inedite e impreviste.
gli elementi di continuità culturale e le ripetute riarticolazioni delle tradizioni ma’ohi,
che abbiamo visto dispiegarsi a più riprese nel corso di una storia coloniale non ancora
conclusa, si condensano in modo originale nella figura di Malona Teura (fig. 3), tornato ad abitare nella valle di Faaaha nell’isola di Taaha74 solo dopo aver trascorso diciotto anni nei reparti d’assalto della Marina militare francese. seguire il suo percorso
74
Taaha è una delle nove isole sottovento che insieme alle sette isole sopravvento (tra cui Tahiti) costituiscono l’arcipelago delle isole della società, localizzato al centro della Polinesia Francese. la parte
che segue su Malona Teura è frutto dei lunghi soggiorni di M. aria trascorsi nella casa di questo personaggio nella valle di Faaaha (in particolare tra il 2003 e il 2006), condividendo i lavori di ogni giorno
tra i cocchi, le piante di vaniglia e la foresta tropicale.
75
le imprese epiche di hiro, grande navigatore e prode avventuriero, non solo occupano un posto centrale nelle mitologie e nei racconti degli abitanti delle isole della società, ma sono conosciute in tutta la
Polinesia. a rorotonga il suo nome è iro; in nuova zelanda è conosciuto come Whiro, figlio del cielo
padre e della terra madre e nemico di Tane, mentre alle hawaii si cantano le imprese di hilo. infine, nei
racconti tradizionali di alcune isole Marchesi hiro rappresenta il dio dei ladri.
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di ri-radicamento alla terra natale e di riscoperta dei legami con le forze invisibili che
vi dimorano permette di riflettere sull’intreccio tra il sacro e il politico in un contesto
segnato dalla coesistenza tra la trasmissione orale delle genealogie, i tapu sulla storia,
il sistema dell’indivisione, e la giurisdizione fondiaria statale scritta. esempio dell’ossimoro cliffordiano di cosmopolitismo indigeno, Malona Teura nel 1993 ha
“smesso di viaggiare per il mondo” per assistere la madre malata e succederle alla
guida dell’opu fetii (famiglia allargata). È stato scelto in questo ruolo delicato di guardiano delle terre e della memoria in pericolo, proprio perché il suo passato di militare
e di viaggiatore e le sue capacità di padroneggiare molti aspetti della cultura occidentale gli conferiscono qualcosa in più rispetto ai membri della sua famiglia. a differenza dei suoi parenti, rimasti sempre nella valle senza ricordare più né il nome, la
storia e la suddivisione degli appezzamenti, né il modo per poter entrare in contatto
con gli antenati e gli spiriti, Malona Teura ha ricevuto in eredità dalla madre i racconti
delle gesta epiche dell’eroe/antenato fondatore hiro75, e le genealogie e i tapu legati
al marae ancestrale. Mentre imparava dalle sue parole, ha cominciato a avere “le
prime connessioni con i sette spiriti guardiani” che proteggono “i sette livelli, le sette
terre e i sette marae” in cui è divisa la valle. Progressivamente è poi “entrato in comunicazione” con gli spiriti dei parenti e degli antenati, fino ad acquisire la capacità
di “chiamare i taura”76 − gli animali familiari legati a un luogo preciso che incarnano
una storia e un antenato più o meno mitici − per vendicare o colpire chi lo minaccia.
in particolare ha riscoperto il potere di ricorrere a Mohiri, il taura della sua famiglia
materna e intimamente associato alle imprese e alla storia di hiro. immaginato e descritto come il potente maiale selvatico che sorveglia il fa’a’apu (campo coltivato
che permette il sostentamento) di hiro e che dalla grotta in cui vive protegge tutta la
valle di Faaaha, Mohiri rappresenta al contempo la regina, la nonna materna dell’eroe
leggendario, colei che gli ha donato il mana indispensabile per realizzare i suoi epici
viaggi attraverso tutta la Polinesia. nel ristabilire questo legame con il sacro, Malona
Teura non ha messo in atto un ritorno a un passato precristiano ma, consapevole dei
rischi a cui andrebbe incontro, rivendica la necessità di rispettare le scelte dei suoi
antenati continuando a praticare la connessione con gli spiriti senza smettere di frequentare la Chiesa protestante. ripudiare il cristianesimo e stabilire un rapporto diretto con le divinità ma’ohi, come ritengono di aver fatto nei primi anni ottanta a
Tahiti alcuni protagonisti del rinascimento della cultura ancestrale77, significa per
Malona tradire ciò che gli antenati avevano deciso, significa andare contro la tradizione, e ciò è molto pericoloso, perché “gli spiriti possono diventare troppo viventi e
possono vendicarsi”. È qui che risiede “l’autenticità” del suo operare, proprio perché
ha mantenuto, ridandogli forza e senso, un legame con ciò che altri hanno smarrito e
il termine tāura ha molteplici significati: il Dizionario dell’accademia tahitiana lo traduce con
l’espressione “dio tutelare, totem, protettore familiare”, ma letteralmente gli attribuisce il significato di
“corda, filo, banda” e infine di “gruppo di animali”.
77
vedi aria 2007.
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cercano faticosamente di ritrovare: il legame con la terra, con i tāura e con gli antenati
e con le loro scelte di far interagire insieme le pratiche del passato e i nuovi elementi
provenienti dall’esterno.
allo stesso tempo assumendosi il compito di recuperare la memoria in pericolo ha
ridato forza all’intreccio esistente tra i marae, le genealogie e i diritti fondiari. secondo la tradizione, rivalorizzata e ri-praticata da Malona Teura, per essere riconosciuto come proprietario di una terra (e poter così godere dei diritti d’uso), ogni
individuo deve dimostrare di avere un legame genealogico con l’antenato
fondatore/taura e con il suo marae, a cui sono collegate le terre rivendicate. Taaha,
come la maggior parte delle isole della società, è, infatti, tradizionalmente suddivisa
in differenti unità territoriali. a ciascuna corrispondono uno o più gruppi familiari allargati (opu, o opu fetii), che si collegano al proprio marae ancestrale (detto tupuna),
dedicato alla relazione con gli dèi tutelari, e in special modo con l’avo fondatore detentore dei diritti fondiari. a ogni marae tupuna spetta, infatti, la proprietà esclusiva
di un determinato territorio78. appartenere a una genealogia (e quindi a una famiglia
unita intorno a un medesimo antenato-spirito tutelare) significa aver diritto alla terra
legata al marae tupuna79. i tapù familiari e le genealogie, che ogni famiglia conservava gelosamente, rappresentano gli elementi essenziali per conoscere, attraverso
l’ordine imposto al passato, il proprio rango, il proprio posto nella gerarchia della società e poter così rivendicare i propri diritti fondiari. Tradizionalmente spettava agli
i Haere po − gli instancabili “camminatori della notte”, “memoria vivente del popolo
ma’ohi” (segalen) che recitavano le genealogie come un poema mentre attraversavano di notte il proprio marae – il difficile compito della conservazione e della trasmissione delle genealogie più importanti. sebbene ogni terra avesse i suoi guardiani
invisibili (indicati spesso come spiriti degli antenati), gli Haerepo, per proteggere dai
possibili impostori la proprietà, il nome ereditario della famiglia – che permette di
collegare la genealogia al marae – e l’antenato divino a cui è dedicato il marae, ricorrevano a precisi tapu, la cui conoscenza veniva tramandata solo all’interno della
propria famiglia. seguendo le loro orme, Malona Teura, per difendere i propri titoli
di proprietà, si è riappropriato di queste pratiche tradizionali che gli consentono di
mantenere segreti i nomi dei marae ancestrali e dei suoi antenati e parte della loro
storia. grazie a queste interdizioni alla parola può preservare i racconti genealogici
dalle manipolazioni e dalle trasformazioni che favorirebbero i suoi rivali nelle dispute
per la terra. Malona Teura si è fatto carico di sopportare il peso di custodirne i segreti
e di trasmetterne in parte la memoria anche a chi non è della famiglia oscillando convedi henry 1968; oliver 1974.
Come ha mostrato oliver 1974, analizzando le strutture dell’antica società tahitiana, i gruppi familiari
contigui, per un processo di complessità crescente, formavano delle congregazioni sempre più ampie
(fenua-distretti), sottoposte all’autorità di un unico ari’i (discendente in linea diretta dell’antenato fondatore) e radunate intorno al marae corrispondente. Tutti i marae di una valle, come tutti gli ari’i ad
essi collegati, erano uniti a un marae d’importanza superiore, dove si svolgevano le principali cerimonie
della comunità. i marae delle famiglie più importanti davano diritto a un determinato titolo che diventava
il nome stesso della famiglia.
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tinuamente tra il nascondere e il mostrare gli ordini invisibili della realtà. vi sono,
infatti, presentificazioni dell’invisibile (alcuni marae e certe parti della storia) che
possono essere trasmesse a chi non è della famiglia, o esposte al pubblico, ma ve ne
sono altre segrete e temibili che si configurano invece come dei privilegi riservati a
certe persone o a certi momenti. in ogni caso il poter vedere, il poter dire e il poter
ascoltare sono segni di appartenenza, che conferiscono prestigio e autorità. similmente agli Haere po di un tempo, Malona Teura per seguire la volontà di mantenere
vive le tradizioni ha continuato nella pratica del tramandare e innovare, mantenendosi
in bilico tra la consapevolezza che i tapu sono minacciati e che devono essere tenuti
nascosti (“il tapu non può essere tolto, dobbiamo tenerlo per noi”) e la necessità d’impedire che le conoscenze tradizionali vadano irrimediabilmente perdute (“i tapu devono essere mantenuti vivi, qualcuno deve continuare a custodirli, visto che molti
non sanno più niente”).
allo stesso tempo Malona Teura, proprio facendo appello all’arte della memoria degli
Haere po, può intervenire sul passato per adattarlo alle esigenze attuali. nella società
tradizionale tahitiana ogni famiglia, per proteggersi contro gli impostori, non si limitava a tenere segreta la propria genealogia, ma, quando era necessario, metteva in
atto anche altri sistemi difensivi. grazie alla pratica che consentiva agli ari’i di possedere più nomi, uno stesso personaggio nelle genealogie collaterali poteva apparire
intenzionalmente sotto un’altra denominazione. in modo analogo, a seconda delle
necessità politiche, la memoria poteva essere manipolata e ricostruita da ogni Haere
po. Queste modificazioni si sono intensificate nei primi decenni del XiX secolo, in
seguito agli sconvolgimenti dell’ordine sociale provocati dall’arrivo degli europei e
alla contemporanea messa per iscritto dei racconti genealogici, che hanno permesso
d’intervenire come non era mai stato fatto prima. riabilitando le pratiche dei suoi
antenati, Malona Teura è così legittimato ad apportare le modifiche necessarie per
valorizzare alcuni aspetti del passato, continuando a fare della sua “reimmaginazione”
un fondamento imprescindibile della costruzione del presente.
nel rimpadronirsi della tradizione, Malona Teura non si è soltanto limitato a seguire
le norme consuetudinarie, ma si è anche reso protagonista di importanti trasformazioni che segnano il passaggio dall’oralità alla scrittura e il consolidarsi di nuove strategie per difendere il legame con la terra, attraverso l’appropriazione degli strumenti
giuridici del Codice Civile francese. Così, nel momento in cui ha cominciato a padroneggiare i racconti genealogici segreti, ha anche intrapreso lunghe ricerche d’archivio per ricostruire e mettere per iscritto le genealogie e per individuare i titoli di
proprietà delle terre della valle. Tali documenti gli hanno permesso di rivendicare i
propri diritti fondiari, sia di fronte al Territorio (il governo della Polinesia Francese),
sia rispetto alle famiglie rivali. nel far questo ha seguito un percorso già avviato dal
nonno e ripreso dalla madre, che a tale scopo aveva iniziato negli anni settanta a radunare i documenti scritti, sollecitando il figlio a fare altrettanto. una volta abbandonata la carriera militare e tornato a Taaha, Malona Teura, a partire dai nomi ricevuti
in eredità e dalla possibilità di “mettersi in contatto con la testa degli antenati”, si è
dedicato per otto anni a ricostruire e a scrivere le genealogie di quelle che definisce
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come “le tre principesse dai cui discendo”, attraverso la raccolta degli atti di proprietà
originali, delle dichiarazioni di successione, di nascita, di matrimonio e di morte di
tutti i suoi avi fino alla madre. ha condotto le sue ricerche nelle isole vicine, ma soprattutto a Tahiti, dove ha ingaggiato “un esperto francese”, per avere accesso a tutti
i documenti presenti negli archivi. solo dopo aver terminato questo lungo e faticoso
lavoro, ed essersi così assicurato la certezza del diritto alla terra, ha cominciato a ricostruire la casa sul marae école dove sono vissuti e sepolti i suoi genitori.
Malona Teura padroneggia così molteplici linguaggi, mescolando e facendo interagire
la sua capacità di comunicare con gli antenati, la forza della trasmissione orale e l’abilità di destreggiarsi nell’ampia e dettagliata documentazione scritta prodotta dall’amministrazione coloniale francese. Questa pluralità di fonti, che fonda il suo sapere,
gli consente di essere considerato un’autorità a cui fare appello quando si verificano
delle dispute e delle contese sulle terre familiari, rappresentando al contempo un
punto di riferimento indispensabile per tutti quelli che hanno dimenticato e che per
questo rischiano di essere spossessati delle loro proprietà.
Conclusione
Concludendo questa necessariamente rapida disamina dei due terreni di ricerca, riteniamo di poter affermare che sia i capi tradizionali akan, sia i rielaboratori delle tradizioni in Polinesia agiscano come dei passeurs culturels (letteralmente “traghettatori
di culture”), espressione usata per la prima volta da Bénat Tachot e gruzinski (2001)
nel descrivere processi di meticciato, di mescolamento e di pluriculturalismo. i passeurs sono intesi come gli agenti (motori o semplici vettori) di questi fenomeni complessi e lo scopo di quegli autori è di osservare come si verifichino questi passaggi
da un insieme complesso all’altro, soprattutto nel mondo coloniale ispanico. Come
segnalano anche studi più recenti81 i passeurs culturels sono descritti come coloro
che gettano ponti, a volte espliciti, a volte furtivi, tra universi semiotici, mettendo in
comunicazione le culture, le storie, le conoscenze e le loro rappresentazioni, attraverso
le loro traduzioni, conversioni e trasmissioni, caratterizzate anche da silenzi, distorsioni, oblii e malintesi opportunamente costruiti.
l’immagine dei passeurs culturels si adatta perfettamente sia ai capi tradizionali akan
sia a quei personaggi nella Polinesia francese assurti alla notorietà per la loro azione
politico-culturale. Queste due particolarissime categorie di agenti sociali, al di là della
distanza geografica e culturale che le separa, possono essere viste come perfettamente
analoghe e simmetriche, nel loro ruolo di mediazione del sacro e del politico. dimostrano in egual misura di saper trasformare in interessi sociali condivisi, nella contemporaneità, una serie di valori, saperi, poteri e pratiche che si situano nel contesto
della tradizione e fanno parte di una dimensione duplice, cioè da un lato simbolica,
se non dichiaratamente religiosa, e dall’altro esplicitamente politica. da un diverso
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81
BÉnaT TaChoT, gruzinski 2001.
CiarCia 2011.
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punto di vista, però, queste due categorie possono essere viste come perfettamente
antitetiche, e la loro comparazione può apparire provocatoriamente paradossale. gli
esponenti del potere tradizionale akan rappresentano una istituzione che, in ghana,
gode di rilevanza costituzionale; i protagonisti delle rivendicazioni culturali in Polinesia si situano apparentemente al di fuori delle istituzioni. radicalmente autentici,
i primi, nelle loro vesti di rappresentanti dell’istituzione politica ancestrale (“the main
bone of the society”, la spina dorsale della società, secondo un’espressione popolare
in ghana), svolgono il ruolo di custodi della tradizione e della memoria storica su
cui è fondata la relazione sacra degli antenati con la terra. allo stesso tempo, però,
appaiono radicalmente inautentici nel “fingere” la condizione tradizionale e la propria
connotazione sacrale e simbolica all’interno di un discorso in cui si propongono come
coprotagonisti della modernizzazione, pronti ai compromessi della costruzione politica del consenso e degli interessi economici. l’altro terreno di analisi, la Polinesia
Francese, il contesto dei celebri “senza memoria”, mette in evidenza un percorso inverso: dall’inautentico all’autentico. È infatti un contesto segnato a partire dagli anni
settanta del novecento dalla necessità di ristabilire e rivendicare un legame autentico
con gli antenati (sacro) e con un passato considerato per oltre 150 anni come irreversibilmente perduto a causa dei pervasivi processi di colonizzazione e modernizzazione. uno scenario caratterizzato al contempo da nuove e spettacolari pratiche
tradizionali (che si possono definire autenticamente postmoderne), bollate da una
consistente letteratura antropologica degli anni ottanta come palesemente inventate.
Protagonisti di questo processo di riappropriazione e risemantizzazione della memoria
perduta (e delle connesse politiche indipendentiste) sono quei passeurs culturels che
hanno ritrovato le proprie radici dopo aver per lungo tempo negato, ignorato, oscurato
o rimosso il proprio passato ma’ohi. Muovendosi agilmente fra più culture, manipolandole, amalgamandole, tali figure si rivelano esperti nell’interpretare molteplici linguaggi, codici culturali e sistemi di valori, dimostrando contemporaneamente una
particolare capacità di mediare il recupero del sacro con la sua riarticolazione all’interno di specifiche rivendicazioni politiche. i loro percorsi sono segnati spesso da
epifanie, in cui gli antenati si sono manifestati. Tali momenti di trasformazione sono
diventati dei segni indelebili dell’autenticità delle loro riscoperte e dell’autorità dei
loro saperi, soprattutto in quelle isole come Tahiti, dove la rottura dei legami con la
tradizione è percepita come più profonda e dove si è maggiormente indebolita la forza
della trasmissione orale.
radicalmente inautentici, questi passeurs polinesiani, nel loro proporsi, senza alcuna
apparente legittimità, come i possessori delle chiavi di lettura di una tradizione e di
una memoria culturale presuntamente scomparse; ma, allo stesso tempo, radicalmente
autentici nella loro capacità di incarnare, nella contemporaneità, le aspirazioni profonde di ampi strati della popolazione locale. il percorso di questi personaggi va dall’inautentico all’autentico, dal sacro al politico nella ricerca di ristabilire un rapporto
con gli antenati che ruota attorno al tapu, elemento cardine delle politiche e delle pratiche legate alla storia, e quest’ultima, a sua volta, centrale per le politiche che riguardano la terra e quindi gli antenati. in questo ambito, la figura centrale di cui aria
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tratta già nel suo libro Cercando nel vuoto, è quella di Malona Teura, che, a differenza
di annor adjaye iii del contesto nzema, non è un re, non ha un ruolo istituzionale −
non è nemmeno un capo villaggio (d’altronde siamo in un territoire d’Outre Mer
francese dove il potere tradizionale ha totalmente perso il suo ruolo) − ma si muove
costantemente tra sacro e politico in una dimensione più ristretta di famiglia allargata
o comunità. Questa mediazione è strutturalmente legata alla terra (che è in parte ancora inalienabile e in parte sottoposta alla moderna giurisdizione francese) attraverso
il controllo dei tapu e della storia, oltre che di particolari luoghi sacri (i marae), ma
Malona conosce anche il linguaggio del codice civile francese e dell’ordinamento
giuridico e amministrativo moderno, e sa attraversare e padroneggiare questi diversi
linguaggi.
in entrambi i terreni, memoria culturale, memoria storica e poteri magico-religiosi
definiscono uno scenario di trasformazione politica in cui diverse declinazioni tradizionali del sacro entrano prepotentemente nel quadro della situazione postcoloniale.
lo studio di questi contesti, in africa e in oceania, ci sta conducendo, infatti, a riconsiderare anche tutto il dibattito teorico sul “sacro”. Come sappiamo, questa nozione è stata spesso visitata come categoria autonoma, fenomenologicamente
pregnante, oppure come declinazione di, e quindi riduzione a, processi psicologici o
sociali, ovvero economici e politici. in questa sede non è stato possibile scendere nei
dettagli del dibattito, né si è potuto formulare ipotesi. È stato possibile unicamente
presentare una prima e ancora rudimentale esplorazione di diversi campi e funzioni
del potere in cui si realizzano le pratiche e i processi di relazione con il sacro e di
esercizio di poteri sacri, in rapporto alla costruzione della memoria culturale come
campo privilegiato di conflitto politico.
MaTTeo aria, Mariano Pavanello82
Sapienza Università di Roma
[email protected]
[email protected]
Matteo aria è autore esclusivo del paragrafo “la tradizione delle invenzioni in Polinesia”; Mariano
Pavanello è autore esclusivo del paragrafo “il ghana: una repubblica di re quasi sacri”; la premessa e la
conclusione sono state scritte congiuntamente.
82
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raPPresenTazioni e PraTiChe del saCro
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didasCalie delle iMMagini
Fig. 1. l’ɔmanhene dello nzema occidentale, awulae annor adjaye iii, coronato di foglie
per testimoniare la sua condizione liminale, durante uno dei momenti rituali del kundum in
cui viene insultato dal popolo (Beyin, 28 ottobre 2010, foto M. Pavanello).
Fig. 2. l’ɔmanhene awulae annor adjaye iii portato in trionfo sul palanchino durante il durbar conclusivo del kundum. sullo sfondo, Fort apollonia prima del restauro (Beyin, 29 ottobre 2006, foto M. Pavanello).
Fig. 3. Malona Teura di ritorno dal fa’a pu (valle di Faaaha, isola di Tahaa, maggio 2006,
foto M. aria).
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Pavanello - aria
Fig. 1
Fig. 2
Fig. 3
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