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L’EDITORIALE
Nuove idee per contrastare la resistenza batterica agli antibiotici
2
Direttore Responsabile
Fernando Patrizi
Direzione Scientifica
Giuseppe Luzi
Complessità in Medicina e Biologia
Giuseppe Luzi
La flussimetria in Ginecologia e Ostetricia:
aspetti clinici e attualità tecniche
Paolo D’Alessio
MIXING
Alessandro Ciammaichella
A TUTTO CAMPO
Alessandro Ciammaichella
Lelio R. Zorzin, Silvana Francipane
3
Coordinamento Editoriale
Licia Marti
9
14
17
20
SELECTIO
23
IMPARARE DALLA CLINICA
Prevenzione secondaria ambulatoriale nei pazienti affetti
da cardiopatia ischemica
Antonio Santoboni
BIOS – NOVITÀ PER IL MEDICO
PCR: un esame utile per prevenire e monitorizzare
Irene Carunchio
FROM BENCH TO BEDSIDE
a cura di Maria Giuditta Valorani
Comitato Scientifico
Armando Calzolari
Carla Candia
Vincenzo Di Lella
Francesco Leone
Giuseppe Luzi
Gilnardo Novellli
Giovanni Peruzzi
Augusto Vellucci
Anneo Violante
Hanno collaborato a questo numero:
Carolina Aranci, Irene Carunchio,
Alessandro Ciammaichella, Paolo D’Alessio,
Silvana Francipane, Francesco Leone, Giuseppe
Luzi,
Antonio Santoboni, Maria Giuditta Valorani,
Lelio R. Zorzin
La responsabilità delle affermazioni contenute
negli articoli è dei singoli autori.
IL PUNTO
Le scelte importanti possono “bloccare” le persone
Carolina Aranci
LEGGERE LE ANALISI
Omocisteinemia
a cura di Giuseppe Luzi
Segreteria di Redazione
Gloria Maimone
1
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24
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In merito ai diritti di riproduzione la BIOS S.p.A.
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26
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31
Un punto di forza per la vostra salute
33
Gli utenti che, per chiarimenti o consulenza
professionale, desiderano contattare gli autori
degli articoli pubblicati sulla rivista Diagnostica
Bios, possono telefonare direttamente alla sig.ra Pina
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NUOVE IDEE PER CONTRASTARE
LA RESISTENzA BATTERICA
AGLI ANTIBIOTICI
Francesco Leone
ben nota l’osservazione, sin dal primo
proprio dall’antibioticoresistenza dei bat-
periodo dell’introduzione degli anti-
teri e concludono, riportando quanto scrive
È
2
L’EDITORIALE
biotici in terapia, che alcuni ceppi batterici
il WEF:
non risultavano sensibili a determinati trat-
“We live in a bacterial world where we
tamenti; essi presentavano una resistenza
will never be able to stay ahead of the mu-
naturale nei confronti di certi antibiotici. La
tation curve. A test of our resilience is how
stessa penicillina era inattiva nei confronti
far behind the curve we allow ourselves to
dei ceppi batterici gram negativi, per la
fall.”
struttura assai complessa di questo gruppo
di batteri.
L’esigenza di adottare nuove strategie
nella lotta all’antibiotico resistenza impone
Oltre a questa resistenza naturale, in
da un lato l’estensione di ricerche mirate a
breve tempo si osservò la comparsa di una
ottenere molecole efficaci e rapidamente
resistenza acquisita in ceppi di batteri che
inseribili nella pratica clinica e da un altro
in precedenza potevano essere inibiti o uc-
punto di vista l’adozione di nuovi approcci
cisi utilizzando un determinato antibiotico.
mirati a gestire l’interazione ospite-micror-
Ai nostri giorni il problema si è amplificato
ganismo piuttosto che la semplice azione
e si è determinata una sorta di doppia crisi:
antibatterica diretta.
da un lato la frequente comparsa di resi-
La Microbiologia della BIOS S.p.A.,
stenza al trattamento antibiotico e dall’al-
già in passato impegnata con l’Istituto Su-
tro un ridotto impegno della ricerca
periore di Sanità in studi sull’antibiotico-
industriale nell’investire per introdurre in
resistenza di E. coli urinario, attualmente
commercio nuove molecole di farmaco.
partecipa a uno studio policentrico su ter-
Nel numero del N Engl J Med del gen-
ritorio nazionale riguardante le resistenze
naio 2013 (368: 299-302) un editoriale im-
dei patogeni respiratori isolati da pazienti
portante sull’argomento ripropone in un
ambulatoriali.
ottica strategica il tema della lotta alla resi-
Il Progetto verrà coordinato dal Dipar-
stenza antibiotica. Bradd Spellberg et al.
timento di Scienze Biomediche, Chirurgi-
nell’articolo The Future of Antibiotics and
che
Resistance sottolineano le conclusioni del
Microbiologia- dell’Università di Milano,
World Economic Forum e riportano come
diretto dal prof. Roberto Mattina.
uno dei rischi più grandi dell’umanità nasca
e
Odontoiatriche
–sezione
di
COMPLESSITÀ IN MEDICINA E BIOLOGIA:
UN APPROCCIO IN EVOLUzIONE
Giuseppe Luzi
3
ALCUNE DEFINIzIONI “CRITICHE”
“Stato di benessere fisico e psichico, espres-
I
l’organismo considerato nel suo insieme; il
sione di normalità strutturale e funzionale del-
l sospetto diagnostico implica per il medico
l’esigenza di una definizione condivisa: la
definizione di malattia. Il problema non è di secondaria importanza e nasce dall’urgenza di
avere adeguate conoscenze, con ovvie implicazioni pratiche. Prendiamo la definizione di malattia dalla celeberrima Enciclopedia Treccani
(on line):
bioetica, si può notare che il rapido progres-
“Lo stato di sofferenza di un organismo in to-
so biomedico dell’epoca contemporanea ha
to o di sue parti, prodotto da una causa che lo
introdotto, accanto alla medicina dei bisogni,
danneggia, e il complesso dei fenomeni reat-
la medicina dei desideri”.
tivi che ne derivano. Elemento essenziale del
concetto di m. è la sua transitorietà, il suo andamento evolutivo verso un esito, che può
essere la guarigione, la morte o l’adattamento a nuove condizioni di vita”.
È una definizione accettabile, ben comprensibile, tipicamente descrittiva e proprio per questo intrinsecamente poco flessibile. Per orientarci un po’ meglio andiamo allora alla definizione
di salute, sempre ricorrendo alla stessa fonte:
concetto di s. non corrisponde pertanto alla
semplice assenza di malattie o di lesioni evolutive in atto, di deficit funzionali, di gravi mutilazioni, di rilevanti fenomeni patologici, ma
esprime una condizione di complessiva efficienza psicofisica. Dal punto di vista della
Ora dovremmo soffermarci su quel “…normalità strutturale e funzionale dell’organismo”
che non può essere lasciato senza qualche commento: quali sono i parametri di riferimento per
una “normalità strutturale e funzionale”? Intendiamoci: il nostro modo di esprimerci ammette,
anzi, pretende semplificazioni e approcci legati
al buon senso. Ma se entriamo in un’analisi appena più selettiva le cose diventano meno chiare
e vanno necessariamente approfondite…
SCIENzA O DISCIPLINA?
e alle diverse modalità di alleviare le soffe-
te più difficile: scelte mediche ponderate talora
nell’incompleta conoscenza del quadro clinico;
ma non soffermiamoci su questo aspetto eminentemente pratico-assistenziale. Soprattutto nell’ambito della Medicina Interna, nel corso degli
ultimi venti anni, si è sviluppata una corrente di
pensiero di sicuro interesse che rappresenta un
approccio olistico ai problemi biologici. Il tema
centrale è quello dello studio dei sistemi, dell’analisi della complessità. Molta produzione in letteratura si è orientata nel contesto della complessità “assistenziale”, nell’analisi dell’organizzazione e nell’individuazione dei problemi correlati. Nel bel libro sul tema (G.F. Gensini, L.M. Fabbri, M. Fini, C. Nozzoli (a cura di), La Medicina
della Complessità, ISBN 978-88-6543-205-9
(print) ISBM 978-88-6543-209-7 (on line) – Firenze University Press, 2010), nell’introduzione,
viene riportato quanto segue:
renze dei malati (anche di coloro che non
«La medicina ha coniato il concetto di “ma-
possono più guarire). È in collegamento con
lattia” e aderisce a questo concetto nella sua
altre discipline quali, ad esempio, la biologia,
attività. Il ragionamento diagnostico assume
Entro certi limiti la storia della Medicina è
stato un tentativo di “semplificare” problemi per
arrivare a guarire gli esseri umani o a farli star
meglio se altra soluzione non esiste. D’altro canto la Medicina è una scienza? Se ci basiamo su
“Wikipedia”, Scienza è
“sistema di conoscenze, ottenute con procedimenti metodici e rigorosi e attraverso un’attività di ricerca prevalentemente organizzata,
allo scopo di giungere a una descrizione, verosimile e oggettiva, della realtà e delle leggi
che regolano l’occorrenza dei fenomeni”
e Medicina è
“la scienza che si occupa della salute delle
persone, in particolare riguardo alla definizione, alla prevenzione, alla cura delle malattie,
4
la chimica, la fisica, la psicologia, la bioinge-
così le caratteristiche del riconoscimento di
gneria. È presente anche in ambiti giuridici
un’impronta digitale: si ricercano i punti di
con la medicina legale o quella forense”.
identità fra malattia conosciuta e situazione
Forse, allora, con il termine di Medicina dovremmo significare, in modo più opportuno, una
disciplina costruita sull’integrazione di conoscenze acquisite in vari settori delle scienze di
base. D’altro canto, come è stato ben detto, non
esiste la scienza applicata ma l’applicazione di
quanto noto e derivato dalle scienze di base.
clinica del paziente e, quando i punti di identità superano un certo numero, si definisce la
diagnosi. Tuttavia il singolo malato – potenzialmente sempre, ma in particolare oggi con
il progressivo invecchiamento della popolazione – si può presentare con un quadro clinico complesso in rapporto alla coesistenza
di più condizioni morbose. Questo complica
e rende più difficile, e talora impossibile, il
FINALMENTE LA COMPLESSITÀ
processo di identificazione di una di queste
malattie con la condizione del paziente.
Quindi: in sostanza? Ogni giorno, nell’ambito medico, emerge sempre più chiaramente la difficoltà di gestire parametri multipli nello stesso
arco di tempo. Urgenze/emergenze decisionali da
mantenere sotto controllo, talora con inevitabile
“rischio aggiuntivo”. Di fronte a un evento patologico e al suo estrinsecarsi dobbiamo innanzi
tutto distinguere elementi di evoluzione nel tempo e prescindere, in qualche modo, dall’ovvia necessità di agire terapeuticamente. Questa è la par-
La complessità è un tema che sostanzialmente non è al momento presente in modo
organico nella formazione curriculare e postcurriculare. Tuttavia essa è ben presente nell’elenco delle problematiche all’attenzione del
Servizio sanitario nazionale e lo è, fortunatamente, nella sensibilità dei medici che hanno
un’attenzione complessiva per il loro paziente. Affrontare questo problema appare oggi
doveroso.»
Il problema critico resta tuttavia più ampio,
con molte interconnessioni, e non deve essere
limitato alla sola fase “conclusiva” del rapporto
patologia/intervento assistenziale. Deve estendersi alla definizione di diagnosi in un contesto
che potremmo definire, in prima approssimazione, non riduzionistico. In un articolo di alcuni anni fa, G. Salvioli e M. Fioroni (La Medicina della Complessità, la Medicina Interna e la
Geriatria-Medicine of Complexity, Internal Medicine and Geriatrics. G Gerontol, 2008; 56:110) scrivono:
“Con il termine “complessità” si indicano gli
adattamenti necessari per mantenere efficiente il sistema complessivo della sanità da
quando è emersa la necessità, legata alle
malattie croniche e alla disabilità conseguente, che le procedure curative debbano
5. esami strumentali;
6. esami di laboratorio;
7. complessità organizzativa dal punto di vista
infermieristico;
8. complessità organizzativa dal punto di vista
medico;
9. complessità delle cure infermieristiche;
10. complessità delle cure mediche.
Queste citazioni “pratiche” e l’approccio alla complessità rappresentano uno strumento relativamente nuovo in ambito medico e forniscono lo spunto per ulteriori considerazioni, ma limitano però il bersaglio al criterio definitorio/organizzativo e non lo estendono a quello sostanziale di natura biologica. Questa è un’opportunità emersa del tutto recentemente grazie a particolari approcci nell’ambito della teoria della
complessità.
protrarsi nel tempo per essere efficaci. Non
risulta più adeguato il modello tradizionale,
analitico, lineare, basato su sequenze prevedibili causa-effetto: è necessario un modello dinamico e adattativo che è quello del-
IL MONDO DELLA COMPLESSITÀ, MODELLI MATEMATICI, SISTEMI DI CALCOLO
la complessità in cui si creano efficaci interazioni dinamiche con l’ambiente e anche
con il sistema sociale. Gli outcome del sistema sono diversi da quelli tradizionali dell’ospedale; diventa rilevante l’adattamento
alle menomazioni e alla disabilità che richiede non solo cure, ma anche ambienti
idonei; inoltre la percezione della malattia
da parte del malato richiede un intervento
preciso del personale sanitario per ridurre
l’impatto spesso negativo di credenze, pensieri, considerazioni che coinvolgono anche
i familiari”.
Con riferimento a De Jonge P, et al. (Care
complexity in the general hospital. Results from
a European study. Psychosomatics 2001; 42:
204-12) nell’articolo su G. Gerontol. sopra citato, vengono riportati indicatori di complessità di
gestione riferibili al paziente:
1. numeri di farmaci somministrati;
2. durata del ricovero;
3. numero di consulenze;
4. prestazioni infermieristiche;
La storia della metodologia scientifica e della sua possibile sistematizzazione ha avuto un
susseguirsi di stratificazioni, con sicuro incremento della “complessità” percepita, ma spesso,
come accade ai nostri giorni, con tentativi non
sempre riusciti per arrivare a una “complessità”
gestita. Talora le nuove acquisizioni non sono
riuscite a soppiantare le vecchie e, absit iniuria…, il parere degli “esperti” non è forse tanto
diverso dal vetusto principio di autorità (il famoso ipse dixit)? È questo il punto di maggiore
incertezza: i trial clinici, la sperimentazione, gli
studi epidemiologici, le numerose metanalisi per
giungere alle linee-guida sono la soluzione di un
problema o unicamente una sua migliore definizione?
Per non generare confusione è bene distinguere tra complessità applicata a strutture organizzative e complessità da studiare in sistemi
biologicamente definiti. Questo è il punto che si
prenderà ora in esame nel presente articolo. Cominciamo da lontano: “Il tutto è maggiore della
5
somma delle parti” (Aristotele) e andiamo a vedere la definizione di sistema (Wikipedia):
“Il sistema, nel suo significato più generico, è
un insieme di elementi interconnessi tra di loro o con l’ambiente esterno tramite reciproche
relazioni, ma che si comporta come un tutt’uno, secondo proprie regole generali. Un sistema può essere definito come l’unità fisica e
funzionale, costituita da più parti o sottosistemi (tessuti, organi o elementi, ecc.) interagenti
(o in relazione funzionale) tra loro (e con altri
sistemi), formando un tutt’uno in cui, ogni parte, dà un contributo per una finalità comune o
un target identificativo di quel sistema”.
6
Spesso, in anatomia, proprio per lo scopo
comune degli organi/elementi componenti, la
parola viene confusa con il termine “apparato”,
ma la struttura e la funzionalità dei sistemi ne
rendono la semantica ben più ampia, articolata
o complessa rispetto a quella degli apparati. Un
sistema, per il fatto di essere tale, è in qualche
modo complesso. Tuttavia la definizione di
complessità assume un suo “charme” di rilevanza concettuale molto precisa. Se prendiamo
la definizione di sistema complesso in fisica, si
osserva che la sua caratteristica è data da singole parti interessate da interazioni locali, con
breve raggio d’azione, in grado di indurre cambiamenti nella struttura complessiva. In sostanza è possibile “rilevare le modifiche locali, ma
non è possibile prevedere un stato futuro del sistema considerato nella sua interezza”. In un sistema complesso più grande è la quantità e la
variabilità delle relazioni fra gli elementi che lo
compongono, maggiore è la sua complessità.
Ma è necessario considerare che la complessità
di un sistema va sempre riferita agli elementi
che vengono considerati per descriverlo e ai parametri presi in esame. I due punti critici della
complessità possono sostanzialmente riassumersi nell’andamento di tipo non-lineare delle
relazioni fra le diverse componenti e nel comportamento emergente, cioè un comportamento
non prevedibile e non ipotizzabile dalla semplice sommatoria degli elementi che compongono il sistema.
CHI STUDIA LA COMPLESSITÀ
Uno dei centri di ricerca più importanti, ma
forse non altrettanto noti, si trova nel New Mexico: è il Santa Fe Institute, nato nel 1984. In questa sede confluiscono ricercatori di varia estrazione “di base”: biologi, fisici, matematici, economisti, psicologi, etc. Uno dei settori di studio
più rilevante riguarda l’analisi e la comprensione
dei così detti Complex Adaptive Systems (sistemi complessi adattativi, CAS). Si tratta in sostanza di sistemi che possono in qualche modo
“adattarsi” e “mutare” dopo acquisizione di esperienza. Lo scopo quindi, laddove possibile, è
quello di interpretare le relazioni che si hanno fra
organismi di varia natura (società, sistemi politici, animali, cellule). Di particolare interesse è stato lo studio, simulato, del comportamento delle
termiti: esse sembrano comportarsi in modo del
tutto casuale nel raccogliere e spostare gli oggetti, ma alla fine costruiscono un insieme senza che
questa realizzazione si possa codificare nel comportamento del singolo componente. E allora ecco che si pone un problema: è possibile analizzare/interpretare l’andamento di un sistema superando la più immediata impostazione riduzionistica? I CAS sono una bella sfida per l’intelletto,
in quanto sono dotati di un elevato numero di
componenti che interagiscono fra loro ma in modo non lineare, con un andamento finale che non
può essere di immediata comprensione ricorrendo a singole leggi. Si offrono allo studio vari
esempi, come l’andamento dei mercati finanziari, il traffico di una città, ma anche alcuni sistemi
biologici come quelli rappresentati dalle connessioni neuronali o dall’insieme molecolare/cellulare proprio della risposta immunitaria.
CAOS, FRATTALI, E ALTRO ANCORA
Il fisico Edward Lorenz, studiando in simulazione l’andamento del clima, fece un’importante (non prevista) osservazione: scoprì che reiterando la stessa simulazione con valori leggermente diversi nelle variabili considerate, l’evo-
7
Una bella immagine di “frattale d’arte” di Alfred Liang ricavata da internet
(http://artstheanswer.blogspot.it/2011/04/fractalsmath-and-art-in-harmony.html )
luzione climatica prevista si discostava in modo
significativo da risultati precedentemente acquisiti, prima di “perturbare”, anche di poco, i
valori. Non più quindi una somiglianza, ma un
altro modello di evoluzione climatica. Il risultato di questi studi ha generato la teoria del caos,
che pone, in qualche modo, limiti alla capacità
previsionale in sistemi complessi così detti non
lineari. La non linearità è tale per cui piccole differenze nelle condizioni iniziali (non sempre definibili) danno luogo a esiti non prevedibili.
Quando prendiamo sistemi con molti parametri
e ne valutiamo lo stato iniziale (e questo non è
affatto banale), dobbiamo ricorrere a modelli: la
riproduzione semplificata della realtà. Ogni modello è per definizione limitato, in quanto non
riproduce la realtà, ma permette di studiare gli
aspetti più rilevanti (o ritenuti tali fino a prova
contraria) di un problema. Il problema non è una
semplice curiosità scientifica o, come si usa dire, un approccio “di nicchia”. Tutt’altro. Dopo
gli studi di Lorenz, alla teoria della relatività e
alla meccanica quantistica si è aggiunta alla fine del ventesimo secolo, con buona pace degli
schizzinosi, proprio la teoria del caos. In varie
discipline (fisica, chimica, etologia, economia,
urbanistica, chirurgia, oncologia, cardiologia,
etc.) le indagini effettuate sulla base della teoria
del caos hanno avuto interessanti conferme con
significative conseguenze applicative. Ormai è
chiaro: la vita è possibile perché caotica.
Un ausilio allo studio del comportamento
caotico è arrivato dal celebre matematico Mandelbrot che all’inizio degli anni Ottanta del ventesimo secolo pubblica un lavoro fondamentale
nel quale descrive alcune particolare figure matematiche caratterizzate da dimensioni frazionarie non intere: i frattali.
8
In Natura non esistono rette o piani geometrici, ma i frattali sembrano definire nello spazio la complessità del comportamento che assumono nel tempo i sistemi caotici. Per esempio,
restando nel campo medico, è stato osservato
che i battiti cardiaci avrebbero un andamento
caotico: l’andamento “normale” è tale che il battito cardiaco non è perfettamente regolare, ma
presenta variazioni con assetto caotico. Questo
carattere della frequenza cardiaca è/sarebbe
espressione di una flessibilità che rende l’azione cardiaca capace di adattarsi alle necessarie
variazioni della vita. In sostanza il cuore che
perde caoticità è il cuore che sta per fermarsi,
nella fase conclusiva della vita. In una celebre
intervista sul significato dei frattali Mandelbrot
alla domanda di chi gli chiedeva a cosa servissero, rispose: “a descrivere le nuvole”. A descrivere, quindi, qualcosa di oggettivabile in Natura. Altri autori hanno contribuito a dimostrare
come nel nostro corpo esistano strutture ad andamento frattale (la ramificazione polmonare, la
distribuzione del circolo ematico nel rene, la
struttura di cellule nervose). In ambito funzionale, oltre a quello descrittivo, si entra in un
mondo nel quale la cooperazione fra competenze è necessaria. In questa dimensione si colloca
ai nostri giorni lo studio delle reti neurali e, sebbene ancora in fase iniziale, l’approccio alla risposta biologica espressa dal sistema immunitario. E la velocità delle idee sull’argomento è certamente alta. Carmen Molina-Paris (Dept. Of
Applied Mathematics, University of Leeds, UK)
scrive nella sua presentazione del 16 dic. 2011
(on line) dal titolo intrigante a taste of mathematical biology: theoretical immunology:
“mathematical models must be formulated in
collaboration with immunologists (know-how
of experimental design and nature of the data to be obtained)”.
GIOCARE NON PER GIOCO
In un libro del 2006 di Tom Siegfried, di recente tradotto per la Bollati Boringhieri ( È la matematica bellezza! – ed. 2011), viene proposto in
modo originale e di facile lettura un ulteriore contributo, potenzialmente ricco di sviluppo, sulla
teoria dei giochi. Uno dei maggiori ricercatori sull’argomento è stato John Nash che nel 1994 ha ricevuto il premio Nobel. Lo scienziato ha avuto un
ampio successo “cinematografico” grazie alla magistrale interpretazione di Russell Crowe nel film
“A beautiful mind”. I lavori di Nash, che risalgono agli anni Cinquanta del ventesimo secolo, hanno avuto un’applicazione molto interessante nel
campo delle scienze economiche e sociali, ma
posseggono una base operativa ormai estendibile
ad altre discipline “dure”, come la fisica, e cominciano ad avere vasta applicazione anche nel
campo della biologia. Forse ci stiamo avvicinando a una reale estensione dell’approccio di Nash
verso sistemi di interazione presenti nel nostro organismo (cellule nervose, risposta immunitaria)
con un contributo ancora inesplorato alla migliore conoscenza dei sistemi complessi e alla possibile predicibilità del loro comportamento.
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LA FLUSSIMETRIA IN GINECOLOGIA
E OSTETRICIA:
ASPETTI CLINICI E ATTUALITÀ TECNICHE
Paolo D’Alessio
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INTRODUzIONE: EVOLUzIONE DAL
DOPPLER AL COLOR DOPPLER, AL COLOR POwER DOPPLER
L’applicazione dell’ecografia in Medicina
Perinatale è divenuta utile nella valutazione dei
fattori e delle condizioni patologiche e non, che
si possono presentare durante la gravidanza contribuendo così alla drastica riduzione degli indici di mortalità perinatale che si sono avuti negli
ultimi anni.
L’affinamento delle tecniche ecografiche ha
permesso l’applicazione di indagini in precedenza limitate solamente all’adulto, permettendo così di studiare in modo sempre più accurato quei meccanismi che sono alla base delle risposte omeostatiche che il feto attua in condizioni di disagio.
Con l’applicazione del Doppler possono es-
sere studiate le caratteristiche del flusso all’interno dei vasi sanguigni e l’associazione con il
colore (Color Doppler e Color Power Doppler)
consente di ottenere una mappa della velocità,
della direzione, e della turbolenza del flusso in
un dato distretto circolatorio sulla base di un codice prestabilito di colori.
L’effetto Doppler e gli ultrasuoni applicati all’Ostetricia hanno permesso lo studio della velocità di flusso di alcuni vasi di pertinenza materna
e fetale e l’individuazione precoce di stati patologici che potrebbero causare deficit ossigenativi
e nutrizionali nel feto e/o nella madre. Tale metodica ha avuto negli ultimi vent’anni un’enorme
diffusione per la sua riproducibilità clinica e per
la sua efficacia preventiva di patologie come:
• ipertensione/eclampsia;
• difetto di crescita intrauterino (IUGR);
• immunizzazione materno-fetale.
IL COLOR DOPPLER E IL COLOR
POwER DOPPLER: APPLICAzIONE IN
AMBITO OSTETRICO-GINECOLOGICO
10
Utilizzando l’ecografia e la flussimetria Doppler “routinariamente” si può predire e sorvegliare il manifestarsi di un ritardo di crescita evitando così i seri danni ai quali può andare incontro il feto dopo la nascita come menomazioni
auxologiche e psicomotorie.
Ciascun trasduttore, e quindi ciascuna sonda,
ha una sua frequenza nominale che viene prescelta in base alla profondità che si vuole raggiungere. Una frequenza bassa 2 Mhz permette
di arrivare a grandi profondità, fino a 20 cm, e
quindi di rilevare flussi in cavità come il cuore o
in vasi molto profondi, mentre aumentando la
frequenza diminuisce la profondità di lavoro della sonda fino ad arrivare a 20 Mhz con cui si raggiungono i 2 cm di profondità massima.
I diversi distretti indagabili esprimono in maniera differente gli adattamenti emodinamici che
il feto attua nei confronti della noxa patogena che
eventualmente si manifesta in corso di gravidanza.
I distretti che vengono principalmente indagati sono:
• arterie uterine;
• arterie ombelicali;
• aorta discendente;
• arterie cerebrali.
Lo studio flussimetrico materno- fetale è stato articolato in due fasi:
• la prima va dall’inizio della 24a-30a settimana di gestazione e si basa sullo studio della
vascolarizzazione uterina mediante la rilevazione dell’indice di resistenza (R.I.) delle arterie uterine;
• la seconda va dalla 28a settimana fino al termine della gravidanza e si basa sullo studio
della vascolarizzazione fetale mediante la rilevazione dell’indice di pulsatilità (P.I.) dell’arteria ombelicale, dell’arteria cerebrale
media e dell’END DIASTOLIC FLOW
(E.D.F.) dell’aorta.
Allo stato attuale delle conoscenze, la valu-
tazione delle arterie uterine si dimostra come utile test di screening nel predire complicanze gestazionali e in particolare l’ipertensione indotta
dalla gravidanza.
La Doppler flussimetria trova inoltre applicazione nello studio di gravidanza in uteri malconformati. In questi casi, infatti, la gestazione
presenta un’outcome avverso essendo caratterizzata da un’evoluzione infausta spesso esitando
in aborto, parto pretermine, ritardo di crescita intrauterino, morte intrauterina del feto.
Il Color Doppler svolge un ruolo fondamentale nella diagnosi di:
• difetti cardiaci fetali ;
• valutazione delle risposte emodinamiche a
ipossia fetale e anemia;
• ricostruzione tridimensionale e visualizzazione dei vasi fetali e placentari.
I vasi del cordone ombelicale possono essere seguiti dal loro inserimento placentare per il
loro fissaggio alla parete addominale fetale e la
loro estensione nell’addome fetale.
Il Color Doppler è utile nella diagnosi di vasi previ, e l’esame mirato per questa condizione
deve sempre essere intrapreso in pazienti con velamentous inserimento del cavo, succenturiate
lobo, placenta previa, gestazione multipla e banda amniotica.
Il Color Doppler è utile anche per l’individuazione di placenta accreta e chorioangioma,
che è una malformazione arterovenosa fistolosa
all’interno della placenta.
L’esame del cordone ombelicale facilita il rilevamento di nodi falsi e veri, di emangioma o
angiomyxoma del cordone, di cordone ombelicale ipoplasico, di arteria ombelicale singola.
Nella scansione ecografica trasversale del
basso addome, le due arterie ombelicali sono viste su entrambi i lati della vescica e, usando questo piano, è più facile diagnosticare una singola
arteria ombelicale che esaminando una sezione
del cordone ombelicale.
Una varice o aneurisma della parte intra-addominale della vena ombelicale è riconosciuta
come una cisti ipoecogena.
Il Color Doppler può anche facilitare la dia-
gnosi di decorso anomalo della vena ombelicale,
tra cui una vena ombelicale destra persistente, e
l’assenza del dotto venoso con collegamento diretto della vena ombelicale all’atrio destro, alla
vena cava inferiore o vena iliaca.
Il Color Doppler dei vasi renali fetali può facilitare la diagnosi di malformazioni renali. In tali condizioni è preferibile utilizzare una visualizzazione coronale del feto, consentendo la visualizzazione dell’aorta discendente con arterie
renali sia sinistra sia destra; utilizzando questa
metodica è possibile diagnosticare l’agenesia renale unilaterale o bilaterale, il doppio distretto di
un rene normale o di un rene duplex, il rene a ferro di cavallo e il rene pelvico.
Il Color Doppler è utile per la diagnosi di fistole artero-venose intracraniche, come ad esempio
nell’aneurisma della vena di Galeno e nel distinguere questa malformazione vascolare da una cisti
aracnoidea, dalla porencefalia o dall’idrocefalo.
Alcune malformazioni del cervello fetale sono spesso associate con un decorso anomalo di
vasi intracranici e la loro visualizzazione mediante Color Doppler può essere utilizzata per
confermare la diagnosi.
L’agenesia o disgenesia del corpo calloso è
associata ad un loop anomalo dell’arteria pericallosa e, nella microcefalia e nella oloprosencefalia, la forma del Poligono di Willis potrebbe
essere distorta.
Con il Color Doppler è possibile studiare il
decorso della arterie e delle vene polmonari dal
cuore fino nei segmenti polmonari periferici, e
la valutazione del flusso in questi vasi può essere utile per l’individuazione di ipoplasia polmonare.
Il Color Doppler è utile nella diagnosi di agenesia polmonare unilaterale.
Il Color Doppler ha permesso di visualizzare il tronco celiaco con l’arteria epatica, l’arteria
mesenterica superiore, le arterie spleniche, l’arteria surrenalica.
In generale, la diagnosi differenziale dei difetti della parete addominale è facilitata da immagini in scala di grigi, ma, in alcuni casi, il Color Doppler può essere necessario per dimostra-
ESEMPI CLINICI DI APPLICAzIONE DEL
COLOR POwER DOPPLER
Color Power Doppler. 1. aorta 2. arterie iliache 3.
arterie renali
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Color Power Doppler. Cuore fetale
(scansione quattro camere cardiache)
Color Power Doppler. 1. Aorta 2. Arterie iliache 3.
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re la sede d’inserzione del cordone ombelicale
per effettuare la diagnosi differenziale tra onfalocele e gastroschisi.
Il Color Doppler è anche utile nella diagnosi
di emangioma epatico, aneurisma aortico, aneurisma della vena ombelicale, e drenaggio infradiaframmatico venoso polmonare anomalo.
Il Color Doppler consente non solo la visualizzazione del flusso di sangue, ma anche il movimento di fluido.
Durante i movimenti respiratori fetali, il flusso può essere osservato a livello della bocca, del
naso e della trachea.
Applicando tale metodica è agevole porre
diagnosi di palatoschisi, dimostrando il movimento di fluido tra la bocca e il naso durante i
movimenti respiratori.
In feti con stenosi o atresia duodenale, si può
osservare il movimento dei fluidi all’interno dello stomaco, che rappresentano presumibilmente
anomali movimenti peristaltici. L’aspetto di questo segno può precedere lo sviluppo del segno
della doppia bolla gastrica e del polidramnios.
Analogamente, in feti con dilatazione ureterica e peristalsi, il Color Doppler può essere utile nella diagnosi di reflusso vescico-ureterale. In
feti con sospette anomalie genitali, la visualizzazione della minzione con Color Doppler può aiutare nella diagnosi di ipospadia.
In feti trattati con shunt pleuro-amniotico o
vescico-amniotico, il Color Doppler può essere
utile per dimostrare la pervietà delle derivazioni
e il drenaggio continuo di liquido dal feto nel liquido amniotico.
Nel corso della gravidanza possono essere individuate tre cause di assenza o grave riduzione
di liquido amniotico: rottura prematura delle
membrane, agenesia renale bilaterale o displasia,
e ipossia grave con ritardo di crescita intrauterino.
CONSIDERAzIONI
La tecnica ecografica applicata alla branca
ostetrico-ginecologica negli ultimi 30 anni, dai
suoi primi utilizzi, ha determinato rivoluzionari cambiamenti nell’approccio alla fisiopatologia in tale campo. Il passaggio dall’M-mode al
B-mode ha consentito non solo all’operatore
esperto, ma ai più, di poter godere di tale importante ausilio diagnostico strumentale. L’applicazione del Doppler all’ecografia in ostetricia ha permesso di cogliere precocemente i segni della compromissione fetale in utero, modificando, di conseguenza il management delle
gravidanze. Si è passati dagli studi di F. Manning sul profilo biofisico fetale alla possibilità
di cogliere, con la valutazione flussimetrica
Doppler dei distretti fetali, i primi segnali di
adattamento in utero ad uno “stress” placentare.
Da tutto ciò̀ ne è derivata una drastica riduzione della mortalità̀ intrauterina, nonché́ una riduzione seppur minore della morbilità̀, conquiste queste dell’ostetricia moderna.
In Germania, quando negli anni ’80 venivano create le prime sonde ecografiche transvaginali, se ne immaginava un utilizzo “tutto ginecologico”, in quanto queste consentivano un approccio più diretto alla sfera genitale interna
femminile. Oggi, l’esame ecografico transvaginale sta ritagliandosi un suo spazio importante
anche in ostetricia; il Preterm Prediction study
group del “The National institute of Child health
and Human Development Maternal-Fetal Medicine Units Network” americano sin dalla fine degli anni ’90 ha iniziato a pubblicare i risultati di
diversi trials su importanti strategie di predizione e quindi di prevenzione del parto pretermine,
su indicatori primari e secondari. Questi studi
hanno conferito un ruolo alla valutazione ecografica transvaginale della lunghezza del collo
dell’utero alle diverse settimane di gestazione
nella predizione della nascita pretermine; l’esame ecografico ha, pertanto, trovato una sua spendibilità̀ anche in termini di efficacia e follow-up
della terapia tocolitica messa in atto nella minaccia di parto pretermine.
Le prospettive sono tante, in pochi anni l’ecografia ha guadagnato nuovi spazi, basti pensare alle nuove sonde volumetriche che ci consentono di avere immagini tri- e quadridimensiona-
li, ma tante sono ancora le sue potenzialità̀ e
Bibliografia
campi di applicazione.
1. Chaoui R., Kalache K., Bollmann R.
Three dimensional color power doppler in the assessment of fetal vascular anatomy under normal
cordone placentare. Am Roentgenol J, 1998; 170:
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Il valore della ecografia color Doppler nella dia-
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5. Chaoui R., Goldner B., Bollmann R.
Diagnosi prenatale R. Due casi con assenza del
Three dimensional color power imaging: princi-
dotto venoso associato a un corso atipico della ve-
ples and first experience in prenatal diagnosis. In:
na ombelicale: implicazioni per il possibile ruolo
Merz E., ed. 3D Ultrasonography in Obstetrics and
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6. Giorlandino C., Caserta L.
Trattato di Medicina interna e semeiotica biofisica del feto Ed. CIC, Ottobre 2009.
Valutazione ecografica del sito di inserzione del
13
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ostetrica con flussimetria materna e fetale, Ecografia ostetrica 4D, Amniocentesi.
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MIXING
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OSTEOPOROSI, DIABETE E FRATTURE
Il rischio di fratture è aumentato nel diabete
mellito: perché? L’evento si spiega con l’OSTEOCALCINA la quale, essendo prodotta dagli OSTEOBLASTI, è ridotta nell’osteoporosi.
Ma l’osteocalcina, oltre a favorire la formazione
dell’osso, stimola anche la produzione di INSULINA nelle cellule beta del pancreas e anche
l’assorbimento del glucosio. In conclusione, le
sostanze che incrementano l’osteocalcina (la vitamina D?) possono da un lato curare l’osteoporosi e prevenire le fratture, e dall’altro curare la
malattia diabetica (Congr. Naz. Diabetol., Torino
maggio 2012).
IPEROMOCISTEINEMIA: CASO
RECORD
1995, Ospedale San Giovanni. Viene ricoverato in una Divisione di Medicina un paziente
che aveva collezionato 17 ricoveri negli ospedali e cliniche universitarie di Roma, dalle quali veniva dimesso sempre con la stessa diagnosi: Sindrome di ipercoagulabilità ematica da anticorpi antifosfolipidi, caratterizzata da una multiforme patologia come ictus, gangrena degli arti inferiori, infarto miocardico e viscerale, flebo-
trombosi. Questi sintomi, in forma lieve, il paziente li aveva avuti un po’ tutti: era anche stato
operato per un’embolia arteriosa a un arto superiore. Ripetuti gli esami per la suddetta sindrome, la risposta non fu molto convincente. Si pensò allora a un possibile aumento dell’omocisteina: in quell’anno il “San Giovanni” era l’unico
ospedale romano a disporre del reattivo “ad
hoc”. Risposta: con un valore normale massimo
di 17 nanogrammi, il paziente ne presentava 70.
Immediata terapia con vitamine B6, B12 e acido
folico e normalizzazione biochimica dopo 20
giorni. Il paziente, dimesso in buone condizioni
generali, ha continuato a star bene in seguito (osserv. pers.).
Commento: l’iperomocisteinemia, ritenuta fino ad allora malattia “rara”, era invece falsamente rara poiché non se ne conosceva il reattivo specifico.
CELLULE STAMINALI NEI
TRAUMATIzzATI CRANICI
Il trauma cranico, più frequente nei giovani,
è tra le più preoccupanti cause di mortalità. In
Italia, ogni anno, colpisce circa 180.000 soggetti: la metà circa decede, i sopravvissuti riportano importanti disabilità permanenti. Nei topi,
presso l’Istituto Mario Negri di Milano, un gruppo di ricercatori ha somministrato, 24 ore dopo
il trauma, cellule STAMINALI MESENCHIMALI UMANE, ottenute dal sangue del cordone ombelicale che ha questi vantaggi: facile reperibilità, immediata disponibilità, netta immunotollerabilità. È stata constatata un’azione protettiva con miglioramento della motilità e della
memoria, nonché facilitata riparazione del danno anatomico: gli effetti permangono nel tempo, dimostrando un reale recupero funzionale.
Necessita una conferma sull’uomo (Crit. Care
Med., 2011).
LA MORTE DI MOROSINI (SINDROME
DI BRUGADA) SI POTEVA EVITARE?
La displasia aritmogena del ventricolo dx è
una “canalopatia”, per alterazione del canale del
sodio. Trattandosi di un’alterazione a livello molecolare, comporta una diagnosi particolarmente
difficile: la stessa autopsia il più delle volte non
chiarisce nulla. Ha pertanto la massima importanza la sua prevenzione.
PREVENZIONE PRIMARIA: prima della
partecipazione allo sport agonistico, è affidata
agli specialisti di Medicina dello Sport: anamnesi, visita generale, ECG a riposo e da sforzo.
PREVENZIONE SECONDARIA: interventi rapidi ed essenziali in caso di arresto cardiaco
in un campo di gioco, finalizzati a una precoce
rianimazione cardiopolmonare, dalla quale dipende la sopravvivenza dello sportivo. È indispensabile la preparazione del personale medico
e non medico (massaggiatore, allenatore, compagni di squadra…) che devono essere istruiti
sulle manovre rianimatorie di base e sull’uso del
DEFIBRILLATORE SEMIAUTOMATICO, che
non deve mancare nei luoghi di gara e di allenamento.
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“PRO PSA”: NUOVO TEST PER IL
CANCRO DELLA PROSTATA
Il tumore della prostata è la neoplasia più frequente nell’uomo, con costante tendenza all’aumento: nel 2012 si prevedono 36 mila nuovi casi. È ora disponibile un nuovo marker sul sangue
che consente di discriminare meglio il tumore
prostatico in pazienti con Psa elevato. A confronto, può monitorare meglio l’aggressività del
tumore e, di conseguenza, limitare il numero di
biopsie necessarie. Ha pure il vantaggio, rispetto alla biopsia, di un costo più contenuto, dato
bene accetto sia dal paziente, sia dalle casse dello Stato.
PRESSIONE ARTERIOSA E
ARTERIOPATIE STENOSANTI
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Tre evenienze meritano una puntualizzazione.
COARTAZIONE ISTMICA DELL’AORTA.
Comporta uno stato ipertensivo prossimale, specie nell’encefalo che – se accentuato – predispone ad emorragie cerebrali, anche ripetute (caso
di osser. pers.). Negli arti inferiori non è rara la
claudicatio intermittens.
FURTO DELLA SUCCLAVIA. Se l’ateroma
stenosante è situato a monte dell’origine della
succlavia sinistra (tipo 1°) è caratteristica una
pressione arteriosa omerale Dx superiore a quella di Sn. È spesso presente un soffio arterioso, da
ricercare col fonendoscopio.
IPERTENSIONE E ANTI-IPERTENSIVI.
La legge di Poisouille, fondamentale nell’emodinamica, è molto illuminante in merito. Se l’arteriopatia ostruttiva in fase avanzata compare in
un iperteso si deve essere cauti nell’impiego di
farmaci anti-ipertensivi. In questi casi un calo
pressorio eccessivo può scompensare il microcircolo periferico, favorendo a gravando una
gangrena. Se l’ipertensione è lieve e ben tollerata, è preferibile usare dosaggi molto bassi o addirittura nessun farmaco. Negli altri casi prudenza con i medicamenti e frequenti controlli delle
arterie distali. Anche uno studio su 109 arteriopatici ricoverati nell’Ospedale San Giovanni porta a questa conclusione.
PERVIETÀ DEL FORAME OVALE
Questa malformazione congenita del setto interatriale può causare microemboli cerebrali. Si
tenga presente al riguardo che solo il 15 % della
portata cardiaca è destinata all’encefalo. Non si
può pertanto escludere che la maggior incidenza
di eventi cerebrali dipenda dall’estrema sensibilità del cervello all’ischemia e che microembolie
in altre sedi restino asintomatiche: ischemia miocardica o degli arti inferiori, infarto renale. Ma
altri due eventi meritano attenzione.
EMICRANIA. La pervietà del setto interatriale incide nei pazienti emicranici intorno al
50%: in questi casi la RMN dell’encefalo evidenzia ischemie subcliniche. La chiusura percutanea del forame ovale è seguita da miglioramento della cefalea. Una possibile causa dell’emicrania possono essere sostanze algogene, come la serotonina, di norma metabolizzate dal
polmone: ma in caso di shunt Dx-Sn sono immesse nel circolo sistemico raggiungendo così il
cervello ove, nei predisposti, scatenano la crisi
emicranica.
SPORT SUBACQUEO. Il sub deve emergere lentamente per evitare embolie gassose polmonari. Ma se persiste la pervietà del setto, le
suddette embolie paradosse possono verificarsi
nel circolo sistemico.
a cura di A. Ciammaichella
SPORT E MEDICINA DELLO SPORT
L
’attività sportiva coinvolge “in toto” il corpo umano, interessando contemporaneamente tutti gli organi con le relative funzioni:
cervello, apparati cardiovascolare e respiratorio,
muscoli, cute. Tutti questi organi sono tra loro
collegati per una indispensabile interconnessione, mirata al migliore rendimento dello sforzo
muscolare. Sul sistema nervoso agisce elevando
il tono dell’umore e favorendo tutte le attività
mentali, compreso il rendimento scolastico. Senza dimenticare che – interessando in massima
parte l’età giovanile – essa non può prescindere
da una sana funzione educativa, che indubbiamente favorisce il rendimento sportivo.
Uno sport intenso e prolungato richiede un
adeguato allenamento, senza il quale può dare
luogo a complicanze anche severe, fino alla morte improvvisa: è pertanto indispensabile lo
“screening” per lo sport competitivo. L’allenamento è utile anche per prevenire i traumi e l’alterata postura.
Particolari soggetti richiedono una speciale
attenzione. La donna, specialmente in età pubere e in gravidanza. La “terza” età: vediamo con
piacere nei campi sportivi o nei prati soggetti non
più giovani che fanno il “footing”; ottima scelta,
ma va saggiamente controllata. Un grande progresso – anche sul piano sociale – si sta sviluppando nelle ultime decadi per quanto riguarda i
disabili, problema in passato completamente
ignorato. Anche i Lions contribuiscono a queste
iniziative con uno speciale “service”, il CREC,
Centro di Rieducazione Equestre Capitolium, dal
nome del Club che l’ha fondato, che si identifica con l’ippoterapia: il disabile, messo a cavallo,
migliora sia sul piano motorio sia sul piano psicologico. Da ricordare anche, in tema di disabili, il famoso corridore sudafricano Pistorius, con
gambe e piedi fatti con fibre di carbonio, già
campione nelle Paraolimpiadi e che – per la prima volta – ha partecipato alle Olimpiadi di Londra 2012.
A TUTTO CAMPO
Alessandro Ciammaichella
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Occorre anche saper conoscere alcune rarissime cardiopatie congenite, come la Sindrome
di Brugada (o displasia aritmogena del ventricolo destro), che ha causato il decesso del calciatore Morosini per fibrillazione ventricolare:
il caso ha dimostrato la indispensabilità del defibrillatore automatico. Assai più benigna a confronto è stata l’embolia cerebrale paradossa del
calciatore Cassano, dovuta a pervietà del setto
interatriale.
Altre patologie particolari sono la “Tennis
leg syndrome” o “Sindrome de la pedrada”, dovuta ad emorragia-trombosi del polpaccio che
causa improvviso dolore con impotenza funzionale. È stata a tutt’oggi l’unico caso della sospensione di un incontro di calcio che colpì l’arbitro D’Elia.
Problema scottante è il “doping” sportivo, diffuso specialmente in quegli sport che richiedono
un’attività muscolare intensa e prolungata, quale
il ciclismo: caso a tutti noto è stato quello del ciclista Pantani, radiato per uso di epopoietina.
Grazie ai progressi delle tecnologia, in alcuni casi si usano particolari “sensori” per monitorare soprattutto la funzione cardiovascolare.
Il fumo compromette nettamente il rendimento sportivo. Per quei fumatori cronici incalliti che – per la nicotino-dipendenza – non
sono capaci di smettere di fumare (“vorrei, ma
non posso”, “meliora probo, deteriora prosequor”) può essere consigliata la moderna sigaretta elettronica che ha un doppio effetto benefico: non rilascia sostanze cancerogene e contiene una minima quantità di nicotina. Essa pertanto potrebbe consentire una certa attività fisica: tenere presente che il Ministero della Salute ne ha vietato la vendita ai minori di 18 anni.
Si deve in tutti i modi invogliare i giovani a
praticare con costanza l’attività sportiva, che presenta veramente vantaggi a tutto campo. “Per un
campo sportivo in più: un tossicodipendente in
meno, un posto-letto libero in ospedale, un carcere meno sovraffollato”.
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LA SINDROME DI TOURETTE
Lelio R. Zorzin, Silvana Francipane
L
a sindrome di Tourette è una malattia neurologica che colpisce l’infanzia, prevalentemente il sesso maschile, e con una possibile regressione spontanea attorno ai 25 anni di età. È
caratterizzata clinicamente da tic motori e sonori, ripetizione ossessiva e involontaria di parole,
deficit dell’attenzione, comportamento compulsivo.
È stata descritta per la prima volta da Tourette nel 1885 e solo recentemente è stata ipotizzata una predisposizione genetica associata a
un’infezione da Streptococco beta-emolitico.
La difficoltà diagnostica di questa malattia, se-
Gilles de la Tourette
condo il neurologo Mauro Porta dell’IRCSS
“Galeazzi” di Milano, risiede nella aspecificità
dei sintomi, che possono condurre a palesi difficoltà nella convivenza sociale. La terapia si
avvale di neurolettici, antidepressivi alla nicotina e al “mascheramento dei tic”.
DAL MONDO ANIMALE E VEGETALE
AzIONE AFRODISIACA E
MEDICAMENTOSA
Lelio R. Zorzin, Silvana Francipane
L
a credenza popolare, sostenuta anche da
pseudoguaritori, ha attribuito nel passato
poteri vitalizzanti e afrodisiaci a particolari formazioni anatomiche del mondo animale o prodotti di provenienza vegetale. Un esempio da citare è quello del lungo dente del Narvalo, cetaceo
dei mari artici, deputato alla funzione difensiva
e offensiva. Nei secoli passati la polvere ottenuta dalla frammentazione di questo dente veniva
impiegata sia con finalità curative sia afrodisiache (fig.1). Analoghe proprietà sono state attribuite al corno, di dimensioni più ridotte rispetto
al precedente, situato sulla fronte di un equino,
detto liocorno o unicorno, animale frutto della
fantasia popolare.
Nel mondo vegetale analoghe proprietà medicamentose e afrodisiache sono attribuite alla
Fig. 1 - Lo scheletro del narvalo conservato nel
Museo Oceanografico del Principato di Monaco
mandragora officinalis, pianta
con radice a fittone antropomorfa (fig. 2). Ippocrate ne descriveva le proprietà sedative,
ansiolitiche con effetti positivi
anche in coloro che soffrono di
mania depressiva. Gli egizi ne utilizzavano le bacche come vermifugo e il decotto delle radici come afrodisiaco. La differenziazione morfologica delle radici ipotizzava una
bisessualità di tale tubero, una variante maschio e una femmina, con effetti differenziati. Dal 1500 in poi si sostituiva alla totale credulità popolare una critica e un razionale da parte della classe medica: veniva successivamente dimostrata l’azione anestetica della
radice antropomorfa della mandragora ed
estratta la scopolamina, avente effetto ipnotico.
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attività di consulente reumatologo.
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Fig. 2 - Mandragora
19
LE SCELTE IMPORTANTI POSSONO
“BLOCCARE” LE PERSONE
20
IL PUNTO
Carolina Aranci
PAURA DI DECIDERE
L
a “sindrome del pesce morto” colpisce chi
teme di affrontare un cambiamento.
Prima o poi nella vita capita di dover affrontare decisioni importanti. Un nuovo lavoro, la
scelta della facoltà universitaria, il matrimonio,
la nascita di un figlio, l’acquisto della casa: scelte fondamentali, che comportano un investimento notevole di energie fisiche e psichiche, bilanciato tuttavia dall’entusiasmo con cui si compiono e dalla soddisfazione che probabilmente se ne
ricaverà. Niente di impossibile, insomma: è normale provare ansia e timore di non farcela mentre si valutano i pro e i contro; ma poi, preso il
coraggio a due mani, si agisce.
• Per alcune persone non è così. Magari sono
stimati professionisti, studenti brillanti, gente
attiva nei rapporti sociali ma, di fronte a situazioni che li coinvolgono in prima persona,
in cui devono decidersi per una via o l’altra, si
•
•
bloccano. Non riescono più a far leva sull’intelligenza, sul buonsenso, sulle loro capacità;
semplicemente, non possono andare avanti e
cercano in ogni modo di evitare la scelta.
La paura di prendere la decisione sbagliata
ha per loro un effetto immobilizzante. Preferiscono non affrontare il “bivio” al quale la
vita li ha condotti perché temono, facendo
qualche errore, di perdere la stima degli altri
e di se stessi.
Si comportano come i pesci che si fingono
morti quando viene cambiata l’acqua dell’ampolla in cui vivono: per difendersi da un
eventuale attacco esterno, si lasciano galleggiare su un fianco in superficie, inermi. In
realtà sono vivi e vegeti, ma il meccanismo di
autodifesa studiato dalla natura per loro li
porta a immobilizzarsi. Terminata l’azione di
pulizia del micromondo acquatico, non appena certi del cessato pericolo, ecco che riprendono a nuotare come sempre.
UN ESEMPIO, TRA FIDANzATI
•
•
•
•
Un ragazzo e una ragazza si conoscono a un
colloquio di lavoro. Si piacciono subito e parlando scoprono alcune coincidenze curiose
nelle loro esistenze. Stessi interessi, stessi
luoghi di villeggiatura, simili avvenimenti
nel passato. Si mettono assieme: sono affiatati e innamorati; lui racconta agli amici di
aver trovato la donna della sua vita, lei sente
di aver coronato un sogno a lungo aspettato.
Trascorrono gli anni e i due continuano a stare bene assieme. È arrivato il momento di far
diventare la relazione qualcosa di più maturo; gli amici e i familiari cominciano, un po’
scherzando un po’ no, a chiedere quando pensano di sposarsi. Lei sorride rispondendo che
in effetti sarebbe ora; lui invece è serio e a
quella domanda pare rabbuiarsi.
Nei giorni successivi sembra pensieroso, distaccato. La cerca meno del solito. Poi, una
sera in cui avrebbero dovuto vedersi, le telefona e si arrabbia con lei per una sciocchezza. La ragazza, offesa, non lo richiama,
aspettando sia lui a calmarsi e a farsi sentire
per chiederle scusa. Ma la telefonata non arriva mai.
Messo di fronte a una scelta importante come
quella di dare stabilità alla coppia, lui non se
l’è sentita. Eppure provava per la sua ragazza un amore fortissimo; ma modificare il modo di vivere la relazione, passare da fidanzati a sposi, questo no, non è riuscito ad affrontarlo, è stato più forte di lui. Il suo inconscio ha temuto che potesse rompersi un
equilibrio ormai stabile. Meglio rinunciare a
lei, al loro amore, al futuro assieme, piuttosto
che cambiare vita diventando marito e moglie, assumendo su di sé la responsabilità dell’altra.
CONIUGI E GENITORI
Nelle coppie sposate la passivizzazione di
uno dei due partner può accadere ad esempio
quando l’altro (o l’altra) desidera un figlio; e nei
casi più gravi e sbalorditivi, subito dopo la nascita del bambino.
• Si comincia col notare il coniuge stanco, indolente, più statico del solito, meno propositivo; e si accusa il troppo lavoro, un momento delicato, lo stress della quotidianità oppure, al contrario, fioccano gli appuntamenti
fuori casa, amici con cui da tempo non aveva più a che fare, interessi sopiti a lungo che
adesso invece appaiono irrinunciabili. Tutti
modi per sottrarsi a una maturazione interiore e di coppia.
• Proprio quando ci si aspetta più attenzioni,
ad esempio perché si ha un bimbo in casa da
accudire o si sta progettando di averne uno,
ecco che il/la partner sembra non pensare ad
altri che a se stesso.
• In realtà quella persona sta abbandonando la
sua capacità di volere. Ha paura di rientrare
nello stereotipo del marito o della moglie privo di libertà; teme di perdere ore di sonno
preziose nell’accudire il figlio neonato; non
desidera uscir fuori dal proprio ego per misurarsi con le necessità dell’altro o dell’altra.
LE CONSEGUENzE
Chi soffre della paura di prendere decisioni
vede sfumare davanti a sé occasioni d’oro. Assume un atteggiamento di superiorità, come se
non gli fosse necessario nulla per migliorare, oppure si comporta da rinunciatario, esprimendosi
con frasi come: “Tanto a che serve?”, oppure:
“Sto bene così come sto”. In realtà soffre della
propria immobilità e avrebbe piacere nel farsi
avanti senza provare timore.
• Anziché prendere in mano la propria vita, lascia fluire i tempi, le persone, le situazioni. I
giorni trascorrono da sé e chi lo circonda è
obbligato a prendere decisioni al suo posto,
perché lui, se non si sente adeguato, possa a
un certo punto dileguarsi.
• Nel cedere a una visione pessimistica, passivizzante, negativa della vita, rischia di la-
21
•
sciarsi andare. Perde, ad esempio, la possibilità di rimettersi in gioco, di scoprire nel partner aspetti interessanti che non conosceva e
non credeva di poter trovare, come quello dell’essere genitore; di rendere la propria vita più
piena, addirittura di accogliere la felicità immensa e incommensurabile di un figlio.
Chi si passivizza, resta così com’è. Non cresce, non cambia, si blocca. E rischia di essere allontanato dalla vitalità degli altri, rimanendo solo. Proprio come i pesci nell’acquario: il loro meccanismo di autodifesa, il loro
fingersi morti, fa rischiar loro di essere scambiati per creature morte per davvero e dunque di essere gettati via.
•
•
COME GUARIRE DALLA PAURA DELLA
SCELTA
22
Con un percorso di psicoterapia adeguato si
può vincere la paura. Il timore è fisiologico, ma
occorre affrontarlo con vitalità.
• Innanzitutto bisogna rafforzare l’autostima
della persona colpita dalla sindrome, che non
si sente all’altezza di saper decidere. Può darsi che alcune sue scelte del passato, o quelle
•
compiute da persone molto vicine, abbiano
causato delusioni traumatiche facendo così
perdere la spontaneità del preferire una cosa
a un’altra.
Riequilibrata la forza di volontà, la persona
deve essere portata a valutare chi le sta accanto adesso (il fidanzato, il coniuge) come
punto di riferimento positivo per le decisioni
importanti. Bisogna imparare a comunicare
con il partner, esprimendo anche disagi e senso di incapacità, perché se ne possa essere
consolati e si tragga dal dialogo di coppia un
incoraggiamento ad andare avanti. Tacendo,
invece, si erige un dannoso muro di incomprensione, difficile da scalfire.
Va poi attuato un processo di responsabilizzazione e di passaggio dall’adolescenziale innamoramento all’amore adulto. Lo stare insieme non dev’essere solo un crescendo di
emozioni e palpiti del cuore come quando ci
si innamora da giovanissimi, ma deve maturare passando dall’amore emotivo a un amore fecondo.
Una volta usciti dalla sindrome, si è consci
delle proprie possibilità e si riprende pieno
possesso della vita. Con una nuova consapevolezza: che solo chi non fa, non sbaglia mai;
Presso la BIOS S.p.A. di Roma, in via Chelini 39, la dott.ssa Carolina Aranci
svolge attività di consulenza analitico-transazionale.
Per informazioni e prenotazioni: CUP 06 809641
Unesempio
[Rita Levi Montalcini]
Ho perso un poco la vista e l’udito. Alle conferenze non vedo le proiezioni e non
sento bene ma penso più adesso di quando avevo vent’anni. Il corpo faccia
quello che vuole. Io non sono il corpo: io sono la mente.
Unasfidainteressante
È veramente da mettere in dubbio che l’intelligenza umana possa creare un cifrario che poi l’ingegno non riesca a decifrare con l’applicazione necessaria.
Conottimismo
[Pablo Picasso]
Ci si mette molto tempo per diventare giovani.
ComUnqUe,darsidafare
[Leonardo da Vinci]
Come il ferro in disuso arrugginisce, così l’inazione sciupa l’intelletto.
perChiseneintende
[attribuita a Napoleone Bonaparte]
Dal sublime al ridicolo c’è soltanto un passo.
SELECTIO
[Edgar Allan Poe]
23
24
LEGGERE LE ANALISI
OMOCISTEINA qUALE FATTORE DI
RISCHIO
È
calcolato che ogni anno circa il 30% dei decessi, a livello mondiale, sia conseguenza di
patologie cardiovascolari. I decessi colpiscono
individui nei quali il colesterolo è elevato nel 2030% dei casi. Intorno agli anni Sessanta del ventesimo secolo, quando l’approccio allo studio
delle malattie cardiovascolari era orientato essenzialmente sul ruolo del colesterolo, indagini
sul significato dell’iperomocisteinemia non vennero prese in adeguata considerazione. Negli anni successivi tuttavia l’atteggiamento cambiò e
da allora l’omocisteina è stata ed è al centro di
numerosi lavori e dibattiti scientifici.
L’omocisteina è stata isolata per la prima volta nel 1933 grazie a lavori di Vincent du Vigneaud, che nel 1955 ha ricevuto il premio Nobel
per la chimica. L’omocisteina è un particolare
amminoacido che si forma dopo la perdita del
gruppo metilico da parte della metionina; la sua
funzione nel nostro organismo è regolata da enzimi e alcune vitamine (in particolare acido folico, vitamina B6 e vitamina B12). L’omocisteina
si forma dalla S-adenosilmetionina e dalla S-adenosilomocisteina. In un organismo sano l’omoci-
steina è di nuovo trasformata in metionina, oppure in amminoacidi, che vengono eliminati attraverso le urine. Il 20% circa dell’omocisteina è
libera, mentre l’80% si lega a proteine. Nel 20%
si colloca sia la forma ridotta sia quella ossidata.
La forma ridotta, che è particolarmente dannosa
per gli endoteli vascolari, è circa il 2% della omocisteina totale. Il metabolismo dell’omocisteina
(e di conseguenza l’eliminazione di quella in eccesso) utilizza anche altre due vie di smaltimento:
1. la rimetilazione (l’omocisteina può essere rimetilata a metionina mediante due processi
nei quali sono attivi l’acido folico, le vitamine B2 e B12, la betaina e lo zinco);
2. la transulfurazione (meccanismo nel quale
l’omocisteina viene degradata in cisteina con
l’intervento della vit. B6).
La regolazione dell’omocisteina è un meccanismo complesso e i suoi livelli nel sangue, se elevati, possono danneggiare il sistema cardiovascolare, la struttura ossea, le funzioni del sistema nervoso. Le modalità correlate al danno si basano sulla produzione di radicali liberi e lo stress ossida-
tivo. Interferendo inoltre sui meccanismi della
coagulazione e sul danno delle pareti vascolari,
l’iperomocisteinemia è considerata di per sé un
fattore significativo del rischio cardiovascolare.
La concentrazione dell’omocisteina dipende
da caratteri genetici e stile di vita. Sotto il profilo genetico è nota la mutazione MTHFR (metilentetraidrofolato-reduttasi), che ostacola il processo di trasformazione e induce un aumento di
omocisteina. È una mutazione piuttosto frequente (frequenza allelica intorno allo 0,5 nella popolazione italiana). Il polimorfismo più comune
è C677T. Condizionano l’iperomocisteinemia la
carenza dei folati, della vitamina B12 e della vitamina B6. Esiste poi una patologia ben nota di
tipo metabolico correlata al difetto dell’enzima
cistationina-b-sintetasi (omocistinuria). Non va
dimenticato il complesso delle abitudini sfavorevoli: scarsa attività fisica, fumo di sigaretta (tabagismo), eccessiva assunzione di bevande alcoliche e consumo di caffè.
Le numerose evidenze sperimentali ed epidemiologiche hanno indotto l’Organizzazione
Mondiale della Sanità a inserire l’iperomocisteinemia tra i più importanti fattori di rischio per lo
sviluppo di malattie cardiovascolari (aterosclerosi coronarica, infarto miocardico), cerebrovascolari (ictus cerebrale) e vascolari periferiche
(trombosi arteriose e venose). Come fattore di rischio l’iperomocisteinemia plasmatica è associata a ipertensione arteriosa, diabete mellito,
elevati livelli di colesterolo, fumo.
Altri aspetti importanti da non trascurare come cause di iperomocisteinemia sono: disfunzione renale (diminuita capacità di clearance dell’organo), uso di alcuni farmaci (metotrexate, ciclosporina), invecchiamento (i valori crescono
con l’età), sesso (negli uomini i valori sono tendenzialmente più alti). Indagini ulteriori hanno
messo anche in evidenza una correlazione tra incremento dell’omocisteinemia ed esito infausto
per gravidanza (alterazioni per la vascolarizzazione della placenta e quindi diminuita funzionalità: aborto, nascita sottopeso del neonato, presenza di difetti del tubo neurale). Altrettanto interessanti le indagini relative all’associazione
Metabolism of homocysteine
Remethylation pathway
methionine
tetrahydrofolate
5,10,-methylenetetrahydrofolate
MTHFR
MS
N,N,-dimethylglycine
[B12]
5,-methyltetrahydrofolate
betaine
S-adenosyl-methionine
S-adenosyl-homocysteine
homocysteine
CBS
[B6]
cystathionine
CYS
Transsulfuration pathway
[B6]
CBS
CYS
MS
MTHFR
cystathionine-ß-synthase
γ-cystathionase
methionine synthase
methylenetetrahydrofolate
reductase
cysteine
sulphate
con la sindrome di Alzheimer.
Dati epidemiologi hanno evidenziato già in
lavori di alcuni anni or sono che mentre l’iperomocisteinemia nella popolazione generale arriva
al 10%, nei soggetti con patologia vascolare raggiunge il 40%. I valori di omocisteina nel plasma sono considerati normali quando sono intorno alle 5-12 micromoli per litro (5-12
µmol/L), borderline per livelli superiori, fino a
15 µmol/L, e alti quando superano questa soglia.
I livelli ottimali di omocisteina si considerano attorno a circa 6-7 µmol/L. Per una sintesi pratica:
nel sesso femminile valori di omocisteina elevati si considerano quando i livelli sono superiori a
10,4 mmol/L; nel caso degli uomini i valori elevati si trovano con livelli superiori a 11,4
mmol/L. Come è stato detto dal prof Ueland,
esperto di omocisteina (Hcy) della University of
Bergen/Haukeland Hospital, in Norvegia: “Hcy
is in fact a health measure. There is an extraordinary connection between the quantity of Hcy
and the patient’s general state of health. The Hcy
value is an indicator for both health and nonhealth factors such as exercise, smoking, coffee
drinking, cholesterol, vitamins”.
a cura di Giuseppe Luzi
Schema tratto da Homocysteine Hypothesis
for Atherothrombotic
Cardiovascular Disease,
Kaul S. et al., JACC
2006.
25
IMPARARE DALLA CLINICA
26
PREVENzIONE SECONDARIA
AMbULAToRiALe NEI PAzIENTI AFFETTI
DA CARDIOPATIA ISCHEMICA TRATTATI
CON RIPERFUSIONE CORONARICA
MEDIANTE ANGIOPLASTICA
CORONARICA
Antonio Santoboni
È
noto che l’infarto miocardico acuto, causato
da una occlusione improvvisa di un’arteria
del cuore, e che si presenti all’elettrocardiogramma con sopraslivellamento del tratto ST (infarto
STEMI), ha la più alta mortalità nelle primissime
ore (prima, seconda e terza ora) dall’inizio della
sintomatologia e che l’intervento di rivascolarizzazione miocardica con angioplastica coronarica
(PTCA) primaria (“palloncino” e stent) o con l’infusione di farmaci trombolitici (che sciolgono il
trombo occludente la coronaria), ha ridotto notevolmente, negli ultimi 25 anni, con la riabilitazio-
ne dell’arteria coronaria occlusa e la riperfusione
del muscolo cardiaco, la mortalità a breve e medio
termine, e modificato radicalmente la storia naturale delle sindromi coronariche acute.
Già dalla metà degli anni Ottanta del XX secolo si era dimostrato, con l’importante studio del
Gruppo Italiano per lo Studio della Streptochinasi nell’Infarto Miocardico (GISSI I°), che con la
infusione endovenosa di streptochinasi nelle primissime ore dell’infarto miocardico, si aveva una
riduzione significativa della mortalità (del 46%
circa se praticata nelle prime tre ore, e soltanto del
17% se praticata tra la terza e sesta ora dall’inizio
della sintomatologia [1]. Ma ancora oggi, nonostante le efficaci strategie di riperfusione coronarica e i nuovi trattamenti farmacologici, l’infarto
miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST rimane gravato, soprattutto se in sede anteriore, con un interessamento di 5 o più derivazioni, o con un tempo di ischemia maggiore di 3 ore,
e con frazione di eiezione compromessa, da elevata morbilità e mortalità a 30 giorni che è circa 810% [2]. C’è da aggiungere che con l’invecchiamento della popolazione, nei pazienti di età superiore a 75 anni, la sindrome coronarica acuta si
presenta più frequentemente con un infarto miocardico acuto senza sopraslivellamento del tratto
ST (NSTEMI) [3-4], e anche se i dati della letteratura non sono ancora conclusivi, anche per loro
sarebbe preferibile un trattamento di riperfusione
tempestivo dell’infarto miocardico con un approccio invasivo acuto seguito da una ancora più
attenta prevenzione secondaria [5].
Nella popolazione di sesso femminile, invece,
la cardiopatia ischemica si presenta generalmente
qualche anno dopo quella del sesso maschile, e
con caratteristiche sia anatomiche sia cliniche proprie. Alla coronarografia infatti, le coronarie si
presentano più piccole e con una maggiore e spiccata vasomotricità (spasmo), e la stessa sindrome
coronarica ischemica si manifesta clinicamente
con caratteristiche peculiari, anche diagnostiche.
L’esordio della malattia, in genere, avviene sotto
forma di angina instabile, e più frequentemente
con un infarto senza sopraslivellamento del tratto
ST (NSTEMI) rispetto a un infarto con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI). Queste varianti
anatomiche e cliniche femminili comunque non
inficiano, dal punto di vista tecnico, la fattibilità ed
efficacia dell’angioplastica coronarica nell’infarto miocardico acuto, senza differenza di mortalità,
paragonata al sesso maschile, sia nel breve sia nel
lungo periodo [6].
Nel 2011 sono state oltre 2000 le angioplastiche coronariche eseguite nell’infarto miocardico
acuto nella sola regione Lazio (dati G.I.S.E. Gruppo Italiano di Studi Emodinamici): una vasta popolazione composita, di giovani e anziani, di uo-
mini e di donne. Alcuni di questi pazienti, che
hanno superato un infarto miocardico acuto, possono essere a rischio di nuovi eventi e di recidiva
entro il primo anno dalla dimissione dall’ospedale [7]. Questo può avvenire per vari motivi: o per
la trombosi intra-stent, che può essere acuta (entro 31gg) o tardiva (un mese - un anno, o più), o
per le caratteristiche angiografiche della lesione
trattata, come per esempio una placca ulcerata, o
una sottoespansione dello stent, e/o fattori propri
legati all’anatomia dell’albero coronarico. Di
grande importanza sono poi le condizioni cliniche, come per esempio se è presente o meno
ischemia residua nell’area infartuale o in altri territori del muscolo cardiaco, o altre situazioni che
riguardano sia la progressione della malattia aterosclerotica stessa, sia la concomitante presenza
di altre malattie. Sono necessari, pertanto, alcuni
interventi terapeutici con i quali ottenere un miglioramento della prognosi, interventi che riguardano il trattamento degli indicatori di rischio coronarico conosciuti. Si è dimostrata l’utilità nel ridurre gli eventi cardiovascolari maggiori nella
prevenzione secondaria dopo angioplastica coronarica, con trattamenti sia non farmacologici e sia
farmacologici, i quali debbono protrarsi per un
lungo periodo di tempo.
Le indicazioni terapeutiche non farmacologiche consigliate alla dimissione, dopo il superamento della sindrome coronarica acuta, che vanno dallo stile di vita, all’alimentazione corretta, e
all’attività fisica, debbono tenere conto sia delle
condizioni generali del singolo paziente, sia dell’età, sia del livello di attività fisica, e le eventuali limitazioni motorie, precedenti l’episodio ischemico. Le indicazioni farmacologiche, che hanno
dimostrato benefici con una riduzione della morbilità e mortalità, in accordo con tutte le linee guida internazionali, comprendono farmaci come le
statine, i betabloccanti, gli inibitori dell’enzima di
conversione dell’angiotensina (ACE inibitori o
sartani) e la duplice terapia antiaggregante, con
aspirina e altri antiaggreganti (DAPT acronimo di
Dual Antiplatelet Therapy). Per quanto riguarda
la durata di tale duplice terapia antiaggregante, essendo il tempo necessario per l’endotelizzazione
27
28
negli stent metallici (bare-metal-stent: BMS) di
tre-sei mesi, può avere una durata relativamente
breve, mentre con gli stent medicati (drug-eluting
stent: DES) questa terapia deve protrarsi per un
periodo più lungo, e la cui durata può non essere
ben definita richiedendo questi stent, per la nuova
endotelizzazione, un maggiore lasso di tempo. I
farmaci, inoltre, debbono praticarsi, non soltanto
per impedire la trombosi e la conseguente occlusione dello stent, ma anche per limitare il rischio
di eventi ischemici spontanei successivi [8]. Queste terapie sono volte a garantire la continuità assistenziale dal ricovero di pochi giorni in ospedale, al territorio e ad accompagnare il passaggio
dalla fase assistenziale acuta, con le cure primarie,
come l’angioplastica coronarica, alla rete ambulatoriale, cui compete la continuità della cura stessa e la gestione del paziente infartuato, per il breve e medio termine, periodo critico nel quale si
concentra la maggiore incidenza di mortalità post
infartuale [7].
Oltre al trattamento degli indicatori di rischio
oggi conosciuti, c’è da considerare anche quelli
che sono gli aspetti psicologici post sindrome coronarica acuta, poiché l’ansia è quasi praticamente inevitabile, sia nei pazienti sia nei loro famigliari, così come lo può essere la possibile evenienza di uno stato depressivo e di irritabilità. Altro fattore da considerare è rappresentato dall’invecchiamento della popolazione, con la possibile
concomitanza di altre patologie croniche correlate, come per esempio l’ipertensione arteriosa, la
broncopatia ostruttiva, il diabete mellito, l’insufficienza renale, l’osteoporosi, la fibrillazione atriale, ecc. con le rispettive ulteriori terapie da seguire [9]. C’è da sottolineare, purtroppo, che la prevenzione farmacologica delle recidive coronariche risente ancora di un’inadeguata utilizzazione
di farmaci con spiccata proprietà cardioprotettiva
nel trattamento ambulatoriale del post infarto miocardico acuto sottoposto a rivascolarizzazione
miocardica mediante angioplastica coronarica.
Il recente, importante studio PURE (Prospective Urban Rural Epidemiology) ha valutato la
prevalenza di soggetti in trattamento con farmaci
cardiovascolari in prevenzione secondaria, mostrando che la maggior parte dei pazienti con un
pregresso infarto miocardico o ictus assume una
terapia cardiovascolare inadeguata. Lo studio dimostra che i pazienti in trattamento con farmaci
cardiovascolari fondamentali per la prevenzione
secondaria della cardiopatia ischemica e dell’ictus, supera di poco il 50%, e questo avviene in
qualsiasi strato sociale [10]. I motivi possono essere diversi. Per esempio i soggetti giovani, senza storia di malattia, dimessi dopo un breve ricovero per sindrome coronarica acuta trattata con
angioplastica coronarica, rassicurati sulla risoluzione positiva dell’evento ischemico acuto, possono non rendersi conto a pieno di quanto la prevenzione secondaria possa essere di fondamentale importanza per il mantenimento di buone condizioni di salute; nei soggetti meno giovani o più
anziani il dover assumere contemporaneamente
molte più pillole, per le comorbilità associate, può essere motivo
di interruzione della terapia cardioattiva. Anche il doversi sottoporre a un intervento chirurgico
non cardiaco è causa frequente di
sospensione della terapia soprattutto
antiaggregante.
Si può trovare nelle prescrizioni dei medici generalisti ambulatoriali un elevato
tasso di variabilità terapeutica, anche
perché la prescrizione dei farmaci cardioprotettivi è raramente frutto soltanto della decisione del medico di medicina generale, ma essa risente anche dell’indirizzo terapeutico di altri medici specialisti che
trattano, spesso in assenza di coordinamento, se
non a volte addirittura in competizione reciproca, il paziente coronaropatico post angioplastica
coronarica [11]. Sarebbe necessario, pertanto,
uno stretto rapporto tra la competenza del medico di famiglia e le competenze cardiologiche,
professionalmente adeguate, dello specialista
ambulatoriale di cardiologia interventistica [12].
Una efficace prevenzione cardiovascolare richiede, inoltre, che all’appropriatezza prescrittiva dei medici si accompagni anche l’aderenza
terapeutica da parte dei pazienti stessi, poiché le
modifiche dei comportamenti di vita abituali,
che sono tendenzialmente molto conservativi,
richiedono un percorso lungo, laborioso e non
sempre semplice.
CONCLUSIONI
Lo scopo della prevenzione secondaria nei
pazienti affetti da cardiopatia ischemica, trattati
con riperfusione coronarica mediante angioplastica coronarica, è quello di evitare le recidive,
ristabilire e mantenere una buona qualità di vita.
I progressi scientifici, che hanno caratterizzato
la ricerca cardiologica negli ultimi decenni, hanno modificato la storia naturale dell’infarto miocardico acuto, consentendo, ai sopravvissuti al
primo evento coronarico, efficaci terapie farma-
cologiche di prevenzione
cardiologica secondaria
(terapie che, se sistematicamente applicate, possono prevenire
una grande parte delle recidive). Risulta fondamentale e
importante, pertanto, quella
che è la responsabilità della
gestione clinica del paziente
post-angioplastica coronarica,
in seguito a sindrome coronarica acuta, in particolare nei
sei, dodici mesi successivi al
grave episodio ischemico acuto,
che ricordiamo essere il periodo più critico e dove si concentra la maggiore incidenza di mortalità post-infartuale. Altrettanto importante che la
gestione clinica continui ancora dopo, negli anni a seguire, essendo purtroppo la cardiopatia
ischemica una condizione patologica cronica.
Questo approccio richiede, nella pratica clinica ambulatoriale, un’organizzazione sanitaria
dedicata all’appropriatezza della prescrizione
farmacologica con l’applicazione di tutte le procedure terapeutiche efficaci da estendere alla numerosa popolazione affetta da cardiopatia ischemica, e già sottoposta a procedura di angioplastica coronarica. Con la visione della lettera di
dimissione dell’ospedale, che è una modalità irrinunciabile di trasferimento delle informazioni
tra ospedale e territorio, della terapia in atto, con
la visione della registrazione su dischetto magnetico della procedura di angioplastica coronarica, con la visualizzazione angiografica dell’albero coronarico in toto, del trattamento della lesione colpevole dell’infarto miocardico acuto, e
della funzione ventricolare sinistra, si possono,
in un centro ambulatoriale con competenze specialistiche, professionalmente adeguate di cardiologia interventistica, in stretto rapporto con il
medico di famiglia, implementare interventi e
trattamenti, anche a lungo termine, per determinare un miglioramento della prognosi, limitare
le recidive, ristabilire e mantenere una buona
qualità di vita.
29
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Cardiol 2009; 10\7: 450-489.
Presso la BIOS S.p.A. di Roma in via Chelini 39, è attivato un servizio cardiologico di prevenzione ambulatoriale dedicato al controllo e monitoraggio delle
persone sottoposte ad angioplastica coronaria, con la consulenza del prof. Antonio Santoboni.
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L
a proteina C reattiva, anche indicata con lasigla PCR, fu identificata nel 1930 da Tillet
e Francis e fu così chiamata per la sua capacità di
legarsi, in presenza di calcio, al polisaccaride somatico C che veniva estratto da colture di pneumococco (1).
È una alfa globulina costituita da cinque sub
unità associate ad uno ione calcio dal peso molecolare complessivo di 115.000-140.000 Da. È
sintetizzata nel fegato sotto lo stimolo di alcuni
mediatori dell’infiammazione tra cui le citochine e, in particolare, l’interleuchina 6. Fa parte del
gruppo delle cosiddette proteine positive della
fase acuta (PFA), ovvero quelle proteine la cui
concentrazione plasmatica aumenta di almeno il
25% nel corso di una patologia infiammatoria. I
suoi livelli ematici, di norma molto bassi, infatti iniziano ad aumentare in circa 6 ore durante la
risposta generale non specifica che si attiva in
processi infiammatori (infettivi e non) e raggiungono i livelli massimi entro le 48 ore (2).
L’aumento della concentrazione ematica di
PCR contribuisce all’immunità innata (o immunità aspecifica) con attivazione del complemento (e quindi dei meccanismi difensivi messi in atto dall’organismo contro le infezioni e gli agen-
ti estranei) e accelerazione della fagocitosi (la capacità che diverse cellule hanno di ingerire e distruggere corpi estranei). L’innalzamento dei livelli di proteina C reattiva è quindi un meccanismo che l’organismo mette in atto per difendersi da vari processi patologici: infezioni (3), tumori (4), danni tissutali (5), disordini infiammatori e patologie associate a questi ultimi (6). Anche alcuni farmaci come antibiotici, metildopa,
contraccettivi orali, penicillina, streptomicina e
tetracicline possono determinare un aumento dei
livelli ematici di PCR.
La misura dei livelli di PCR viene effettuata
con un semplice prelievo ematico. Negli ultimi
anni la sensibilità analitica, grazie all’impiego di
macchinari più sofisticati, è passata da 3 mg/L a
0,5 mg/L (la così detta PRC ad alta sensibilità,
hsPCR).
Mentre con il test classico della PCR si possono misurare consistenti variazioni dei livelli
ematici di PCR, indici di una generica infiammazione, con la hsPCR è possibile individuare
anche minime variazioni dei livelli ematici di
questa proteina.
Questa innovazione ha permesso di evidenziare una connessione tra i livelli di PCR e il rischio di patologie cardiovascolari. Infatti, uno
studio del 1997, confermato da 25 lavori successivi e condotto su 22.000 uomini sani, ha dimostrato una forte relazione diretta tra i valori di hsPCR e il rischio di infarto: più si alzano i livelli
basali di hs-PCR più il rischio di infarto aumenta, anche di due o tre volte.
In particolare, valori di hs-PCR inferiori a 1
mg/L rappresentano un basso rischio cardiovascolare, valori tra 1 e 3 mg/L un rischio moderato e valori superiori a 3 mg/L un rischio elevato.
È stato infatti dimostrato che la PCR ha un forte
valore predittivo negli uomini e nelle donne in
buona salute, come pure negli anziani e nei fu-
BIOS NOVITÀ PER IL MEDICO
irene Carunchio
31
matori ad alto rischio, nei soggetti con angina e
infine in quelli con infarto del miocardio pregresso. Secondo questi studi i soggetti con tassi
di PCR elevati (> 3) hanno un rischio relativo di
eventi cardiovascolari futuri da tre a quattro volte superiore rispetto agli individui con livelli normali della proteina (7). Livelli ematici > 10 mg/L
non sono predittivi di patologie cardiovascolari
in quanto attribuibili a uno stato infiammatorio
generale, di altra origine.
Non è ancora chiaro quale sia il nesso tra l’incremento dei valori di PCR e il rischio di patologie cardiovascolari, ma è stato ipotizzato che
la formazione della placca arterosclerotica scateni un evento infiammatorio del quale l’aumento dei livelli della proteina C potrebbe essere
uno dei primi effetti.
Da recenti studi pubblicati in letteratura è
emerso che l’aumento dei livelli serici di hs-PCR
può essere ridotto mediante interventi non farmacologici quali il calo ponderale, l’attività fisica regolare, la cessazione del fumo di sigaretta,
insomma da una modificazione dello stile di vita,
come pure da un’appropriata terapia farmacologica. Attualmente, non vi sono farmaci disponibili in grado di agire esclusivamente sullo stato
infiammatorio per ridurre il rischio cardiovascolare. Diversi farmaci usati al fine di tenere sotto
controllo altri fattori di rischio metabolici hanno
dimostrato di essere in grado anche di ridurre i livelli circolanti di hs-PCR (ad esempio: statine,
acido nicotinico, fibrati, ACE-inibitori, tiazolidinedioni).
In conclusione, anche se i valori di PCR non
possono essere considerati come gli unici parametri per la valutazione del rischio cardiovascolare, devono essere presi in considerazione
unitamente a sesso, età e abitudini alimentari e
stile di vita dei pazienti (8).
Nel nostro laboratorio vengono eseguiti i dosaggi della PCR e della hs-PCR utilizzando
l’ADVIA 1800, Siemens (metodo immunoturbidimetrico potenziato al lattice) che assicura rapidità e precisione della risposta.
32
Bibliografia
1. Lee-Lewandrowski et al.
Clinica e medicina di laboratorio. Roma, Verducci
editore, 1996.
2. Deban et al.
Biofactors. 2009, 35(2): 138-45.
3. Bilavsky et al.
Acta Pediatr 2009, 98(11): 1776-80.
4. Hefler-Frischmuth et al.
Eur J Obstet Gynecol Reprod Biol. 2009, 147(1):
65-8.
5. weigelt et al.
Diabetes Care. 2009,32(8):1491-6
6. Simòn-Campos e Padilla-Hernandez
Rev Med Inst Mex Seguro Soc. 2008, 46(6): 5916.
7. Ridker et al.,
Circulation 1998 98(9): 839-844.
8. Iso et al.,
J Atheroscler Thromb. 2012,19(8): 756-66.
Presso la BIOS S.p.A. di Roma in via Chelini 39, si eseguono quotidianamente
esami di laboratorio di routine e specialistici.
Per informazioni e prenotazioni: CUP 06 809641
SCOPERTA LA MOLECOLA IN GRADO
DI BLOCCARE LA PROLIFERAzIONE
DELLE CELLULE TUMORALI NEI TUMORI AL SENO
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC34948
77/pdf/emmm0004-1214.pd
Nuovi progressi nella lotta contro il tumore
al seno. Il gruppo di Oncogenomica Traslazionale in collaborazione con l’Anatomia Patologica dell’Istituto Regina Elena di Roma e con il
Weizmann Institute of Science (Israele), ha pubblicato nell’ultimo numero dell’Embo Molecular Medicine la scoperta di una nuova molecola
in grado di bloccare la proliferazione delle cellule tumorali nei tumori al seno. Questa scoperta, descritta dalla dottoressa Francesca Biagioni
autrice del lavoro, “oltre a consentire una maggiore comprensione sui meccanismi inerenti la
trasformazione neoplastica, pone le basi molecolari per future nuove terapie e trattamenti sempre più personalizzati per uno dei tumori, come
quello al seno, che è il più diffuso nella popolazione femminile”.
La molecola individuata dai ricercatori è il
microRNA 10b* (miR-10b*), che fa parte di una
classe di mediatori cellulari di recentissima scoperta che agiscono regolando l’espressione delle proteine coinvolte nella crescita e nello sviluppo del tumore. Si tratta di molecole oggetto
negli ultimi anni di un’intensa ricerca, in quanto
si stanno rivelando come nuovi possibili biomarcatori nella diagnosi e prognosi di diverse
neoplasie umane, tra cui appunto il tumore al seno. Gli esperimenti hanno permesso inizialmente di dimostrare che nel tumore al seno esiste una
diversa espressione di alcuni microRNA rispetto
al tessuto circostante sano. “L’espressione del
miR-10b* in particolare – illustra la dottoressa
Francesca Biagioni – viene persa nelle cellule tu-
morali rispetto alla controparte sana e la ricostituzione della sua espressione porta alla morte
delle cellule tumorali stesse, attraverso la riaccensione dell’attività di tre proteine (PLK1,
BUB1 e Ciclina A) coinvolte in processi chiave
per la sopravvivenza della cellula trasformata.
Inoltre, esperimenti su cavie murine hanno evidenziato la capacità del miR-10b* di bloccare la
crescita del tumore aprendo la possibilità di un
suo impiego terapeutico”. “La rilevanza di questa scoperta – spiega il dottor Giovanni Blandino, coordinatore dei laboratori di oncogenomica
traslazionale – è data dal fatto che nonostante i
grandi successi ottenuti dalla ricerca in campo
oncologico, il tumore al seno rappresenta ancora un problema clinico, a causa della risposta terapeutica non sempre prevedibile e del potenziale manifestarsi di resistenze alle terapie”.
CURRY CONTRO IL TUMORE AL SENO,
ESTRATTO DI FOGLIE UCCIDE SOLO
LE CELLULE TUMORALI
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed?term=BMC%2
0Complementary%20and%20Alternative%20Medicine%2C%20CURRY
Una nuova ricerca pubblicata su bMC Complementary and Alternative Medicine mette in
evidenza che l’estratto di foglie di Murraya koenigii – l’albero del curry – uccide in modo specifico le cellule di tumore al seno, colpendo l’attività di un complesso multiproteico normalmente utilizzato dalle cellule per eliminare le
proteine danneggiate o pericolose: il proteasoma 26S.
Il curry si è visto inoltre avere altre proprietà:
protegge il fegato, riduce l’assorbimento dei
grassi e potenzia il sistema immunitario e con
queste proprietà ha ormai conquistato una posi-
FROM BENCH TO BEDSIDE
I BENEFICI CLINICI DELLA RICERCA:
SELEzIONE DALLA LETTERATURA
SCIENTIFICA
33
34
zione di tutto rispetto nell’elenco dei rimedi naturali per la salute. I suoi benefici, però, non finiscono qui. Sono stati i ricercatori del National
Institute of Nutrition di Hyderabad (India) a scoprire questa ulteriore potenzialità della spezia.
Basandosi sul fatto che i polifenoli, molecole di
cui sono ricche anche le foglie del curry, inibiscono l’attività del proteasoma. Gli autori dello
studio, diretti dal dottor Ayesha Ismail, hanno testato le sue proprietà su due linee cellulari ottenute da tumore al seno e su cellule non tumorali. L’analisi della crescita delle colture cellulari
ha svelato che l’estratto di foglie di curry riduce
in modo dose-dipendente la vitalità e interferisce con la crescita di entrambe le linee tumorali,
bloccando il loro ciclo cellulare, ma non quello
delle cellule sane. Analisi specifiche hanno anche svelato che il trattamento con l’estratto di
curry riduce l’attività del proteasoma 26S nelle
cellule tumorali, ma non in quelle sane.
Le foglie dell’albero del curry potrebbero,
quindi, rappresentare una nuova fonte di inibitori del proteasoma da utilizzare per colpire in modo specifico le cellule tumorali e inoltre per innalzare la sensibilità delle cellule tumorali agli
agenti chemioterapici. Per poter mettere in pratica la scoperta sarà però necessario identificare i
principi attivi dell’estratto responsabili di questo
attività. In questo modo, spiegano gli autori, si
potrebbe arrivare allo “sviluppo di agenti antitumorali che potrebbero essere utili nel trattamento di diverse forme di cancro”.
A ROMA LA qUARTA CONFERENzA
MONDIALE DI CHIRURGIA RIGENERATIVA
www.regenerativesurgery.it
Estrarre cellule staminali dal tessuto adiposo
e fattori di crescita dalle piastrine e utilizzarli per
rigenerare organi e tessuti: si chiama chirurgia
rigenerativa ed è la nuova frontiera dei trapianti.
Può essere usata per ricostruire il seno dopo una
mastoplastica, per curare ulcere e ferite com-
plesse, per ricreare insulae pancreatiche nei diabetici, per riparare le ossa o il cuore danneggiato da un infarto. Ma anche per i ritocchi estetici
a seno, volto e glutei. Alle applicazioni nel campo della chirurgia plastica e ricostruttiva è stata
dedicata quest’anno la Quarta Conferenza internazionale sulla chirurgia rigenerativa, che si è
svolta a Roma dal 13 al 15 dicembre 2012 grazie
al supporto dell’Agenzia regionale trapianti del
Lazio e dell’Università di Roma Tor Vergata.
Il concetto di partenza è semplice: si attinge
dalle riserve del nostro corpo per rigenerarlo.
“La medicina e la chirurgia rigenerativa – spiega il prof Cervelli, presidente della conferenza e
direttore della cattedra di chirurgia plastica a Tor
Vergata – trovano ormai largo impiego nella terapia di gravi ferite che stentano a rimarginarsi,
nelle ulcerazioni croniche, nelle cicatrici, nelle
ustioni, nelle malformazioni facciali, nella ricostruzione mammaria e nella chirurgia estetica
mini-invasiva, nella correzione di liposuzioni,
seno e viso”. Se ci sono sufficienti quantità di
tessuto adiposo a disposizione, si può aumentare il volume del seno senza ricorrere alle protesi o spianare le rughe senza lifting. “Un approccio che consente al paziente di avere un decorso postoperatorio rapidissimo, riducendo lo
stress fisico e psichico”.
Ma non tutti i centri possono farlo perché i
criteri da rispettare sono rigorosissimi: occorrono laboratori specificamente autorizzati per le
colture cellulari tissutali, che seguono le Good
Manufacturing Practices (GMP).
CHIRURGIA PLASTICA, ITALIA AL SESTO POSTO
http://www.isaps.org/files/html-contents/Downloads/ISAPS%20Results%20%20Procedures%20in%
202011.pdf
L’Italia si conferma uno dei primi Paesi al
mondo nel settore della chirurgia plastica, collocandosi al sesto posto nella classifica mondiale,
sia per interventi praticati, sia per numero di professionisti. È quanto emerge dai dati della ricer-
ca “Global study of aesthetic cosmetic surgery
procedures in 2011”, promossa dalla Società internazionale di chirurgia plastica estetica (ISAPS). Nel nostro Paese, afferma il dottor Gianluca Campiglio, segretario ISAPS, “si opera soprattutto per aumentare il seno”.
ORMONE DELLA MEMORIA: LA SCOPERTA è ITALIANA
http://www. ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=NATURE%2C+alberini+c+and+IGF-II
L’ormone IGF-II (fattore di crescita insulino
simile II) è un “esaltatore di memoria” e potrebbe essere la chiave per rafforzare la memoria nei
pazienti con declino cognitivo. La scoperta è della dottoressa Cristina Alberini che lavora presso
la Mount Sinai School of Medicine di New York.
Nei topi l’iniezione dell’ormone ha fissato con
più forza il ricordo di azioni apprese due settimane prima. Lo studio, pubblicato su la Rivista
internazionale Nature, apre a importanti prospettive per gli effetti di questo ormone “in modelli di malattia della memoria, come l’Alzheimer, l’ictus e l’invecchiamento”, spiega Alberini. “I livelli del fattore insulin like growth factor
II (IGF-II) aumentano nell’ippocampo, una regione del cervello importante per la formazione
di memoria a lungo termine dopo l’apprendimento. Quando abbiamo bloccato l’aumento di
IGF-II la memoria a lungo termine non si è formata”. Il risultato è che l’ormone della memoria
è necessario: regolando i suoi livelli nell’ippocampo dei topi è cambiato il destino dei compiti appena eseguiti. “L’effetto di IGF-II si ha solo
quando è dato in fasi ‘attive’ – commenta l’esperta – cioè subito dopo l’apprendimento o anche subito dopo il ricordo di una memoria”.
Il gruppo di ricerca guidato dalla neuroscienziata italiana ha iniettato l’ormone nell’ippocampo dei topi, modificando il processo di creazione della memoria che avviene in questa regione cerebrale deputata all’archiviazione dei ricordi di luoghi, persone o cose. I topi erano stati addestrati a eseguire un percorso evitando una
zona buia. Dopo appena due giorni l’ormone della memoria era già a bassissimi livelli e infatti i
topi che avevano concentrazioni minori tornavano nella zona ‘proibita’. Il supplemento di ormone ha cambiato le carte in tavola, ha modificato lo status dei ricordi da memoria a breve termine a memoria a lungo termine, con effetti che
potrebbero essere utilizzati negli essere umani.
Possibili sviluppi? L’ormone “passa la barriera emato encefalica e quindi è un approccio
clinico molto attraente. Studieremo – conclude
la dottoressa Alberini – i meccanismi in modelli
di deficit di memoria o cognitivi”. È possibile
che in alcune malattie neurodegenerative questo
ormone sia mancante o manchi il suo recettore.
Il prossimo passo sarà dare una risposta alla domanda: perché manca?
REALIzzATO IN ITALIA IL LASER CHE
VEDE ATTRAVERSO SANGUE, NEBBIA E
FUMO
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http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22960732
Poter vedere attraverso il fumo eventuali persone prigioniere di un incendio o salvaguardare
la sicurezza dei vigili del fuoco, o ancora osservare nel sangue le particelle di lipidi che si depositano e che possono diventare un precocissimo test per riconoscere il rischio di colesterolo.
È possibile grazie al laser realizzato in Italia, nell’Istituto Nazionale di Ottica del Consiglio Nazionale delle ricerche (INO-CNR) di Napoli, guidati dal dottor Pietro Ferraro. Il laser, descritto
in due articoli pubblicati sulle riviste Lab on a
Chip e optics Letters, riesce a ‘vedere’ attraverso le sostanze dense e opache, come sangue, latte, fumo e nebbia (chiamate colloidi), impenetrabili ai tradizionali microscopi. Il risultato, ottenuto in collaborazione con l’istituto sperimentale Lazzaro Spallanzani di Roma, è segnalato
fra i migliori 30 contributi nell’ottica del 2012 a
livello internazionale. “Un laser di questo tipo
permette, ad esempio, di osservare i processi di
sedimentazione dei lipidi, e quindi l’accumulo di
colesterolo nelle vene o nei capillari”, spiega la
ricercatrice dottoressa Melania Paturzo. “Permette inoltre – aggiunge – di vedere attraverso il
fumo, consentendo così il monitoraggio degli incendi e di provvedere alla sicurezza di persone
in pericolo”. Tutto questo sarà possibile, ha aggiunto, soltanto quando l’apparecchiatura sarà
compattata e diventerà trasportabile. Attualmente non è possibile vedere attraverso i colloidi perche’ queste sostanze sono torbide, ossia non trasparenti alla luce. Questo impedisce di poter vedere attraverso tali miscele con le tradizionali
tecniche ottiche come il microscopio, limitando
la possibilità di studiare diversi fenomeni come
la microfluidica o la biologia marina. “Il principio su cui si basa la tecnica è l’effetto Doppler”,
aggiunge il dottor Pietro Ferraro: “se la soluzione colloidale fluisce a una certa velocità, la luce
diffusa dalle particelle del mezzo subisce uno
spostamento della frequenza, per effetto Doppler,
proporzionale alla velocità del mezzo stesso. Se
quest’ultima velocità è maggiore di un certo valore di soglia, la frequenza varierà al punto da
non contribuire piu’ al processo d’interferenza e
quindi alla formazione dell’immagine dovuta solo alle parti statiche dell’oggetto”.
a cura di Maria Giuditta Valorani
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HANNO COLLABORATO A qUESTO NUMERO
dr. Carolina Aranci
Counsellor professionista analitico-transazionale,
Presidente Associazione Internazionale Donne
irene Carunchio
Biologa
Reparto di Patologia Clinica e servizio DEAL Bios
S.p.A.
prof. Alessandro Ciammaichella
Medico chirurgo, Specialista in Medicina Interna
già Primario medico ospedaliero
dr. Paolo D’Alessio
Specialista in Ginecologia e Ostetricia
dr. Silvana Francipane
Medico chirurgo
prof. Francesco Leone
Specialista in Malattie Infettive
Docente presso “Sapienza” – Università di Roma
Direttore sanitario Bios S.p.A.
prof. Giuseppe Luzi
Specialista in Allergologia e Immunologia Clinica
Professore associato di Medicina Interna (f. r.)
Docente presso “Sapienza” – Università di Roma
Facoltà di Medicina e Psicologia
prof. Antonio Santoboni
Specialista in Cardiologia
già Direttore inc. U.O. di Emodinamica e
Cardiologia interventistica A.O. “San Camillo
Forlanini” – Roma
dr. Maria Giuditta Valorani, PhD
Research Associate
Institute of Child Health
University College of London – London, GB
prof. Lelio R. Zorzin
Specialista in Reumatologia
Professore associato di Reumatologia (f.r.)
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