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EDUCARE
ALLA
LEGALITÀ
DEMOCRATICA
STRUMENTI DI
DOCUMENTAZIONE
Collana a cura
della Regione Toscana
con la collaborazione
di Piera Amendola
e Franco Cambi
PRESENTAZIONE
Solo a chi ancora non volesse capire potrebbe apparire strano che
una Regione come la Toscana si sia fatta promotrice di una collana di
volumi per contribuire alla formazione del cittadino, alla educazione dei
più giovani alla legalità democratica.
C erto, come è noto, la Toscana differisce notevolmente, come
“cultura civica” quotidianamente vissuta, da altre parti del Paese; certamente la Toscana non conosce il fenomeno della criminalità organizzata che detiene anche il controllo del territorio; così come i tassi di criminalità, in questa regione, appaiono in genere al di sotto delle medie
proprie di tante altre regioni italiane.
Ma è anche vero che se volgiamo gli occhi al passato dobbiamo
notare che anche qui la situazione è cambiata nel corso degli ultimi
anni. Non esiste la globalizzazione solo dell’economia, come si suole
ormai dire, esiste anche la nazionalizzazione e l’internazionalizzazione
della criminalità organizzata. Sotto forme diversificate, mai identiche
ma pur sempre riconducibili alla stessa matrice.
La Toscana quindi non è l’isola degli onesti di cui parlava Italo
Calvino nel suo famosissimo Apologo dell’onestà. La Toscana è un
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pezzo del mondo, ma un pezzo che vuole difendere i valori di convivenza
civile, di democrazia sostanziale, di legalità piena. E non da oggi:
basterà ricordare che fin dai primi anni Novanta la Toscana ha dato vita
ad un nutrito programma di iniziative in questo campo: dalle attività di
studio e di indagine sulle fenomenologie criminali, agli interventi per la
semplificazione, la trasparenza e l’efficienza del sistema degli appalti
pubblici; dalla promozione di percorsi di prevenzione e sensibilizzazione
fondati sull’apporto coordinato di tutte le istituzioni presenti nel territorio, alla realizzazione di un Centro di documentazione e di provvedimenti a sostegno delle scuole e della società civile per la diffusione della
cultura della legalità democratica.
E questo per autodifesa e per solidarietà, per contribuire al grande processo di ricostruzione di un tessuto sociale e culturale realmente
“civico” che possa far realizzare alle soglie del 2000 un nuovo contratto
sociale fra i tanti tipi di cittadini del mondo.
Partire dal mondo della scuola e da quello delle istituzioni non è
quindi casuale. La scuola, insieme ad altre organizzazioni sociali, è un
punto notoriamente fondamentale per la formazione cittadino, è qui che
si gioca gran parte della scommessa (e non solo in termini di “sapere”
professionale) per l’oggi e per il domani. È nella scuola che si impara
(oppure non si impara) ad avere sempre un’idea di futuro, una speranza
di qualcosa da realizzare nella società con la società. Ma il mondo
variegato della scuola (come tutti gli altri mondi sociali) non può pensare di agire da solo, deve sempre poter trovare sponde e aiuti dalle istituzioni di governo, dal mondo che realizza “il governo delle leggi” (come
scriveva Norberto Bobbio).
Ecco quindi questa collana di materiali di documentazione desti-
nati innanzitutto a formatori e a giovani in via di formazione. Uno strumento per un percorso continuo di continua formazione e verifica alla e
della legalità democratica. Ecco quindi perché si inizia con questo volume: proprio a dimostrazione della necessità di un continuo dialogo e di
un continuo esercizio congiunto dei propri ruoli tra “politica” e “scuola”. La prima senza la seconda si inaridisce, la seconda senza la prima
perde il senso del tempo e del futuro.
La collana ripercorrerà le tante vicende irrisolte della recente sto-
ria italiana, ma anche i tanti frammenti di verità accertate, per ripensarli criticamente, per tentare di fissarli nella memoria collettiva: dallo
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stragismo ai servizi segreti, dall’eversione al terrorismo, dalle mafie ai
poteri occulti, dalla corruzione ai traffici illeciti, fino a toccare la gestione dell’informazione. E li ripercorrerà attraverso documenti ufficiali,
non di parte o il meno di parte possibile. Non solo. La collana vuole
ripercorrere anche esperienze di ricerca e di formazione alla democrazia
– realizzate ora nelle scuole, ora nelle associazioni o nell’informazione
– per conoscerle, valorizzarle, svilupparle.
Anche i volumi che seguiranno a questo primo curato da Anton
Paolo Tanda, costruiti come strumenti agili di consultazione e di stimolo
per ulteriori approfondimenti, si articoleranno in una prefazione pedagogico-didattica da considerarsi come una sorta di “istruzioni per
l’uso”, in una introduzione storica e teorica compilata dal curatore del
volume, a cui faranno seguito: una cronologia degli eventi trattati, una
antologia di testi ufficiali e significativi, un apparato di schede o itinerari di ricerca, ciascuno accompagnato da indicazioni di letture e bibliografie mirate.
Ogni volume avrà così una struttura stratificata adatta a renderne
l’uso più flessibile ed anche più “creativo” da parte di insegnanti o di
lettori, in modo da coinvolgerli più intimamente in quel processo di formazione civile che è una sfida politica fondamentale, oggi, nella nostra
vita nazionale.
Franco Cazzola
Assessore a l’Organizzazione,
l’Efficienza, i Rapporti con i cittadini, la Trasparenza
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cultura
legalità
democratica
Sede
Cultura Legalità Democratica
c/o Regione Toscana
Dipartimento della Presidenza
Via Cavour, 18
50129 Firenze
Comunicazioni
Tel. 055-4384728
Fax 055-264144
Http: www.regione.toscana.it/ita/cld
E-mail: [email protected]
“Cultura Legalità Democratica. Centro
regionale toscano di informazione e
documentazione per la lotta alla criminalità e
ai poteri occulti” è nato nel dicembre 1994,
in attuazione dell’art. 3 della Legge regionale
n. 78 del 27 ottobre 1994, “Provvedimenti a
favore delle Scuole, delle Università toscane
e della società civile per contribuire,
mediante l’educazione alla legalità e lo
sviluppo della coscienza civile democratica,
alla lotta contro la criminalità organizzata e i
poteri occulti”
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EDUCARE
ALLA
LEGALITÀ
DEMOCRATICA
STRUMENTI DI
DOCUMENTAZIONE
1
Le Commissioni
Catalogazione nella pubblicazione (CIP) a cura
della Biblioteca della Giunta regionale toscana:
Le commissioni parlamentari di inchiesta. –
(Educare alla legalità democratica strumenti di
documentazione ; 1)
I. Tanda, Anton Paolo II. Toscana. Centro di documentazione Cultura Legalità Democratica) 1.
Repubblica italiana - Parlamento - Commissioni
parlamentari di inchiesta
328.3658
© Regione Toscana
Prima edizione aprile 1997
Progetto grafico e copertina:
Marco Capaccioli, C.D.& V., Firenze
Stampa: Litografia, Giunta Regione Toscana
cultura
legalità
democratica
parlamentari
di inchiesta
a cura di Anton Paolo Tanda
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PREFAZIONE
Quod omnes tanget, ab omnibus tractari debet
La democrazia è, insieme, un organismo fragile e forte. È organismo fragile perché i suoi equilibri sono sempre precari, sempre soggetti
a frantumarsi e a dissolversi, a perdere la dimensione di equidistanza
tra i suoi contrappesi, a dar vita a ideologie, movimenti, voci che possono mettere in mora la democrazia stessa; ma è anche un organismo forte
proprio perché sempre in fieri e/o in progress, perciò costretta a ri-pensarsi e a ri-lanciarsi in modo da non mollare mai la presa sia sulla
realtà sia nell’ambito della teoria, ridefinendosi e ricollocandosi dentro
i diversi habitat storici. Pertanto anche rivolta a chiedere al soggetto un
coinvolgimento morale attivo, una partecipazione etica che lo faccia
testimone dei valori democratici oltre che attore della vita democratica,
con impegno, responsabilità e volontà – appunto – di testimonianza.
Qui da noi in Italia è stato – negli ultimi cinquant'anni – soprattutto
(anche se certamente non soltanto) Norberto Bobbio a ricordarci l’aspetto duplice – debole e forte insieme – della democrazia, il suo status
problematico e la sua dimensione di compito, sempre ulteriore e sempre
rinnovato. Anche il suo stretto incrocio con l’etica, con una coscienza
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civile che vive soltanto se è eticamente alimentata da una precisa scelta
di valori e da una ferma volontà di testimoniarli.
Valori democratici, appunto: che si legano all’individuo e alla
libertà, ma anche – e non secondariamente – alla collaborazione e alla
solidarietà, al dialogo e alla socialità, ad una socializzazione il più possibile reciproca e trasparente.
Importante è la riflessione sullo statuto della democrazia, sulla sua
attualità e sul suo “aggiornamento” proprio oggi: nell’età della tecnica
e dell’informazione, nell’epoca del “villaggio globale” e dell’anomia di
massa. È questa una condizione che reclama nuovi percorsi e nuove
qualifiche per la democrazia: si pensi soltanto alla regolamentazione dei
mezzi di informazione che diviene necessaria, assolutamente necessaria,
per salvaguardare la stessa democrazia (ed è l’aspetto – forse – anche
più macroscopico). Accanto, però, a questa riflessione ne corre (ne è
corsa, bisogna che ne corra) un’altra, di tipo diverso ma complementare, relativa alla analisi della condizione reale della democrazia nello
spazio/tempo in cui pensiamo e operiamo, ovvero qui e ora, in Italia,
oggi.
E qui comincia un’altra storia. La storia di una gracilità democratica che viene da lontano ma che non è stata corretta neppure dalla svolta
del ’45 (con la riconquista proprio della democrazia, l’avvio della
repubblica, la costruzione della Carta Costituzionale, ecc.). Gracilità
che ha attraversato il cinquantennio che ormai ci separa da quella data
e che ci sta di fronte – ancora – come problema.
Problema da fissare nei suoi termini strutturali e da affrontare operativamente per risolverlo.
P rima, quindi, si tratta di radiografarlo storicamente, per così
dire, e di radiografarlo nella sua ambiguità: nelle sue luci e nelle sue
ombre. Soprattutto nelle sue ombre, per interpretarle, conoscerle e
disporsi a rimuoverle. Con forza, con tenacia, in più spazi del sociale, a
cominciare da quello spazio di tutti (e per tutti) che è la scuola.
Quanto alle luci della democrazia in Italia (dal ’45 a oggi) sono
molte e visibili, a partire dalla sua “tenuta” (anche attraverso momenti
altamente drammatici: la guerra fredda, la “strategia della tensione”, il
terrorismo, perfino Tangentopoli), fino alla sua “crescita” in ambito
economico-sociale (con la cooperazione, anche col volontariato, ecc.),
fino alla sua cosiddetta “egemonia” culturale (legata al pensiero cattolico o a quello laico-socialista, che hanno spiazzato le tesi elitarie, etnocentriche, puramente produttivistiche della Destra, anche se non le
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hanno – e né volevano né potevano – affatto spente).
Ma anche le ombre sono molte e anch’esse visibili, anzi assai visibili. E sono le ombre legate a una forma di “antistato” presente nel tessuto del Paese e alla debolezza della coscienza civile del cittadino medio.
La storia dell’Italia repubblicana è stata anche una storia di associazioni segrete, grande criminalità, apparati deviati, centri occulti di decisione parallela a quella dello Stato, ecc., i quali hanno agito nel corpus
della nazione (e dello Stato) come una cancrena, erodendone le cellule
sane e attivando una vera e propria metastasi nell’organismo sociale,
civile, statuale.
L’“antistato” o prassi dell’illegalità diffusa, nei suoi diversi volti,
ha agito proprio come un’erosione rispetto allo Stato, cambiandone la
gestione e il senso, penetrando nel suo organismo fino a tentare di soffocarlo. E ciò è avvenuto più volte e in modi diversi, se pure con esiti –
sempre – negativi, prodotti dalla reazione democratica del Paese, di
buona parte della sua società civile, degli intellettuali, delle istituzioni
(si pensi alla Magistratura). È avvenuto col Sifar, è avvenuto col terrorismo, è avvenuto con Tangentopoli. E lo stesso Stato ha tollerato, e talvolta anche in parte prodotto, fenomeni di illegalità che poi lo hanno
stretto in una morsa, fino a tentare di soffocarlo.
Come è potuto accadere? Chi ha svolto un’azione di vigilanza?
Come possiamo far barriera – nel Paese – all’illegalità diffusa? Con
quali mezzi? Con quali strategie? Rispondiamo con ordine ai diversi e
cruciali quesiti. Risposte che ci conducono verso il “da farsi” che alimenta e sostiene un lavoro come questo di Tanda, dedicato alle
Commissioni parlamentari d’inchiesta, diciamo così, ad uso delle scuole.
La forza e l’articolazione dell’attività illegale (dai Servizi segreti
deviati alle Mafie, passando per la P2, per armi e droga, per il terrorismo) si è nutrita della volontà, per un verso, di tener bloccata la democrazia italiana (a livello di governo, a livello di ideologia), per un altro
verso, di inquinare ogni suo processo di espansione e di realizzazione
nella società civile, per rendersi, da democrazia formale, una democrazia reale. A tale azione hanno fatto resistenza figure, istituzioni, prassi
legate alla società civile e allo Stato e che, di quest’ultimo, hanno interpretato e salvaguardato l’identità super partes e la funzione di guida, e
di guida secondo Costituzione.
Sono state voci di politici e di intellettuali, gruppi e movimenti,
ambiti delle istituzioni. Tra questi, e in primo piano, le Commissioni parlamentari che, costitutivamente, si disponevano a una quota costituzio13
nale e che affrontavano proprio gli spazi oscuri della democrazia in
Italia, compiendo un lavoro esemplare di scandaglio e di denuncia di
questo “rovescio” della vita nazionale; rovescio (proprio perché tale)
spesso invisibile, non facilmente interpretabile, talvolta evanescente,
“segreto”, ma potente nella sua capacità di inquinamento della democrazia.
Studiare i lavori delle Commissioni parlamentari, muovendo da
un’analisi preliminare della loro funzione e della loro identità, ripercorrendo diacronicamente tali lavori, è una tappa essenziale, anzi cruciale,
forse insostituibile per poter comprendere il pianeta-Italia nella sua dialettica specifica e complessa, ma anche inquietante, per illuminarne il
recto e il verso in modo da avere, della realtà nazionale, una coscienza
più critica, più accorta e in modo da ricevere una spinta a impegnarsi
per rimettere in moto – oggi, ma anche domani – un’Italia sempre più
democratica, più autenticamente democratica.
Specialmente se tali lavori delle Commissioni d’inchiesta, che ci
rimandano il volto appunto oscuro (= antidemocratico) dell’Italia postbellica e ci chiamano a fare i conti ideali e storici con quel fascio di
comportamenti, azioni e organizzazioni illegali che, metaforicamente,
possiamo chiamare “antistato”, circoleranno, in particolare, là dove si
forma il cittadino di un Paese moderno, e si forma come coscienza critica, capacità d’impegno e fedeltà ai valori democratici: nella scuola.
Il volume di Tanda – come gli altri che seguiranno – è un volume
che ha la scuola come interlocutore privilegiato (anche se non esclusivo); è pensato per la scuola e vuole agire nella scuola. Il che significa
che è costruito come un palinsesto smontabile e rimontabile (relativo al
ruolo e alla fisionomia delle Commissioni, al lavoro da esse svolto, alle
conclusioni – plurali – a cui sono giunte), in modo da rendersi disponibile a vari tipi, percorsi e temi di ricerca, da produrre miscelando esposizione e documentazione, ricostruzione e “fonti”.
Inoltre il testo ha una struttura espositiva e un lessico, insieme,
rigorosi e “piani”, in modo da rendersi leggibile da qualsiasi lettore sufficientemente alfabetizzato, come è uno studente di scuola secondaria. Il
suo intento è quello di:
1) prendere visione dell’esistenza dell’illegalità diffusa, testimoniata
in modo incontrovertibile dalle Commissioni parlamentari nel loro lavoro, per altro garantito nei suoi esiti “di verità” proprio dalla dialettica
tra Maggioranza e Opposizione costitutiva in tali Commissioni;
2) trasmettere una serie di letture possibili (di Maggioranza e
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Opposizione) su tali problemi, manifestando così la loro complessità, il
loro aspetto problematico, ma anche la loro continuità, la loro presenza
e la loro incidenza nella vita politica e sociale;
3) indicare una serie di temi ulteriori da sviluppare, da sottoporre a
indagine, da approfondire, già attraverso alcuni strumenti didattici che
il volume stesso mette a disposizione: schede, documenti, bibliografie.
Un tale lavoro nella scuola, legato a un’educazione alla legalità e
alla democrazia, può ben accompagnare (e in parte sostituire) quell’insegnamento spesso un po’ trascurato e gestito in forma sovente un po’ rituale che è l’educazione civica. Un insegnamento – in realtà – decisivo per
edificare un’Italia moderna come Stato democratico reale, poiché capace
– forse – di dar corpo a quella coscienza civile che è un po’ la grande
assente nell’identità dell’italiano medio, ma soltanto se si salda ai problemi dell’Italia reale, storica e politica, e aiuta a ripercorrerli con uno spirito critico e secondo un’idea di democrazia integrale (il più possibile) e
non formale.
C ome proprio invita a fare il volume di Tanda, che può essere
assunto anche come una via nuova per accedere a un’educazione civica
che non soltanto informi e descriva (le istituzioni, il sistema politico,
ecc.) ma anche formi, e formi in profondità. E lo fa richiamando a ripensare – anche da parte del giovane studente, oltre che dell’insegnante –
lo status problematico, oscillante, precario della nostra democrazia e a
tentare di raddrizzarla (secondo il principio dell’ottimismo della
volontà) a partire dalle coscienze giovanili, dalla loro capacità di lettura
dei fenomeni politici e sociali e dalla loro ragionata e ragionevole
opzione per la forma e i valori della democrazia, così da realizzarla
senza ombre, sempre con meno ombre, illuminando con la conoscenza
anche gli spazi e le pieghe dove le ombre si vengono a formare.
Franco Cambi
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FONDAMENTI
NORMATIVI
E PRASSI DELL’INCHIESTA
Prima di entrare nel merito dell’inchiesta parlamentare, che è l’oggetto del presente volume, occorre chiarire che cosa in generale si intenda per inchiesta, in modo
da rendere intelligibile ciò che si esporrà in seguito.
Per inchiesta si intende l’indagine condotta su persone, atti, documenti, cose o
luoghi, da parte di un’autorità che ne abbia il potere, al fine di chiarire determinati
elementi.
Accade spesso che gli organi di informazione, soprattutto in seguito ad eventi
che hanno interessato la pubblica opinione o che lascino supporre che vi siano responsabilità di persone od organi preposti alla effettuazione di talune attività, diano notizia
che sono state disposte inchieste, di polizia, giudiziarie o di altra natura.
In verità la possibilità che si svolgano inchieste non è limitata al settore delle
attività pubbliche, ma riguarda qualunque settore di attività, solo che vi sia un’autorità
dotata dei poteri necessari per svolgerla. Infatti, solo per fare un esempio, anche una
azienda privata, grande o piccola, può al proprio interno procedere ad inchieste per
accertare la causa di taluni fenomeni o eventi.
Chi, quando era studente, non è stato oggetto di inchieste per scoprire gli autori
di una beffa ben riuscita?
L’uso del termine “inchiesta” al posto di altri, ad esempio “indagine”, è in armonia con la natura dell’inchiesta che è collegata all’autorità inquirente, che è, appunto,
dotata di supremazia nei confronti delle persone o degli enti oggetto dell’inchiesta.
In tale posizione, però, troviamo varie autorità e dotate quindi dei poteri idonei
ad ottenere – non per collaborazione spontanea o volontaria soltanto – le notizie e i
dati necessari per raggiungere il fine dell’inchiesta.
Quindi, in base alle autorità che la esercitano, possiamo distinguere così le
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
PARLAMENTARE
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Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
inchieste:
a) giudiziarie, quando cioè siano svolte da un’autorità competente in vista o nel
corso di un procedimento giudiziario,
b) amministrative, quando siano disposte da un’autorità amministrativa nell’ambito delle sue competenze,
c) parlamentari, quando siano disposte ed attuate dalle Camere.
Questa elencazione non è – e non vuole esserlo – esaustiva di ogni tipo di
inchiesta, ma è solo esplicativa di quanto si esporrà in seguito. Ci limitiamo qui a citare queste non solo perché si tratta di quelle che presentano le maggiori analogie, ma
anche perché possono verificarsi casi in cui coesistano tutte o alcune di esse.
Infatti si dà spesso il caso in cui parallelamente all’inchiesta giudiziaria se ne
svolga un’altra amministrativa. I rapporti tra questi due tipi di inchiesta si risolvono
nella prevalenza della prima sulla seconda e nell’obbligo per l’autorità amministrativa
di collaborare con l’inchiesta giudiziaria.
Nel caso in cui coesistano un’inchiesta giudiziaria ed una parlamentare sullo
stesso oggetto, la questione dei loro rapporti è assai più complessa, ciò che forma
appunto uno dei punti specifici di questa trattazione.
1. CARATTERE
PARLAMENTARE
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
DELL’ORDINAMENTO ISTITUZIONALE ITALIANO
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La nostra Costituzione si apre con il riconoscimento dell’appartenenza della
sovranità al popolo, il quale “la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”
(articolo 1, secondo comma). La principale di tali forme è senz’altro l’espressione del
voto politico per l’elezione dei membri della Camera dei deputati e del Senato della
Repubblica, che formano il Parlamento.
Il nostro sistema istituzionale, o, come usano dire gli specialisti, la nostra forma
di governo, è di tipo parlamentare, in quanto caratterizzato dalla posizione assegnata
nell’ordinamento ai due organi costituzionali cui spetta la titolarità delle fondamentali
funzioni dello Stato – Parlamento e Governo – che si trovano tra loro in una posizione di collaborazione dialettica.
Il Governo, infatti, deve, per poter esercitare appieno le sue funzioni e per restare
in carica, avere la fiducia di entrambe le Camere, la quale gli viene accordata sulla
base di un programma, che delinea l’indirizzo politico del Governo, ed al quale anche
le Camere, approvandolo, si vincolano.
Il rapporto di fiducia mira ad assicurare il collegamento tra il popolo, di cui le
Camere sono diretta espressione, come si è già accennato, ed il Governo che, invece, è
nominato dal Presidente della Repubblica, il quale a sua volta non è eletto direttamente dal popolo ma dal Parlamento, riunito in seduta comune delle due Camere.
Oltre a queste importanti funzioni, da cui altre discendono, al Parlamento spetta
la funzione legislativa, che nel nostro sistema comprende anche la revisione costituzionale. La titolarità di queste funzioni e la sua diretta emanazione popolare giustificano la sua posizione centrale nel sistema.
Una caratteristica fondamentale del nostro sistema, come per altro di tutti i sistemi delle democrazie occidentali, è la separazione delle funzioni, moderno sviluppo
della divisione dei poteri teorizzata da Montesquieu e Locke.
Una importante conseguenza dell’applicazione di tale principio è appunto la
Gli strumenti del sindacato ispettivo sono essenzialmente le interpellanze e le
interrogazioni. Le interpellanze sono delle domande rivolte anche da un singolo parlamentare, attraverso la Camera di appartenenza, al Governo circa gli intendimenti o i
motivi della sua azione di governo in ordine a un settore della sua attività. Essa introduce un dibattito in Assemblea, limitato all’interpellante e al rappresentante del
Governo, al termine del quale se l’interpellante non sia soddisfatto della risposta che
gli è stata data, può presentare una mozione, con la quale si provoca un dibattito sullo
stesso argomento, al quale possono prendere parte tutti i membri di quella Camera, in
contraddittorio con il Governo, che può terminare con una deliberazione volta ad
impegnare il Governo a determinati adempimenti oppure a seguire determinati indirizzi in quella specifica materia.
L’interrogazione consiste nella semplice domanda, rivolta al Governo per iscritto, sempre attraverso la Camera di appartenenza, se un fatto sia vero, se una certa
informazione sia giunta al Governo, o sia esatta, se il Governo intenda comunicare al
Parlamento documenti o notizie o abbia preso o stia per prendere provvedimenti su un
certo oggetto. Le interrogazioni possono essere, a richiesta dei presentatori, con risposta orale in Assemblea, con risposta orale in Commissione, con risposta scritta.
L’altra importantissima forma in cui si esplica la funzione ispettiva del
Parlamento è l’inchiesta parlamentare.
3. POTERE
DI INCHIESTA DEL
Mafia
Moro
PARLAMENTO
Sindona
CONTROLLO DEL
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
2. IL
Criminalità SIFAR
Sardegna
distinzione dell’attività legislativa da quella di governo, poste in capo ad organi costituzionali distinti; entrambe sono distinte dalla funzione giurisdizionale, affidata ai
magistrati, che costituiscono “un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (art.104), e dotato anche di un proprio organo di governo.
Questo concetto di autonomia non significa soltanto che i magistrati sono indipendenti ed autonomi ma significa anche che la loro funzione è diversa e distinta dalle
funzioni attribuite agli “altri poteri dello Stato”.
Della funzione di indirizzo politico sono contitolari il Parlamento ed il Governo,
al quale spetta specialmente la sua attuazione, una volta che esso è stato delineato nei
modi previsti dall’ordinamento. Al Parlamento spetta invece di dettare le norme per la
sua attuazione e di controllare che l’attività del Governo si svolga nei limiti e secondo
i principi di tale indirizzo. Si tratta in questo caso della funzione di controllo dell’attività di governo, che si esplica quotidianamente nell’attività del sindacato ispettivo
delle Camere, e nei casi in cui ciò sia necessario, attraverso l’esercizio del potere di
inchiesta.
PARLAMENTO:
FONDAMENTO GIURIDICO
Il fondamento del potere di inchiesta parlamentare è da ricercare soprattutto nella
funzione di indirizzo, sia sotto il profilo del rapporto Parlamento-Governo, sia sotto il
profilo dell’attuazione delle leggi, che della funzione di indirizzo sono un fondamentale strumento, oltre che in generale sulle complessive funzioni del Parlamento.
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Mafia
Criminalità SIFAR
Sardegna
Moro
Sindona
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
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Sul fondamento di questo potere vi erano state molte discussioni anche sotto il
regime dello Statuto albertino, il quale non conteneva alcun cenno sulle inchieste parlamentari, e ciò nonostante le Camere effettuarono inchieste, ritenendo il fondamento
del potere strettamente connesso con la funzione ispettiva del Parlamento.
Mancavano però precise norme che ne disciplinassero l’esercizio, ne fissassero i
limiti e ne precisassero l’oggetto. Si ritenne perciò, talvolta, necessaria l’approvazione
di una legge per provvedere in questo senso. Tuttavia vennero effettuate inchieste parlamentari disposte con deliberazioni diverse dalla legge anche in assenza, appunto, di
una legge generale sulle inchieste.
Fino al 1868 nel regolamento della Camera non erano contenute norme procedurali al riguardo, e in quello del Senato regio neppure in seguito; tuttavia inchieste parlamentari erano state deliberate ed effettuate.
Nel 1863 la Commissione bilancio della Camera, che era stata incaricata di svolgere un’inchiesta sulle condizioni della marina militare e mercantile, ritenne di non
poterla svolgere senza una legge.
L’Ufficio centrale del Senato bloccò il relativo progetto di legge, già approvato
dalla Camera, con un ordine del giorno che così si esprimeva tra l’altro: “Atteso che
non è abbastanza dimostrato il bisogno di una legge generale sulle inchieste che,
senza di essa, hanno potuto eseguirsi...”. In realtà le ragioni per cui veniva richiesta la
legge non erano sul fondamento del potere bensì quelle cui si accennava prima, e cioè
le modalità per l’esercizio e i suoi limiti, soprattutto in ordine ai rapporti con l’autorità
giudiziaria.
Tuttavia quell’ordine del giorno dimostra con chiarezza appunto che il fondamento del potere di inchiesta era inteso, abbastanza pacificamente, come derivante
dalle funzioni delle Camere complessivamente considerate, senza quindi il ricorso
all’attivazione dei loro poteri legislativi.
Il problema era pertanto quello dell’estensione, l’oggetto e i limiti di questo
potere.
La Costituzione repubblicana, dopo che l’Assemblea costituente aveva rifiutato
il concetto di inchiesta di minoranza, che si fonda sul principio che la maggioranza
governa e la minoranza controlla, ha scelto la configurazione dell’inchiesta come una
delle funzioni delle Camere nel loro complesso, ciò che porta all’attivazione a maggioranza del potere di inchiesta, in cui, cioè, alle minoranze sono assegnati i compiti
che in generale loro spettano nell’esplicazione delle funzioni del Parlamento.
Inoltre, con l’articolo 82 sono stati, in linea generale, risolti i problemi cui si
accennava prima, attribuendo alla Commissione di inchiesta nella conduzione dei propri lavori “gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria”. Si tratta
pertanto della attribuzione dei poteri e della fissazione dei limiti posti in capo alle
Commissioni di inchiesta direttamente dalla Costituzione e che non sono compresi tra
quelli del Parlamento in generale. Infatti i poteri dell’autorità giudiziaria non spettano
alle Camere bensì alle Commissioni di inchiesta da esse istituite per il compimento di
determinate indagini.
Ciò delinea una sfera di autonomia delle Commissioni di inchiesta dalle stesse
Camere, oltre che, ovviamente, dall’autorità giudiziaria e dal Governo, di cui si
vedranno più avanti le importanti implicazioni.
Quanto al fondamento giuridico del potere di inchiesta questo articolo della
Costituzione appare, alla luce di quanto si è già esposto, soltanto ricognitivo di un
potere esistente, in quanto anche il primo comma: “Ciascuna Camera può disporre
inchieste su materie di pubblico interesse”, più che ad attribuirlo mira a circoscriverlo
Mafia
DELLA ISTITUZIONE
Fino al 1868, come si è accennato, non esistevano norme regolamentari sulle
inchieste, per cui le Camere ricorrevano a svariati strumenti procedurali, fino all’ordine del giorno. Nel regolamento approvato in quell’anno esse furono equiparate, sotto
il profilo procedurale soltanto, alle altre proposte di iniziativa parlamentare, intendendo per tali le proposte di legge. I regolamenti della Camera e del Senato del 1971
attualmente in vigore, che hanno equiparato il procedimento legislativo di tutti i progetti di legge – di iniziativa del Governo, parlamentare, regionale, popolare, del
CNEL – fanno riferimento infatti al procedimento per i progetti di legge (articolo 141
del regolamento della Camera e articolo 162, comma 1, di quello del Senato).
È previsto che la composizione della Commissione rispecchi la proporzione dei
gruppi parlamentari e che la nomina dei componenti possa essere rimessa al
Presidente della rispettiva Camera. Questa pratica, per quanto non codificata in via
permanente, è assai frequente e risale indietro nel tempo, poiché, come fu osservato:
“giova tuttavia ritenere che, se la nomina del Presidente è un atto politico, non sarebbe
possibile nell’esercizio delle funzioni presidenziali se non l’imparzialità fatta persona... E seguì infatti nella nostra Camera che le Commissioni elette dal Presidente furono composte in guisa da soddisfare le più scrupolose esigenze”. E questa è diventata
la prassi ordinaria.
Ormai, poiché la forma prescelta più spesso per l’istituzione di Commissioni di
inchiesta è la legge, in quanto si ricorre a Commissioni formate da deputati e da senatori, la proporzionalità, soprattutto per la rappresentanza dei gruppi minori, è assicurata mediante taluni aggiustamenti appunto tra i gruppi considerati in rapporto alle due
Camere.
Il ricorso allo strumento della legge viene giustificato talvolta con la necessità di
armonizzare scopi e oggetto dell’inchiesta, ma anche la forma monocamerale non
esclude affatto, in quanto tale, la possibilità che quello scopo sia raggiunto anche con
deliberazione monocamerale da parte di entrambe le Camere.
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COMMISSIONI
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4. MODALITÀ
DELLE
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alle materie di pubblico interesse, ciò che esclude appunto il perseguimento di fini
particolari o la possibilità di indagare nella sfera privata dei singoli senza collegamento col “pubblico interesse”.
Il potere di inchiesta viene esercitato sia al fine di acquisire dati ed elementi per
la predisposizione delle leggi, sia per controllare l’attività del Governo e in genere dei
pubblici poteri, prescindendo dalla loro collaborazione, che è invece necessaria in
ordine agli strumenti del sindacato ispettivo e alle indagini conoscitive delle
Commissioni permanenti. E ciò proprio in quanto l’inchiesta tende a mettere a disposizione della Camera che l’ha deliberata notizie e dati che essa non potrebbe avere
altrimenti.
Ma, data la grande ampiezza del potere di inchiesta parlamentare, non è escluso
– anzi in linea generale è proprio così – che anche il Governo è portatore di un interesse allo svolgimento dell’inchiesta parlamentare, oltre che per il generale principio
della ricerca della verità come interesse pubblico, anche per disporre di elementi e di
dati necessari ad un’efficace e legittima azione di governo.
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Non mancano esempi nella prassi delle due Camere di deliberazioni monocamerali non legislative su identico testo. Per un esempio, la Commissione parlamentare
per le riforme istituzionali della IX legislatura (presieduta dal deputato Aldo Bozzi)
venne istituita con deliberazione su mozioni – atti deliberativi monocamerali – approvate il 12 ottobre 1983 da entrambe le Camere.
La scelta della legge come atto istitutivo, non necessaria sul piano normativo, e
nemmeno pratico, in verità produce una configurazione delle Commissioni di inchiesta nuova rispetto a quella delineata dalla Costituzione, che influisce in misura assai
incisiva sulla struttura del Parlamento. Essa produce infatti, con il procedimento delle
leggi ordinarie, organi comuni alle due Camere non previsti dalla Costituzione o da
leggi costituzionali, e che risultano però dotati di larga autonomia nei confronti delle
Camere, tanto che potrebbero ipotizzarsi conflitti tra le Commissioni ed una delle
Camere o entrambe, per l’esercizio di funzioni di carattere parlamentare.
Inoltre il ricorso alla legge rende possibile prevedere una durata dell’inchiesta
che superi la legislatura. Ciò realizza una sopravvivenza dell’inchiesta allo scioglimento delle Camere, ma, naturalmente, non può estendersi alla sopravvivenza della
Commissione, la quale nella nuova legislatura dovrà essere rinnovata dalle nuove
Camere, sempre che esse ritengano opportuno procedervi.
Tuttavia, nonostante queste che possono essere chiamate disarmonie rispetto al
sistema, se non vere e proprie violazioni della Costituzione, la figura tipica della
Commissione di inchiesta è quella monocamerale. Tanto è vero che i regolamenti parlamentari (articolo 141, comma 3, alla Camera e articolo 162, comma 3, al Senato)
stabiliscono che le Commissioni di inchiesta nominate da ciascuna Camera su identica
materia possono deliberare di procedere congiuntamente. Questa, in cui ciascuna
Commissione conserva la propria individualità e risponde organicamente alla Camera
che l’ha eletta, è la forma rispondente al disegno costituzionale.
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5. POTERI
DELLE
COMMISSIONI
DI INCHIESTA
I poteri delle Commissioni di inchiesta sono stabiliti, come si è già visto, dalla
Costituzione e sono quelli dell’autorità giudiziaria, i quali non possono certo essere
derogati né in senso limitativo né ampliandoli, con una legge ordinaria.
Il concetto astratto di “autorità giudiziaria” è utilizzato dalla Costituzione per
indicare tutte le autorità giudiziarie in concreto esistenti nel nostro ordinamento.
Tuttavia, per quanto attiene ai rapporti con le persone, e le cose, oggetto dell’inchiesta
ci si deve riferire ai poteri, e ai limiti, dell’autorità giudiziaria penale.
Quindi i poteri della Commissione di inchiesta, che comprendono ad esempio
anche quelli spettanti alla magistratura contabile, sono ampi fino ai limiti posti al giudice penale, ed essi non possono quindi essere ristretti, né ampliati, dall’atto istitutivo
dell’inchiesta, anche se si tratti di una legge.
L’unico effetto, che non è però attinente alla sfera dei poteri bensì alla loro limitazione nel tempo, è quello legittimamente ottenibile e cui si è già accennato, della
sopravvivenza dell’inchiesta (e non della Commissione) alla fine della legislatura.
Un aspetto molto importante, col quale varie Commissioni di inchiesta si sono
trovate a fare i conti, è quello del ricorso ai mezzi di coercizione, che è nei poteri dell’autorità giudiziaria di utilizzare, nell’esercizio dell’inchiesta parlamentare. Se il
ricorso a tali mezzi fosse escluso (cosa non certo desumibile dalla norma costituziona-
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le) ne discenderebbe la conseguenza che senza la collaborazione dei soggetti coinvolti
a vario titolo nell’inchiesta, le inchieste parlamentari avrebbero un valore pari a quello
delle indagini conoscitive delle Commissioni parlamentari permanenti. Ed inoltre, si
deve notare che l’introduzione di queste ultime nei regolamenti parlamentari del 1971,
ha ridotto di molto il ricorso alle inchieste volte alla acquisizione di dati per l’esercizio della funzione legislativa.
La norma dell’articolo 82 della Costituzione non fa cenno di questa complessa
materia, ma essa entra nel novero dei poteri delle Commissioni di inchiesta e deve
essere, però, trattata anche alla luce delle norme concernenti i diritti fondamentali
della persona trattati nella prima parte della Costituzione.
Si impongono pertanto talune distinzioni. Per il ricorso ai poteri coercitivi bisogna rifarsi sempre alla natura dell’inchiesta, che è appunto parlamentare ed esercitata
da un organo del Parlamento. Pertanto si può sostenere, poiché ciò non è in contrasto
con tale natura, che l’uso di poteri coercitivi per gli accessi ai luoghi o per l’acquisizione di atti o documenti non solleva obiezioni particolari, sia perché tali poteri spettano all’autorità giudiziaria, ed inoltre senza il ricorso almeno ad essi non si vede a
che cosa potrebbero ridursi i “poteri” di cui all’articolo 82 della Costituzione.
Ciò che pone invece maggiori problemi, soprattutto in ordine alle modalità di
esercizio più che sull’appartenenza del potere di farvi ricorso, sono i provvedimenti
limitativi della libertà di movimento dei soggetti. Sull’accompagnamento coattivo di
testimoni, pur incidendo su tale libertà non possono essere sollevate importanti obiezioni, per le considerazioni riportate dianzi. Invece appare più problematico il provvedimento di arresto disposto da Commissioni di inchiesta, di testimoni ritenuti falsi o
reticenti.
Non può trattarsi che di arresto monitorio, perché alla Commissione spettano
poteri di inchiesta e non anche la funzione di giudicare sul reato. Ma anche in questo
caso le cose possono presentare risvolti assai intricati. Si pensi a ciò che potrebbe
accadere qualora l’arresto non risultasse sufficiente a far deflettere il testimone dal
suo atteggiamento. In questo caso, o il testimone viene rimesso in libertà oppure, se il
fermo debba essere prorogato, qual è l’autorità abilitata a stabilire la durata del fermo
ed il luogo in cui venga effettuata la custodia? Non può, in questi casi, non tenersi
conto dell’articolo 13 della Costituzione, che ha portata ed applicazione generale.
Inoltre, anche per quanto attiene all’eventuale denuncia all’autorità giudiziaria
competente, per il comportamento tenuto dal testimone, non appare chiaramente individuabile, in assenza di un’esplicita norma al riguardo indispensabile in materia penale, la figura di reato da porre a fondamento della denuncia e della richiesta di limitazione della libertà personale.
Più efficaci, e certamente legittimi, appaiono invece gli strumenti derivanti proprio dall’autonomia del Parlamento in generale e delle Commissioni di inchiesta in
particolare: più della coercizione, in taluni casi, può essere utile invece effettuare l’audizione in seduta segreta e con l’attivazione del segreto funzionale, opponibile a
chiunque, anche all’autorità giudiziaria.
Questa affermazione non può, e non deve, suscitare scandalo nell’ipotesi che da
ciò possa derivare l’impunità per taluni fatti, poiché lo scopo dell’inchiesta parlamentare è pur sempre di natura politica – come ci siamo sforzati di dimostrare – ed
appunto essa mira a porre in essere tutti gli strumenti utili ad eliminare il fenomeno
criminoso e non a punire i colpevoli. Per raggiungere il suo fine ed attivare gli strumenti idonei deve conoscerne tutte le manifestazioni e le cause.
Il compito di punire i colpevoli dei reati, che non è certo materia indifferente per
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il Parlamento, dall’ordinamento è assegnato all’autorità giudiziaria, alla quale dovranno evidentemente essere inviati, o messi comunque a disposizione, tutti gli atti e i
documenti idonei alla individuazione di reati e dei loro autori, qualora ciò non pregiudichi lo scopo principale, o addirittura esclusivo, dell’inchiesta parlamentare.
Se così non fosse, d’altro canto non si capirebbe per quale motivo siano previste
nella Costituzione le Commissioni di inchiesta, se esse debbono essere semplicemente
un doppione, peraltro non tecnico, dell’autorità giudiziaria, diverse solo per la mancanza dei poteri decisori e sanzionatori di quella, come deriva, tra l’altro, anche dalla
norma del primo comma dell’articolo 25 della Costituzione, e quindi assolutamente
inutili.
6. AUTONOMIA
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DELLA
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IN RAPPORTO AL FINE
COMMISSIONE
DI INCHIESTA
Invece, mediante la legge istitutiva, si cerca di aggirare l’autonomia delle
Commissioni di inchiesta, che, essendo l’autonomia stessa del Parlamento in generale
e di ciascuna Camera in particolare fondata quindi direttamente sulla Costituzione,
non può soffrire limiti posti con legge ordinaria. Ne deriva pertanto un vizio di incostituzionalità, di cui però la Corte costituzionale può essere investita solo sollevando
conflitto di attribuzioni, che peraltro appare di assai difficile attuazione pratica, in
quanto dovrebbe essere la Commissione a promuoverlo, con tutte le difficoltà di
carattere politico immaginabili, essendo la Commissione uno specchio che riflette gli
stessi schieramenti che nelle Camere hanno portato all’approvazione di quella legge
che dovrebbe essere impugnata per la violazione dell’autonomia funzionale della
Commissione.
Se si prende in esame, per fare un esempio, l’articolo 4 della legge 30 giugno
1994, n. 430, che istituisce per la XII legislatura la Commissione di inchiesta sulla
mafia, si osserva che viene completamente meno l’autonomia della Commissione nell’uso del segreto funzionale: “Quando gli atti o documenti siano stati assoggettati al
vincolo del segreto funzionale da parte delle competenti Commissioni di inchiesta
detto segreto non può essere opposto all’autorità giudiziaria ed alla Commissione di
cui alla presente legge”, esattamente il contrario di ciò che è contenuto nella sentenza
n. 231 del 1975 della Corte costituzionale, che attua su quello specifico punto il dettato costituzionale.
Invece, in base alla legge ordinaria che è stata citata dianzi, e di tutte le altre analoghe, il segreto funzionale è messo assolutamente nel nulla, poiché se esso è a disposizione, a semplice richiesta, dell’autorità giudiziaria e di Commissioni di inchiesta
diverse da quella che lo ha deliberato, e quindi anch’esse libere nei loro comportamenti, il segreto funzionale è ormai una mera finzione con risvolti pratici di incalcolabile gravità. Infatti non vi sarà più una persona informata dei fatti su cui si svolge l’inchiesta, che vorrà esporsi, ad esempio alla vendetta della mafia, raccontando alla
Commissione quanto è a sua conoscenza poiché non vi è più la certezza che quanto
dirà rimarrà veramente segreto. Inoltre la Commissione non può nemmeno renderlo
beneficiario della protezione che, per la legge sui pentiti, spetta a quanti, imputati per
gli stessi reati, collaborano con la giustizia. Si pensi che i verbali degli interrogatori
messi a disposizione dell’autorità giudiziaria saranno, ovviamente, a disposizione di
tutte le parti presenti nel processo.
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La bontà del fine – la punizione dei colpevoli – non può servire a giustificare la
confusione dei ruoli e delle funzioni e l’incertezza del diritto. La Commissione di
inchiesta è un organo del Parlamento e svolge una funzione parlamentare, in cui non
rientra la punizione dei delitti se non sotto il profilo della legislazione, ma rientra in
questo senso solo l’accertamento delle loro cause e l’evoluzione dei fenomeni criminali, al fine di porre le Camere nelle condizioni appunto di approntare gli strumenti
legislativi, organizzativi e materiali, idonei a stroncare il fenomeno criminoso e porre
la magistratura nelle condizioni di punire i colpevoli.
Il principio di legalità non può contrapporsi - o addirittura prevalere su di esso al principio di costituzionalità, e la distinzione delle funzioni è uno degli elementi
basilari di tale principio.
Non ci si può lasciar sviare dalla necessità di ottenere un risultato sul piano della
punizione dei colpevoli dei crimini, per fare uso di mezzi, coercitivi o no, al di fuori
dei casi previsti dalla Costituzione, o vanificare il segreto funzionale delle
Commissioni di inchiesta, perché altrimenti, sempre in vista del raggiungimento di
quel fine, nobilissimo, che è la punizione dei colpevoli di gravi delitti commessi dalla
criminalità organizzata, si può finire per accettare, ad esempio, una legge che legittimi
l’uso della tortura o dei mezzi moderni che la sostituiscono, per ottenere la confessione da parte degli indiziati di un reato.
Questo paragone non è né improprio né esagerato, poiché non è l’entità della
violazione costituzionale che le conferisce l’essenza, ma quando la violazione vi è
stata essa produce effetti perversi assai vasti e pericolosi per l’ordinamento democratico ed il tessuto sociale che ne è alla base, molto di più di quanto l’entità della violazione può far immaginare. La nostra civiltà giuridica, che è vanto della nostra tradizione culturale e sociale, assai di più dei tanto decantati modelli anglosassoni postula
il rispetto delle regole prestabilite ed uguali per tutti, che devono essere osservate fino
a che non siano state modificate nei modi previsti dall’ordinamento.
Ma essa implica anche che le regole devono essere stabilite da organi diversi da
quelle che sono deputati ad applicarle. Le norme costituzionali sono al disopra di tutte
le altre norme, perché sono adottate da un’Assemblea costituente specificamente eletta allo scopo, oppure dal Parlamento con lo speciale procedimento di revisione costituzionale, al quale la Costituzione connette il potere di conferire loro “forza di norme
costituzionali”.
Inoltre, e non è questione che in questa sede possa essere lasciata in ombra, perché attiene ai principi basilari dell’ordinamento, “Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge” (articolo 25, primo comma della Costituzione).
Questo significa che nessuno deve essere giudicato penalmente se non dal giudice
previsto dall’ordinamento, ma significa anche che non può essergli portato dopo che
egli sia già stato giudicato da organi diversi da quelli previsti per la formazione del
giudizio penale.
Questo problema ne pone un altro, assai importante e che non è stato adeguatamente affrontato nelle sedi proprie, della compatibilità delle inchieste parlamentari
con procedimenti penali in corso.
Le Commissioni di inchiesta hanno il diritto, e il dovere, di indagare a fondo,
anche su risvolti penalmente rilevanti, dei fenomeni oggetto dell’inchiesta, ma le loro
conclusioni sono sempre e comunque, finché la Costituzione non sarà modificata,
conclusioni politiche.
Esse presentano infatti le loro relazioni alle Assemblee parlamentari, ma tale presentazione è un atto pubblico e non un semplice adempimento interno. Infatti, in osse-
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quio al principio di pubblicità di cui al secondo comma dell’articolo 64 della
Costituzione, le relazioni vengono stampate e sono quindi disponibili alla lettura di
quanti vi siano interessati. Inoltre esse sono poste in vendita presso le librerie di
entrambe le Camere ed in passato venivano anche rilasciate senza alcun adempimento
a chi ne faceva richiesta per motivi istituzionali. Sono liberamente consultabili presso
la Biblioteca della Camera dei deputati.
Poiché sono a disposizione di tutti lo sono, ed a maggior ragione, dei magistrati
investiti del dovere di esercitare l’accusa. Perciò, anche indipendentemente dal loro
invio alle procure della Repubblica, o dall’invio di singoli atti contenenti “notizie di
reato” queste possono utilizzare le relazioni e i documenti ad esse allegati per aprire
procedimenti o per acquisire ulteriori elementi per quelli già iniziati.
La prova deve però essere formata nel dibattimento e quindi tali atti non possono
costituire prove, ciò che è del tutto in armonia con il sistema che ci siamo sforzati di
illustrare finora.
Si deve poi osservare in concreto, che ad una attenta lettura degli atti delle
Commissioni di inchiesta che sono stati pubblicati, anche di quelle più lontane nel
tempo, è possibile trarre oltre che notizie di reato su cui indagare in sede giudiziaria,
anche chiarimenti su connessioni e connivenze nei fenomeni criminosi, la cui esistenza alle Commissioni era apparsa certa ma la cui prova giudiziaria – la sola che vale
per l’irrogazione della pena in concreto – deve essere fornita nel processo e con i
mezzi del processo.
Ma non si può non osservare che una migliore utilizzazione da parte di tutte le
autorità competenti, Parlamento compreso, dell’ingente mole di notizie contenute
nelle relazioni e negli atti delle inchieste finora svolte, avrebbe consentito una lotta
agguerrita ai fenomeni criminosi che attentano alla sicurezza del nostro vivere civile.
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7. CLASSIFICAZIONE
DELLE INCHIESTE
PARLAMENTARI
La categoria dell’inchiesta parlamentare è concettualmente molto ampia, poiché
la lettera dell’articolo 82 della Costituzione pone, come si è visto, solo il limite del
“pubblico interesse” alle materie che ne possono formare oggetto.
Perciò l’istituto, sia nel periodo statutario, quando non esistevano norme al
riguardo, sia in epoca repubblicana sotto il vigore dell’articolo 82 della Costituzione,
ha subito una notevole evoluzione. Il dibattito all’Assemblea costituente aveva visto
posizioni tra loro assai differenti, da cui era scaturita la formula, in verità abbastanza
generica, che abbiamo illustrato.
Sono state infatti identificate dalla dottrina, sulla base peraltro della prassi,
a) inchieste legislative,
b) inchieste giudiziarie.
Questa terminologia non è esatta, perché le “inchieste legislative” sono in effetti
inchieste di carattere politico, volte all’acquisizione di dati sia per la successiva predisposizione di leggi, sia per l’esercizio in altre forme del controllo parlamentare, ad
esempio per accertare la condotta di determinati organi di governo in determinati
avvenimenti o settori di attività, da cui eventualmente consegua la caduta del
Governo, se in carica, oppure l’accertamento della responsabilità politica di un
Governo cessato dalla carica.
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Occorre ora dare qualche cenno sui procedimenti per deliberare lo svolgimento
di un’inchiesta parlamentare. I regolamenti equiparano, fin dal 1868, le proposte di
inchiesta parlamentare alle proposte di legge di iniziativa parlamentare. Pertanto ciascun deputato, o senatore, può presentare alla Camera di appartenenza proposte di
inchiesta parlamentare, formulate per iscritto, redatte in articoli e accompagnate da
una relazione illustrativa.
Della presentazione della proposta di inchiesta parlamentare la Presidenza dà
annuncio in Assemblea, ciò che equivale a notificazione a tutti i parlamentari, al
Governo e alla stampa, di tale presentazione. Quindi la proposta viene stampata e
distribuita a cura dell’Archivio legislativo e la Presidenza procede ad assegnarla alla
Commissione permanente competente per la materia oggetto dell’inchiesta; anche di
tale assegnazione viene dato annuncio in aula, agli stessi fini e con gli stessi effetti già
accennati.
La Commissione la esamina in sede referente, eventualmente ne modifica il
testo, e ne riferisce all’Assemblea, la quale, a sua volta la esamina nel testo che le è
sottoposto dalla Commissione referente, e, se ritiene, la modifica, l’approva o la
respinge.
Se la proposta è approvata il testo viene pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, ma
la deliberazione è esecutiva anche senza questo adempimento, che è previsto solo a
fini di conoscenza e non ha alcun carattere costitutivo.
Nel regolamento del Senato è previsto che qualora la proposta sia stata sottoscritta da almeno un decimo dei senatori, tutti i termini per l’esame da parte della
Commissione sono abbreviati di molto ed è anche reso possibile l’esame nel testo dei
proponenti nel caso in cui la Commissione non abbia adempiuto nei termini prescritti.
Anche alla Camera può esserne dichiarata l’urgenza con deliberazione
dell’Assemblea, e da ciò consegue l’abbreviazione di tutti i termini.
Se invece viene presentata una proposta di legge per l’istituzione di una
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PER LA DELIBERAZIONE
DELLE INCHIESTE PARLAMENTARI
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8. PROCEDIMENTO
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Anche la denominazione di “inchieste giudiziarie” è del tutto impropria alla luce
di quanto si è esposto prima, perché è vero che l’oggetto dell’inchiesta parlamentare
può essere lo stesso di inchieste giudiziarie o il metodo dell’indagine può essere regolato dalle stesse regole delle inchieste dell’autorità giudiziaria, ma è vero anche che
ciò non trasforma in giudiziarie, inchieste che sono e restano inchieste parlamentari.
Quindi tale distinzione ha carattere puramente descrittivo a fini di esposizione,
ma non ha certo carattere sostanziale: nell’uno e nell’altro caso i poteri sono comunque quelli spettanti all’autorità giudiziaria ed i limiti sono quelli stabiliti per essa, ma
l’inchiesta è quella prevista nell’articolo 82 della Costituzione.
Un’altra distinzione, che è contenuta in quanto si è già esposto, è quella tra
inchieste monocamerali e inchieste bicamerali (meglio si dovrebbe dire in questo caso
“parlamentari”) e cioè composte di deputati e di senatori.
Quindi da questa distinzione ne discende un’altra, inchieste disposte con legge e
inchieste disposte con atto monocamerale non legislativo, ma produttivo comunque di
effetti giuridici, in quanto attiva la norma dell’articolo 82 della Costituzione: anche la
Commissione istituita in questo modo è dotata degli stessi poteri.
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Commissione di inchiesta, il procedimento si raddoppia. Poiché la funzione di predisporre le leggi è esercitata collettivamente dalle due Camere, per l’approvazione della
proposta è necessaria la deliberazione favorevole da parte della Camera e del Senato.
Il procedimento si svolge in entrambe le Camere nelle stesse forme che abbiamo illustrato prima, solo che la seconda Camera non può iniziarne l’esame se non riceve
dalla Camera che la ha esaminata per prima il messaggio con cui quel Presidente le
trasmette il testo approvato.
Dopo che entrambe le Camere hanno approvato l’identico testo questo viene,
sempre con messaggio, dal Presidente della Camera che lo ha approvato per ultima,
inviato al Presidente della Repubblica per il tramite del Governo, per la promulgazione come legge.
In questo caso la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale è prescritta dalla
Costituzione e l’entrata in vigore, se la stessa legge non stabilisce una data diversa,
avviene il quindicesimo giorno successivo a tale pubblicazione.
Occorre a questo punto segnalare che l’articolo 116 del regolamento della
Camera vieta che sulle norme che istituiscono Commissioni parlamentari di inchiesta
il Governo possa porre la “questione di fiducia”. Questo divieto ha rotto la prassi precedente secondo la quale il Governo ha potuto porre la questione di fiducia per bloccare proposte di inchiesta. Infatti, ponendo la questione di fiducia sulla reiezione di
tale proposta il Governo dichiarava che si sarebbe dimesso se l’esito della votazione
gli fosse stato sfavorevole. In questo modo si metteva la maggioranza che sosteneva il
Governo nel dilemma di costringere il Governo alle dimissioni approvando l’istituzione dell’inchiesta o di rinunziare ad essa.
Invece con la norma regolamentare dianzi citata l’inchiesta viene sottratta alla
disponibilità della sola maggioranza, e ne viene anche la conseguenza dell’interesse
del Governo a che l’inchiesta si svolga, in modo che anch’esso possa disporre di valutazioni e documenti utili non solo al rapporto Parlamento-Governo, ma anche all’esercizio della funzione di governo.
9. COMPOSIZIONE
DELLE
COMMISSIONI
DI INCHIESTA
La composizione delle Commissioni di inchiesta può essere prevista nell’atto
istitutivo e comunque, in mancanza, vale la norma del primo comma dell’articolo 142
del regolamento della Camera e del terzo comma dell’articolo 162 di quello del
Senato, per cui la composizione deve essere in proporzione alla consistenza dei gruppi
parlamentari presenti in ciascuna Camera.
Quando le Commissioni hanno carattere bicamerale il principio del rispetto della
proporzionalità è assicurato, come si è accennato in altra parte di questa esposizione,
in rapporto, appunto, alle due Camere.
La nomina dei componenti può essere, come si è già visto, delegata al
Presidente, e proprio al fine di garantire il rispetto di quel principio. Infatti, in pratica,
in questi casi il Presidente di ciascuna Camera, o entrambi i Presidenti d’accordo tra
loro, calcola il numero dei commissari spettante a ciascun gruppo parlamentare ed
invita i gruppi a fare le loro designazioni, in base alle quali procede poi alla nomina
dei commissari. Poiché tale nomina avviene per delega dell’Assemblea essa non è
strettamente consequenziale alle designazioni dei gruppi, ma ricade nei generali poteri
DELL’ATTIVITÀ
COMMISSIONI
DI INCHIESTA
Quanto alle norme regolamentari occorre rilevare a questo punto che ciascuna
Commissione di inchiesta, data la sua autonomia di organo di una Camera, o del
Parlamento, titolare, se non del potere di inchiesta (che spetta alle Camere) certamente
dell’esercizio del potere di inchiesta sulla base dell’atto istitutivo, ha facoltà di darsi
un proprio regolamento che contenga le norme per disciplinare in concreto lo svolgersi della propria attività. Questo deve, ovviamente, essere in armonia con l’articolo 82
della Costituzione e con l’atto istitutivo, legge o atto monocamerale.
Ad esempio, il regolamento di solito disciplina il regime di pubblicità delle sedute della Commissione (quali sedute sono pubbliche e quindi trasmesse mediante l’apposito impianto televisivo a circuito chiuso e quali debbano essere segrete ed in questo caso se sia o no ammessa la presenza del personale di supporto, ecc.). Inoltre può
dettare norme per l’audizione delle persone, sui poteri del presidente e così via.
11. REGIME
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10. DISCIPLINA
DELLE
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di direzione e di arbitrato che spettano ai Presidenti delle Camere.
Qualora l’atto istitutivo lo preveda, essi, di intesa tra loro per le Commissioni
bicamerali, o direttamente per quelle monocamerali, nominano il presidente della
Commissione che può essere uno dei membri già nominati oppure un parlamentare ad
essa estraneo secondo la previsione dell’atto istitutivo.
A questo proposito è bene ricordare ora che per le Commissioni bicamerali, per
una norma consuetudinaria integrativa dei regolamenti, il presidente della
Commissione ne determina la sede. Cioè, se il presidente è un senatore la
Commissione ha sede presso il Senato, se è un deputato, presso la Camera. Da questo
derivano conseguenze importanti: infatti per il secondo comma dell’articolo 26 del
regolamento del Senato e per la corrispondente norma consuetudinaria alla Camera, si
applicano alle Commissioni bicamerali le norme del regolamento della Camera presso
la quale hanno sede.
Un’altra conseguenza di carattere pratico, ma con implicazioni giuridiche importanti per la gestione dei fondi archivistici: una volta conclusa l’inchiesta gli atti e i
documenti prodotti o acquisiti dalla Commissione vengono versati all’Archivio storico della Camera presso la quale aveva la sede.
Che poi materialmente esse svolgano la loro attività in una sede fisica comune
alle due Camere non ha grande rilievo, alla luce di quanto si è esposto prima.
ARCHIVISTICO DEI DOCUMENTI
Poiché se ne è fatto cenno resta da trattare del regime archivistico degli atti e
documenti prodotti o acquisiti dalle Commissioni di inchiesta.
Le Commissioni di inchiesta, come si è già accennato, li versano alla Camera cui
appartiene il presidente, ma se si tratta di un organo comune ad entrambe le Camere,
la loro gestione spetta congiuntamente alle due Presidenze. Tuttavia, in concreto
avviene che, di norma, è la Presidenza della Camera che li custodisce che adotta i
provvedimenti di volta in volta necessari, per un tacito ma effettivo accordo, salvo che
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la particolare importanza della questione non imponga che l’accordo sia anche esplicito e formale, raggiunto attraverso contatti, formali o informali, tra le due Presidenze.
Si pensi ad esempio al problema della classificazione degli atti tra quelli segreti o
quelli ammessi alla libera consultazione.
Di solito le Commissioni di inchiesta nella deliberazione con la quale approvano
la relazione che conclude l’inchiesta, deliberano anche sul regime dei propri documenti. Indicano cioè quali documenti ed atti devono essere pubblicati in allegato alle
relazioni, e di quelli non destinati alla pubblicazione danno la classificazione: quali
pur non pubblicati sono liberamente ostensibili al pubblico e quali invece devono
restare segreti. In questo caso indicano anche la durata del vincolo del segreto. Nel
caso in cui tale indicazione manchi ma vi siano documenti classificati segreti tale vincolo permane per quaranta anni.
La Camera dei deputati, nella sua organizzazione interna, ha istituito per la
gestione dei propri documenti – che sono quelli relativi non solo alle Commissioni di
inchiesta ma a tutta la propria attività – l’Archivio Storico come “istituto culturale
conpropria autonomia organizzativa”, dotato di uno specifico regolamento approvato
dall’Ufficio di presidenza della Camera.
In base a tale regolamento, documento della Camera è “ogni espressione e testimonianza dell’attività prodotta da chiunque vi operi in ragione di un rapporto organico o di servizio e indipendentemente dalla qualità del supporto su cui è registrata”. Si
tratta quindi di documenti cartacei, audiovisivi, oggetti, registrazioni su supporti elettronici e via dicendo.
I documenti non soggetti a vincoli sono consultabili da chiunque vi sia ammesso
in base allo stesso regolamento, che non pone condizioni particolari se non adempimenti dettati da evidenti ragioni di sicurezza, e se ne possono ottenere copie.Per ciò
che riguarda i fondi delle Commissioni di inchiesta sono stati inoltre pubblicati indici
dei documenti e dei nomi (Commissione di inchiesta sulla loggia P2) e per altre ne è
stata attuata la consultazione col mezzo informatico.
Anche il Senato ha, naturalmente, il proprio archivio storico, il quale rientra però
nell’organizzazione complessiva degli uffici del Senato e non è, almeno per il
momento, direttamente accessibile al pubblico.
PCI-PDS = Partito Comunista Italiano - Partito Democratico
della Sinistra
PDIUM = Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica
PLI = Partito Liberale Italiano
PR = Partito Radicale
PRI = Partito Repubblicano Italiano
Progr. Fed. = Progressisti Federalisti
PSI = Partito Socialista Italiano
Inchiesta parlamentare sulla miseria in
Italia e sui mezzi per combatterla
proposta istitutiva fu approvata
dall’Assemblea il 4 dicembre 1951.
Composta di 21 membri, la Commissione fu
presieduta da Roberto Tremelloni (PSDI).
Concluse i propri lavori con la presentazione
della relazione finale il 1° aprile 1951. Gli
atti, relazioni e documenti raccolti dalla
Commissione occupano 5 volumi suddivisi in
15 tomi, oltre a 1 volume di introduzione e 1
volume di indici.
Deliberata dalla sola Camera dei deputati. La
proposta di inchiesta parlamentare fu
approvata il 12 ottobre 1951 dalla
Commissione permanente lavoro in sede
legislativa. La Commissione era composta di
21 membri. Presidente il deputato Ezio
Vigorelli (DC).
Chiusa la I legislatura senza che fossero
terminati i suoi lavori venne deliberata una
proroga ed i risultati dell’inchiesta vennero
pubblicati tra il 1953 e il 1954, in 12 volumi,
oltre ai 2 volumi contenenti l’indagine
speciale condotta a Grassano (Matera) scelto
come comune campione.
Inchiesta parlamentare sulla
disoccupazione
Deliberata dalla sola Camera dei deputati. La
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
AN = Alleanza Nazionale
DC = Democrazia Cristiana
FI = Forza Italia
Ind. sin. = Indipendendenti di sinistra (poi Sinistra indipendente)
LN = Lega Nord
MSI = Movimento Sociale Italiano
MSI-DN = Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale
PCI = Partito Comunista Italiano
Moro
Legenda
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
LE INCHIESTE
DEL PERIODO
REPUBBLICANO
Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei
lavoratori in Italia
Deliberata dalla Camera dei deputati il 28
gennaio 1951 e dalla Commissione
permanente lavoro del Senato della
Repubblica in sede deliberante, su proposte
di inchiesta parlamentare di identico testo.
La Commissione era composta di 15 deputati
e 15 senatori nominati dal Presidente della
rispettiva Camera e del presidente nominato
31
dai due Presidenti d’intesa tra loro tra i suoi
componenti. Presidente il deputato Leopoldo
Rubinacci (DC).
Mafia
I lavori, iniziati nella II legislatura, si
protrassero per tutta la III.
Le conclusioni della Commissione occupano
28 volumi.
Criminalità SIFAR
Sardegna
Inchiesta parlamentare per esaminare il
comportamento della Pubblica
Amministrazione in ordine alla così detta
“Anonima Banchieri”
Moro
La questione che dette origine all’inchiesta è
meglio nota come: “Caso Giuffrè” dal nome
dell’ideatore del complesso meccanismo
finanziario che la legge per l’istituzione della
Commissione di inchiesta denominò
“Anonima Banchieri”.
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
È la prima Commissione di inchiesta del
periodo repubblicano istituita con una legge:
18 ottobre 1958, n. 493.
La Commissione era composta di 15 deputati
e 15 senatori nominati dal Presidente della
rispettiva Camera in base alla consistenza dei
gruppi parlamentari e del presidente,
nominato dai due Presidenti di intesa tra loro
al di fuori della Commissione. Presidente il
senatore Giuseppe Paratore (a vita ex art. 59
Cost.).
La relazione fu presentata il 17 dicembre
1958 e venne discussa alla Camera il 21 e il
22 gennaio e al Senato l’8 aprile 1959.
Inchiesta sui limiti posti alla concorrenza
in campo economico
La proposta istitutiva venne approvata dalla
Camera nella seduta del 19 aprile 1961.
La Commissione era composta di 21 membri
nominati dal Presidente della Camera ed
elesse presidente Roberto Tremelloni (PSDI).
32
I lavori durarono per tutta la III legislatura e
si conclusero nella IV, ad opera di un’altra
Commissione presieduta da Flavio Orlandi
(PSDI).
La relazione conclusiva venne presentata il
28 ottobre 1965. Gli atti e i documenti
pubblicati occupano 9 volumi.
Inchiesta sulla costruzione dell’aeroporto
di Fiumicino
Istituita con la legge 5 maggio 1961, n. 325,
pubblicata nella G.U. del 12 maggio 1961.
La Commissione era composta di 15 deputati
e 15 senatori nominati dal Presidente della
rispettiva Camera in base alla consistenza dei
gruppi parlamentari e del presidente,
nominato dai Presidenti delle due Camere
d’intesa tra loro al di fuori dei suoi membri.
Presidente il deputato Aldo Bozzi (PLI).
Presentò la relazione il 23 dicembre 1961.
Inchiesta parlamentare sul fenomeno della
mafia
Deliberata con la legge 20 dicembre 1962, n.
1720, pubblicata nella G.U. del 29 dicembre
1962.
Si tratta dell’inchiesta durata più a lungo,
praticamente senza soluzione di continuità
lungo la III, la IV e la V legislatura, poiché si
ritenne che fosse stato in realtà istituito un
organo che durasse fino alla conclusione del
mandato.
La Commissione era composta di 15 deputati
e 15 senatori nominati dal Presidente della
rispettiva Camera e del presidente, nominato
dai due Presidenti d’intesa tra loro, al di fuori
dei suoi membri.
Nella III legislatura fu nominato presidente il
deputato Paolo Rossi (PSDI), ma pochi giorni
Deliberata con la legge 22 maggio 1964,
n. 370
La Commissione, composta di 15 deputati e
15 senatori nominati dal Presidente della
rispettiva Camera, e del presidente, nominato
dai Presidenti delle due Camere di intesa tra
loro, al di fuori dei suoi membri.
Presidente il senatore Leopoldo Rubinacci
(DC).
Concluse i suoi lavori dopo un anno, il 15
luglio 1965.
Inchiesta parlamentare sull’attività e sul
funzionamento dell’Istituto nazionale della
previdenza sociale
Deliberata dal Senato della Repubblica nella
seduta del 21 luglio 1966.
La Commissione era nominata dal Presidente
del Senato su designazione dei gruppi
parlamentari.
Presidente il senatore Giovanni Giraudo (DC).
Concluse i suoi lavori con la presentazione
della relazione il 15 dicembre 1970. La
relazione della maggioranza è a firma del
presidente Alessi; furono presentate quattro
relazioni di minoranza: senatore Umberto
Terracini (PCI), deputato Alfredo Biondi
(PLI), deputato Alfredo Covelli (PDIUM),
senatore Enea Franza (MSI). Sono contenute
in due volumi.
Inchiesta sui fenomeni di criminalità in
Sardegna
Deliberata con la legge 27 ottobre 1969,
n. 755 e prorogata con le leggi 20 novembre
1970, n. 951 e 25 novembre 1971, n. 1010.
Criminalità SIFAR
Sardegna
La Commissione era composta di 9 deputati e
9 senatori nominati d’intesa tra loro dai
Presidenti delle due Camere, e dal presidente
nominato nello stesso modo. Presidente il
deputato Giuseppe Alessi (DC).
Moro
Deliberata con la legge 31 marzo 1969, n. 93
e prorogata con le leggi 1° agosto 1969,
n. 472, 20 luglio 1970, n. 570 e 10 novembre
1970, n. 853.
Mafia
Inchiesta parlamentare sugli eventi del
giugno-luglio 1964 (SIFAR)
Sindona
Inchiesta sul disastro del Vajont
Terminò i suoi lavori con la presentazione
della relazione il 31 maggio 1967.
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
dopo la costituzione della Commissione le
Camere vennero sciolte. Nella IV essa fu
presieduta dal senatore Donato Pafundi (DC),
nella V dal deputato Francesco Cattanei (DC) e
nella VI dal senatore Luigi Carraro (DC). Nella
VI legislatura la Commissione venne anche
rinnovata poiché, a seguito della contestazione
da parte di taluni commissari della presenza tra i
membri del deputato Giovanni Matta, che aveva
ricoperto la carica di assessore della Regione
Sicilia e indiziato di reato, dopo agitate e
drammatiche sedute la quasi totalità dei membri
ed il presidente Carraro si dimisero. La
Commissione venne subito rinnovata e ne fu
nominato presidente lo stesso senatore Carraro.
Le relazioni, gli atti e documenti, la cui
pubblicazione giunse, per delega del
presidente, fino alla IX legislatura, occupano
5 volumi, in 33 tomi.
La Commissione era composta di 15 deputati
e 15 senatori nominati dal Presidente della
rispettiva Camera in proporzione alla
composizione dei gruppi parlamentari, e del
presidente nominato dai due Presidenti di
intesa tra loro al di fuori della Commissione.
Presidente il senatore Giuseppe Medici (DC).
Concluse i suoi lavori con la presentazione
delle relazioni della maggioranza – relatore il
senatore Medici – e di minoranza – relatore il
deputato Pazzaglia (MSI) – il 29 marzo 1972.
Le relazioni occupano due volumi.
33
Inchiesta parlamentare sulle strutture,
sulle condizioni e sui livelli dei trattamenti
retributivi e normativi
Mafia
Deliberata con la legge 11 dicembre 1975,
n. 625, prorogata con le leggi 26 agosto
1976, n. 642 e 13 aprile 1977, n. 137.
Giornalisticamente è conosciuta come
inchiesta sulla “giungla retributiva”.
Criminalità SIFAR
Sardegna
La Commissione era composta di 11 deputati
e 11 senatori nominati dai Presidenti delle
due Camere di intesa tra loro.
Presidente fu eletto il senatore Dionigi
Coppo (DC).
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
I lavori, svoltisi tra la VI e la VII legislatura,
si sono conclusi con la presentazione della
relazione – relatore il presidente senatore
Coppo – il 16 novembre 1977.
La relazione è contenuta in 2 volumi.
Inchiesta parlamentare sulla fuga di
sostanze tossiche avvenuta nello
stabilimento ICMESA e sui rischi
potenziali per la salute e per l’ambiente
derivanti da attività industriali
Deliberata con la legge 16 giugno 1977, n.
357, prorogata con la legge 24 gennaio 1978,
n. 12.
La Commissione era composta di 15 deputati
e 15 senatori nominati dal Presidente della
rispettiva Camera in proporzione alla
consistenza dei gruppi parlamentari.
Presidente fu eletto il deputato Bruno Orsini
(DC).
I lavori si conclusero con la presentazione
della relazione il 28 luglio 1978. Nella
relazione, che è stata richiesta da numerosi
parlamenti e istituti scientifici esteri, sono
contenute anche indicazioni per una efficace
normativa in materia di prevenzione degli
incidenti quali quello verificatosi il 10 luglio
1976, con la fuga di diossina dallo
stabilimento ICMESA di Seveso (Milano).
34
Commissione parlamentare di inchiesta e
di studio sulle commesse di armi e di mezzi
ad uso militare.
Deliberata con la legge 8 agosto 1977,
n. 596, prorogata con la legge 21 dicembre
1978, n. 837 nella VII legislatura.
La Commissione era composta di 15 deputati
e 15 senatori nominati dal Presidente della
rispettiva Camera in proporzione ai gruppi
parlamentari.
Presidente fu eletto il senatore Dionigi
Coppo (DC).
Fu nuovamente istituita con la legge 18
dicembre 1980, n. 865.
La Commissione era composta di 20 deputati
e 20 senatori nominati dal Presidente della
rispettiva Camera, in proporzione alla
consistenza dei gruppi parlamentari e
comunque assicurando la presenza di almeno
un rappresentante per ciascun gruppo
presente in almeno una Camera.
Presidente fu eletto il senatore Egidio Ariosto
(PSDI).
Nuovamente istituita con la legge 29 aprile
1982, n. 196 e prorogata con la legge 20
novembre 1982, n. 885. La Commissione,
composta nei modi di quella precedente, fu
anch’essa presieduta dal senatore Egidio
Ariosto, nell’VIII legislatura.
La relazione conclusiva è stata presentata 1’8
giugno 1983. La relazione della maggioranza
– relatore Enea Cerquetti (PCI) – e la
relazione di minoranza – relatori Oriana (DC)
e Falco Accame (PSI) – con i documenti
allegati occupano 5 volumi.
Inchiesta parlamentare sull’attuazione
degli interventi per la ricostruzione e la
ripresa socio-economica dei territori della
Valle del Belice colpiti dai terremoti del
gennaio 1968
Deliberata con la legge 30 marzo 1978, n. 96,
Inchiesta parlamentare sulla strage di Via
Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo
Moro e sul terrorismo in Italia
Deliberata con la legge 23 novembre 1979, n.
597, prorogata con le leggi 4 settembre 1980,
n. 542, 30 dicembre 1980, n. 892, 6 gennaio
1983, n. 1 e 9 aprile 1982, n. 154.
La Commissione era composta di 20 deputati
e 20 senatori nominati da Presidente della
rispettiva Camera in base alla composizione
dei gruppi parlamentari e comunque
assicurando la presenza di almeno un
rappresentante per ciascuno dei gruppi
presenti in almeno una Camera.
Presidente il deputato Oddo Biasini (PRI). Il
presidente e la quasi totalità dei commissari
si dimisero il 7 marzo 1980 per gli insanabili
contrasti sorti all’interno della Commissione
in ordine alla propria composizione. La
nuova Commissione ed il presidente,
senatore Dante Schietroma (PSDI), vennero
nominati il 20 marzo 1980. A seguito della
sua nomina a ministro il presidente venne
sostituito dal senatore Mario Valiante (DC).
Deliberata con la legge 22 maggio 1980,
n. 204 e prorogata con la legge 23 giugno
1981, n. 315.
La Commissione era composta di 20 deputati
e 20 senatori nominati dal Presidente della
rispettiva Camera in base alla composizione
dei gruppi parlamentari, assicurando
comunque la presenza di almeno un
rappresentante per ciascun gruppo presente in
almeno una Camera, e del presidente
nominato dai due Presidenti di intesa tra loro
al di fuori dei membri della Commissione.
Presidente il deputato Francesco De Martino
(PSI).
Ha terminato i suoi lavori con la
presentazione della relazione il 27 ottobre
1984. Relatore per la maggioranza il deputato
Giuseppe Azzaro (DC), relatori di minoranza
i deputati Giuseppe D’Alema (PCI),
Massimo Teodori (PR) e il senatore Antonio
Rastrelli (MSI-DN). Le relazioni ed i
documenti allegati occupano 7 volumi.
Mafia
Criminalità SIFAR
Sardegna
Inchiesta parlamentare sul caso Sindona e
sulle responsabilità politiche ed
amministrative ad esso eventualmente
connesse
Moro
Ha terminato i suoi lavori il 7 giugno 1981,
con la presentazione della relazione
conclusiva. La relazione della maggioranza –
relatore Dal Falco (DC) – e le relazioni di
minoranza – relatori, rispettivamente, Enrico
Giuseppe Graziani (PCI) e Guido Lo Porto
(MSI-DN) – ed i documenti allegati sono
pubblicati in 2 volumi.
Le relazioni della maggioranza e di
minoranza sono pubblicate in 2 volumi ed i
documenti allegati in 102 volumi.
Sindona
La Commissione era composta di 15 deputati
e 15 senatori nominati dal Presidente della
rispettiva Camera in base alla composizione
dei gruppi parlamentari.
Presidente fu prima il deputato Renato Ascari
Raccagni (PRI) indi il senatore Luciano Dal
Falco (DC).
La relazione conclusiva è stata presentata il
29 giugno 1983.
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
prorogata con le leggi 19 marzo 1979, n. 78,
24 dicembre 1979, n. 670 e 22 dicembre
1980, n. 980.
Inchiesta parlamentare sulla loggia
massonica P2
Deliberata con la legge 23 settembre 1981,
n. 527 e prorogata con le leggi 4 giugno
1982, n. 342, 28 febbraio 1983, n. 57, 1°
ottobre 1983, n. 522 e 6 aprile 1984, n. 59.
La Commissione era composta di 20 deputati
e 20 senatori, nominati dal Presidente della
35
Mafia
rispettiva Camera proporzionalmente alla
consistenza dei gruppi parlamentari,
comunque assicurando la presenza di almeno
un rappresentante per i gruppi presenti in
almeno una delle due Camere e del
presidente nominato dai due Presidenti di
intesa tra loro al di fuori della Commissione.
Presidente il deputato Tina Anselmi (DC).
Criminalità SIFAR
Sardegna
La relazione conclusiva è stata presentata il
12 luglio 1984. Oltre alla relazione della
maggioranza – relatore Tina Anselmi –
furono presentate cinque relazioni di
minoranza: senatore Attilio Bastianini (PCI);
deputato Alessandro Ghinami (PSDI);
deputato Altero Matteoli (MSI-DN), senatore
Giorgio Pisanò (MSI-DN), deputato
Massimo Teodori (PR).
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Le relazioni conclusive sono pubblicate in 6
volumi, i resoconti stenografici delle sedute
in 16 volumi, i doumenti allegati occupano
98 volumi, quindi in totale 120 volumi, cui si
aggiunge un volume pubblicato dall’Archivio
storico della Camera contenente gli indici di
tali atti.
I risultati dell’inchiesta sono stati discussi
alla Camera il 18 e il 19 dicembre 1985, 8 e 9
gennaio e 6 marzo 1986. Al Senato il
dibattito si è svolto nelle tre sedute del
1° agosto 1985.
Inchiesta parlamentare sui fondi neri
dell’IRI e delle società collegate e sulle
connesse responsabilità amministrative e
politiche
Deliberata dalla Camera dei deputati il
29 gennaio 1987, in un testo che presentava
notevoli problemi di interpretazione
a seguito di varie votazioni di contenuto
contrastante, la proposta venne nuovamente
sottoposta ad una deliberazione
dell’Assemblea, che vi ha apportato varie
modifiche e integrazioni, il 23 marzo 1987.
La Commissione non poté essere costituita
36
per lo scioglimento anticipato delle Camere.
Inchiesta parlamentare sulla dignità e
condizione sociale dell’anziano
Deliberata dal Senato della Repubblica il 17
marzo 1988, prorogata con deliberazioni del
14 dicembre 1988 e 27 aprile 1989.
La Commissione era composta di 24 senatori
nominati dal Presidente del Senato
proporzionalmente alla consistenza dei
gruppi parlamentari, e del presidente
nominato dal Presidente del Senato al di fuori
dei membri della Commissione.
Presidente fu nominato il senatore Giorgio
De Giuseppe (DC).
La Commissione ha presentato la sua
relazione conclusiva il 28 luglio 1989.
Inchiesta parlamentare sulla mafia e sulle
altre associazioni criminali similari
Deliberata con la legge 3 marzo 1988, n. 94 e
prorogata con la legge 1991, n. 229.
La Commissione era composta di 20 deputati
e 20 senatori nominati dal Presidente della
rispettiva Camera in proporzione alla
composizione dei gruppi parlamentari e
comunque con la presenza di almeno un
rappresentante per ciascun gruppo e del
presidente, nominato dai due Presidenti di
intesa tra loro. Presidente il senatore Gerardo
Chiaromonte (PCI).
La Commissione ha presentato la relazione
conclusiva, un volume unico in 4 tomi –
relatore Chiaromonte –, 5 fascicoli di
relazioni di minoranza e relazione annuale;
relazioni parziali in 15 fascicoli e relazioni
annuali per 21 fascicoli.
(Si segnala che nella IX legislatura era stata
istituita una Commissione parlamentare di
indagine, sfornita quindi dei poteri di cui
all’articolo 82 della Costituzione, con il
È stata nuovamente deliberata per la XII
legislatura con la legge 30 giugno 1994,
n. 430.
La Commissione era formata come la
precedente. Presidente il deputato Tiziana
Parenti (FI).
Ha presentato varie relazioni su singole
indagini e casi particolari, nonché la
relazione conclusiva, in data 20 marzo 1996.
Inchiesta parlamentare sulla condizione
giovanile
Deliberata dalla Camera dei deputati il
1° giugno 1988.
La Commissione era composta di 30 deputati
nominati dal Presidente della Camera in
proporzione alla consistenza dei gruppi
parlamentari. Presidente venne eletto il
deputato Nicola Savino (PSI).
La Commissione ha presentato la relazione
conclusiva, che occupa 3 volumi.
I lavori della Commissione si interruppero
per la fine della legislatura. La Commissione
non ha presentato una relazione ma ha
concluso raccomandando di proseguire le
indagini nella legislatura successiva mediante
una Commissione bicamerale.
Mafia
Criminalità SIFAR
Sardegna
Moro
La Commissione era costituita come nella X
legislatura e venne presieduta dal deputato
Luciano Violante (PCI-PDS). Ha presentato
la relazione conclusiva – relatore Violante –
nonché 12 relazioni settoriali, i risultati di
numerosi “forum” e relazioni di minoranza.
Deliberata dalla Camera dei deputati il 23
ottobre 1986.
La nomina e la composizione della
Commissione era stata delegata al Presidente
della Camera, che doveva procedere in base
alla consistenza dei gruppi parlamentari ed
assicurando la rappresentanza di tutti quelli
costituiti alla Camera. Anche il presidente
veniva nominato dal Presidente della
Camera. Presidente il deputato Gerardo
Bianco (DC).
Sindona
Con la legge 7 agosto 1992, n. 356 venne
nuovamente istituita la Commissione di
inchiesta nella XI legislatura.
Inchiesta parlamentare sui risultati della
lotta al terrorismo e sulle cause che hanno
impedito l’individuazione dei responsabili
delle stragi
Con la legge 17 maggio 1988, n. 172 venne
deliberata la prosecuzione dell’inchiesta.
La Commissione era composta di 20 deputati
e 20 senatori nominati dal Presidente della
rispettiva Camera in misura proporzionale ai
gruppi parlamentari e assicurando comunque
la presenza di almeno un rappresentante per
ciascun gruppo parlamentare, e del presidente
nominato dai due Presidenti di intesa tra loro
al di fuori della Commissione. Presidente fu
nominato il senatore Libero Gualtieri (PRI).
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
compito di esaminare la normativa e l’azione
dei pubblici poteri in ordine alla mafia e di
suggerire idonee iniziative. Terminò i lavori
con la fine della legislatura. Ha pubblicato
relazioni per 3 volumi, nonché volumi di
resoconti stenografici delle sedute).
La Commissione ha presentato numerose
relazioni semestrali su diversi episodi di
strage o ritenuti connessi a stragi o comunque
di grande interesse per l’ordine e la sicurezza.
Nuovamente deliberata con la legge 23
dicembre 1992, n. 499.
La Commissione era formata come la
precedente. Presidente il senatore Libero
Gualtieri (PRI).
37
Sono state pubblicate varie relazioni
semestrali, nonché documenti sugli eventi del
giugno-luglio 1964 (SIFAR), nella loro
interezza poiché il Governo (Andreotti VIII)
li aveva declassificati e fatti pervenire alla
Commissione.
Presidente il deputato Oscar Luigi Scàlfaro
(DC).
La relazione – relatore Scàlfaro – approvata
dalla Commissione all’unanimità, venne
presentata il 6 febbraio 1991. La relazione
con i documenti allegati occupa 9 volumi per
45 tomi.
Mafia
Nuovamente istituita con la legge 19
dicembre 1995, n. 538 per la XII legislatura.
Criminalità SIFAR
Sardegna
La Commissione era formata come la
precedente. Presidente il senatore Giovanni
Pellegrino (Progr.- PDS).
Inchiesta parlamentare sulle condizioni di
lavoro nelle aziende
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Deliberata dal Senato della Repubblica il 7
luglio 1988 e prorogata il 13 luglio 1989.
Deliberata dal Senato della Repubblica nella
seduta del 19 febbraio 1991 e prorogata con
deliberazione del 18 dicembre 1991.
La Commissione era composta di 12 senatori e
del presidente, nominati dal Presidente del Senato.
Presidente il senatore Gianuario Carta (DC).
La Commissione era composta di 12 senatori
e del presidente nominati dal Presidente del
Senato. Presidente il senatore Luciano Lama
(PCI).
La Commissione ha presentato la relazione
conclusiva il 22 aprile 1992, in 25 volumi,
compresi gli allegati.
La Commissione ha presentato la relazione
conclusiva il 4 agosto 1989, che occupa un
volume in 2 tomi.
Inchiesta parlamentare sulla utilizzazione
dei finanziamenti concessi all’Iraq dalla
Banca Nazionale del Lavoro
Inchiesta parlamentare sull’attuazione
degli interventi per la ricostruzione e lo
sviluppo dei territori della Basilicata e
della Campania colpiti dai terremoti del
novembre 1980 e febbraio 1981
Deliberata con la legge 7 aprile 1989, n. 128,
prorogata con le leggi 8 agosto 1990, n. 246 e
28 novembre 1990, n. 349.
La Commissione era composta di 20 deputati
e 20 senatori nominati dal Presidente della
rispettiva Camera in misura proporzionale
alla consistenza dei gruppi e comunque
assicurando la presenza di almeno un
componente di tutti i gruppi parlamentari, e
del presidente, nominato dai due Presidenti di
intesa tra loro al di fuori della Commissione.
38
Inchiesta parlamentare sul caso della
filiale di Atlanta della Banca Nazionale del
Lavoro e sue connessioni
Deliberata dal Senato della Repubblica il 17
novembre 1992 e prorogata con
deliberazione del 10 novembre 1993.
La Commissione era composta di 12 senatori
e del presidente, nominati dal Presidente del
Senato. Presidente il senatore Giampaolo
Mora (DC).
La Commissione ha presentato la relazione
conclusiva il 12 marzo 1994.
Inchiesta parlamentare sulla politica di
cooperazione con i Paesi in via di sviluppo
Deliberata con la legge 17 gennaio 1994,
n. 46, che ne ha stabilito la durata per i dieci
mesi dall’insediamento della Commissione
Inchiesta parlamentare sulle strutture
sanitarie
Inchiesta parlamentare sul ciclo dei rifiuti
e sulle attività illecite ad esso connesse
Deliberata dalla Camera il 20 giugno 1995
per la durata della XII legislatura.
La Commissione era composta di 25 deputati
nominati dal Presidente della Camera in
proporzione alla consistenza dei gruppi.
Presidente è stato eletto il deputato Massimo
Scalia (Progr. Fed.).
Deliberata dal Senato della Repubblica il 4
ottobre 1994, prorogata al 31 marzo 1996 il
22 novembre 1995.
La Commissione ha approvato la relazione
conclusiva nella seduta dell’11 marzo 1996.
La Commissione era composta di 20 senatori
e del presidente nominati dal Presidente del
Senato. Presidente il senatore Valentino
Martelli (AN).
Inchiesta parlamentare sul problema dei
rifiuti e sulle attività poste in essere in
materia dalle pubbliche amministrazioni
centrali e periferiche
Inchiesta parlamentare sull’Azienda di
Stato per gli interventi nel mercato
agricolo
Deliberata con la legge 25 maggio 1995,
n. 229, che prevede la durata di sei mesi dalla
data della costituzione della Commissione.
Deliberata dal Senato della Repubblica il 12
ottobre 1995, per la durata della XII
legislatura.
Mafia
Criminalità SIFAR
Sardegna
La Commissione era composta di 20 senatori
e del presidente, nominati dal Presidente del
Senato. Presidente il senatore Donato
Manfroi (LN).
La Commissione era composta di 25 deputati
nominati dal Presidente della Camera.
Presidente il deputato Carla Mazzucca
(I democratici).
Moro
Deliberata dal Senato della Repubblica il 20
settembre 1994, prorogata al 30 aprile 1996,
con deliberazione della Commissione
permanente lavoro del Senato il 7 novembre
1995.
Deliberata dalla Camera il 20 giugno 1995 e
prorogata il 24 gennaio 1996.
Sindona
Inchiesta parlamentare sul fenomeno del
così detto “caporalato”
Inchiesta parlamentare sulla vicenda
dell’ACNA di Cengio
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
(novembre 1994). La legge 6 novembre 1995, n.
465, ha prorogato il termine al 31 marzo 1996.
La Commissione era composta di 20 deputati
e 20 senatori nominati dal Presidente della
rispettiva Camera. Presidente era il deputato
Fiorello Provera (LN).
La Commissione, che era stata nominata, non
si è però costituita.
La Commissione era composta di 20 deputati
e 20 senatori nominati dal Presidente della
rispettiva Camera in proporzione alla
consistenza dei gruppi. Presidente il senatore
Giovanni Robusti (LN).
39
40
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
ANTOLOGIA
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Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
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Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
DI LETTURA
Primo passo di un percorso di educazione alla legalità è certamente l’invito al
rispetto delle regole, che è l’essenza stessa del diritto, come regola della vita associata. Da questo deriva quindi l’educazione alla tolleranza, non solo come formale rispetto del diritto di esprimere le varie opinioni bensì come doverosa considerazione di
tutti gli apporti alla ricerca del giusto, dell’onesto e del vero.
Non si può che partire dal dettato costituzionale, la cui conoscenza è imprescindibile per la formazione di una coscienza democratica, che è poi la base della educazione alla legalità.
Infatti non si tratta del rispetto di un principio astratto di legalità, ma del principio di legalità inserito nella realtà concreta di uno Stato democratico, la cui espressione non è una volontà sopraffattrice di un’autorità estranea al corpo sociale, bensì
effetto di un processo di formazione delle norme, basato sul consenso, almeno della
maggioranza del popolo, in quanto titolare della sovranità.
Questo concetto è alla base della esposizione della nozione tecnico-scientifica
dell’inchiesta parlamentare, che apre il presente volume, ed anche l’intera collana.
L’inchiesta parlamentare è infatti uno strumento, di straordinaria importanza per
l’accertamento della verità, in vista dell’esercizio delle fondamentali funzioni dello
Stato.
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
PERCORSI
Se si intende approfondire questo aspetto, il volume offre come strumenti immediati: l’esposizione teorica con i suoi spunti problematici, rispetto ai quali è elencata la
bibliografia, in cui è contenuta l’indicazione di studi specifici, utili per un approfondimento, appunto, di quegli spunti problematici.
Vi è inoltre l’elenco delle inchieste parlamentari che sono state effettuate nel
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Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
periodo che va dal 1948 al 1996, che dà uno spaccato della realtà politico-sociale di
quel periodo, capace – osiamo sperare – di suscitare curiosità culturale e desiderio di
approfondimento.
Vi è poi questa antologia di documenti tratti dagli atti di otto inchieste parlamentari, scelte tra quelle che hanno avuto come oggetto fatti di enorme rilievo sulla vita
nazionale, proprio in rapporto a fenomeni di illegalità aperta od occulta.
La scelta è, naturalmente come ogni scelta, del tutto opinabile perché scorrendo
l’elenco delle inchieste effettuate anche altre possono attirare l’attenzione (come è del
resto alla base della decisione di allegarlo a questo volume), ma ci è parso che comunque le inchieste prescelte presentino aspetti di preminente interesse per lo scopo della
pubblicazione.
Il criterio di presentazione è quello cronologico: criterio obiettivo dunque.
Tuttavia, poiché per prima appare un brano della relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia attiva nella XI legislatura, appare
necessaria qualche ulteriore precisazione. Tra quelle prescelte si tratta della più antica:
risale infatti alla III legislatura, come appare dalla scheda premessa al documento
nonché dalla tavola illustrativa.
Il brano della relazione Violante è esplicativo non solo del fenomeno al momento
in cui quella Commissione operava, ma assai indicativo sul piano metodologico.
Le indicazioni metodologiche si estendono infatti a tutta l’attività della
Commissione, sia nello svolgimento dei suoi compiti, per così dire, tradizionale, sia
nella promozione di attività collaterali anche nell’ambito istituzionale, assai innovativa. Vi sono indicati altresì gli strumenti normativi e amministrativi frutto di tale attività.
Inoltre assai importanti ai fini propri del presente volume sono le indicazioni
bibliografiche e le note, che costituiscono un ottimo punto di partenza per ulteriori
approfondimenti, soprattutto per un lavoro di gruppo.
•
L’inclusione di documenti della Commissione di inchiesta sugli eventi del giugno-luglio 1964 (SIFAR) propone all’attenzione un fenomeno da quell’epoca sempre
presente nel dibattito politico e nei media: il funzionamento dei servizi di sicurezza.
La scelta dei documenti è particolarmente mirata ad eventuali approfondimenti,
non solo sullo specifico fenomeno oggetto dell’inchiesta, ma proprio sul funzionamento del sistema.
Infatti la riproduzione di talune pagine del cosiddetto “Piano Solo”, che sono
contenute nella relazione della maggioranza della relativa Commissione di inchiesta, è
da mettere in rapporto con quelle pubblicate dalla Commissione di inchiesta sul terrorismo e la mancata individuazione dei responsabili delle stragi, dopo che il Governo
aveva rimosso il vincolo del segreto di Stato, che era stato invece opposto alla precedente Commissione di inchiesta.
Inoltre il brano della relazione di minoranza tocca, nel 1970, un nodo ancora irrisolto della questione dei servizi segreti (si vedano, per esempio, documenti alle pagg.
87 segg. e 251 segg.).
Questo comparto di documenti si presta a utili riflessioni, e non tutte pessimistiche, sempre in vista dello scopo di questa pubblicazione, sul valore della dialettica
maggioranza-minoranze. Per un esempio: da questa inchiesta è scaturita la riforma,
ancor oggi in vigore, dei Servizi di sicurezza.
• L’inclusione nell’antologia di brani delle relazioni della Commissione di
44
•
L’inchiesta sul caso Sindona costituisce uno snodo importantissimo nell’indagine su deviazioni di talune parti degli apparati dello Stato, attraverso loro connessioni con ambienti criminali e con ambienti della massoneria. Da essa infatti è derivata
l’inchiesta sulla loggia massonica P2.
A questo proposito sono sembrati assai importanti, per gli aspetti problematici
che contengono, il brano della relazione della maggioranza (relatore Azzaro) in ordine
alla vicenda del “tabulato dei 500” e il brano della relazione di minoranza (Giuseppe
D’Alema) sul finto rapimento di Michele Sindona.
Da questi documenti appare l’esistenza delle connessioni accennate, che possono
formare oggetto di ulteriori approfondimenti, anche in rapporto alle successive inchieste parlamentari.
Mafia
Criminalità SIFAR
Sardegna
Moro
Sindona
•
Come brani delle audizioni effettuate dalla Commissione di inchiesta sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro sono stati scelti l’audizione della signora Elenora
Moro, vedova dello statista, e del fratello Alfredo Carlo, per far comprendere il clima
nel quale le famiglie, quella propria e quella di provenienza, vissero i 55 giorni della
prigionia inflitta ad Aldo Moro dalle BR, e il brano della audizione di Valerio
Morucci, per dare un esempio delle valutazioni del fatto interne alle BR attraverso le
parole di un uomo dalla personalità assai complessa e le cui vicende personali sono
state, e sono tuttora, oggetto di valutazioni differenti.
L’inclusione di questa inchiesta tra quelle dell’antologia è apparsa naturale, data
l’importanza dell’evento che ne è l’oggetto, e soprattutto in considerazione del fatto
che nonostante l’inchiesta parlamentare e numerosi procedimenti giudiziari il caso
non è ancora chiuso.
Infatti quelle vicende hanno formato oggetto di indagine da parte di altre
Commissioni di inchiesta e taluni procedimenti giudiziari sono ancora aperti.
Osiamo sperare che ne possano risultare sollecitati lavori di gruppo volti ad
appurare gli sviluppi delle ulteriori indagini, e sulle conseguenze derivate da quell’inchiesta in ordine a successive analoghe iniziative.
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
inchiesta sulla criminalità in Sardegna tende a dare un esempio di inchiesta di “carattere legislativo” (secondo la distinzione operata nella trattazione introduttiva), volta
cioè, in primo luogo, alla acquisizione di dati per la futura legislazione, ed inoltre perché il fenomeno oggetto dell’inchiesta di allora è tuttora di attualità, anche se in evoluzione.
I brani presentati, dalla relazione della maggioranza (Medici) e di minoranza
(Pazzaglia), affrontano entrambi la genesi del fenomeno, ed offrono quindi un esempio di come lo stesso fenomeno possa essere diversamente interpretato, pur concorrendo, entrambe le letture, al medesimo fine.
Inoltre potrebbe formare oggetto di una ricerca, ad esempio: la verifica degli
schieramenti politici che portarono alla formazione delle due relazioni, nonché la verifica dei provvedimenti che seguirono alla conclusione dell’inchiesta.
•
L’inchiesta sulla loggia massonica P2 si impone per la centralità che nella
pubblica opinione e nel dibattito politico hanno assunto le sue vicende, sulle quali ha
intensamente lavorato la Commissione parlamentare di inchiesta, che ha messo insieme una ingente mole documentaria, di cui ha pubblicato la gran parte.
Il brano della relazione della maggioranza (relatore Tina Anselmi, presidente
della Commissione) serve ad inquadrare la materia e soprattutto a dar conto della
45
Mafia
natura della associazione indagata come associazione di carattere politico, e come
insieme, via via, di alti gradi militari, di massimi dirigenti amministrativi e di esponenti dell’alta finanza.
Questo può servire come base per una riflessione sull’articolo 18 della Costituzione
e della applicazione che ne è stata data in occasione della scoperta della attività della
loggia P2 e poi nei suoi confronti, nonché sulle sue connessioni con altri eventi oggetto di inchieste parlamentari.
Assai stimolanti a questo fine ci sono sembrati i documenti relativi alla affiliazione alla loggia che figurano nell’antologia, dalla quale sono stati eliminati i nomi
delle persone ed i dati idonei alla loro identificazione.
•
Criminalità SIFAR
Sardegna
L’inclusione nell’antologia della relazione sulla sciagura di Ustica non costituisce una scelta per l’ipotesi della “strage” ma è stata dettata dall’evidenza che si
tratta di uno dei tanti casi irrisolti, tra quelli che sono accaduti in Italia, in cui hanno
perso la vita tante persone.
Inoltre tale relazione contiene molti stimoli culturali degni di attenzione nell’ottica dell’educazione alla legalità democratica, in quanto riporta varie interpretazioni
dello stesso fenomeno, nonché esempi di interpretazione di opinioni espresse che si
prestano ad utili riflessioni sulla applicazione di certi canoni ermeneutici.
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
•
46
L’inchiesta sull’attuazione degli interventi per la ricostruzione dei territori colpiti dai terremoti del 1980 e 1981 è stata scelta sia perché la sua relazione (relatore
Scàlfaro, presidente della Commissione) è stata approvata all’unanimità dai componenti della Commissione sia perché era stata preceduta dalla deliberazione di inviarla
a tutte le autorità interessate, oltre che, ovviamente, ai due rami del Parlamento.
Nell’antologia è incluso infatti questo stralcio della deliberazione conclusiva
oltre ad un brano della relazione, in cui sono messi in luce i fini dell’inchiesta, la
metodologia seguita, nonché taluni esempi di disfunzioni e di intreccio tra le figure
dei gestori dei fondi, dei controllori e dei controllati, sui quali può utilmente innestarsi
una riflessione da parte dei destinatari di questo volume.
A conclusione di queste note si deve segnalare che i documenti cui nel volume si
fa riferimento sono a disposizione degli interessati presso il CLD Toscana (Cultura
della Legalità Democratica. Centro regionale toscano di informazione e documentazione per la lotta alla criminalità organizzata e ai poteri occulti) presso la Giunta
regionale della Regione Toscana.
Ulteriori dati possono essere inoltre richiesti alle Segreterie generali della
Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
TAVOLE
SINOTTICHE
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Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
commissioni
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
COMMISSIONEPARLAMENTARE DI INCHIESTA
sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali similari
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III LEGISLATURA
legge n. 1720
20 dicembre 1962
IV LEGISLATURA
legge n. 1720
20 dicembre 1962
V LEGISLATURA
legge n. 1720
20 dicembre 1962
VI LEGISLATURA
legge n. 1720
20 dicembre 1962
PRESIDENTE
Paolo Rossi
deputato
PRESIDENTE
Donato Pafundi
senatore
PRESIDENTE
Francesco Cattanei
deputato
PRESIDENTE
Giuseppe Carraro
deputato
Non ha svolto attività
a causa dello
scioglimento delle
Camere
Per le relazioni e gli
atti vedi la VI
legislatura
Per le relazioni e gli
atti vedi la VI
legislatura
RELATORE
Giuseppe Carraro
Ha svolto intensa
attività, che si è
saldata all’attività
delle Commissioni
successive
Ha svolto intensa
attività, che si è
saldata all’attività
della Commissione
successiva
Le relazioni, gli atti e i
documenti, che
riguardano anche le
Commissioni
precedenti sono stati
pubblicati fino alla IX
legislatura.
La relazione conclusiva
e le relazioni occupano
9 volumi; gli atti ed i
documenti 5 volumi in
33 tomi
X LEGISLATURA
legge n. 94
3 marzo 1988
XI LEGISLATURA
legge n. 356
7 agosto 1992
XII LEGISLATURA
legge n. 340
30 giugno 1994
V LEGISLATURA
legge n. 93
31 marzo 1969
PRESIDENTE
Gerardo Chiaromonte
senatore
PRESIDENTE
Luciano Violante
deputato
PRESIDENTE
Tiziana Parenti
deputato
PRESIDENTE
Giuseppe Alessi
deputato
RELATORE
Gerardo Chiaromonte
RELATORE
Luciano Violante
RELATORE
Tiziana Parenti
RELATORE
Giuseppe Alessi
Relazione conclusiva
e relazioni specifiche
RELAZIONI DI
MINORANZA
Umberto Terracini
Alfredo Biondi
Alfredo Covelli
Enea Franza
Relazione conclusiva
e relazioni annuali in
9 fascicoli; documenti
volume unico in 4
tomi e numero 5
volumi di resoconti
stenografici
Relazione conclusiva,
12 relazioni settoriali
e resoconti
stenografici per 4
volumi
Sindona
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
COMMISSIONE
PARLAMENTARE
DI INCHIESTA
sugli eventi del
giugno-luglio 1964
(SIFAR)
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
parlamentari
49
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
commissioni
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
COMMISSIONE
PARLAMENTARE
DI INCHIESTA
sui fenomeni di
criminalità in
Sardegna
COMMISSIONE
PARLAMENTARE
DI INCHIESTA
sulla strage di Via
Fani, sul sequestro
e l’assassinio di
Aldo Moro e sul
terrorismo in Italia
COMMISSIONE
PARLAMENTARE
DI INCHIESTA
sul caso Sindona e
sulle responsabilità
politiche e
amministrative ad
esso eventualmente
connesse
V LEGISLATURA
legge n. 755
27 ottobre 1969
VII LEGISLATURA
legge n. 587
23 dicembre 1979
VIII LEGISLATURA
legge n. 204
22 maggio 1980
PRESIDENTE
Giuseppe Medici
senatore
PRESIDENTE
Oddo Biasini
deputato
Dante Schietroma
senatore
Mario Valiante
senatore
PRESIDENTE
Francesco De
Martino senatore
RELATORE
Giuseppe Medici
RELATORE
DI MINORANZA
Alfredo Pazzaglia
50
RELATORE
Giuseppe Azzaro
deputato
RELATORE
Mario Valiante
RELAZ. DI MIN.
Covatta, Franchi,
Sciascia, Sterpa,
La Valle
RELAZIONI DI
MINORANZA
Giuseppe D’Alema
Massimo Teodori
Giuseppe Rastrelli
La relazione
conclusiva, i resoconti
stenografici ed i
documenti occupano
9 volumi in 89 tomi
Le conclusioni sono
state discusse
alla Camera
il 4 ottobre 1982
COMMISSIONE
PARLAMENTARE
DI INCHIESTA
sulla loggia
massonica P2
VIII LEGISLATURA
legge n. 527
23 settembre 1981
PRESIDENTE
Tina Anselmi
deputato
RELATORE
Tina Anselmi
RELAZIONI DI
MINORANZA
Attilio Bastianini
Alessandro Ghinami
Altero Matteoli
Giorgio Pisanò
Massimo Teodori
Le conclusioni sono
state discusse alla
Camera il 18 e il 19
dicembre 1985 e l’8 e
9 gennaio 1986.
Al Senato
il 1° agosto 1985
X LEGISLATURA
legge n. 128
7 aprile 1989
PRESIDENTE
Oscar Luigi Scàlfaro
deputato
RELATORE
Oscar Luigi Scàlfaro
La relazione e i
resoconti stenografici
occupano 1 volume
per 6 tomi e gli
allegati 10 volumi per
48 tomi
COMMISSIONE
PARLAMENTARE
DI INCHIESTA
sui risultati della lotta al terrorismo e
sulle cause che hanno impedito l’individuazione dei responsabili delle stragi
X LEGISLATURA
legge n. 172
17 maggio 1988
XI LEGISLATURA
legge n. 499
23 dicembre 1992
XII LEGISLATURA
legge n. 538
19 dicembre 1995
PRESIDENTE
Libero Gualtieri
senatore
PRESIDENTE
Libero Gualtieri
senatore
PRESIDENTE
Giuseppe Pellegrino
senatore
RELATORE
Libero Gualtieri
RELATORE
Libero Gualtieri
Non ha presentato
la relazione
conclusiva
Relazioni su singoli
episodi di stragi o
ritenuti connessi a
stragi, nonché sulla
vicenda Moro e
documenti per 13
volumi; i Resoconti
stenografici per 8
volumi
Relazione semestrale,
due relazioni settoriali
ed un volume di
resoconti stenografici
Moro
COMMISSIONE
PARLAMENTARE
DI INCHIESTA
sui risultati della lotta
al terrorismo e sulle
cause che hanno impedito l’individuazione dei responsabili
delle stragi
Sindona
COMMISSIONE
PARLAMENTARE
DI INCHIESTA
sul terrorismo in
Italia e sulle cause
della mancata
individuazione dei
responsabili delle
stragi
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
COMMISSIONE
PARLAMENTARE
DI INCHIESTA
sulla attuazione
degli interventi
per la ricostruzione
e lo sviluppo dei
territori della
Basilicata e della
Campania colpiti
dai terremoti del
novembre 1980
e febbraio 1981
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
parlamentari
51
52
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
COMMISSIONI
PARLAMENTARI
DI INCHIESTA
Sul fenomeno della mafia e dei fenomeni criminali similari, si
ebbe l’istituzione di Commissioni parlamentari di inchiesta fin dalla III
legislatura.
Dal 1962 fino al 4 febbraio 1976, dunque attraverso la III, la IV, la
V e la VI legislatura si svolse un’inchiesta parlamentare effettuata da
quattro diverse Commissioni.
Nella IX legislatura venne nominata una Commissione di indagine,
nella X, XI e XII legislatura Commissioni di inchiesta.
Tutto questo ha prodotto una grande serie di relazioni annuali,
importanti relazioni conclusive e una ingente quantità di notizie e
documenti.
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
SULLA MAFIA
Anche su questo argomento, in questa stessa collana seguirà uno
specifico volume. Qui intendiamo dare solo un esempio di tale
documentazione pubblicando uno stralcio, sul lavoro svolto dalla
Commissione della XI legislatura, dalla relazione del relatore Luciano
Violante, che ne era anche il presidente.
53
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Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
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Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
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Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
1) La Commissione antimafia ha presentato al Parlamento, in 17 mesi di attività,
12 relazioni che hanno riguardato i principali settori di intervento per una efficace
politica antimafia (1). La relazione finale, richiesta dalla legge istitutiva della
Commissione, non è un ulteriore documento analitico e propositivo, ma ha lo scopo di
tracciare un riepilogo sintetico dell’attività svolta, di indicare le questioni aperte, di
segnalare i problemi che assumono carattere prioritario.
Questa relazione è composta di una prima parte, che costituisce un resoconto al
Parlamento delle attività svolte, di una seconda parte che contiene le relazioni territoriali
non ancora discusse dalla Commissione al momento dello scioglimento delle Camere, e
di una terza parte che contiene relazioni su temi specifici di particolare rilievo.
Sindona
IL LAVORO
DELLA COMMISSIONE
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
CAPITOLO I
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
Dalla relazione conclusiva della
Commissione della XI legislatura
(relatore Violante)
(l) Relazione sulle risultanze del Forum promosso il 5 febbraio dalla Commissione parlamentare
antimafia, con la Direzione nazionale antimafia, con le Direzioni distrettuali e con il gruppo di
lavoro per gli interventi del CSM nelle zone colpite dalla criminalità, approvata il 9 marzo 1993
(relatore il sen. Brutti - doc. XXIII, n. 1);
Relazione sui rapporti tra mafia e politica, approvata il 6 aprile 1993 (relatore l’on. Violante - doc.
XXIII, n. 2), Relazioni di minoranza dell’on. Matteoli e del sen. Florino (doc. XXIII, n. 2-bis) e dell’on. Taradash (doc. XXIII, n. 2-ter);
Relazione sulla visita effettuata dalla Commissione parlamentare sul fenomeno della mafia a
Barcellona Pozzo di Gotto, in data 23 gennaio 1993, approvata il 25 giugno 1993 (relatore l’on.
Violante - doc. XXIII, n. 3);
Indicazione per un’economia libera dal crimine, approvata il 20 luglio 1993 (relatore l’on. Violante
- doc. XXIII, n. 4);
Relazione sulle amministrazioni comunali disciolte in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, approvata il 30 marzo 1993 (relatore il sen. Cabras - doc. XXIII, n. 5); Relazione sullo stato dell’edilizia
scolastica a Palermo, approvata il 4 agosto 1993 (relatore l’on. Violante - doc. XXIII, n. 6);
57
Mafia
È stata scelta questa formula onnicomprensiva perché è intervenuto lo scioglimento anticipato delle Camere. In queste circostanze, infatti, le Commissioni d’inchiesta, come l’intero Parlamento, operano in regime di prorogatio e quindi, per evidenti ragioni di carattere costituzionale e politico, devono adottare criteri di autorestringimento dei propri poteri e delle proprie funzioni. Proprio questi criteri hanno
suggerito di presentare un’unica relazione finale della quale fanno parte tanto il resoconto dei lavori quanto documenti che in diverse contingenze politiche avrebbero
assunto una forma autonoma.
Criminalità SIFAR
Sardegna
2) La Commissione ha tenuto 89 sedute in sede e 29 missioni, visitando 43 località (2). Ha ascoltato complessivamente 1810 persone, ha approvato 12 relazioni, ha
costituito 11 gruppi di lavoro (3), ha tenuto 54 riunioni dell’ufficio di presidenza (36
delle quali allargate ai capigruppo), ha preparato 6 dossiers di documentazione (4), tra
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Relazione sulla situazione della criminalità organizzata in Puglia, approvata il 5 ottobre 1993 (relatore il sen. Robol - doc. XXIII, n. 7);
Relazione sulla situazione della criminalità in Calabria, approvata il 12 ottobre 1993 (relatore il
sen. Cabras - doc. XXIII, n. 8) - Relazione di minoranza degli on. Galasso e Tripodi (doc. XXIII, n.
8 bis);
Prima relazione annuale, approvata il 19 ottobre 1993 (relatore l’on. Violante doc. XXIII, n. 9) relazione di minoranza dell’on. Matteoli e del sen. Florino (doc. XXIII, n. 9 bis);
Relazione sulla visita effettuata a Gela dalla Commissione parlamentare sul fenomeno della mafia in
data 13 novembre 1992 – approvata il 25 giugno 1993 (relatore l’on. Violante - doc. XXIII, n. 10);
Relazione sulle risultanze del gruppo di lavoro incaricato di svolgere accertamenti su insediamenti
ed infiltrazioni di soggetti ed organizzazioni di tipo mafioso in aree non tradizionali, approvata il 13
gennaio 1994 (relatore il sen. Smuraglia - doc. XXIII, n. 11);
Relazione sulla camorra, approvata il 21 dicembre 1993 (relatore l’on. Violante - doc. XXIII, n. 12).
(2) Messina (13 ottobre 1992), Gela (13 novembre 1992), Catanzaro (28 novembre 1992), Parigi
(20 gennaio 1993), Calabria (26/30 gennaio 1993), Puglia (28/30 gennaio 1993), Caserta (4/5
marzo 1993), Firenze (22/23 marzo 1993), Calabria (Catanzaro, Cosenza, Crotone - 23/24 marzo
1993), Torino (10 maggio 1993), Aosta (11 maggio 1993), Palermo (18/19 maggio 1993), Napoli
(25/27 maggio 1993), Salerno (25/26 maggio 1993), Benevento (14/15 giugno 1993), Venezia
(14/15 giugno 1993), Bari (16/17 luglio 1993) Genova (19/20 luglio 1993), Bovalino (13 settembre
1993), Sardegna (13/14 settembre 1993), Barcellona Pozzo di Gotto (20 settembre 1993), EmiliaRomagna (27/28 settembre 1993), Bonn (29/30 settembre 1993), Gela (7 ottobre 1993), L’Aquila
(15/16 ottobre 1993) Milano (21/23 ottobre 1993), Potenza (1/2 novembre 1993), Catania (22/23
novembre 1993).
(3) Osservatorio sulla normativa antimafia - coordinatore l’on. Gian Carlo Acciaro
Beni confiscati - coordinatore l’on. Antonio Bargone;
Controlli amministrativi - coordinatore l’on. Vito Riggio;
Economia e criminalità - coordinatore il sen. Maurizio Calvi;
Questioni sociali - coordinatore il sen. Paolo Cabras;
Aree non tradizionali - coordinatore il sen. Carlo Smuraglia;
Appalti - coordinatore il sen. Santi Rapisarda;
Roma e Lazio - coordinatore il senatore Paolo Cabras;
Sequestri di persona - coordinatore il sen. Ivo Butini;
Osservatorio su Gela - coordinatore l’on. Luciano Violante;
Osservatorio su Barcellona Pozzo di Gotto - coordinatore l’on. Luciano Violante.
(4) Oggetto dei dossiers sono la normativa antimafia (redatto dai dottori Enzo Montecchiarini e
Vittorio Sconci), la normativa sulle associazioni segrete, la normativa sul coordinamento delle forze
di polizia, lo scioglimento degli enti locali, le relazioni dei commissari straordinari dei comuni
disciolti e il dossier per le scuole (redatto dalla dottoressa Livia Minervini).
58
(5) Le risultanze di tale forum sono state presentate al Parlamento nella apposita relazione, approvata dalla Commissione il 9 marzo 1993 (relatore il sen. Massimo Brutti - doc. XXIII, n. l).
(6) Al forum sono intervenuti nell’ordine:
Guido Rey - Carlo Azeglio Ciampi - Francesco Saja - Giuliano Amato - Antonio Fazio;
Per la prima sessione: Mafia e dinamiche economiche:
Armando D’Alterio (Sost. Proc. Rep. Napoli) - Ada Becchi (Univ. di Venezia) Mauro Cappelli
(DIA) - Sabino Cassese (Univ. di Roma) - Luigi Marini (Sost. Proc. Rep. Torino) - Vittorio Coda
(Univ. Bocconi) - Giovanni Maria Flick (Univ. Luiss) - Stefano Zamagni (Univ. di Bologna);
per la seconda sessione: Analisi ed esperienze di settori:
Fabrizio Barca (Banca d’ltalia) - Mario Bessone (Consob) - Alberto Pera (Antitrust) - Mario Mori
(Ros) - Alessandro Pansa (Sco) - Luca Pistorelli (Sost. Proc. Rep. Trapani) - Ernesto U. Savona
(Univ. di Trento) - Hans Blommestein (Ocse) - Raniero Vanni d’Archirafi (Cee) - Gunter Klaus
Haendly (Ambasciata RFT) - Andrea Malusardi (Gafi) - Gianni Billia (Ministero delle finanze) Salvatore Chiri (Banca d’Italia) - Pierantonio Ciampicali (Uic) - Francesco Petrarca (Guardia di
finanza);
per la terza sessione: Regole ed indirizzi:
Amartya K. Sen (Univ. di Harvard) - Paolo Bernasconi (Univ. di Zurigo) - Michael De Feo
(Ambasciata Usa) - Mark Findlay (Univ. di Sidney) - Berardino Libonati (Univ. di Roma) - Luigi
Abete (Pres. Confindustria) - Donatella Turtura (CNEL).
Il forum è stato organizzato con la collaborazione della signora Fernanda Torres, consulente della
Commissione.
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3) Un’iniziativa del tutto nuova rispetto alle esperienze delle precedenti
Commissioni antimafia ha riguardato i forum. Si è trattato di colloqui con specialisti e
con operatori dei diversi settori che hanno avuto lo scopo di approfondire temi specifici di particolare rilievo.
Il primo forum, introdotto dal Presidente del Senato, professor Giovanni
Spadolini, si è tenuto il 20 novembre 1992; ha visto a confronto il direttore del
Dipartimento della pubblica sicurezza e capo della polizia, prefetto Vincenzo Parisi, il
presidente del Bundeskriminalamt, Hans Ludwig Zachert, il capo della polizia giudiziaria spagnola, Manuel Reverte de Montagud, il responsabile della polizia antimafia
francese, Jacques Poinas.
Il secondo forum si è tenuto il 5 febbraio 1993; ha visto a confronto magistrati
della Procura nazionale antimafia, delle procure distrettuali e componenti del gruppo
di lavoro del Consiglio superiore della magistratura per gli interventi nelle zone colpite dalla criminalità mafiosa, per discutere lo stato della criminalità organizzata, i risultati e le prospettive della risposta, i rapporti tra i vari organismi giudiziari e tra questi
e la polizia giudiziaria (5).
Il terzo forum, svoltosi il 14 e 15 maggio 1993, è stato destinato all’esame dei
rapporti tra economia e criminalità. Ha aperto i lavori il Presidente del Consiglio,
Carlo Azeglio Ciampi; hanno partecipato autorità ed esperti italiani e stranieri (6).
Mafia
i quali particolare rilievo hanno assunto quello sulla normativa antimafia, richiesto ed
apprezzato anche dai rappresentanti di governi e parlamenti stranieri incontrati dalla
Commissione, e quello per la scuola, pubblicato d’intesa con il Ministero della pubblica istruzione e destinato alle scuole medie superiori, di cui sono già pervenute oltre
750 richieste.
Il volume del lavoro svolto risalta con nettezza dai 2.404 documenti pervenuti al
3 febbraio 1993; sono pervenuti inoltre 854 esposti e 395 anonimi. Tra la corrispondenza in arrivo e quella in partenza sono stati protocollati oltre 9.300 atti.
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Il risultato dei lavori è stato condensato in un breve documento contenente proposte concrete “per liberare l’economia dal crimine” (7), tradotto in inglese e francese, ed inviato ai Ministri, ai presidenti delle regioni e delle province, ai presidenti di
autorità ed enti operanti nel settore giuridico-economico, alle associazioni imprenditoriali ed ai sindacati dei lavoratori, ai presidi delle facoltà universitarie di economia e
commercio e di giurisprudenza, agli ambasciatori italiani all’estero, alle organizzazioni internazionali ed ai maggiori enti economici e creditizi dei Paesi esteri. Sono pervenute oltre 100 risposte. Particolarmente significative quelle di molti ambasciatori che
hanno informato le autorità parlamentari e di governo dei Paesi dove svolgono le loro
funzioni. Una delegazione della Commissione per la difesa e la sicurezza interna del
Parlamento della Repubblica ceka ha chiesto un incontro con la Commissione antimafia dopo aver letto il documento.
Il documento è stato presentato il 16 novembre 1993 alle autorità di governo,
Presidente del Consiglio e Ministri dell’interno, della giustizia e della funzione pubblica, a studiosi e a giornalisti. In quella sede il Presidente del Consiglio ha immediatamente accolto, con la disponibilità e la cortesia che hanno sempre caratterizzato i
suoi rapporti con la Commissione, la proposta di elaborare un testo unico per le misure di prevenzione e di inserire il tema della collaborazione internazionale nel programma di lavoro del prossimo vertice dei Capi di Stato e di Governo dei Paesi del gruppo
dei sette (G7), che si terrà a Napoli nel luglio 1994. Ha concordato inoltre, restando ai
temi di carattere più specifico, sulla istituzione del registro delle imprese e sulla
necessità di un accordo con la Repubblica di San Marino in materia valutaria, bancaria e fiscale.
Gli impegni sono stati immediatamente seguiti dagli adempimenti.
È già stato pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri un testo unico
coordinato delle leggi in materia di misure di prevenzione, che per ora ha pura valenza compilatoria, e che il prossimo Parlamento potrà prendere in considerazione per
conferire ad esso forza di legge. Nel programma dei lavori preparatori del vertice del
G7 è stato messo all’ordine del giorno il tema della criminalità organizzata. Il
Parlamento ha approvato l’istituzione del registro delle imprese (articolo 6 della legge
29 gennaio 1994, n. 580, sul riordinamento delle camere di commercio).
Il 13 dicembre 1993 il CNEL ha tenuto un’assemblea ordinaria al fine di discutere i contenuti del documento con rappresentanti del mondo imprenditoriale e del
mondo sindacale. All’assemblea hanno partecipato componenti della Commissione
Antimafia.
4) Il Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scàlfaro, ha onorato i lavori della
Commissione concludendo con propri interventi tanto il forum sulle DDA quanto
quello su “economia e criminalità”.
5) La Camera dei Deputati ha pubblicato gli atti del convegno su “economia e
criminalità” ed il dossier di documentazione per le scuole.
Il documento “Indicazioni per un’economia libera dal crimine” è stato pubblicato
integralmente anche dalla rivista Quaderni della Giustizia, edita dal Ministero di grazia e giustizia, e dal quotidiano economico Il Sole-24 ore; lo stesso quotidiano ha
ospitato, sui temi del documento, un dibattito tra studiosi e specialisti; sono stati pub(7) Si tratta della relazione “Indicazioni per un’economia libera dal crimine”, approvata dalla
Commissione il 20 luglio 1993 (relatore on. Luciano Violante - doc. XXIII, n. 4).
60
7) Coerentemente alle indicazioni della legge istitutiva, la Commissione ha
avviato alcuni rilevanti rapporti internazionali.
In questo quadro sono stati incontrati: il 20 novembre 1992, a Roma, alcuni rappresentanti delle forze di polizia francesi, tedesche e spagnole con specifiche responsabilità nella lotta al crimine organizzato; il 17 dicembre 1992, a Roma, e il 20 gennaio 1993, a Parigi, la Commissione antimafia costituita dall’Assemblea nazionale
francese; il 29 e 30 settembre 1993, a Bonn, la Commissione interni e la Commissione
giustizia del Bundestag ed inoltre il Ministro di Stato per le politiche della sicurezza,
il Ministro degli interni ed il sottosegretario allo stesso dicastero, alcuni alti funzionari
di polizia (8); il 18 giugno 1993, a Roma, Ronald Goldstock, Direttore dell’Organized
Crime Task Force dello Stato di New York; il 23 giugno 1993, a Roma, Ashnabek
Aslahanov, presidente del Comitato bilaterale del Soviet Supremo della Federazione
russa per la legalità, l’ordine pubblico e la lotta alla criminalità. Il presidente della
Commissione è stato a Bonn nei giorni 24 e 25 gennaio 1994 per incontrare, su loro
invito, i presidenti della Commissione interni e della Commissione esteri del
Bundestag, i Ministri di Stato agli interni e alla giustizia, e per tenere, su invito del
rettore dell’università di Bonn, una lezione in quell’università sul tema “La via italia-
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6) La Commissione ha affrontato anche la questione dell’immigrazione clandestina di stranieri nel nostro Paese, per accertare se essa sia in qualche modo controllata o gestita dalla criminalità organizzata o comunque da organizzazioni con caratteristiche affini a quelle mafiose.
Su richiesta del Ministro per gli affari sociali, Fernanda Contri, la Commissione
ha organizzato un incontro, svoltosi il 10 gennaio 1994, con magistrati delle procure
della Repubblica e delle procure distrettuali antimafia, presso le quali erano pendenti
procedimenti per fatti collegati allo sfruttamento dell’immigrazione clandestina.
L’incontro si è rivelato di particolare interesse, sia perché ha costituito un’occasione per uno scambio di informazioni ed esperienze tra magistrati di diversi uffici
che non si erano mai incontrati su questo tema, sia per le risultanze concretamente
emerse.
Non sono state accertate attuali presenze della criminalità mafiosa nell’organizzazione e nello sfruttamento degli ingressi clandestini in Italia. È stata tuttavia prospettata la possibilità che la mafia si inserisca, in un prossimo futuro, in questo traffico, al fine di cogliere le occasioni di profitto connesse alla presenza di un numero rilevante di persone in posizione irregolare e in stato di bisogno. In ogni caso, è stato rilevato che i numerosi sbarchi di immigrati clandestini lungo le coste della Calabria non
possono presumibilmente essere avvenuti senza una qualche forma di connivenza da
parte delle cosche della ’ndrangheta che controllano quei territori.
La Commissione, a seguito dell’incontro, ha segnalato al Ministro dell’interno
l’esigenza di destinare maggiori risorse al contrasto del fenomeno dello sfruttamento
dell’immigrazione clandestina. Constatando le difficoltà obiettive nella conduzione
dei procedimenti penali in materia, ha richiamato, inoltre, l’attenzione del Consiglio
superiore della magistratura sulla necessità di incrementare, attraverso un’attività di
formazione mirata, le conoscenze specifiche della magistratura inquirente.
Mafia
blicati 36 interventi dal 4 agosto al 14 novembre 1993.
(8) Il resoconto della visita è pubblicato in appendice alla relazione annuale (doc. XXIII, n. 9, pagg.
62 e seg.).
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na alla lotta contro la mafia”; il 9 febbraio 1994 sono venuti a Roma il presidente ed il
vicepresidente della Commissione interni del Bundestag; il 10 febbraio 1994 la
Commissione ha incontrato, a Roma, una delegazione della Commissione per la difesa e la sicurezza interna del Parlamento della Repubblica ceka.
62
8) La Commissione ha seguito in tutti questi incontri un preciso indirizzo politico: accentuare la cooperazione internazionale sino a creare le condizioni per uno spazio internazionale antimafia.
La mafia opera ormai in un spazio sovranazionale e le barriere nazionali, che
costituiscono ancora un fastidioso impedimento per le autorità legali, sono superate
con grande facilità dalle organizzazioni del crimine. L’azione di contrasto non può
diventare competitiva se non acquista una velocità analoga a quella del crimine.
L’obiettivo massimo sarebbe costituito dalla individuazione di una stessa figura di
reato nelle legislazioni dei diversi Paesi interessati. Per ora si potrebbe partire dai
Paesi dell’Europa occidentale, in relazione alla quale la cooperazione tra autorità di
polizia, autorità giudiziarie ed autorità di vigilanza bancaria è fortemente agevolata.
Si potrebbe addirittura pensare che in relazione a tale figura di reato alcuni atti
validi come prova all’interno di uno Stato, se acquisiti con determinate garanzie, possano costituire prova anche negli altri Stati che riconoscono lo spazio internazionale
antimafia. La figura di reato potrebbe essere l’associazione per delinquere di stampo
mafioso, ma la collaborazione potrebbe estendersi, naturalmente, anche ai più comuni
reati connessi, come l’omicidio e il traffico di stupefacenti. Qualora le tradizioni giuridiche e culturali dei singoli Paesi fossero d’ostacolo a questa integrazione dei rispettivi ordinamenti, potrebbe pensarsi ad una circostanza aggravante “reato commesso allo
scopo di agevolare un’organizzazione mafiosa”, in relazione alla quale scatti questa
particolare forma di collaborazione internazionale.
Non si tratta di espandere i nostri criteri di lotta contro la mafia, ma di sviluppare
la competitività di tutti gli Stati nei confronti del mondo del crimine, nell’interesse
dell’intera comunità internazionale.
Gli interlocutori si sono mostrati particolarmente interessati. La Commissione
antimafia francese, nella sua relazione conclusiva, approvata il 26 gennaio 1993,
approva l’idea di una più stretta cooperazione anche tra i Parlamenti italiano e francese, propone l’istituzione di organismi analoghi alle nostre procure distrettuali antimafia, con competenza sugli affari che “sont ou apparaissent en relation avec une organisation de type mafieux caracterisée par un but criminel ou délictuel, une structure hierarchisée, clandestine et permanente, une implantation internationale et le recours aux
méthodes d’intimidation et de corruption...”.
I rapporti sono stati particolarmente proficui con la Repubblica federale tedesca,
sia per il particolare costruttivo interesse di quello Stato alla lotta al crimine organizzato, sia per la piena ed efficace collaborazione dell’ambasciatore italiano a Bonn,
dottor Umberto Vattani.
Il Parlamento tedesco ha approvato una buona legge contro il riciclaggio. In
Germania è molto vivace la discussione sulle intercettazioni ambientali e sul sequestro e la confisca dei beni di origine criminale. Molti degli interlocutori hanno condiviso i caratteri fondamentali della legislazione italiana, si sono detti disponibili ad un
adeguamento della legislazione tedesca e a contatti sempre più stretti. Verranno probabilmente presentati tanto dalla CDU quanto dalla SPD progetti di legge diretti a rendere in quel Paese più efficace la lotta contro il crimine organizzato; ma è improbabile
che questi progetti vengano esaminati nella legislatura in corso, che terminerà nel
MISURE
LEGISLATIVE:
a) legge sugli appalti: il gruppo di lavoro coordinato prima dal senatore Cutrera
e poi dal senatore Rapisarda ha avanzato precise proposte di correzione della legge,
indicate anche nella relazione annuale, e poi recepite dal Parlamento nella nuova
legge quadro sugli appalti; in particolare, la legge ha stabilito di incrementare l’esercizio di un controllo sugli appalti pubblici, attribuendone la competenza ad una autorità
esterna al Ministero dei lavori pubblici, che sorvegli anche i risultati ed i tempi di consegna delle opere; di unificare l’attività di progettazione delle opere, affidata alla pubblica amministrazione, distinguendola peraltro dalla fase di esecuzione delle medesime; di limitare il ricorso ai subappalti; di comprimere radicalmente l’utilizzazione
della trattativa privata; di escludere il ricorso alla concessione di costruzione;
b) allargamento delle ipotesi di reato presupposto del delitto di riciclaggio: la
proposta è stata avanzata nel documento “Indicazioni per un’economia libera dal crimine”, approvato il 20 luglio 1993. Il Parlamento l’ha recepita con la legge 9 agosto
1993, n. 328, di ratifica della convenzione di Strasburgo sulla lotta al riciclaggio, che,
sostituendo gli articoli 648-bis e 648-ter del codice penale, prevede che i relativi reati
si realizzino quale che sia il delitto non colposo da cui provengono il danaro o altra
utilità;
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9) La Commissione ha avanzato numerose proposte di carattere legislativo ed
amministrativo. Grazie all’impegno del Parlamento e del Governo, all’impegno di
molte autorità periferiche, molte delle proposte avanzate sono state realizzate. Si ritiene utile segnalarle sinteticamente per dare doverosamente atto del lavoro svolto in
piena sinergia dai diversi organi dello Stato per una più efficace azione antimafia.
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prossimo settembre.
È in ogni caso eccellente la collaborazione tra le nostre autorità di polizia e quelle tedesche. Il particolare è rilevante per l’alto numero di appartenenti ad organizzazioni mafiose che operano in Germania, danneggiando gli interessi di quel Paese, gli
interessi del nostro Paese e quelli dei circa 600.000 connazionali che vivono e lavorano onestamente in Germania.
Il direttore della DIA, dottor De Gennaro, ha riferito, nel corso dell’incontro con
la delegazione della Commissione interni del Bundestag, che circa 35 mila cittadini
italiani hanno avuto problemi con la giustizia penale in Germania.
Tra questi, sulla base dei dati forniti dal Bundeskriminalamt, sono stati individuati soltanto 532 soggetti a rischio, con precedenti per associazione mafiosa o riconducibili ad attività di tipo mafioso. Alcuni sono stabilmente residenti in Germania; di
altri è stata accertata la presenza ed anche la commissione di reati in quel Paese. In
questo ambito, sono state individuate 19 persone ricercate dalle autorità italiane e ne è
stata fatta segnalazione all’Interpol.
c) certificazione antimafia: la Commissione ha proposto, nella relazione annuale,
approvata il 19 ottobre 1993, la profonda riforma delle norme sulla certificazione antimafia, nel quadro dei provvedimenti da adottare per difendere dal crimine l’economia
legale senza opprimerla; il Parlamento, con la legge 17 gennaio 1994, n. 47, ha delegato il Governo ad individuare i casi in cui la certificazione può essere sostituita da
una dichiarazione dell’interessato, e a definire i limiti di valore oltre i quali le pubbli63
che amministrazioni, prima di stipulare contratti o rilasciare concessioni, devono
acquisire complete informazioni dal prefetto circa l’insussistenza di cause ostative
ovvero di tentativi di infiltrazione mafiosa nelle imprese interessate;
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d) dispersione scolastica: la Commissione ha segnalato al Ministro della pubblica istruzione l’opportunità di non tagliare nella legge finanziaria i fondi per combattere la dispersione scolastica; su proposta del Ministro, il Consiglio dei Ministri ha
approvato il decreto-legge 2 agosto 1993, n. 265, che assicura la prosecuzione del programma in questione nelle regioni meridionali; il decreto-legge è stato reiterato con
decreto legge 1° ottobre 1993, convertito nella legge 1° dicembre 1993, n. 484;
e) consigli comunali sciolti per condizionamento mafioso: la Commissione ha
approvato in data 30 marzo 1993 una relazione sulle amministrazioni comunali sciolte
per mafia (doc. XXIII, n. 5 - relatore il senatore Cabras) nella quale ha proposto l’istituzione di un osservatorio permanente presso il Ministero dell’interno, con funzioni di
controllo sul funzionamento delle commissioni straordinarie, l’estensione del periodo
di commissariamento previsto dalla legge n. 221 del 1991 e la individuazione di strumenti di sostegno, sul piano finanziario e delle risorse professionali, per le gestioni
commissariali e per le amministrazioni elettive che ad essi subentrino. Il Ministro dell’interno, che aveva partecipato alla discussione in Commissione, ha presentato in
data 19 ottobre 1993 un decreto-legge, poi reiterato il 20 dicembre 1993 (n. 529), e
definitivamente convertito in legge in data 2 febbraio 1994. Il decreto istituisce un
comitato di sostegno e di monitoraggio dell’azione delle commissioni straordinarie e
dei comuni riportati a gestione ordinaria; prevede la possibilità di proroga del periodo
di commissariamento; consente l’utilizzazione, presso i comuni disciolti, e mediante
distacco o comando, di personale amministrativo e tecnico proveniente da altre amministrazioni ed enti pubblici; consente priorità di accesso a contributi e finanziamenti
destinati ad investimenti degli enti locali per interventi indicati come prioritari dalle
commissioni straordinarie o dalle amministrazioni elettive che ad esse succedono;
infine, il decreto attribuisce alle commissioni straordinarie la facoltà di adottare ogni
provvedimento necessario per il ripristino di una situazione di legalità, fino alla
rescissione del contratto, nei casi in cui l’infiltrazione mafiosa sia connessa all’aggiudicazione di appalti o all’affidamento in concessione di servizi pubblici.
MISURE
AMMINISTRATIVE:
a) organici della magistratura: la Commissione ha segnalato al Ministro della
giustizia l’opportunità che l’aumento dell’organico della magistratura stabilito con
legge n. 295 del 1993 (600 posti) venisse ripartito tra i singoli uffici in modo che il 55
per cento andasse agli uffici giudiziari delle aree a maggiore presenza mafiosa. Il
Ministro rispondeva sollecitamente, assicurando che avrebbe disposto la revisione dei
criteri già seguiti in modo che agli uffici indicati dalla Commissione venisse destinato
almeno il 50 per cento dell’aumento di organico; nella tabella poi pubblicata, in effetti, agli uffici del Mezzogiorno sono destinati il 49,6 per cento dell’aumento invece del
36 per cento previsto in un primo tempo nello schema di piano di distribuzione;
b) informatizzazione degli uffici della DNA: nella relazione sulle risultanze del
forum con la DNA e le DDA (relatore il senatore Brutti), la Commissione ha rilevato
la necessità della informatizzazione della DNA nonché di un collegamento informati64
e) edilizia scolastica: la Commissione ha determinato, attraverso la piena disponibilità ed il totale impegno del prefetto di Palermo, dottor Musio, del commissario
straordinario al comune di Palermo, dottor Piraneo, del provveditore agli studi, dottor
Barreca, la consegna di dodici nuovi istituti scolastici; insediatasi la nuova amministrazione elettiva, la Commissione sta sostenendo presso i competenti Ministeri l’azione di quella amministrazione, diretta ad ottenere l’autorizzazione ad usare edifici
oggi non utilizzati per destinarli a scuole (9);
f) minori: grazie alla stretta collaborazione tra le autorità di Palermo citate nella
lettera e) e il Ministero della giustizia, Ufficio centrale per la giustizia minorile, il personale del carcere minorile Malaspina di Palermo ed alcune associazioni di volontariato, è stato possibile aprire nel quartiere Brancaccio un centro sociale per ragazzi,
che funziona anche come area penale esterna (10) . La Commissione ha altresì segnalato al Presidente del Consiglio l’opportunità di rifinanziare la legge n. 216 del 1991,
sui primi interventi in favore dei minori soggetti a rischio di coinvolgimento in attività
criminose, ed ha segnalato inoltre al Ministro per gli affari sociali l’opportunità che i
fondi fossero non più assegnati “a pioggia”, come nel passato, ma concentrati nel
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d) professionalizzazione dei magistrati: la Commissione ha segnalato, nella citata relazione sul forum con le DDA, l’opportunità che venissero potenziati e resi permanenti i corsi di formazione ed aggiornamento professionale dei magistrati tenuti dal
CSM; il 23 settembre 1993 è stata firmata tra il Consiglio superiore della magistratura
e il Ministero di grazia e giustizia una “convenzione per l’attuazione sperimentale di
una struttura di formazione professionale per magistrati”. La struttura è in fase di
organizzazione e dovrebbe a breve entrare in funzione. La convenzione ha la durata di
un anno e può essere rinnovata, in attesa di un’auspicabile legge che istituisca la scuola di formazione per magistrati, definendone la collocazione ordinamentale.
L’esercizio della giurisdizione esige un livello di preparazione sempre più elevato, ma
l’arricchimento professionale non può essere lasciato alla scelta personale, e puramente eventuale, del singolo. La carriera del magistrato, come puntualizzato dalla convenzione, deve soggiacere a verifiche di professionalità, per le quali appare irrinunciabile
l’istituzione di una struttura permanente destinata alla formazione e all’aggiornamento;
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c) edilizia giudiziaria: la Commissione è intervenuta presso la presidenza del
Consiglio dei Ministri, il Ministro dell’interno e il Ministro della difesa per lo stanziamento dei fondi necessari al completamento del palazzo di giustizia di Napoli, per il
completamento della nuova sede della procura della Repubblica di quella città, per la
vigilanza presso il nuovo edificio che era stato già danneggiato da un incendio; grazie
all’impegno dei diversi ministri l’edificio della procura della Repubblica verrà consegnato prevedibilmente nel mese di marzo 1994;
Mafia
co tra questo ufficio e le DDA; oggi la DNA è dotata dei necessari supporti hardware
e software, ma non si è attivato il circuito informatico più complesso;
(9) Si tratta in particolare dell’istituto don Bosco in via Sampaolo e della caserma Sant’Antonino in
corso Tukory a Palermo.
(10) Trattasi di strutture dove si svolge attività scolastica e di formazione professionale, finalizzate
alla rieducazione dei minori imputati e condannati.
65
Mezzogiorno ed in quelle aree metropolitane del Centro Nord particolarmente interessate dal fenomeno del disagio minorile e giovanile; la legge è stata rifinanziata; il
Ministro per gli affari sociali ha prontamente aderito all’invito ed ha ripartito i fondi
privilegiando il Mezzogiorno ed alcune aree più esposte del Centro-Nord;
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g) formazione degli studenti: anche per questo settore è stata avviata una proficua collaborazione con il Ministro della pubblica istruzione, tanto che si è concordata
una iniziativa congiunta diretta a fornire un supporto di documentazione agli istituti
scolastici, attraverso l’attivazione presso la segreteria della Commissione di uno
“sportello” informativo in materia di mafia, cui possono rivolgersi tutte le scuole per
ottenere documenti. Questa iniziativa, che si è sviluppata attraverso tre incontri del
Ministro e della Commissione con i provveditori agli studi ed i sovrintendenti scolastici di tutta Italia, si è conclusa con la predisposizione di un dossier di documentazione che riporta, attraverso stralci delle relazioni approvate dalla Commissione antimafia, di documenti giudiziari e di documenti del Ministero dell’interno, un panorama
delle essenziali conoscenze in materia di organizzazioni mafiose. Il volume, stampato
a cura dell’Amministrazione della Camera dei Deputati, è stato distribuito gratuitamente a tutte le assemblee regionali, ai provveditori agli studi, ai sovrintendenti scolastici ed a tutti gli istituti scolastici che ne hanno fatto richiesta. Sono finora pervenute
alla Commissione oltre 750 richieste di trasmissione del dossier (11), provenienti da
scuole situate in ogni regione del territorio nazionale. Il Ministro della pubblica istruzione ha inviato a tutti i provveditori una circolare, la n. 302 del 1993, che invita i
docenti a programmare iniziative per l’educazione alla legalità e per la formazione di
una coscienza civile contro la mafia, indicando la possibilità di acquisire materiali di
documentazione dalla Commissione antimafia;
h) microinterventi: la Commissione ha svolto numerossimi microinterventi, nel
quadro della valutazione della congruità dell’azione amministrativa alla lotta contro la
mafia (articolo 25-quinquies della legge istitutiva della Commissione). La
Commissione è intervenuta sulle questioni segnalate da esposti provenienti da privati
cittadini o da associazioni di varia natura; laddove le segnalazioni riguardavano
disfunzioni di ordine amministrativo o, comunque, comportamenti illeciti di rilevanza
non penale, la Commissione ha segnalato la situazione denunciata al Ministro competente o alle autorità regionali e locali o ai prefetti, per la soluzione delle questioni prospettate e in ogni caso per riferire sui fatti esposti. All’autorità giudiziaria sono state
segnalate le questioni di rilevanza penale. La Commissione, infine, è spesso intervenuta presso l’autorità di polizia per segnalare la necessità di adottare misure di protezione per le persone a rischio.
10) La Commissione ha istituito uno specifico settore di lavoro relativo alla tutela dei diritti delle vittime della criminalità organizzata, che sono garantiti dalle leggi
in vario modo, ma che non sempre gli interessati riescono a far valere.
Le norme a favore delle vittime della criminalità organizzata sono previste dalla
legge 20 ottobre 1990. n. 302, dal decreto-legge 31 dicembre 1991, n. 419, convertito
in legge 18 febbraio 1992, n. 172, e dal decreto-legge 27 settembre 1993, n. 382, convertito in legge 18 novembre 1993 .
(11) Al 12 aprile 1994 le richieste pervenute sono circa 970.
66
e) il coniuge superstite, i figli ed i genitori delle persone decedute o rese permanentemente invalide in misura non inferiore all’80 per cento della capacità lavorativa,
in conseguenza dello svolgersi nel territorio dello Stato di atti di terrorismo o di criminalità organizzata, hanno diritto all’assunzione presso le pubbliche amministrazioni,
gli enti pubblici e le aziende private secondo le disposizioni della legge 2 aprile 1968,
n. 482 e della legge 1° giugno 1977, n. 285 e successive modificazioni, con precedenza su ogni altra categoria indicata nelle predette leggi;
f) i cittadini italiani che abbiano subito ferite o lesioni in conseguenza degli atti
di cui sopra sono esenti dal pagamento di ticket per ogni tipo di prestazione sanitaria;
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d) i competenti organi amministrativi decidono sul conferimento dei benefici
sulla base di quanto attestato in sede giurisdizionale con sentenza, ancorché non definitiva, ovvero, se manca la sentenza, sulla base delle informazioni acquisite e delle
indagini esperite; a tali fini, i competenti organi si pronunciano sulla natura delle azioni criminose lesive, sul nesso di causalità tra queste e le lesioni prodotte; se, mancando la sentenza, la decisione è positiva, può essere disposta, su istanza degli interessati,
o la corresponsione dell’assegno vitalizio o una provvisionale pari al 20 per cento dell’ammontare complessivo della elargizione in unica soluzione; la scelta è rimessa agli
interessati;
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c) per ottenere i benefici di cui sopra gli interessati devono presentare domanda
entro il termine di decadenza di due anni dalla data dell’evento lesivo o del decesso; si
prescinde dalla domanda e si procede di ufficio nel caso di dipendente pubblico vittima del dovere;
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b) il coniuge ed i parenti delle vittime possono optare per un assegno vitalizio
personale a proprio favore;
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La prima legge prevede, in sintesi:
a) ai componenti la famiglia di chi muore per ferite o lesioni riportate in conseguenza di delitti di terrorismo o di criminalità organizzata, commessi sul territorio
dello Stato, è corrisposta una elargizione complessiva di lire 150.000.000; un’elargizione fino a quest’ultimo importo è concessa a chi abbia riportato, a causa degli eventi
di cui sopra, una invalidità permanente non inferiore ad un quarto della capacità lavorativa per effetto di ferite e lesioni;
g) le elargizioni e gli assegni vitalizi di cui sopra sono soggetti ad una autonoma
rivalutazione annuale sulla base dei dati ISTAT e sono esenti dall’imposta sul reddito
delle persone fisiche.
Le modalità di concessione delle provvidenze di cui alle lettere a) e b), stabilite
con decreti del Ministro dell’interno del 30 ottobre 1980, del 29 agosto 1991, n. 319 e
del 16 marzo 1992, n. 377, prevedono:
– gli interessati devono presentare una domanda al Ministero dell’interno entro il
termine di due anni dalla data dell’evento lesivo o del decesso (nel caso di dipendente
pubblico vittima del dovere, si prescinde dalla domanda e si procede di ufficio);
– la domanda va presentata al prefetto della provincia in cui si è verificato l’evento, il quale redige un dettagliato rapporto sulle circostanze che hanno dato luogo
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all’evento stesso, corredato di perizie, di eventuali testimonianze e di ogni altro elemento conoscitivo acquisito; tale rapporto dev’essere trasmesso, nel più breve tempo
possibile, al Ministero dell’interno, che dispone la concessione delle speciali elargizioni, sentita un’apposita commissione istituita presso il Ministero stesso, che si pronuncia sul nesso di causalità tra l’azione criminale, le lesioni o la morte;
– sulla base del provvedimento emesso dal Ministro dell’interno, il prefetto, a
domanda degli interessati, rilascia una certificazione attestante la condizione di vittima civile deceduta o di invalido civile per atti del terrorismo e della criminalità organizzata.
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La Regione Siciliana, con proprie leggi, ha disposto l’elargizione di provvidenze
a favore dei familiari delle vittime della mafia dello stesso tipo di quelle concesse con
legge n. 302 del 1990 (elargizioni una tantum, assegni vitalizi, assegni di studio, eccetera).
Inoltre, presso la Presidenza della regione, è stato istituito un “Fondo regionale
per le parti civili nei processi contro la mafia”.
11) Per le vittime di richieste estorsive, è stato istituito presso l’Istituto
Nazionale delle Assicurazioni un fondo di sostegno per tali vittime, con lo scopo di
elargire somme di denaro in favore di chi, esercitando una attività imprenditoriale,
commerciale, artigianale o comunque economica – ovvero una libera arte o professione – ed avendo opposto un rifiuto a richieste di natura estorsiva, subisce nel territorio
dello Stato un danno a beni mobili ed immobili in conseguenza di fatti delittuosi commessi per il perseguimento delle finalità di cui all’articolo 416-bis del codice penale
(decreto-legge 21 dicembre 1991, n. 419, convertito, con modificazioni, dalla legge
10 febbraio 1992, n. 172).
Per ottenere questi benefici deve essere presentata una domanda al Presidente del
Consiglio dei Ministri, tramite il prefetto della provincia nel cui territorio si è verificato l’evento, corredata da documentazione comprovante la natura del fatto che ha
cagionato il danno patrimoniale, il rapporto di causalità e l’ammontare del danno
(decreto ministeriale 12 agosto 1992, n. 36).
Le domande sono sottoposte all’esame di un apposito comitato, che, al termine
dell’istruttoria, riferisce al Presidente del Consiglio dei Ministri.
12) All’attenzione della Commissione sono stati portati complessivamente 29
casi che riguardano 84 persone sopravvissute ad attentati (è il caso, ad esempio, dell’autista del giudice Chinnici, Paparcuri, e dell’autista del giudice Falcone, Costanza)
o di parenti di vittime della mafia che versano in condizioni morali ed economiche
gravi per lentezze, a volta del tutto inspiegabili, nel ristoro dei loro diritti.
Essi hanno riguardato:
– la mancata concessione o i notevoli ritardi nella concessione dei benefici previsti dalle leggi n. 302 del 1990 e n. 172 del 1992;
– ritardi (oltre quattro mesi) nell’emissione dei mandati di pagamento da parte
della Regione Siciliana di assegni vitalizi e assegni di studio; tale situazione è stata
“sbloccata” solo dopo l’intervento della Commissione;
– la mancata applicazione dell’articolo 14 della legge n. 302 del 1990, che preve68
– diverso trattamento fiscale di alcune provvidenze concesse dalla Regione
Siciliana, rispetto alle provvidenze della stessa specie concesse dallo Stato con legge
n. 302 del 1990; quest’ultime, come si è detto, sono soggette ad una autonoma rivalutazione annuale ISTAT e sono esenti dall’imposta sul reddito delle persone fisiche;
– aiuti materiali per poter trasferire il nucleo familiare in un’altra città dopo la
denuncia di un tentativo di estorsione, attesa l’impossibilità – in alcuni casi – di rimanere nella stessa sede ove si è verificato il fatto criminoso; in questi casi, non essendosi verificato alcun danno economico, non può intervenire la legge n. 172 del 1992;
– mancati interventi da parte della Regione Siciliana in favore di una società
concessionaria di un servizio di trasporto pubblico, oggetto di attentati incendiari;
– richiesta di risarcimento da parte di cittadini che hanno visto danneggiate le
abitazioni o gli esercizi commerciali, a seguito di attentati dinamitardi a scopi estorsivi; è il caso, ad esempio, degli abitanti del comune di Montescaglioso, cui la
Prefettura di Matera ha riferito che il Ministero dell’interno non poteva disporre alcun
intervento;
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– il mancato riconoscimento della qualifica superiore; è ancora il caso dei signori
Paparcuri e Costanza, i quali, giudicati inidonei alla guida di automezzi speciali, dopo
gli attentati, sono stati riammessi in servizio con la qualifica di commessi; al primo è
stata concessa la qualifica superiore nel maggio 1993 – quella di dattilografo – che,
peraltro, gli spettava per il lavoro svolto dall’atto della sua riammissione in servizio; il
secondo, invece, ha in corso una istanza al Ministro di grazia e giustizia al fine di
essere inquadrato al V livello funzionale con la qualifica di coordinatore di rimessa; il
Ministero ha informalmente avvertito la Commissione che si può essere ammessi a
questa qualifica solo su concorso; Costanza, informato, ha presentato la domanda di
partecipazione;
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– la omessa rivalutazione ISTAT delle provvidenze previste dalla legge n. 302
del 1990 (è il caso, ad esempio, del signor Paparcuri). L’elargizione è stata riconosciuta in data 8 ottobre 1992 ed era esigibile entro lo stesso anno, ma il mandato di pagamento è pervenuto soltanto il 31 dicembre 1992; Paparcuri ha dovuto presentare
nuova domanda ed ha potuto riscuotere solo il 18 ottobre 1993;
Mafia
de il diritto di assunzione presso le pubbliche amministrazioni, gli enti pubblici e le
aziende private del coniuge superstite, dei figli e dei genitori dei soggetti deceduti o
resi permanentemente invalidi in misura non inferiore all’80 per cento della capacità
lavorativa;
– richieste varie di aiuto per il riconoscimento dei propri diritti;
– richieste di assistenza nell’azione volta alla condanna degli autori di gravi fatti
delittuosi: è il caso, ad esempio, di un piccolo possidente calabrese, “espropriato” dei
propri terreni da elementi della criminalità locale, e della sorella di un facoltoso possidente calabrese, ucciso perché aveva contrastato le prevaricazioni di esponenti di un
noto “clan” operante nella zona, che si era impadronito dei suoi terreni, ottenendo,
addirittura, anche contributi CEE, come se ne fosse il legittimo proprietario; la signora
69
non solo non ha avuto alcun aiuto nel suo impegno diretto a far condannare i mandanti dell’omicidio del fratello, ma ha trovato e continua a trovare sulla sua strada ostacoli di ogni genere, dalle continue intimidazioni al tentativo di sequestro di un suo
parente;
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– denuncia di inspiegabili ritardi nel riconoscimento della dipendenza da causa
di servizio del decesso di un congiunto, ucciso dalla criminalità mafiosa (è il caso, ad
esempio, della signora Bonsignore);
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– richiesta di urgente intervento a favore di soggetti danneggiati da attentati di
chiara matrice mafiosa (è il caso, ad esempio, dell’attentato verificatosi a Roma in via
Fauro il 14 maggio 1993).
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Sono, inoltre, pervenute alla Commissione varie richieste di interventi, in particolare per risolvere gravi situazioni in cui si sono venuti a trovare interi nuclei familiari che avevano denunciato fenomeni estorsivi.
Comune a tutte le richieste è un generale bisogno di “giustizia” da parte dello
Stato e il desiderio di un urgente riconoscimento dello status di vittima innocente della
criminalità organizzata, peraltro necessario per ottenere i benefici previsti dalla legge.
70
13) Nel corso del suo lavoro, la Commissione ha constatato una risposta pronta
ed efficace da parte del Ministero dell’interno, competente per la concessione dei
benefici previsti dalla legge n. 302 del 1990 ed una risposta, invece, non sempre adeguata da parte degli uffici di alcune prefetture, dovuta ad una eccessiva “burocratizzazione” delle pratiche, alla incompletezza dei rapporti sugli eventi criminosi, nel caso
di invalidità permanente (mancano spesso i prescritti giudizi delle commissioni medico-ospedaliere), ad una eccessiva “lentezza” nell’invio dei rapporti alla speciale commissione istituita presso il Ministero dell’interno, al frequente cambio di incarico dei
funzionari preposti.
In più di un caso, tali situazioni hanno obbligato la commissione istituita presso
il Ministero dell’interno a restituire le pratiche per un supplemento di istruttoria; ciò
ha allungato ulteriormente i tempi.
14) Il lavoro della Commissione è consistito, in primo luogo, nel seguire presso
il Ministero dell’interno le trattazioni concernenti i benefici previsti dalla legge n. 302
del 1990, sottoposte all’esame della speciale commissione.
Per quanto attiene, in particolare, ai casi sottoposti direttamente all’attenzione
della Commissione, si è cercato, innanzitutto, di informare i singoli soggetti dei loro
diritti. Alcuni non conoscevano, addirittura, l’esistenza delle leggi n. 302 del 1990 e n.
172 del 1992. Gli uffici della Commissione hanno fornito consigli sui possibili interventi; in alcuni casi sono state, addirittura, dettate le domande di richiesta di benefici;
sono state seguite le varie pratiche lungo il loro iter, intervenendo laddove vi erano
inspiegabili e ingiustificati ritardi; si sono interessate le varie autorità competenti per
una possibile soluzione, a segnalare all’autorità giudiziaria notizie pubbliche di cui la
Commissione era venuta a conoscenza e che potevano riguardare procedimenti penali
in corso.
La Commissione ha agito, in sostanza, come una sorta di “difensore civico” dei
cittadini vittime della mafia.
16) La Commissione è fermamente convinta che risultati definitivi nella lotta
contro la mafia possono essere raggiunti solo se all’azione repressiva nei confronti
delle organizzazioni mafiose si accompagnano interventi tesi a garantire i diritti fondamentali dei cittadini; ove non si riesca, è inevitabile non solo la scarsa cooperazione
dei cittadini, ma anche la perdita di credibilità dello Stato.
In tale contesto, la Commissione ritiene necessario sottoporre all’attenzione del
Parlamento e del Governo alcune proposte di intervento a favore delle vittime della
criminalità organizzata:
– appare necessaria una maggiore sensibilità e competenza da parte degli uffici
delle prefetture incaricate di istruire le trattazioni delle provvidenze di cui alle leggi n.
302 del 1990 e n. 172 del 1992, al fine di una maggiore “velocizzazione” delle trattazioni stesse e di un rapporto più rispettoso nei confronti degli interessati; appare
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15) Si è operato, in genere con successo, per il concreto riconoscimento dei diritti riconosciuti dalla legge. Purtroppo, alcuni dei casi sottoposti all’attenzione della
Commissione sono ancora insoluti.
Significativa è la vicenda della signora Bonsignore, vedova di un funzionario
della Regione Siciliana vittima del dovere per aver con coraggio denunciato intrecci e
collusioni dell’amministrazione di appartenenza con il potere mafioso.
Malgrado fosse stato riconosciuto al dottor Bonsignore lo status di vittima innocente della mafia, la signora non ha potuto ottenere il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio del decesso del marito (12).
Visto che le sue reiterate richieste rimanevano evase, malgrado formali promesse, la signora si è rivolta alla Commissione che ha immediatamente sollecitato il
Presidente della regione.
Questi, il 25 gennaio 1994, ha così risposto: “... i toni comprensibilmente amari
con cui la signora Emilia Midrio, vedova del funzionario regionale dottor Giovanni
Bonsignore, denuncia i ritardi della pratica relativa al riconoscimento della dipendenza da causa di servizio del decesso del marito, non possono non colpire profondamente la sensibilità di chiunque abbia seguito l’intera dolorosa vicenda. In data
odierna ho sollecitato i competenti assessori allo scopo di trovare una definitiva e
celere soluzione per il suddetto riconoscimento e per la conseguente corresponsione
della pensione privilegiata e dell’equo indennizzo. Posso darLe piena assicurazione
che questa presidenza terrà particolarmente a cuore l’istanza della signora Midrio
Bonsignore e si adopererà per superare eventuali ostacoli burocratici che potrebbero
ulteriormente ritardare la definizione dell’intervento regionale...”.
La Commissione non ha dubbi che alle intenzioni esposte seguiranno rapidamente i fatti.
(12) Nella X legislatura la Commissione Antimafia si occupò in modo approfondito dell’omicidio
del dottor Bonsignore determinato dal suo rigoroso impegno professionale (doc. XXIII, n. 43).
(13) È stato presentato all’esame del Parlamento (la I Commissione affari costituzionali della
Presidenza del Consiglio e interni della Camera dei deputati ha espresso in data 23 febbraio 1994
parere favorevole) uno schema di regolamento per la semplificazione dei procedimenti di concessione di elargizioni a favore delle vittime del dovere, dei dipendenti pubblici rimasti invalidi nell’adempimento del loro dovere e dei cittadini o degli apolidi vittime del terrorismo e della criminalità
organizzata.
Il regolamento apporta alcune modifiche all’attuale assetto della normativa, introducendo termini certi per
TITOLO CORRENTE 71
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opportuno che presso le varie prefetture sia istituito un apposito ufficio con idonei
funzionari in grado di fornire un immediato e concreto aiuto (13);
– al fine di superare la disparità di trattamento fiscale tra le provvidenze previste
dalla legge n. 302 del 1990 e le provvidenze della stessa specie concesse dalle regioni
e da enti pubblici, potrebbe essere modificato l’articolo 34, terzo comma, del decreto
del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 601, che dispone l’esenzione
dalle imposte sul reddito delle persone fisiche e dall’imposta locale sui redditi nei
confronti dei percepienti sussidi corrisposti dallo Stato e da altri enti pubblici a titolo
assistenziale, tale da comprendere “tutte le provvidenze di qualunque natura concesse
dallo Stato e da altri enti pubblici a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata";
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– al fine di venire incontro a legittime aspettative analoghe a quelle dei signori
Paparcuri e Costanza, potrebbe essere emessa una norma analoga a quanto previsto
dall’articolo 71 del decreto del Presidente della Repubblica n. 355 del 1982 relativo al
personale della Polizia di Stato, secondo cui è concessa la possibilità di una promozione per meriti straordinari in favore di coloro che “... abbiano corso grave pericolo di
vita per tutelare la sicurezza e l’incolumità pubblica”;
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– per risolvere il problema sollevato dai cittadini di Montescaglioso, tendenti ad
avere il risarcimento dei danni subiti a seguito di attentati dinamitardi per scopi estorsivi ad abitazioni e ad esercizi commerciali, potrebbe essere emessa, di volta in volta,
da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri, a seguito di una relazione delle
prefetture competenti, un’ordinanza del tipo di quella emessa a favore dei soggetti
danneggiati dall’attentato verificatosi in via Fauro a Roma il 14 maggio 1993.
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17) Sempre più spesso vittime della criminalità organizzata sono imprenditori e
artigiani coinvolti nel fenomeno dell’usura.
la conclusione dei procedimenti, individuando specifiche ipotesi di sospensione dei termini stessi e delineando meccanismi che garantiscano la tempestività degli accertamenti sanitari previsti dalla normativa.
Sono stati individuati termini uniformi per tutte le amministrazioni competenti.
Per le vittime del dovere, la fase istruttoria in sede periferica – che generalmente coinvolge l’ufficio
presso cui prestava servizio il dipendente – deve essere compiuta entro 110 giorni dall’inizio del
procedimento (d’ufficio o su domanda), e la successiva fase di decisione presso il Ministero competente deve essere compiuta entro 90 giorni dalla ricezione del rapporto e della documentazione. Il
termine complessivo è dunque fissato in 200 giorni.
Per quanto attiene la concessione delle elargizioni in favore dei cittadini, degli stranieri o degli apolidi vittime del terrorismo e della criminalità organizzata, il termine fissato per l’istruttoria svolta
dal Prefetto è di 180 giorni. Il Ministero dell’interno decide entro 90 giorni. Il termine complessivo è
dunque fissato in 270 giorni. Il parere della commissione istituita presso il Ministero dell’interno del
decreto ministeriale 30 ottobre 1980 è reso facoltativo e non più obbligatorio; sono, altresì, disciplinate le ipotesi in cui tale parere può essere richiesto.
È prevista la possibilità per il Ministero dell’interno di chiedere, per una sola volta, un supplemento
di istruttoria. Vengono fissati i termini per gli accertamenti sanitari. Il giudizio delle Commissioni
medico-ospedaliere è definitivo. Viene elevata la misura della provvisionale prevista dall’articolo 7,
comma 3, della legge 20 ottobre 1990, n. 302, dal 20 al 50 per cento.
Viene attribuito alle Direzioni provinciali del tesoro competenti all’erogazione il compito di rivalutare annualmente l’importo dell’assegno vitalizio.
Viene fissata la definizione di provvidenza pubblica e disciplinato il caso di cumulo di provvidenze
pubbliche nel caso in cui quella già goduta sia di importo inferiore a quella spettante a norma delle
leggi n. 466 del 1980 e n. 302 del 1990.
(14) Nel corso della visita a Napoli della Commissione, i rappresentanti dell’avvocatura –
Consiglio dell’ordine, Sindacato forense, Camera penale – hanno denunciato, tra l’altro, gravissime
irregolarità della sezione fallimentare e delle aste giudiziarie.
Nella sezione fallimentare, definita da uno degli avvocati “un centro di malaffare”, svolgerebbe
funzioni istituzionali un ex impiegato in pensione, tale Di Capua, che addirittura manterrebbe un
proprio ufficio presso quella sezione e avrebbe libero accesso ai fascicoli. Un altro avvocato ha
dichiarato che “nel settore delle aste giudiziarie vi è l’esistenza di vere e proprie organizzazioni di
tipo criminale”. Nell’occasione, sono state denunciate, inoltre, intimidazioni da parte di gruppi criminali che controllano le aste; un avvocato sarebbe stato addirittura aggredito e percosso.
Malversazioni nelle aste giudiziarie si verificherebbero, secondo il collaboratore Galasso, anche a
Roma; tali fatti sono stati confermati all’autorità giudiziaria dal testimone Alfonso Ferrara Rosanova.
In particolare, il Galasso ha riferito, tra l’altro, al pubblico ministero quanto segue: “… alla metà
degli anni ’60 Alfonso Rosanova insieme a Ciro Maresca e ai suoi fratelli aveva ottenuto il controllo totale del sistema di vendita delle aste giudiziarie di Napoli e anche di Roma. Così Peppe
Abbagnale divenne proprietario dell’Hotel Congressi di Castellammare e dell’Hotel Due Golfi di
Sant’Agata e il fratello Mario dell’Hotel Miramare di Castellammare e della pensione Ancora di
Marina di Aequa; il fratello Somma del Grand Hotel Stabia di Castellammare e Alfonso Rosanova
di molti beni immobiliari. Quest’ultimo, già nel 1964, era locatario del complesso cosiddetto
‘Giardino romantico’ di Massa Lubrense... il Rosanova per far calare il prezzo di vendita dell’immobile era riuscito a far andare deserta l’asta per quasi cinque anni, fino a che l’asta finale vide
l’aggiudicazione del complesso da parte di politici...” (Cfr. ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Alfieri Carmine + 22, emessa in data 3 novembre 1993 dal G.l.P. del Tribunale di
Napoli, dottor Sensale).
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18) Nel corso dei lavori della Commissione è stato più volte segnalato che la criminalità organizzata, in particolare la camorra, è molto presente nelle aste giudiziarie,
alterandone il funzionamento.
Le organizzazioni, infatti, a mezzo dell’intimidazione e della violenza, riescono
a far disertare le aste giudiziarie dai potenziali concorrenti.
In tal modo, vengono acquisiti mobili e immobili a prezzi di poco superiori
alle basi d’asta; quando poi si tratta di immobili occupati (già con una base d’asta a
un basso prezzo) le organizzazioni criminose riescono, con la capacità intimidato-
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Oggi l’obiettivo delle attività usurarie non è più solo il conseguimento di liquidità, ma soprattutto l’acquisizione della proprietà dell’azienda.
È sempre più frequente l’intreccio tra usura ed estorsione sotto un duplice profilo. A volte, per far fronte alle richieste di pagamento di un “pizzo” si ricorre all’usuraio. Altre volte l’usuraio ricorre alla violenza per impossessarsi dell’attività commerciale, come corrispettivo degli interessi illegali maturati.
L’acquisizione di aziende è un’attività diffusa delle associazioni mafiose, per gli
investimenti redditizi e per riciclare denaro proveniente da traffici illeciti.
Non esiste oggi una strategia generale di contrasto all’usura.
La Procura della Repubblica presso la Pretura di Roma ha costituito un gruppo di
lavoro che ha ottenuto ottimi risultati. Un’associazione per la tutela dei consumatori,
l’Adiconsum, si sta impegnando sul tema. Sono stati lanciati allarmi da autorità religiose. Di particolare interesse l’iniziativa del parroco della chiesa “Immacolata Gesù
Nuovo” di Napoli, padre Rastrelli, il quale, al fine di contrastare il fenomeno dell’usura nella sua parrocchia, in un quartiere fortemente “a rischio” della città, ha istituito
una fondazione per venire incontro alle urgenti necessità di coloro che sono “incappati” nel circolo vizioso dell’usura.
Si tratta di segnali positivi, ma occorre sviluppare rapidamente una completa e
permanente strategia di contrasto.
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ria propria delle stesse, a farli liberare in breve tempo, per poi rivenderli a prezzi
elevatissimi (14).
D’altro canto, proprio il meccanismo del funzionamento delle aste giudiziarie
sollecita l’interesse delle organizzazioni criminali, per la possibilità di impiego di
capitali di provenienza illecita (le vendite avvengono molte volte per contanti).
Si interferisce sul regolare svolgimento delle aste, dissuadendo i possibili concorrenti, non solo con la minaccia e la violenza, ma anche con l’offerta di somme di
denaro.
Una volta che ci si è aggiudicati i mobili o gli immobili a basso prezzo, gli stessi
vengono rivenduti a prezzi elevatissimi, con notevoli profitti; in tal modo, le aste giudiziarie costituiscono un’ulteriore forma di finanziamento della criminalità organizzata (15).
19) Le esecuzioni mobiliari ed immobiliari sono di competenza, rispettivamente,
del pretore e del tribunale.
Le vendite possono essere affidate ad un commissionario, che può essere, oltre
che un istituto di vendite giudiziarie, una qualsiasi persona ritenuta idonea.
Nel provvedimento di affidamento viene fissato il prezzo minimo della vendita;
se il valore delle cose risulta dal valore di listino o di mercato, la vendita non può
essere fatta al prezzo inferiore al minimo fissato.
Il commissionario deve portare a termine il suo incarico nel termine di un mese e
procede alla vendita senza incanto.
Il sistema di gran lunga più praticato per le vendite giudiziarie è il pubblico
incanto, la cui esecuzione può essere affidata al cancelliere, all’ufficiale giudiziario o
ad un istituto all’uopo autorizzato.
Nel provvedimento, può essere disposto che, oltre alla pubblicità prevista dal
primo comma dell’articolo 490 del codice di procedura civile (un avviso deve essere
affisso per tre giorni continui nell’albo dell’ufficiale giudiziario), debba essere effettuata anche una pubblicità straordinaria (l’avviso deve essere inserito una o più volte
in determinati giornali e divulgato con le forme della pubblicità commerciale). In caso
di espropriazione immobiliare, l’avviso è inserito nel foglio degli annunzi legali della
provincia in cui ha sede l’ufficio giudiziario.
Nel provvedimento con il quale viene predisposta la vendita, viene fissato il
prezzo di apertura dell’incanto o viene autorizzata, se le circostanze lo consigliano, la
vendita al migliore offerente, senza determinare il prezzo minimo. L’aggiudicazione al
migliore offerente segue quando non è fatta una maggiore offerta.
Se delle cose invendute nessuno dei creditori chiede l’assegnazione per il prezzo
fissato, viene ordinato un nuovo incanto nel quale è ammessa qualsiasi offerta.
Nella maggior parte dei capoluoghi di distretto o circondario, esiste “un istituto
delle vendite giudiziarie”, nominato concessionario con provvedimento che, fino
all’entrata in vigore del decreto legislativo n. 29 del 1993, era emesso dal Ministro di
grazia e giustizia; in atto viene emesso dal direttore generale degli affari civili.
Il funzionamento degli istituti vendite giudiziarie è disciplinato dall’articolo 159
(15) Il collaboratore di giustizia Galasso ha, tra l’altro, dichiarato: “… forse già dagli anni ’70 vari
rapporti politico-camorristici consistevano in scambio di favori consulenze e aiuti politici per avvicinare talvolta il curatore o il giudice e mettere a disposizione del rappresentante camorrista della
zona... questo tipo di favore. Mi ricordo che quello delle aste giudiziarie è stato sempre uno dei profitti illeciti” (Cfr. audizione avanti la Commissione Antimafia del 13 luglio 1993).
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– le vendite sono pubblicizzate mediante inserzione nel bollettino giudiziale delle
aste giudiziarie e in quotidiani diffusi nella zona, nonché mediante affissione di avvisi
murali;
– i beni in vendita vanno esposti al pubblico dal giorno precedente fino ad un’ora
prima del momento della vendita; almeno ventiquattro ore prima dell’incanto deve
essere affisso alla porta esterna della sala delle aste un elenco sommario delle cose da
vendere;
– l’istituto è obbligato alla tenuta di numerosi registri e bollettari ed è soggetto in
ogni momento ad ispezioni e controlli e due volte all’anno è tenuto a far verificare i
registri dal pretore; per ogni incarico ricevuto forma un fascicolo in cui vengono inseriti tutti gli atti compiuti.
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– l’istituto è tenuto ad assumere obbligatoriamente gli incarichi affidatigli e non
può, neppure per interposta persona, acquistare beni mobili ed immobili in vendita; è
soggetto a vigilanza generica da parte del Ministero di grazia e giustizia, che la esercita
per mezzo dei presidenti di corte d’appello o di magistrati delegati dai medesimi, e ad
una vigilanza specifica da parte del giudice che ha affidato l’incarico;
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– l’istituto di vendite giudiziarie deve avere i propri uffici nella sede del capoluogo della circoscrizione giudiziaria per la quale è stata concessa l’autorizzazione; la
sede di tali uffici non può essere mutata senza preventiva autorizzazione del presidente
della corte d’appello; deve operare nel territorio della circoscrizione giudiziaria per la
quale è stata concessa l’autorizzazione;
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– la durata dell’incarico (comprendente le vendite all’incanto dei beni mobili, le
vendite mobiliari senza incanto, qualsiasi altra vendita disposta dall’autorità giudiziaria) è quinquennale e si intende tacitamente rinnovata per un altro quinquennio e così
successivamente in mancanza di manifestazione di volontà contraria espressa sei mesi
prima della scadenza; la concessione può essere revocata in caso di violazione delle
norme del regolamento;
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delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile e dal decreto ministeriale
20 giugno 1960, con il quale è stato approvato il regolamento per tali istituti.
Il citato decreto ministeriale, in sintesi, prevede:
20) Il sistema delle aste giudiziarie, in particolare quelle fallimentari, è oggetto di
indagini da parte della magistratura.
A seguito di indagini della Procura della Repubblica di Palmi sono state emesse
ordinanze di misura cautelare nei confronti di quattro avvocati e cinque ufficiali giudiziari per associazione di tipo mafioso, dedita alla truffa organizzata ai danni della
finanziaria FIAT-SAVA, mediante aste giudiziarie truccate nelle quali venivano aggiudicate (con il complice concorso dell’ufficiale giudiziario che aveva stimato il bene,
del legale che avrebbe dovuto rappresentare gli interessi del creditore e della cosca che
provvedeva a far risultare il falso stato di parziale distruzione del veicolo, nonché ad
impedire la partecipazione di soggetti estranei al gruppo) auto pressoché nuove a prezzi irrisori.
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Per corruzione, abuso d’ufficio e turbativa d’asta, nel mese di gennaio 1994, è
stato arrestato un ex giudice fallimentare di Livorno; nel corso dell’inchiesta sarebbero emersi collegamenti con persone iscritte a logge massoniche.
Recentemente sono stati arrestati un magistrato ed un ex-cancelliere, per aver
favorito la srl IRVEG (Istituti riuniti vendite giudiziarie), con sede legale in Roma,
alla quale era stata affidata la concessione di numerosi ed importanti istituti vendite,
in particolare a Milano, Brescia, Bergamo, Pavia, Como, Monza, Varese, Bologna,
Forlì, Modena, Ravenna, Reggio Emilia, Rimini, Arezzo, Siena, Montepulciano e
Aosta. Il Ministero di grazia e giustizia, considerato che, dall’aprile 1989 e fino al
1992, la srl C.G.F. “Compagnia Generale Finanziaria”, (fallita nel gennaio 1993) era
titolare di tutte le quote costituenti l’intero capitale sociale dell’IRVEG, ha proceduto
in data 18 novembre e 16 dicembre 1993 alla revoca delle concessioni alla citata
società.
È necessario che il Ministero di grazia e giustizia e il CSM svolgano compiuti
accertamenti su tali inquietanti episodi.
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21) La Commissione ritiene, inoltre, che sia assolutamente necessario rivedere le
norme che disciplinano il sistema delle vendite giudiziarie, in particolare di quelle fallimentari, prevedendo un maggiore controllo sullo svolgimento delle aste.
Una proposta potrebbe essere quella di affidare ai notai l’esecuzione delle vendite, in particolare di quelle immobiliari; l’affidamento ai notai non solo potrebbe
garantire una maggiore trasparenza nell’esecuzione delle vendite, ma determinerebbe
anche un notevole effetto deflattivo sui tribunali civili, notoriamente oberati da enormi carichi di lavoro.
In tal senso, è in corso di esame da parte del Ministero di grazia e giustizia uno
schema di disegno di legge.
22) Dopo le stragi di Capaci e di via Mariano d’Amelio è nato in tutta Italia un
forte movimento antimafia che in parte ha sviluppato iniziative già esistenti, in parte ne
ha fatto nascere di nuove. Protagonisti principali sono state le scuole ed il volontariato.
23) Nelle scuole gli studenti hanno approfondito, con i docenti e con esperti
esterni, i problemi posti dall’esistenza delle organizzazioni mafiose. Queste discussioni hanno dato adito, in molti casi, a veri e propri corsi paralleli tenuti in orario extrascolastico, che si sono conclusi con la redazione di un saggio da parte degli studenti.
Alcuni saggi sono stati inviati alla Commissione Antimafia e si tratta, in genere,
di lavori di notevole interesse. Altre volte gli insegnanti hanno inserito nelle materie
curricolari, in particolare storia e italiano, approfondimenti sul tema della mafia.
In alcune regioni italiane sono stati organizzati corsi di formazione degli insegnanti, che hanno riscosso notevole successo per la serietà dell’impostazione e per la
partecipazione. Il Ministero della pubblica istruzione ha cooperato con queste iniziative, favorendone l’avvio e lo sviluppo.
Da una ricerca svolta dalla Commissione, nelle università italiane è risultato che
dal 1991 sono state svolte sul tema della mafia circa 90 tesi e ne sono in corso di svolgimento circa 30. Il numero delle tesi sulla materia è in forte crescita. Sono in corso di
svolgimento, inoltre, 34 dottorati di ricerca (16).
(16) La ricerca è stata svolta al fine di preparare un forum sulla giovane cultura italiana contro la
mafia, che non si è potuto tenere per il sopravvenuto scioglimento delle Camere.
76
25) Alle stesse finalità di risposta della società civile sono ispirate le associazioni antiracket, che la Commissione ha incontrato in varie occasioni. Si tratta complessivamente di 29 associazioni: 19 in Sicilia, 5 in Puglia, 2 in Calabria, 1 in Lombardia,
Lazio, Campania. Va segnalata la scarsissima diffusione del fenomeno nel Centro
Nord, dove pure il racket è presente in forme non episodiche.
Proprio dagli incontri con le associazioni è emersa la proposta di correzione della
legge antiracket, subito recepita dal Ministro della giustizia.
26) L’Ufficio di Presidenza della Commissione ha incontrato, su loro richiesta, i
dirigenti del Grande Oriente d’Italia e della Gran Loggia d’Italia di Piazza del Gesù,
Palazzo Vitelleschi.
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24) Il volontariato laico e religioso, tanto cattolico quanto evangelico, è molto
impegnato nelle zone a più forte insediamento mafioso. Le funzioni possono essere
sinteticamente indicate con l’espressione “socializzazione del territorio”, cara ad alcuni gruppi di volontariato. Si tratta di un complesso di attività prevalentemente dirette
ai minori che hanno lo scopo di strappare i ragazzi alla logica della violenza e di educarli alle regole della legalità. In quest’opera si cerca di costruire un rapporto di fiducia tra minori ed adulti che si occupano di loro, basato sul rispetto reciproco.
La Commissione, per il rilievo di questo impegno nel quadro di un’incisiva lotta
contro la mafia, la sua cultura e le sue regole, ha spesso incontrato gruppi di volontariato, per conoscere meglio la loro attività e per acquisire ulteriori elementi di analisi e
di valutazione.
Anche in aree dove l’esercizio del volontariato è tradizionalmente più difficile
sorgono esperienze di grande interesse. A Condofuri, in provincia di Reggio Calabria,
21 associazioni di varia natura, ed operanti in diverse aree della regione, hanno dato
vita ad un cartello “Né complici né spettatori” che si riconosce in un documento operativo di notevole interesse e che segna il passaggio dalla pura denuncia all’ assunzione di responsabilità per la costruzione di diversi rapporti sociali (17).
Anche la mafia ha capito che l’attività di volontariato è una componente essenziale dell’impegno civile. L’assassinio del parroco di Brancaccio, padre Pino Puglisi,
e le intimidazioni cui molti esponenti del volontariato sono soggetti, non costituiscono
“incidenti di percorso”, ma vera e propria reazione ad una strategia di risposta pacifica
e civile che è capace di spezzare le radici dell’insediamento sociale dei gruppi mafiosi
(18) .
(17) Tra i punti più importanti del documento: “Elaborare un codice di comportamento antimafia
per i cittadini attraverso campagne di sensibilizzazione e di informazione per la disubbidienza civile
alla mafia e ai suoi stili di vita, per il rifiuto della illegalità, del clientelismo, delle varie forme di
omertà e di complicità ... Attenzione al mondo giovanile da educare al rispetto delle regole (es. circolazione senza casco, occupazione di marciapiedi, vandalismo nelle scuole) ... Proporre ai giovani
valori positivi e alternativi alla cultura mafiosa, in particolare coinvolgere i giovani delle scuole
medie superiori, gli universitari, in esperienze di partecipazione ed impegno in servizi di utilità
sociale anche a carattere temporaneo...”.
(18) Anche il Centro giovanile parrocchiale “La nostra valle” di Condofuri, una delle associazioni
che compongono il cartello cui dianzi si è accennato, è stato colpito da una bomba il 24 agosto
1991. Le associazioni hanno reagito con un volantino, diffuso nella zona, nel quale riaffermano i
propri valori di impegno nella società, di riappropriazione dei compiti educativi, di rafforzamento
dello studio e della proposta.
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Negli incontri è stato affrontato il problema della trasparenza delle logge massoniche e della loro attività, messo in dubbio da inchieste giudiziarie relative tanto a fatti
di mafia quanto a fatti di corruzione.
La stessa Commissione, per i documentati rapporti tra organizzazioni mafiose ed
alcune logge massoniche, e stante l’intreccio, proprio delle logge massoniche, tra alta
riservatezza e vincolo di solidarietà, aveva sollevato, nella relazione sui rapporti tra
mafia e politica, un allarme in ordine ai possibili condizionamenti di logge massoniche coperte e deviate nell’attività di pubbliche istituzioni. Di qui l’esigenza, avvertita
dalle due importanti obbedienze massoniche, di avere un chiarimento con la
Commissione.
È opinione della Commissione che è contraria ai principi propri dei sistemi
democratici la criminalizzazione della massoneria in quanto tale, come di qualunque
altra associazione legale. Ed è noto, inoltre, che qualunque associazione può autoattribuirsi la qualifica massonica pur senza disporre dei necessari riconoscimenti. Questa
situazione rende necessario che i vertici massonici prendano esplicitamente le distanze da queste logge, da questi iscritti e dai comportamenti devianti ed adottino la linea
della massima trasparenza.
Renzo Canova, Gran maestro della Gran Loggia d’Italia, ha escluso che possano
essere resi pubblici i nomi degli iscritti alla propria obbedienza per timore di ritorsioni
sul posto di lavoro. L’avvocato Gaito, ora Gran maestro del Grande Oriente, ha precisato che la loggia ha carattere iniziatico e ciò renderebbe impossibile superarne la
riservatezza.
Non molto tempo dopo quell’incontro, l’obbedienza di Palazzo Vitelleschi, per la
prima volta, ha pubblicato un annuario nel quale sono pubblicati i nomi dei componenti degli organismi statutari, l’ubicazione delle sedi, il nome ed il numero delle
logge nelle varie città di appartenenza (19). Per quanto concerne le logge del Grande
Oriente, una pubblicazione americana rende pubblici ormai da molti anni, con la collaborazione dell’obbedienza interessata, gli elenchi delle logge massoniche di tutto il
mondo, organizzati, all’interno di ciascun Paese, seguendo l’ordine alfabetico delle
località di appartenenza (20).
Dai dati in possesso della Commissione emerge però la necessità di una chiarificazione.
Tra la fine del 1992 ed i primi mesi del 1993 i giudici della Procura della
Repubblica di Palmi, nell’ambito della inchiesta sulle deviazioni della massoneria,
disposero una serie di perquisizioni e sequestri presso le sedi di diverse organizzazioni
massoniche.
Tempo dopo, dal Procuratore dottor Cordova (audizione del 9 luglio 1993), la
Commissione apprese che sul territorio nazionale operavano almeno 25 comunioni
massoniche (21), che era stata riscontrata l’esistenza di logge coperte e che era ancora
diffuso il fenomeno delle cosiddette iniziazioni alla memoria. Nel 1982, dopo l’esplosione dello scandalo P2, le due più importanti comunioni massoniche italiane, il
Grande Oriente d’Italia e la Gran Loggia d’Italia degli ALAM di Piazza del Gesù,
(19) Annuario, anno massonico 5.993, V. L., edizioni Edimai, Roma.
(20) List of lodges. Masonic, 1993, Pastagraph, Printing & Stationery Co.
(21) La maggior parte di queste, peraltro, non può vantare alcun riconoscimento massonico internazionale e pertanto sarebbe più corretto definirle gruppi di logge spurie.
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Nome archivio
Numero iscritti
Grande Oriente d’Italia
Gran Loggia d’Italia degli ALAM
Grande Oriente Italiano (Pietro Muscolo)
Logge di Jolanda Adami Tomaseo
Ordine di San Giorgio in Carinzia, Gran Priorato d’Italia
Gran Loggia Generale d’Italia, Massoneria Universale
Gran Loggia d’Andorra
Loggia di diritto umano di Elio Pedaggi
Reggenza dei liberi muratori separati dal G.O.I.
Serenissima Gran Loggia d’Italia
Unione liberi muratori universale
De Megni
Associazione liberi muratori separati dal G.O.I.
Totale
21.097
6.674
2.559
1.159
315
141
111
55
39
38
28
26
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modificarono le proprie costituzioni ed i propri regolamenti, abolendo quelle norme
che espressamente statuivano l’esistenza di logge coperte e la possibilità di procedere
ad iniziazioni alla memoria, vale a dire iniziazioni di persone che non fanno parte di
nessuna loggia e di cui non è conosciuta l’appartenenza al sodalizio massonico anche
all’interno dello stesso. Pertanto le logge coperte e le iniziazioni alla memoria oggi
sarebbero irregolari.
Altre inchieste sulle presunte deviazioni della massoneria o nell’ambito delle
quali sono emerse attività deviate della massoneria o collusioni di suoi iscritti con
esponenti della criminalità organizzata si sono concluse (come quella sulle logge trapanesi di Giovanni Grimaudo, alias Circolo culturale Scontrino) o sono ancora in
corso. Di questi aspetti la Commissione si è già occupata, anche raccogliendo, direttamente, le testimonianze di alcuni collaboratori della giustizia (vedi la relazione sui
rapporti tra mafia e politica e la relazione annuale).
La Commissione, rispettando la riservatezza sui nomi degli iscritti alle varie
organizzazioni massoniche ed al solo fine di mettere in luce anomalie tuttora perduranti nel loro modo di essere, ha elaborato alcune informazioni in suo possesso, per
metterle poi a confronto con quelle deducibili dalle citate pubblicazioni.
Occorre precisare che i dati in possesso della Commissione sono quelli acquisiti
presso la Procura della Repubblica di Palmi; trattasi, pertanto, di informazioni aggiornate all’epoca dei sequestri (fine ’92-inizi ’93) e tratte dagli archivi relativi alle anagrafi degli iscritti (sequestri informatici e sequestri cartacei). Tali archivi sono senza
dubbio fondamentali nella vita di una organizzazione massonica, sia sotto il profilo
storico, sia sotto quello della democrazia interna; vige infatti un regime di consultabilità di tali elenchi da parte degli affiliati. Inoltre, la non coincidenza fra i nominativi
degli iscritti (sotto forma di schede anagrafiche, elenchi, fascicoli personali, eccetera)
conservati presso le sedi centrali delle organizzazioni massoniche, presso le sedi
32.251
79
Il campione è dunque di 32.251 iscritti, di cui:
Mafia
Assonnati
Depennati
Deceduti
Espulsi
Inaffiliati
Iscritti in logge estere
1.553
435
427
8
121
259
Inoltre:
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Numero dei soggetti che non hanno dichiarato i propri
dati anagrafici (di cui non è dunque possibile accertare l’identità)
Numero dei soggetti che non appartengono a nessuna loggia
Numero dei soggetti che non hanno dichiarato la propria residenza
Numero dei soggetti che non hanno dichiarato la professione esercitata
80
8.386
1.648
1.082
10.372
regionali o circoscrizionali e presso le logge, è la palese spia di situazioni non corrispondenti alle regole che le stesse organizzazioni hanno ritenuto opportuno darsi.
Il campione degli iscritti preso in esame si riferisce ai seguenti archivi:
Dai dati in possesso della Commissione risulta l’esistenza di 118 logge con meno di 7
iscritti (numero minimo stabilito per la regolare costituzione di una loggia massonica).
Complessivamente le logge sono 1.126. Le due citate pubblicazioni (relative alle
logge del G.O.I. e della Gran Loggia di Palazzo Vitelleschi) riportano i nomi di 15
logge che si presume siano, pertanto, del tutto regolari, e che non sono comprese negli
elenchi sequestrati dai giudici di Palmi.
Dagli elenchi risulta, viceversa, l’esistenza di 36 logge con più di 7 iscritti, non comprese nelle pubblicazioni ufficiali è di 59 logge, con meno di sette iscritti, anche esse
non comprese negli elenchi pubblicati; sul punto, si potrebbe obiettare che queste 59
logge non sono state inserite proprio perché non regolari, ma tale osservazione non ha
ragione d’essere alla luce della circostanza che altre logge, con meno di sette iscritti,
sono state incluse negli elenchi resi pubblici dalle stesse organizzioni massoniche.
Nelle anagrafi sequestrate sono compresi anche i nominativi degli assonnati o depennati dai piedilista delle logge (22), dei deceduti e degli espulsi.
È il caso di ricordare che il 4 marzo del 1982, l’allora Gran Maestro del G.O.I., generale Battelli, “assonnò” di imperio tutti i fratelli iniziati con procedura alla memoria,
in attesa di una loro eventuale, successiva, decisione circa la scelta di una loggia regolare alla quale affiliarsi. Molti dei nominativi di quelle persone non figurano negli
elenchi sequestrati.
COMMISSIONE
PARLAMENTARE DI
INCHIESTA SUGLI EVENTI
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Da un dibattito al Senato nel 1967 (IV legislatura) su presunte
attività illecite del Servizio informazioni difesa (SID, già SIFAR) ebbero
origine indagini interne al Ministero della difesa e inchieste
amministrative, da cui emerse che erano stati formati, in numero assai
rilevante, fascicoli informativi su personalità politiche, dovuti
all’iniziativa del generale Giovanni De Lorenzo, che aveva diretto il
servizio dal 1956 al 1962.
In conseguenza di ciò, il generale De Lorenzo era stato dal
Consiglio dei ministri sostituito nella carica di Capo di Stato maggiore
dell’Esercito.
A seguito di ulteriori dibattiti parlamentari e di una accesa
campagna di stampa, che si incentrava soprattutto sul periodo – in
verità drammatico – della crisi di governo successiva alle dimissioni del
I Governo Moro (giugno 1964) e della formazione del II Governo Moro
(22 luglio 1964), in cui si diceva essere stato preparato un colpo di
Stato, nella V legislatura si giunse all’istituzione di una Commissione di
inchiesta.
Infatti, la polemica politica e giornalistica continuò e
l’argomento formò anzi uno dei più importanti elementi della campagna
elettorale 1968. Ripresa quindi nelle nuove Camere, portò alla legge 31
marzo 1969, n. 93, che istituiva una Commissione parlamentare di
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DI GIUGNO-LUGLIO 1964
(SIFAR)
(V LEGISLATURA)
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inchiesta formata da nove deputati e nove senatori. I membri furono
nominati dai Presidenti delle due Camere il 15 aprile 1969 così come, di
intesa tra loro, fu nominato il presidente della Commissione, deputato
Giuseppe Alessi.
La Commissione aveva lo scopo di accertare quanto era accaduto
in quel periodo in materia di tutela dell’ordine pubblico e di sicurezza
nazionale; di indicare quali iniziative dovessero essere considerate in
violazione delle norme vigenti; proporre una eventuale diversa
disciplina della sicurezza e dell’ordine pubblico oltre che del segreto.
I lavori, che si sarebbero dovuti concludere entro tre mesi, dopo
varie proroghe ebbero termine il 30 ottobre 1970, mentre le relazioni
furono depositate presso le Presidenze delle Camere il 15 dicembre
1970.
Dall’esame delle relazioni si evince che alla Commissione venne
spesso opposta dal Governo l’eccezione del segreto. Le relazioni sono
cinque (relatore Alessi - DC) di cui quattro di minoranza, a firma di
Terracini e altri (PCI); Biondi (PLI); Covelli (PDIUM) e Franza (MSI).
Le relazioni furono discusse alla Camera dei deputati il 3 e il 4
maggio 1971, ed alla discussione prese parte anche il generale De
Lorenzo, che in quelle elezioni era risultato eletto deputato nelle liste del
PDIUM. In quella occasione ciascuna parte ribadì le posizioni espresse
nelle diverse relazioni e la discussione si concluse con l’approvazione di
una risoluzione di adesione alle conclusioni della relazione della
maggioranza, presentata dal gruppo parlamentare DC con il voto
contrario dei gruppi del PCI, PDIUM, MSI, l’astensione dei deputati
liberali ed il voto favorevole dei deputati dei gruppi DC, PSI e PRI.
Di questa relazione pubblichiamo alcune pagine riguardanti il
cosiddetto “Piano Solo”, che costituiva uno dei principali oggetti
dell’inchiesta. Della relazione di minoranza a firma del senatore
Terracini pubblichiamo uno stralcio che riguarda i fascicoli SIFAR, che
hanno formato oggetto di discussione, mai sopita, nella stampa ed in
sede politica.
Pare però opportuno ricordare che il dibattito
sull’organizzazione dei servizi di sicurezza, al cui riguardo la
Commissione formulò osservazioni e proposte, continuò in seguito,
portando alla approvazione della legge 24 ottobre 1977, n. 801, che ha
istituito i due Servizi di sicurezza, ha dettato una nuova disciplina del
segreto ed istituito il Comitato parlamentare per i servizi di
informazione e sicurezza e per il segreto di Stato.
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Prime bozze divisionali
La traccia comune
Le bozze definitive
1) I DOCUMENTI DEGLI ELABORATI DEFINITIVI DELLE TRE DIVISIONI.
La Commissione è venuta in possesso di tre elaborati (studio dei piani) redatti
dalle tre divisioni: la Pastrengo di Milano, la Podgora di Roma, la Ogaden di Napoli.
Sono le “bozze” di “studio” o di “piano” definitivo.
Il Ministero della difesa, nel trasmettere tali documenti, vi ha apportato alcuni
“omissis”, riferibili a parti che considera segreto di Stato militare o politico-militare,
in quanto i tre “piani" avrebbero riprodotto, in quelle parti censurate, disposizioni
ricavate dai piani generali di difesa dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale
ancora vigenti.
Nel trasmettere tali piani il Ministero della difesa, nella sua nota del 12 maggio
1969, precisava:
“Nel maggio-giugno 1967 le minute erano giacenti presso l’ufficio operazioni
del comando generale dell’arma dei carabinieri e sono (rimaste) da quell’epoca custodite presso il comando generale. Delle suddette minute, non risulta esistano altre
copie, né presso i comandi di divisione, né presso i comandi da essi dipendenti, né
presso enti o comandi dipendenti dalla difesa.
Agli atti presso il comando generale dell’arma dei carabinieri o presso altri
comandi od enti dipendenti non si trovano né appunti, né altri documenti relativi a
dette minute o bozze di piano, o comunque riferentisi al cosiddetto ‘Piano Solo’ ”.
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LE FASI DI ELABORAZIONE DEI
PIANI E DEL COSIDDETTO
“PIANO SOLO”
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CAPITOLO SECONDO
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Dalla relazione (relatore Alessi)
(pagg. 622 e ss.)
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La nota precisa, altresì, che la prima minuta risulta redatta nel comando della
divisione Pastrengo di Milano dal tenente colonnello Dino Mingarelli. La seconda e la
terza risultano redatte nel comando della divisione Podgora di Roma dal tenente
colonnello Luigi Bittoni e la quarta nel comando della divisione Ogaden di Napoli dal
tenente colonnello Romolo Dalla Chiesa.
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Riportiamo la riproduzione delle copie fotostatiche degli elaborati delle tre divisioni dell’arma dei carabinieri, relative alla pianificazione di emergenza, così come
sono pervenute alla Commissione parlamentare.
Gli spazi bianchi nelle varie pagine e le pagine totalmente mancanti nella numerazione riguardano parti coperte da segreto militare in base al regio decreto n. 1161
dell’ll luglio 1941.
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Dalla relazione di minoranza (relatore
Terracini)
(pagg. 65-80)
Cominciamo detto esame dalla nota questione dei fascicoli, prendendo in considerazione sia il problema della proliferazione che quello del contenuto, oltre a quanto
altro è connesso ad entrambi gli aspetti.
Per quanto attiene alla proliferazione, nella relazione del generale Beolchini si
legge:
“L’indagine ha portato anzitutto alla constatazione che nell’ambito della prima
sezione dell’ufficio ‘D’ l’estensione anomala della formazione dei fascicoli ha avuto
luogo verso il 1959 e anzi ha assunto proporzioni allarmanti proprio in quell’anno e
nell’anno successivo. Con circolare del 26 febbraio 1959 sono state richieste a tutti i
capi degli uffici periferici note biografiche e dettagliate notizie sull’attività ‘comunque svolta’ dai deputati e dai senatori. Ogni centro di controspionaggio dovette così
compiere un’indagine biografica sui parlamentari compresi nella propria giurisdizione
e per ognuno di essi è stato formato un fascicolo. Nel 1960 vengono raccolte le notizie
biografiche relative a prelati, vescovi e sacerdoti delle varie diocesi, come risulta dalle
lettere indirizzate ai capi degli uffici periferici dal capo ufficio ‘D’; in tal modo altri
4.500 fascicoli di religiosi e di esponenti delle varie organizzazioni diocesane, sono
venuti ad ingrossare gli archivi del S.I.F.A.R.”.
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2) I FASCICOLI DEL S.I.F.A.R.
La relazione Beolchini aggiunge che
“si è avuta così in quel periodo e negli anni successivi una espansione enorme del
numero dei fascicoli, fino a giungere alle cifre odierne di 157 mila fascicoli, dei quali
101
circa 34 mila dedicati ad appartenenti al mondo economico, a uomini politici e ad
altre categorie di interesse rilevante per la vita della nazione”.
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Con l’aumentare del numero muta anche la natura dei fascicoli. Lo afferma
ancora il generale Beolchini nella sua relazione:
“I fascicoli erano in origine limitati al controspionaggio vero e proprio e formati
per le persone accertate pericolose o sospette, vale a dire per coloro che erano comunque indiziati di svolgere attività pericolose per la sicurezza dello Stato... Senonché,
diversa considerazione deve essere fatta quando muta il carattere e la dimensione del
fenomeno, allorché la formazione del fascicolo per le persone non sospette non è più
un fatto eccezionale, giustificato da particolari circostanze, ma viene esteso come
sistema a tutti gli uomini che abbiano assunto un ruolo di qualche rilievo nella vita del
Paese; quando vengono inserite nel fascicolo notizie che non hanno comprensibile
relazione con la sicurezza dello Stato, ma riguardano gli aspetti più intimi e riservati
della vita privata; quando per la stessa natura scandalosa delle notizie raccolte si abbia
motivo di temere che i documenti informativi possano essere usati per colpire la persona, nel perseguimento di fini non chiari e comunque non coincidenti con l’interesse
pubblico”.
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Nella relazione Beolchini è inoltre indicato come si è giunti al fenomeno sopradescritto. Vi si legge infatti:
“Il capo della prima sezione dell’ufficio ‘D’, tenente colonnello Bianchi, ha precisato che nel 1959 il capo dell’ufficio impartiva la direttiva di allargare in ogni direzione l’ambito delle informazioni da fornire circa le persone per le quali erano stati
formati i fascicoli, dovendo l’ufficio tendere al risultato di conoscere ‘tutto di tutti’.
Al capo di un ufficio periferico, che aveva chiesto delucidazioni sulle nuove direttive,
veniva spiegato che: ‘... ai fini del Servizio, per attività si deve intendere tutto quanto
ha svolto l’interessato dalla prima giovinezza ad oggi nella vita civile, commerciale,
professionale, politica, privata ed in tutti gli altri campi in cui ha eventualmente operato; per contatti, tutti i rapporti che ha avuto, sia per amicizia personale che per motivi conseguenti all’attività suddetta, con personalità del mondo politico, economico,
intellettuale ed anche con persone sospette o pericolose per gli interessi nazionali’”.
Si aggiungeva ancora:
“...’al Servizio interessa poter avere sempre un preciso orientamento sulle varie personalità che possono assurgere ad alte cariche pubbliche o comunque inserirsi o essere
interessate nelle principali attività della vita nazionale, in qualsiasi campo’ (lettera
datata 13 marzo 1959). In base a queste direttive sono state raccolte metodicamente
notizie sugli orientamenti politici delle persone, sui rapporti familiari, sociali e di affari, sui proventi finanziari e sulle attività economiche. Col materiale raccolto venivano
sovente formati dei “profili”, vale a dire dei succinti riassunti biografici della persona,
che esprimono un apprezzamento complessivo di essa. Questi profili, qualche volta,
venivano rifatti a distanza di tempo, con diverso orientamento, il che accentua il carattere arbitrario del modo di procedere dell’ufficio. Successivamente, all’incirca verso il
1960, la ricerca delle notizie si estende gradualmente anche alle particolari operazioni
affaristiche di dubbia liceità e perfino alle manifestazioni frivole; sono state ordinate
102
ed eseguite minuziose indagini, anche con documentazione fotografica, su relazioni
extra coniugali o comunque irregolari, sulla nascita di figli illegittimi, sulle consuetudini sessuali (le indagini qualche volta si estendono anche ai familiari). Nei fascicoli
si rinvengono, anche non di rado, degli appunti anonimi, che costituiscono documenti
singolari e deplorevoli per il loro carattere insidioso”.
“L’errore di impostazione nell’attività del S.I.F.A.R., contenuto in un primo
tempo entro limiti relativamente circoscritti, ha avuto in seguito conseguenze più
gravi, giacché è evidente, dopo il 1962, la ricerca di notizie che abbiano potenza di
nuocere alla persona a cui si riferiscono e che possano quindi costituire uno strumento
di intimidazione. Non soltanto sono state raccolte prevalentemente notizie lesive del
decoro delle persone alle quali si riferiscono, ma si nota anche una tendenza a deformare le notizie ricevute, al fine di accentuare il significato sfavorevole”.
Poi, deponendo davanti alla Commissione, il generale Beolchini ha affermato:
“Altra deviazione, che è stata notata, era quella dei controlli, dei pedinamenti di
queste persone, ossia la raccolta delle notizie avveniva attraverso sistemi che non
erano, diciamo, ortodossi, non solo, ma ferivano il principio stesso della libertà personale. Infatti si operavano pedinamenti, fotografie con teleobiettivi anche delle persone
che frequentavano, si operavano controlli della corrispondenza mediante sistemi clandestini, si controllavano le comunicazioni telefoniche oppure si applicavano apparecchi clandestini per captare e registrare comunicazioni. Tutte cose evidentemente illegali. Si cercava di riuscire a captare, tra gli informatori, degli amici, dei conoscenti
che avevano particolarmente consuetudine con un determinato personaggio e attraverso questi si cercava di sapere quale fosse il pensiero della persona sottoposta al controllo. E ciò evidentemente non è ammissibile perché quando un esponente politico
crede di avere vicino un amico con il quale esprimere certe confidenze, egli non
immagina che queste confidenze poi vengano registrate e fatte giungere sul tavolo del
suo avversario o a persone cui non dovrebbero arrivare. Insomma era tutto un sistema
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Ed il crescendo delle deviazioni è indicato con chiarezza nella citata relazione
Beolchini, nella quale si legge:
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“in particolare è stato riferito che ogni tanto veniva disposto dal capo servizio che si
formasse un estratto di alcune relazioni, senza indicazione, neppure abbreviata o convenzionale, della fonte; di questi appunti anonimi venivano fatte più copie, delle quali
una era inserita nei fascicoli, ed una o due trattenute dal capo servizio. Nessuna giustificazione plausibile può essere data a siffatto modo di procedere. Anche i rapporti
richiesti su determinate attività della persona sembrano qualche volta ispirare ad un
particolare intendimento. Talvolta, per maggiore rapidità e più segretezza, le indagini
venivano affidate direttamente dal capo del S.I.F.A.R. a speciali nuclei di ’pronto
intervento’ senza ricorrere alla solita trafila gerarchica e burocratica dei vari enti periferici. Da notare però che con tali sistemi vengono estromessi le valutazioni ed i controlli degli organi gerarchici, mentre gli stessi esecutori, sentendosi più liberi, possono
essere indotti, per zelo e deferenza, a fare tutto il possibile per non deludere le aspettative del superiore, magari forzando gli apprezzamenti e le deduzioni conclusive”.
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Ed ancora, sempre nella relazione Beolchini, si legge:
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che indubbiamente denotava un determinato indirizzo ossia una determinata volontà
di avvalersi di quella organizzazione per fini strumentali proprii”.
E successivamente:
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“Dirò di più: abbiamo constatato molte volte che questa raccolta era fatta con un
sistema particolare; ossia si propalavano le notizie che poi si raccoglievano, si creava
la notizia e poi la si raccoglieva”.
Alla domanda: “l’ordine di propalare e poi l’ordine di raccogliere le notizie risulta dallo stesso fascicolo?”, il generale Beolchini risponde: “Precisamente. Ci sono casi
specifici da cui risulta questo”.
Altra questione che merita essere sottolineata è quella relativa ai rapporti che
intercorrevano tra il S.I.F.A.R. e Potenze straniere. Su tale questione ha deposto il
generale de Lorenzo il quale ha affermato:
“Esiste, presso lo Stato maggiore della difesa, a latere del S.I.F.A.R., l’ufficio di
sicurezza del Patto atlantico, che garantisce la sicurezza e la segretezza dei funzionari,
cioè di tutti coloro che vogliono svolgere un certo lavoro, come abbiamo detto prima.
Questo ufficio è incaricato nel dettaglio di raccogliere le informazioni che poi danno
vita a questi fascicoli. Questi elementi, che sono al di fuori della struttura del
S.I.F.A.R., attingono le notizie direttamente dall’arma dei carabinieri. Infatti, l’autorità nazionale per la sicurezza, che è responsabile di tutto questo, prima che fosse il
capo del S.I.F.A.R. (cosa che avvenne nel 1952 o 1953, non ricordo bene), era il
comandante generale dell’Arma. Quindi, questo ufficio di sicurezza, che deve reperire
queste notizie, fa capo all’arma dei carabinieri, che svolge le indagini. Queste indagini
vengono fatte affluire o all’ufficio centrale o agli uffici ministeriali, con le considerazioni adeguate. Sulla base di queste considerazioni, se sono favorevoli, si dà il nulla
osta di sicurezza. Quindi, questo numero enorme di fascicoli è istruito e sviluppato da
questi uffici, con il concorso dell’Arma. Soltanto nel caso in cui, nelle indagini dirette
a conoscere se un individuo possiede sufficienti qualità per mantenere un segreto,
apparisse qualcosa che interessa il controspionaggio, la notizia relativa verrebbe
segnalata al S.I.F.A.R., che a sua volta la segnalerebbe ai centri interessati. La questione dei fascicoli, quindi, è una questione di sicurezza del Patto atlantico”.
E più avanti, parlando dei fascicoli dei religiosi:
“È stato chiesto all’ammiraglio Henke e al tenente colonnello Bianchi se il servizio ottemperava ed ottempera, per scambio di notizie, a richiesta di altre nazioni
dell’Alleanza e di nazioni e Stati con cui siamo in rapporti abbastanza stretti. Basta,
quindi, considerare fino a qual punto questa schedatura fosse valutativa e fino a qual
punto fosse richiesta. C’è da considerare che i rapporti con la Città del Vaticano erano
particolarmente stretti, specie durante il viaggio del Pontefice in Palestina. Se in questi contatti, evidentemente molto confidenziali, si sono avute delle richieste in questo
senso, è chiaro che il Servizio le avrà ricevute e avrà forse fornito dei dati, ma non è
stata un’iniziativa orrenda da parte del Servizio”.
104
Altro elemento importante accertato dalla Commissione è quello relativo all’avvenuta costituzione, nel S.I.F.A.R. e poi nell’Arma, di un vero e proprio gruppo di
potere. Detta costituzione si è realizzata mediante la creazione di rapporti anomali fra
queste due organizzazioni e all’interno di ognuna di esse, mediante promozioni e trasferimenti illegali di ufficiali, mediante una utilizzazione irregolare dei fondi stanziati
per il S.I.F.A.R. Inoltre questo gruppo di potere si è occupato illecitamente dell’attività dei partiti.
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3) COSTITUZIONE DI UN GRUPPO DI POTERE ALL’INTERNO DEL S.I.F.A.R. E
DELL’ARMA DEI CARABINIERI
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“Anche nello stesso ambiente del S.I.F.A.R. la Commissione ha riscontrato che
vi sono state notevoli deviazioni dalla corretta interpretazione delle norme militari, in
quanto le necessità istituzionali e funzionali dell’organismo venivano talvolta adattate
e condizionate alle esigenze strettamente personali. L’evoluzione dell’ordinamento
interno del S.I.F.A.R. è stata sovente condizionata alla volontà di porre o mantenere in
taluni incarichi-chiave una ristretta cerchia di ufficiali, costituenti un vero e proprio
gruppo di potere nell’interno del S.I.F.A.R. Anche la carriera di tali ufficiali è stata
influenzata dalla suddetta volontà. Infatti, per quanto riguarda l’ordinamento, la
Commissione ha accertato: il raggruppamento centro C.S. di Roma con 4 centri, pur
rimanendo nella stessa struttura organizzativa ed operativa, il 10 dicembre 1956 venne
declassato a centro C.S. di Roma; il 1° febbraio 1962 ritornò ad essere considerato
raggruppamento con i soliti centri posti al comando di ufficiali superiori invece che
inferiori. Con decreto del 24 settembre 1963 detto comando di raggruppamento centri
C.S. venne reso equipollente al comando di legione, di cui beneficiò il colonnello
Allavena che contemporaneamente deteneva la carica di capo dell’ufficio ’D’. Il
secondo reparto autonomo ministeriale (R.A.M.) – in pratica è il quartiere generale
del S.I.F.A.R. – rango battaglione, il 1° luglio 1960, senza alcuna variante di organico,
viene chiamato raggruppamento unità speciali (R.U.S.), rimanendo al comando di un
tenente colonnello. Con ordine di servizio interno del 3 maggio 1961 al comando del
R.U.S. venne posto un colonnello con alle dipendenze un vicecomandante tenente
colonnello o maggiore senza nessuna altra variante organica. E fu affidato al colonnello Viggiani che già reggeva la carica di capo dell’ufficio ’D’. Con decreto n. 526 del
16 ottobre 1961 il comando del R.U.S., ai fini dei prescritti periodi di comando per
l’avanzamento, venne reso equipollente a quello di reggimento. Il comando del
S.I.F.A.R. è retto sino al 1961 da un generale di brigata o di divisione di fanteria. Il
generale de Lorenzo, che aveva assunto il comando del S.I.F.A.R. dal 1° gennaio
1956 con il grado di generale di brigata, promosso generale di corpo d’armata il 2 febbraio 1961, restò al comando del S.I.F.A.R. sino al 14 ottobre 1962. Per quanto riguarda la carriera e l’impiego del personale, sono state accertate diverse singolari agevolazioni od arbitri veri e propri, per consentire la permanenza o l’accesso negli incarichichiave di taluni determinati ufficiali (generale Viggiani, generale Allavena, colonnello
Meneguzzer). In particolare per il generale Allavena, è apparsa sorprendente, oltre la
rapidità della carriera pur rimanendo nello stesso incarico, anche l’abbinamento per
circa tre anni, di due incarichi importanti e tra loro incompatibili di capo dell’ufficio
’D’ e di comandante del raggruppamento centri C.S. di Roma (controllore che controlla se stesso). Anche per il generale Viggiani e per il colonnello Meneguzzer sono stati
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Su questo argomento la relazione Beolchini così si esprime:
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accertati, tra l’altro, particolari agevolazioni per l’acquisizione del prescritto requisito
del periodo di comando del reparto corrispondente al grado. Per il colonnello d’amministrazione Tagliamonte, invece, è apparsa assai strana la lunga permanenza nel delicato incarico di capo ufficio amministrativo del S.I.F.A.R. (per la gestione contabile
dei fondi relativi alle spese riservate e di istituto), continuata per oltre 2 anni anche
dopo l’assunzione del nuovo incarico di capo ufficio programmazione e bilancio del
comando generale dell’arma dei carabinieri”.
La costituzione di un vero e proprio gruppo di potere, sopra descritta, consentì
ulteriori numerose degenerazioni, anche queste chiaramente emerse nel corso dei
lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta.
Vanno ricordati: l’impero conservato dal generale de Lorenzo sul S.I.F.A.R.
anche dopo la sua promozione a comandante generale dell’arma dei carabinieri, la
situazione di timore e di sospetto instaurata nel S.I.F.A.R. e nell’Arma, i rapporti
anormali instaurati fra l’Arma e S.I.F.A.R., l’uso non corretto dei fondi e numerose
deviazioni del S.I.F.A.R. dai compiti istituzionali, oltre quelle già precedentemente
denunciate.
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È la stessa relazione Lombardi che ne dà notizia, allorché in essa si afferma:
“Il generale de Lorenzo, anche da comandante generale dell’Arma, conservò
stretti legami con il personale del S.I.F.A.R. e continuò ad esercitare una notevole
influenza sul suo funzionamento allo scopo di continuare ad utilizzare le informazioni
del servizio ed anche per esercitare dall’esterno una azione di controllo sui quadri
dell’Arma. I successivi capi del S.I.F.A.R. e gli ufficiali del servizio non opposero
resistenza a questa situazione perché avevano fondati motivi di riconoscenza verso il
generale de Lorenzo (equipollenze, promozioni, gratifiche, lunghissime permanenze
nel servizio, ecc.). Il generale de Lorenzo nell’assumere il comando dell’Arma si fece
seguire da una decina di questi ufficiali a lui fedeli i quali finirono per creare una
atmosfera di timore e di diffidenza in una larga parte dei quadri. È da segnalare il caso
particolare del colonnello di amministrazione Tagliamonte, al quale fu affidato l’incarico di capo ufficio programmazione finanziaria presso l’Arma, continuando a mantenere quello di direttore amministrativo del S.I.F.A.R., abbinamento questo che fece
sorgere in molti il sospetto di una promiscua utilizzazione dei fondi del S.I.F.A.R. e
dell’Arma”.
Ed il colonnello Bittoni, nella sua deposizione alla Commissione parlamentare:
“Effettivamente, durante tale periodo, il S.I.F.A.R. continuò a funzionare sotto
l’influenza del generale de Lorenzo, il quale manteneva stretti contatti con i comandanti e con i capi centro C.S. Questo procedere poco normale aveva creato uno stato
di disagio tra molti ufficiali dell’Arma, i quali avevano la sensazione che spesso il servizio informazioni del S.I.F.A.R. agisse a loro danno presso il comando generale”
Ed ancora:
“Devo constatare con vivo rammarico che il regime di comando del generale de
Lorenzo aveva creato nell’Arma un senso di timore, di insicurezza e di sospetto, per
cui si erano determinate delle dannosissime fratture nelle relazioni tra colleghi e con i
106
superiori. Ciò avvenne soprattutto per l’azione deleteria di alcuni ufficiali dei quali si
era circondato, i quali, anziché frenarne l’azione esuberante, la alimentavano. Auspico
che l’Arma possa ritrovare quella compattezza spirituale e morale che è sempre stata
la sua più bella ed alta tradizione”.
“Era opinione generale che il S.I.F.A.R. praticamente continuava a dipendere dal
generale de Lorenzo ”.
Il generale Gaspari, deponendo davanti alla nostra Commissione:
“Quando il generale de Lorenzo ha lasciato il S.I.F.A.R. ha indicato il suo successore, il generale Viggiani, allora colonnello, che non aveva i titoli per essere promosso generale. Sono stati compilati documenti falsi, tanto che c’è una domanda di
autorizzazione a procedere contro il generale de Lorenzo per falso in atto pubblico”.
Per poter dominare sul S.I.F.A.R. e sull’Arma, il generale de Lorenzo ha fatto la
politica della carota e del bastone. Per la prima parte, oltre alle promozioni indebite di
cui si è già detto, si è fatto ricorso ad elargizioni non normali di denaro. A tale riguardo il generale Lombardi, deponendo davanti alla Commissione parlamentare, ha
dichiarato:
“Ho stralciato tutti coloro che hanno dichiarato che le somme da lui elargite
erano eccessive, erano grandi, erano delle somme che facevano stupire. Queste dichiarazioni si trovano nei vari verbali. Si supponeva che tutte le elargizioni provenissero
dal S.I.F.A.R. Questa ricchezza di elargizione di fondi non poteva derivare – dicono i
testi interrogati – dal normale impiego dei fondi dell’Arma, ma certamente provenivano da lì; tutto questo è stato legato alla questione della doppia amministrazione tenuta
dalla stessa persona, dal colonnello Tagliamonte, il quale aveva una mano in una cassa
e l’altra mano nell’altra. Si potevano fare dei travasi”.
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Ed ancora:
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“Desidero sottolineare lo stato d’animo di diffidenza, di timore a e di incertezza
che si era creato negli alti gradi dell’Arma”.
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E più avanti:
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“Era noto che il generale de Lorenzo prestava molta attenzione a quanto gli veniva riferito dai suoi fiduciari, organizzati o volontari, che sapevamo esistenti presso
quasi tutti i comandi dove anche i telefoni erano sotto controllo, il che aveva creato
una atmosfera di sospetto e di diffidenza”.
Mafia
Nella deposizione del generale Celi alla Commissione Lombardi:
In più, la munificenza delle elargizioni sopra indicate ha potuto trovare spazio
anche nel considerevole aumento dei capitoli di bilancio a disposizione del comandante generale dell’Arma per l’elargizione di premi e sussidi al personale dipendente
relativamente al periodo 1° luglio 1963-31 dicembre 1964, come attestato da lettera
del 18 maggio 1970 del ministro della difesa, agli atti della Commissione.
107
Mafia
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A documentazione poi degli ufficiali del S.I.F.A.R. che il generale de Lorenzo si
portò nell’Arma all’atto della sua nomina a comandante generale della stessa, in una
lettera del ministro della difesa in data 6 maggio 1970, sono indicati i nominativi del
colonnello De Forgellinis, del colonnello Filippi, del colonnello Palumbo, del colonnello Passaro, del colonnello Branco, del tenente colonnello Bruno, del tenente colonnello Buono, del tenente colonnello Consolo, del tenente colonnello Castellano, del
tenente colonnello Gentile, del tenente colonnello Giammaria, del tenente colonnello
Giallanella, del tenente colonnello Locatelli, del tenente colonnello Stabile, del tenente colonnello Terpolilli, del maggiore Menniti, del capitano Marzella. Crediamo sia
opportuno sottolineare il carattere eccezionale di un simile comportamento in quanto i
diversi ufficiali nominati comandanti generali dell’Arma portarono con loro solo e
soltanto l’aiutante di campo, come ebbe a dichiarare il colonnello Bittoni nella sua
deposizione del 28 aprile 1970.
L’altra faccia della medaglia è rappresentata dai trasferimenti punitivi. Nella sua
deposizione alla Commissione parlamentare, il generale Zinza ha, a questo punto,
dichiarato:
“Cominciarono così i trasferimenti. Ricordo questo episodio tristissimo del trasferimento dell’attendente del mio relatore tenente colonnello Guido Lamblet; si insinuò sulla vita di questo ufficiale, naturalmente”.
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E più avanti:
“Quindi cominciarono dei trasferimenti indiscriminati: il trasferimento del tenente colonnello Sarti Bruno dalla sera alla mattina da Milano a Pesaro; del capitano
Ferretti che – da poco aveva raggiunto la legione di Milano dalla Sardegna – fu trasferito in Calabria; del capitano Cardiota che fu trasferito a Vipiteno; del tenente che
comandava la tenenza di Porta Garibaldi, Rizzuto, il a quale aveva la moglie in stato
interessante e dovette partire nel a giro di pochi giorni senza alcun preavviso; in genere agli ufficiali si danno venti giorni di tempo per un trasferimento, ma questi trasferimenti avvenivano dalla sera alla mattina e, ripeto, sempre per segnalazione di individui interessati”.
Ed ancora:
“C’è stato il trasferimento del comandante del gruppo di Varese, il maggiore
Maioli, il trasferimento del capitano Eugenio Rotondo a Genova”.
E più avanti ancora:
“C’è stato il trasferimento del capitano Astolfi, aiutante maggiore in prima della
legione, alla legione di Genova, vi sono stati trasferimenti di sottufficiali a decine e
decine, sempre su segnalazioni di persone interessate. Vi è stato il trasferimento del
maggiore Racioppi dal nucleo di polizia giudiziaria di Milano ad un reparto della
Calabria, a Catanzaro”.
Sullo stesso argomento, il generale Perinetti ha deposto:
“Furono immediatamente trasferiti circa 80 tra ufficiali, sottufficiali e carabinie108
“Fra le realizzazioni dell’epoca, quella che suscitò la eco maggiore fu la creazione della brigata meccanizzata che, secondo le illazioni fatte in seguito, avrebbe potuto
costituire un potente mezzo operativo per un’azione a massa, ossia una forte riserva
nelle mani del comandante generale dell’Arma, impiegabile unitariamente ed eventualmente anche per fini non legittimi”.
E successivamente:
“La costituzione della brigata meccanizzata diede motivo ad illazioni varie, perché considerata come uno strumento di forza creato dal generale de Lorenzo per fini
non legittimi. Anche l’afflusso di alcuni reparti della brigata meccanizzata per partecipare alla rivista del 2 giugno 1964 fu considerata da taluni come un significativo e
pericoloso concentramento di forze nella capitale, tanto più che aliquote di mezzi e di
personale vennero, dopo la rivista, trattenute a Roma per il 150° annuale della fondazione dell’Arma, che ebbe luogo il 14 successivo”.
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I primi e più importanti rilievi critici alla costituzione della brigata meccanizzata
emergono dalla relazione della Commissione Lombardi. Vi si legge infatti:
Sindona
4) LA BRIGATA MECCANIZZATA
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ri. A quel tempo era comandante della legione carabinieri di Roma il colonnello Vacca
ed ha fatto una triste impressione il fatto che appena arrivato gli hanno dato una lista
di nomi di persone da trasferire immediatamente”.
Alla domanda: “Questo fu fatto dal comandante generale dell’Arma?”, il generale Perinetti risponde: “Sì, dal comandante dell’Arma; di quando era al S.I.F.A.R. non
ho saputo niente”. Alla domanda se vi era una ragione di questi trasferimenti o se si
trattava di cosa inspiegabile, risponde: “Il fatto stesso che, dopo appena quindici o
venti giorni dall’insediamento, il comandante generale dell’Arma faccia una lista di
trasferimenti, vuol dire, a rigor di logica, che c’era qualcuno che prendeva i nomi e li
inseriva in quella lista”.
Per quanto attiene ai rapporti anormali instaurati tra Arma e S.I.F.A.R., un aspetto di particolare gravità oltre a quelli già trattati nel capitolo relativo ai fascicoli, è
quello che si ricaverà da tutto il complesso di deposizioni – che verranno più oltre
specificate – che riguardano le liste di persone che nel 1964 dovevano essere arrestate: liste preparate dal S.I.F.A.R., che avrebbe dovuto altresì prestare la propria collaborazione direttiva nei confronti dell’Arma.
Sul modo stesso della costituzione della brigata meccanizzata, vi sono rilievi
molto seri prospettati nella deposizione del generale Gaspari davanti alla nostra
Commissione:
“Per la costituzione della brigata meccanizzata non è stato sentito il parere del
Consiglio superiore delle forze armate che è un organo tecnico il cui parere non è vincolativo ma indubbiamente è orientativo. Ora, probabilmente, in questo caso il
Consiglio superiore delle forze armate non si sarebbe espresso a favore del nuovo
ordinamento dell’arma dei Carabinieri. Questo procedimento è dissimile da quello che
è avvenuto successivamente. Cioè nel 1964, è stato presentato, elaborato da un alto
funzionario del Gabinetto del Ministero della difesa, all’insaputa dello stato maggiore
109
Mafia
dell’esercito, dal quale l’arma dei carabinieri dipende, un nuovo ordinamento
dell’Arma, per cui il comando generale avrebbe assunto la veste di un Ministero. Il
Ministro della difesa in quel caso ha passato il progetto al Consiglio superiore delle
forze armate per l’esame e per l’approvazione. Il Consiglio superiore delle forze
armate l’ha inviato, informando della cosa lo stato maggiore, a tutti i comandanti di
grandi unità che hanno espresso delle nuove obiezioni su questo nuovo ordinamento.
Dopo di che il Ministro della difesa ha ritenuto opportuno ritirare il progetto e non se
n’è parlato più”.
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E più avanti:
“La brigata meccanizzata è stata costituita in data 30 gennaio 1963 e l’ordine di
costituzione è del 1° aprile 1963. Ora, questa discordanza di date ha il suo valore poiché vi sono dei riflessi di carattere amministrativo e quelli riguardanti lo stato del
personale. Dal punto di vista amministrativo non si può costituire la unità se non c’è
l’ordine. Ora l’ordine specifico di costituire l’unità è del 1° aprile 1963. Viceversa la
brigata era stata già costituita 3 mesi prima”.
Moro
A richiesta di precisazione, il generale Gaspari afferma:
Sindona
“Io mi riferisco a degli atti ufficiali. C’è una lettera del comando generale
dell’Arma che costituisce la brigata il 30 gennaio 1963; c’è poi l’autorizzazione specifica di costituzione della brigata in data 1° aprile 1963. Sono documenti ufficiali”.
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Contraddittoria è invece la relazione Lombardi quando considera le ripercussioni
che la costituzione della brigata meccanizzata ha avuto sulla vecchia struttura
dell’Arma. Infatti, in detta relazione, in un primo momento si legge:
“Inizialmente la ristrutturazione dell’Arma suscitò qualche perplessità, specie fra
gli ufficiali più anziani e quindi più tradizionalisti, ma in seguito la maggior parte dei
quadri finì con l’accettarla con favore, anche se ne derivava come conseguenza diretta
la depauperazione delle stazioni, cellule vitali dell’Arma”.
E successivamente:
“La sua costituzione ebbe origine da necessità di carattere organico, addestrativo
e disciplinare e si limitò alla creazione dei soli comandi di reggimento e della brigata,
senza alcuna variazione di forza organica, di sedi e di dipendenze di impiego dei battaglioni”.
Questa contraddizione è colta anche dal generale Gaspari, il quale davanti alla
Commissione parlamentare dichiara:
“Per quanto riguarda la costituzione della brigata meccanizzata, devo fare qualche rilievo anche su ciò che appare dal rapporto del generale Lombardi in cui si dice
che la brigata meccanizzata è stata costituita con reparti e mezzi preesistenti, e quindi
non ha comportato alcun aumento di organico. Nello stesso rapporto è detto poi, invece, che l’arma dei carabinieri si è impoverita alla periferia, cioè nei comandi delle stazioni che rappresentano la forza vitale periferica dell’arma dei carabinieri. Tutto que110
Non occorrono molte parole per dimostrare tutta la inconsistenza di tale affermazione. È lo stesso generale Lombardi che ha riferito opinioni di ufficiali che consideravano la brigata come uno strumento costituito per fini non legittimi. E non è davvero
cosa facile pensare al generale de Lorenzo, o a chi per lui, che nella utilizzazione della
brigata per fini illegittimi si fermi davanti a precise norme e limitazioni.
Altrettanto inconsistenti sono le affermazioni di quegli ufficiali che hanno negato
la possibilità di impiego unitario a massa della brigata meccanizzata, adducendo il
motivo della limitazione del raggio di autonomia dei mezzi o addirittura quello di non
arrecare danno al manto stradale.
Da parte sua il generale Aloia, interrogato sulla possibilità di impiego della brigata meccanizzata in funzione di ordine pubblico, ha negato la possibilità di tale impiego
ed ha affermato che, in effetti l’impiego della brigata meccanizzata non poteva essere
che quello bellico e nessun altro.
Detta affermazione è smentita dal fatto che la brigata meccanizzata, contrariamente a quanto avviene per tutte le altre brigate dell’esercito, non fu costituita in brigata
accentrata unica ed invece fu costituita in reparti dislocati in parti diverse e distanti del
territorio nazionale.
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“La nuova unità così costituita, per ragioni di dislocazione e di dipendenze, non
poteva e non può consentire un impiego unitario a massa, anche perché l’impiego e gli
spostamenti dei suoi battaglioni sono rigidamente vincolati da precise norme e limitazioni del Ministero dell’interno e dello stato maggiore dell’esercito”.
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Altra questione rilevante è quella relativa alla possibilità di impiegare la brigata
meccanizzata ai fini dell’ordine pubblico.
Su tale problema il pensiero del generale Lombardi, espresso nella sua relazione,
è il seguente:
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sto è vero solo in parte, perché la brigata meccanizzata è stata costituita con battaglioni
preesistenti, ma questi si sono dovuti rinforzare dal momento che sono stati assunti in
carica dei carri armati che hanno quattro uomini di equipaggio. Quindi questi battaglioni per forza di cose hanno ricevuto un rinforzo organico. Il personale è stato inviato
presso scuole speciali e di addestramento alquanto complesso distogliendo un notevole
numero di persone dai compiti di istituto. Nello stesso tempo poi si sono costituiti
nuovi comandi. Noi sappiamo benissimo che, specie nell’arma dei carabinieri, c’è una
organizzazione burocratica alquanto pesante. Si sono perciò costituiti comandi, uffici
di informazione, coordinamento, operazioni, benessere, ecc. Tutti questi uffici hanno
richiesto l’assorbimento di personale specializzato e quindi di marescialli, di piantoni,
di dattilografi, ecc. Pertanto: appesantimento di mezzi e personale a detrimento dell’efficienza dell’Arma in periferia”.
Alla volontà di usare la brigata meccanizzata in azioni di ordine pubblico, crede
fermamente il generale Gaspari il quale, davanti alla Commissione, ha dichiarato:
“Per quanto riguarda poi la distribuzione dei mezzi corazzati alla brigata meccanizzata, io e molti generali non siamo dello stesso avviso perché, dato che l’arma dei
carabinieri pur essendo un’arma dell’esercito svolge eminentemente funzioni di polizia, non si vede a che cosa possano servire dei mezzi di cinquanta tonnellate nell’espletamento dei servizi di ordine pubblico. D’altra parte, come è sempre stato anche in pas111
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sato, l’arma dei carabinieri può richiedere, quando è necessario, dei mezzi dell’esercito per esigenze particolari. Se si pensa ad una situazione di emergenza in cui sia
necessario impiegare i carri armati, significa che la situazione è così compromessa da
richiedere il trasferimento dei poteri all’autorità militare che deve disporre dei mezzi
necessari a fronteggiare situazioni di particolare gravità”.
112
E che il generale Gaspari abbia ragione, e che ci fosse una stretta connessione fra
costituzione di un gruppo di potere all’interno del S.I.F.A.R. e dell’Arma, e l’apprestamento di uno strumento di particolare potenza ed efficienza, è dimostrato anche dal
fatto che la brigata meccanizzata, una volta costituita e fino ad un certo periodo, cioè
fino all’ottobre 1964, è stata continuamente alle dipendenze del comando generale
dell’Arma. Successivamente, e precisamente solo nell’ottobre 1964, quando cioè si
era chiuso il periodo della crisi politica dell’estate, la brigata non è stata più direttamente alle dipendenze del comando generale dei carabinieri, ma è passata alle dipendenze di un generale di divisione. Per quale motivo, allora, si adottò soltanto nell’ottobre 1964 un provvedimento che avrebbe dovuto essere immediatamente assunto?
Ma altre argomentazioni e conferme discendono dagli stessi atti ufficiali relativi
alla brigata meccanizzata.
Nella lettera inviata in data 27 gennaio 1963 dal generale de Lorenzo, allora
comandante generale dell’arma dei carabinieri, allo stato maggiore esercito, avente
per oggetto la richiesta di costituzione della brigata meccanizzata, è chiaramente scritto:
“è nelle mie intenzioni dare ai reparti mobili ed a quelli a cavallo dell’arma dei carabinieri un ordinamento rispondente alle moderne esigenze di addestramento e di impiego sulla base dei seguenti criteri: a) creare degli strumenti idonei, sotto ogni profilo,
ad assolvere i compiti operativi veri e propri di guerra e contemporaneamente quelli
connessi alla tutela dell’ordine pubblico in tempi di pace...”, e più avanti, sempre nella
stessa lettera: “concentrando i militari a cavallo ed i quadrupedi in reparti consistenti,
il cui impiego in massa – isolati o in cooperazione di reparti meccanizzati – è da ritenersi ancora valido in operazioni per il ristabilimento dell’ordine pubblico”.
In data 14 marzo 1963 il capo di stato maggiore dell’esercito inviò una lettera al
Ministro della difesa, con la quale si appoggiava la richiesta avanzata dal generale de
Lorenzo. Con successiva lettera del 30 marzo 1963, inviata al comandante generale
dell’Arma, dispose che fosse data attuazione alla costituzione della brigata, nei termini proposti dal generale de Lorenzo. Anche qui, stranamente, il benestare del Ministro
della difesa viene dato al capo di stato maggiore dell’esercito con fonogramma del 31
marzo 1963, cioè un giorno dopo che il capo di stato maggiore dell’esercito aveva già
dato disposizioni per la costituzione della brigata meccanizzata.
COMMISSIONE
PARLAMENTARE DI
INCHIESTA SUI FENOMENI DI
CRIMINALITÀ IN
SARDEGNA
LEGISLATURA)
Tra le varie Commissioni d’inchiesta di carattere legislativo
abbiamo scelto la relazione della Commissione parlamentare sui
fenomeni di criminalità in Sardegna, perché l’argomento oggetto
dell’inchiesta non ha, purtroppo, perduto di attualità.
La Commissione venne istituita con la legge 27 ottobre 1969, n.
755, in un periodo in cui gli episodi di sequestro di persona, e comunque
di criminalità, tipici della Sardegna, avevano assunto proporzioni assai
vaste e allarmanti.
Alla Commissione, composta da quindici deputati e quindici
senatori e presieduta dal senatore Giuseppe Medici, venne chiesto di
“proporre le misure atte a prevenirne le cause e a reprimerne le
manifestazioni” dopo avere esaminato la genesi e le caratteristiche dei
fenomeni della criminalità in Sardegna. Le si chiedevano inoltre: “di
proporre tutti quegli interventi pubblici organici e coordinati, che si
ravviseranno necessari al fine di superare l’attuale depressa situazione
socio-economica, specie nelle zone interne, in armonia con i criteri
obiettivi del Piano di rinascita della Sardegna”.
Prorogata due volte, terminò i suoi lavori con la presentazione
della relazione della maggioranza, relatore il senatore Medici (DC) e
della relazione di minoranza, relatore il deputato Pazzaglia (MSI), il 29
marzo 1972.
Dalla relazione della maggioranza pubblichiamo uno stralcio
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sulle misure di prevenzione e repressione e da quella di minoranza uno
stralcio sullo stesso argomento.
Si ricorda che alla relazione della maggioranza venne attribuito
il premio Grazia Deledda, per la saggistica.
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II
GENESI E CARATTERISTICHE
DELLA CRIMINALITÀ
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Dalla relazione (relatore Medici)
(pagg. 21-38)
Il banditismo sardo è un fatto che dura da secoli. Esso è strettamente legato alla
struttura sociale dell’Isola, e precisamente alla sua economia pastorale. Storicamente
esso nasce dal conflitto fra una società pastorale, che vive secondo regole tradizionali,
ed uno Stato di conquistatori, che vuole imporre le sue leggi. Basta risalire al secolo
scorso per cogliere gli aspetti ancora medioevali e feudali di ordinamenti locali che
hanno una loro antichissima origine, frutto dell’ambiente nel quale si venne organizzando la società sarda, fondata sulla famiglia e sul villaggio, nella quale sono state
sempre molto forti le tradizioni comunitarie.
L’ostilità del mondo contadino, e in modo particolare quella della società pastorale, alle leggi dello Stato unitario, sono facilmente comprensibili. Queste leggi,
orientate a favorire lo sviluppo della borghesia imprenditoriale artefice del processo di
unificazione nazionale, affermavano la proprietà privata della terra, e perciò entravano
in contrasto con una società che, per la sua arretratezza, non avvertiva ancora l’esigenza di superare le forme tradizionali di godimento e di coltura dei terreni. Così la
società pastorale doveva subire comandi, ordinanze, disposizioni che non comprendeva perché nate fuori del suo mondo, il quale aveva esigenze diverse e, soprattutto, più
semplici e antiche.
Le statistiche dimostrano che la criminalità sarda ha un andamento periodico,
collegato a momenti di crisi economica o a gravi squilibri sociali.
Un tempo la criminalità culminava regolarmente nell’omicidio. Verso la metà del
Settecento, con una popolazione di soli 500.000 abitanti, cioè un terzo dell’attuale, il
numero degli omicidi raggiunse cifre elevatissime: il Cattaneo parla di 1.000 omicidi
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1. ALCUNI DATI FONDAMENTALI
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in un solo anno; e anche se tale dato è di difficile documentazione, indica la eccezionale gravità della situazione. Nella prima metà dell’Ottocento il numero degli omicidi
si mantenne alto. La legge delle chiudende del 1820, e il successivo editto albertino,
del 1839, acuirono gli abusi fondiari, aumentando le occasioni di atti criminali.
Soltanto dopo il l850 si ebbe una diminuzione degli omicidi che passarono dalla
media di 246 all’anno del periodo 1831-1840 a quella di 142 del periodo 1850-1857.
Nel 1865, in chiaro rapporto con l’abolizione dei diritti di ademprivio, vi fu una
nuova recrudescenza della criminalità, la quale va anche messa in rapporto, come
dicono le cronache del tempo, con il fatto che la Sardegna era diventata il luogo di
residenza dei condannati al domicilio coatto, in seguito alla dura repressione del brigantaggio post-unitario.
Così, ad un periodo di relativa tranquillità che va dal 1880 al 1887, segue un
nuovo aumento della criminalità, che non è arbitrario mettere in relazione con la chiusura delle barriere doganali con la Francia, la quale arrecò notevoli danni alla pastorizia sarda: dai 148 omicidi del 1887 si passò ai 211 del 1894, e dalle 92 rapine alle
222. L’impiego di ingenti forze di polizia, deciso dal Governo nell’anno 1899, portò,
con la cattura di 60 pericolosi latitanti, un notevole miglioramento della situazione. Il
tempo in cui rivolgendosi al Conte di Cavour, Ministro dell’agricoltura, un deputato
della Sardegna al Parlamento di Torino, affermava: “Si uccide di giorno e di notte, si
uccide in piazza, in campagna, nelle case, all’uscire di Chiesa”, si può considerare
superato soltanto alla fine del secolo scorso Altri periodi di recrudescenza della criminalità in Sardegna si ebbero negli anni che seguirono alle due guerre mondiali, con
una accentuazione dei più gravi delitti contro il patrimonio. Gli omicidi restarono
sempre un fatto rilevante; ad esempio nel decennio 1960-69 vi sono stati in Sardegna
414 omicidi mentre in Piemonte, con una popolazione più che doppia, ve ne sono stati
254.
Così le recenti esplosioni di criminalità, verificatesi negli anni 1966, 1967 e
1968, confermano, con i sequestri di persona a scopo di estorsione, il ritorno di un
fenomeno ben conosciuto nel tempo, anche se esso si è manifestato con la concentrazione, nei tre anni citati, di ben 33 sequestri.
La recrudescenza di questo tipo di criminalità è da mettere in relazione anche
con il fatto che la costituzione della Regione e l’inizio dello sviluppo industriale, che
avviò una radicale trasformazione in tutto il Paese, non furono però accompagnati in
Sardegna da un processo di rinnovamento nelle campagne. Ciò aggravò gli squilibri e
le contraddizioni dell’area pastorale e determinò rilevanti ripercussioni sulla criminalità; la quale, però, trovando il suo centro nel mondo pastorale, si limitò a spostare i
suoi obiettivi: da un lato si aveva la caduta dell’abigeato (cioè del furto di bestiame,
tipico delle società pastorali) e la progressiva diminuzione dei danneggiamenti (taglio
di viti, sgarrettamento del bestiame, incendi di sughereti, oliveti, boschi), dall’altro
l’aumento delle estorsioni, delle rapine e, soprattutto, dei sequestri di persona.
2. I CENTRI DELLA CRIMINALITÀ
I fenomeni di criminalità tipici della Sardegna non si estendono a tutta l’isola
(anche se tutta la popolazione ne risente gli effetti dannosi), ma trovano i loro centri
nella Barbagia e nelle formazioni montuose continue, con qualche propaggine
nell’Alto Oristanese, nel Marghine e nel Goceano.
Il massiccio centrale del Gennargentu e le contigue contrade montuose sono il
teatro donde il pastore parte per la sua vita errante, alla perenne ricerca di pascolo, per
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– pascolo abusivo;
– contesa per l’acqua e avvelenamento delle fonti;
– furto di bestiame;
– danneggiamento del bestiame o delle coltivazioni;
– falsa testimonianza;
– delazione;
– violazione della parola data;
– solidarietà ed assistenza al nemico;
– motivi d’onore.
I reati tipici di questa criminalità, spesso esercitata con violenza feroce, con
estrema decisione, con raffinata astuzia, sono ben noti e si possono esaurire nei
seguenti:
– abigeato;
– danneggiamento;
– estorsione;
– rapina;
– sequestro di persona a scopo di estorsione;
– omicidio.
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È noto che sulla psicologia del pastore e del contadino sardo pesano le inevitabili
prepotenze di secoli di dominazioni straniere, accompagnate dai consueti privilegi
esercitati da una minoranza di potenti. Ed è altresì noto che i moventi della tipica criminalità sarda sono la vendetta e il lucro, spesso legati l’uno all’altro.
I fatti che danno occasione all’azione di vendetta sono da ricercarsi soprattutto
fra i seguenti:
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3. I REATI TIPICI
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nutrire il suo gregge. Nomade per nove mesi all’anno, non può avere una casa che sia
anche il centro della sua attività.
L’educazione che riceve, dominata dalla severità dell’ambiente e dalla durezza
dei rapporti con gli stessi familiari, lo rende chiuso e non sempre sensibile alle altrui
sofferenze. La sua concezione della vita non è quella di chi è cresciuto nel tepore
degli affetti familiari: il pastore barbaricino conosce soprattutto le sue esigenze immediate, che si identificano con quelle del suo gregge. L’insufficienza della produzione
foraggera, dovuta alle ricorrenti siccità, accresce le occasioni a compiere reati, specialmente da parte dei pastori costretti a spostarsi da un capo all’altro della Sardegna,
secondo i riti di un antico nomadismo; e sono proprio i piccoli pastori nomadi che
commettono la maggior parte dei reati caratteristici della criminalità sarda.
Mentre il furto di bestiame ed i danneggiamenti al patrimonio rustico stanno
subendo una progressiva diminuzione, l’estorsione, la rapina e, soprattutto, il sequestro di persona hanno segnato, specialmente nel triennio che va dal 1966 al 1968, un
preoccupante incremento.
Di questi reati (dei quali si farà un’analisi negli allegati) il più tipico è rappresentato dal sequestro di persona: la configurazione del terreno, l’esistenza di immense
contrade deserte, la facile creazione di basi logistiche efficienti, di luoghi adatti per la
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custodia del sequestrato, insieme con la tradizionale chiusa riservatezza della popolazione, favoriscono il ricorso a questo crudele mezzo di estorsione. Infatti, un ostacolo
fondamentale all’azione delle forze di polizia è costituito dall’atteggiamento delle
popolazioni, che difficilmente collaborano con gli inquirenti, sia per timore di rappresaglie, sia, più generalmente, per un sentimento di comprensione verso il bandito, il
quale, almeno nel passato, non era da tali popolazioni sentito come estraneo al proprio
mondo.
È da rilevare però che l’evoluzione dei tempi, sia pure lentamente e con alterne
vicende, incide anche nelle zone più interne, ove i ricordati reati sono più frequenti; e
lo stesso sequestro di persona, dopo la recrudescenza verificatasi nel triennio 19661968 (33 sequestri), è caduto a due sequestri nel 1969, a cinque nel 1970 e a tre nei
primi nove mesi del 1971.
Tuttavia, si cadrebbe in errore ritenendo che le cause profonde della criminalità
siano state eliminate.
4. CRIMINALITÀ E MONDO PASTORALE
Di fronte alla esplosione di episodi di criminalità, che per il modo in cui si manifestano riescono di difficile comprensione alla maggior parte del popolo italiano, lo
Stato ha reagito essenzialmente con mezzi di polizia. Il che era ed è inevitabile quando, in situazioni di emergenza, si tratta di garantire la sicurezza dei cittadini e il rispetto delle leggi; ma l’indubbia efficacia dell’azione di polizia non basta. È stato più
volte osservato, dagli stessi rappresentanti del Governo della Repubblica, che per far
fronte a situazioni eccezionali non debbono essere applicati in Sardegna misure e
mezzi diversi da quelli adottati, nell’ambito del quadro istituzionale, nel resto del territorio italiano; e che per far fronte a situazioni eccezionali occorre un intervento che
sia eccezionale per l’impegno, non per i metodi. Ma le cause profonde della tipica criminalità sarda dipendono dall’ambiente economico e sociale delle contrade interne
dell’Isola, tanto che il Presidente del Consiglio dei Ministri, on. Rumor, per contribuire alla soluzione del cronico problema del banditismo sardo, proponeva un disegno di
legge, approvato dal Parlamento, dotato di 80 miliardi di lire, assegnati alla Regione
per migliorare le condizioni della pastorizia.
Data la natura dell’ambiente fisico nel quale vivono le popolazioni che esercitano la pastorizia, e dato il riservato atteggiamento di gran parte delle popolazioni rurali, le Forze di polizia, per quanto efficienti, ben addestrate e munite di moderni mezzi
tecnici, non sempre riescono a superare le gravi difficoltà che incontrano, specialmente quando devono assolvere compiti di polizia giudiziaria e procedere alla ricerca
delle prove. Anche nel caso di persone chiaramente indiziate di aver partecipato a
gravi reati, riesce difficilissimo dimostrarne la colpevolezza, per la facilità con la
quale la vita pastorale, con le conseguenti lunghe assenze dai luoghi di abituale residenza, fornisce alibi.
Inoltre, nel considerare la criminalità in Sardegna, bisogna tener sempre presente
l’ambiente nel quale si manifesta: un’isola immensa, dominata da deserte montagne
inospitali, nella quale il 35 per cento della popolazione vive nelle città con più di
20.000 abitanti e il 65 per cento non vive nelle campagne ma in villaggi. Centri pastorali di importanza storica come Orgosolo, Fonni, Bitti, Orune contano da 5.000 a
6.000 abitanti. Le campagne sono completamente spopolate, ed i tentativi di nuovi
insediamenti rurali, ultimo nel tempo quello compiuto dall’Ente per le trasformazioni
fondiarie della Sardegna (ETFAS), sono quasi tutti falliti, anche perché condotti su
5. LA LATITANZA
Una delle cause principali di sfiducia delle popolazioni sarde nello Stato sta nella
lentezza dei procedimenti giudiziari. Anche per questo chi è incriminato di un delitto
cerca di evitare, con la latitanza, il carcere preventivo; il quale per il pastore, costretto
ad abbandonare il suo gregge, rappresenta la rovina economica.
Altra causa di latitanza è da ricercare nel fatto che, in un ambiente dove la popolazione è chiusa e riservata e non si ingerisce nelle vicende giudiziarie degli altri, solo
la libertà di movimento può permettere all’incriminato di indurre a testimoniare a suo
favore persone attendibili, e addirittura costringere con le minacce gli accusatori al
silenzio. A questi sistemi ricorre soprattutto chi è veramente colpevole per conseguire
l’assoluzione, almeno per insufficienza di prove. È vero che parte rilevante delle assoluzioni avviene “per insufficienza di prove”, ma troppi sono i casi nei quali un cittadino, dopo alcuni anni di carcere, viene riconosciuto innocente, perché si possa evitare
la latitanza: la tipica latitanza sarda, naturale scuola del banditismo.
L’esigenza di ridurre i periodi di detenzione preventiva è stata pienamente avvertita dal Governo, che ha presentato un apposito decreto-legge, tempestivamente
approvato dal Parlamento. Ma ciò non basta. Scarcerare un condannato all’ergastolo
con sentenza non definitiva, soltanto perché è scaduto il periodo massimo di detenzione preventiva, mette in libertà una persona pericolosa per la società. Essenziale quindi
è il buon funzionamento della Giustizia; il quale non è mai buono se è tardivo.
La latitanza – non sarà mai abbastanza ripetuto – costituisce la scuola normale
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aree limitate inesorabilmente sommerse nell’immutato ambiente circostante.
Chi percorre queste zone della Sardegna rimane colpito dal carattere di una realtà
ambientale che si è tentati di definire indomabile. Siamo di fronte ad un mondo naturale che ancor oggi, per almeno la metà del territorio, non può essere reso domestico.
In questo ambiente agro-pastorale di montagna, vive una popolazione ferrigna: soltanto gente di ferro può resistere ad un simile ambiente e amare la vita del pastore
nomade.
Per la stessa ragione l’impiego in massa di uomini e mezzi di polizia, come azione contingente per risolvere rapidamente una situazione allarmante, di solito non ha
avuto successo. Infatti, la prevenzione dei reati e l’azione repressiva di polizia giudiziaria, che comprende anche la cattura di latitanti, sono attività che richiedono tempo,
costanza e perfetta conoscenza dell’ambiente.
Solo con questo metodo fu possibile alle Forze dell’ordine eliminare, dal 1950 al
1954, la banda Liandru, che per sei anni era stata alla macchia, seminando il terrore
nel Nuorese e commettendo ogni sorta di delitti, tra i quali la proditoria uccisione di
nove carabinieri. La stessa opera è stata compiuta nel periodo che va dal 1964 al maggio 1971, tanto che il numero dei latitanti colpiti da taglia è sceso da 18 a 1, e quello
dei più pericolosi da 40 a 22.
L’impiego di consistenti forze di polizia può dare buoni risultati soltanto se lo si
integra e coordina con una penetrante attività informativa, prevalentemente svolta dal
personale addetto alla polizia giudiziaria. Questa attività, in Sardegna, trova la sua
base nella stazione dei Carabinieri, che, nelle zone nevralgiche, dovrebbe essere sempre affidata ad un capace e sperimentato sottufficiale. Occorre, dunque, rinforzare stazioni e squadriglie assicurando, nella stessa zona, per almeno cinque anni, la permanenza di provetti sottufficiali, così da far loro acquisire profonda conoscenza del terreno, delle situazioni e delle persone.
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della criminalità: l’incriminato che si dà alla latitanza è obbligato a vivere come un
bandito e quindi ad assumerne i caratteri. Moltissimi delitti avvenuti in Sardegna
hanno avuto per protagonisti dei latitanti e loro amici e nemici.
Se poi il latitante è cresciuto nel mondo pastorale, come quasi sempre accade, la
sua condizione di vita accentua e deforma alcuni elementi psicologici congeniali con
la gioventù rurale barbaricina, quali l’esasperato individualismo, l’orgoglio, il sentimento della vendetta: questi, d’altra parte, si trovano fra i motivi di una cultura che ha
saputo esprimere anche autentica poesia.
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6. PASTORI SARDI NEL CONTINENTE
Il migliaio di famiglie pastorali, che si sono trasferite con i loro greggi nel Lazio,
nell’Umbria e nella Toscana meridionale, nel corso degli ultimi dieci anni, salvo una
eccezione, non ha commesso reati qualificanti. Inoltre, questi pastori, quasi tutti barbaricini, hanno concorso, con il loro paziente lavoro, ad utilizzare terreni abbandonati,
recando un prezioso contributo alla economia agro-pastorale del Lazio e della
Toscana. Si è quindi portati a ritenere che alcune forme di criminalità, tipiche del
pastore sardo, si manifestino con difficoltà, o addirittura non si manifestino, quando
egli entra a far parte di una società più progredita; e che esse non derivino da specifiche attitudini ereditarie di quelle popolazioni.
Il processo storico che contribuisce a creare un ambiente economico e sociale
favorevole al crimine è molto complesso; ma è certo che esso, con anacronistici modi
di produzione, con frustrazioni e fatti di costume, prepara un “terreno” che, in qualche
modo, precocissimamente influenza la condotta degli individui e dei gruppi, facilitando, in determinate condizioni, alcune forme di criminalità.
Soltanto una radicale trasformazione dell’ambiente economico e sociale, e quindi del costume, potrà neutralizzare, almeno in parte, i fattori che contribuiscono a
favorire o a determinare la tipica criminalità isolana.
7. IL SEQUESTRO DI PERSONA
Il sequestro di persona a scopo di estorsione è divenuto, negli ultimi anni, il reato
caratterizzante la criminalità rurale in Sardegna.
Esso suscita viva emozione ed enorme allarme fra le popolazioni, non solo per la
sua efferatezza e la frequenza con la quale è compiuto, ma anche perché gli autori
quasi sempre restano impuniti. Infatti:
1) il sequestrato, durante la prigionia, subisce gravi disagi fisici e, soprattutto,
una crudele tortura psichica, che spesso avvicina il suo stato d’animo a quello di un
condannato a morte (negli ultimi anni, otto sequestrati sono morti o scomparsi durante
la prigionia);
2) dal 1950 al 1971 sono stati effettuati in Sardegna 80 sequestri;
3) limitando l’esame ai 38 sequestri effettuati dal 1966 al 1970, risulta che in soli
20 casi sono stati denunciati i presunti autori.
Il sequestro di persona non è nuovo nella storia della Sardegna. Il primo di cui si
ha notizia avvenne nel 1477 nella Baronia di Posada, ma si ha ragione di ritenere che,
con alterne vicende, esso sia stato sempre praticato, specialmente nelle zone pastorali.
Anche il sequestro di donne, di bambini e di persone estranee al mondo rurale non è
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Sebbene ogni sequestro abbia una sua storia, tuttavia, dallo studio della tecnica
usata nei vari casi, sono emerse alcune costanti. Esse sono:
1) l’individuazione della vittima e della possibilità di far pagare il riscatto;
2) lo studio delle abitudini del sequestrando, per poter scegliere l’ora e il luogo
più adatto per la cattura;
3) la preparazione del primo rifugio, nel quale nascondere la vittima subito dopo
il sequestro;
4) la predisposizione dei luoghi (grotta, anfratto, capanna, tenda o casa) dove
nascondere, in momenti successivi, il sequestrato fino alla riscossione del riscatto;
5) la scelta degli itinerari da percorrere, dei mezzi di trasporto, dei luoghi per gli
incontri con gli intermediari.
Tutto ciò dimostra che il sequestro di persona richiede una perfetta organizzazione e una lunga e paziente preparazione. Tuttavia non si tratta di una organizzazione
permanente perché, riscosso il riscatto, la banda si scioglie. Invero, in tempi recenti,
non si ha notizia dell’esistenza di bande permanenti dedite al sequestro di persona.
Inoltre, sembra da escludere che il sequestro di persona sia promosso da mandanti. Non solo ciò non è emerso dai processi finora celebrati, ma il ruolo del man-
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SEQUESTRI DI PERSONA IN ITALIA
(dal 1° gennaio 1968 al 31 agosto 1971)
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del tutto nuovo: nel 1894 a Gavoi furono sequestrati due commercianti francesi; nel
gennaio 1925 fu sequestrata e uccisa una bambina di dieci anni, residente ad
Aidomaggiore; nel luglio 1933 fu sequestrata e uccisa la figlia di sei anni del Podestà
di Bono.
Ma è soltanto nell’ultimo ventennio che il sequestro di persona è diventato il
reato dominante e caratteristico della criminalità isolana, tanto da rendere fondata l’ipotesi che esso sia sostitutivo dell’abigeato, della rapina e anche dell’estorsione semplice; reati che le nuove condizioni di vita sociale e i più efficaci mezzi di controllo e
di prevenzione hanno reso meno produttivi e di più difficile esecuzione.
La concentrazione delle spinte criminose nel sequestro di persona può essere
spiegata con il fatto che esso è il più redditizio di tutti i delitti contro il patrimonio.
Inoltre, mentre aumentava l’efficacia dell’azione preventiva e repressiva contro l’abigeato, la rapina e la grassazione, permaneva, con la pastorizia nomade, l’ambiente primitivo e deserto, che del sequestro è la condizione fondamentale.
Infatti, le indagini della Commissione hanno individuato nelle aree a prevalente
economia pastorale la condizione essenziale perché il sequestro venga effettuato con il
minimo rischio possibile.
L’estensione che il sequestro di persona, sempre a scopo di estorsione, ha avuto
in Calabria e occasionalmente in altre Regioni (Sicilia, Lazio e Liguria) conferma che,
affinché questo crimine possa essere consumato con successo, occorrono condizioni
ambientali analoghe a quelle che abbiamo descritto per la Sardegna.
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dante non dovrebbe trovare posto nell’organizzazione di un reato i cui promotori e
protagonisti possono essere soltanto coloro che lo eseguono.
Giova ripetere che nel sequestro di persona gioca un ruolo determinante la natura
del terreno. La complicata e tormentata orografia del Nuorese e del Goceano, dove nei
secoli sono stati nascosti latitanti e mandrie e greggi rubate, consente agevolmente di
nascondere una persona. La carta dei sequestri, predisposta dalla Commissione, dimostra che, qualunque sia stata la zona della Sardegna in cui sono avvenuti i 44 sequestri
del periodo 1965-1971, i sequestrati di regola sono stati custoditi e rilasciati in provincia di Nuoro o nelle zone limitrofe del Goceano e della Gallura. Infine, va rilevato che
i contatti tra intermediari e rapitori sono sempre avvenuti nella Barbagia.
Il fatto poi che il 95 per cento delle persone condannate quali autori dei sequestri
siano originarie di contrade pastorali del Nuorese, con netta prevalenza per quelle
della Barbagia, non lascia dubbi sul rapporto che intercorre fra il mondo pastorale ed
il sequestro di persona. Soltanto il pastore sa dove nascondere il sequestrato; soltanto
il pastore ha un alibi professionale perché non deve dar conto della prolungata assenza
dal villaggio in cui risiede la sua famiglia. Salvo poche eccezioni, i sequestrati sono
sempre stati nascosti in caverne naturali o capanni ubicati a breve distanza da un
ovile, che rappresenta l’indispensabile punto di appoggio per i rifornimenti di viveri e
per l’alternanza dei turni di guardia.
L’aspetto forse più drammatico e sconcertante, quello che dà alla banda un notevole vantaggio sulle Forze dell’ordine, sta nel fatto che, subito dopo la cattura, i familiari del sequestrato divengono fatalmente i complici degli autori del sequestro.
Essendo in gioco la vita dell’ostaggio, si crea un vivo interesse a soddisfare la richiesta di denaro fatta dai rapitori. A ciò si perviene a mezzo di contatti segreti di intermediari, senza la collaborazione delle Forze di polizia, il cui intervento, si ritiene, potrebbe compromettere l’operazione o addirittura l’incolumità del sequestrato. Così, per
timore di rappresaglie, dopo la liberazione, sia la vittima sia i familiari, di solito, continuano a tenere un comportamento reticente, che certamente non aiuta le indagini.
È dunque difficile prevenire il sequestro di persona, ed arduo scoprirne i colpevoli. Sarebbe, quindi, ingiusto attribuire all’insufficiente impegno delle Forze di polizia il diffondersi di questo crimine.
Il declino e l’estinzione del banditismo nell’Isola non possono essere frutto soltanto dell’opera di polizia: come sottolineò, nel 1967, a Nuoro, il Capo dello Stato,
dipendono dalla “congiunta opera delle riforme sociali e del rinnovamento del costume”. Ciò non esclude, tuttavia, che qualcosa di nuovo possa essere compiuto nella
prevenzione e repressione di questo tipico crimine.
In proposito la Commissione ritiene che di fronte ad una così alta specializzazione nel crimine occorra un’alta e qualificata specializzazione nell’attività di prevenzione e di repressione, così da garantire il coordinamento di tutti gli organi impegnati
nella lotta contro i sequestri di persona.
Il rimedio fondamentale per contenere questo tipo di crimine sta nel rendere
sempre meno sicuri dell’impunità gli autori. La remora è sempre venuta da processi a
carico di autori di sequestri, condannati a pene severe.
A scoraggiare i sequestri deve concorrere una costante e concorde azione di tutte
le Forze di polizia, sia nell’attuare un’assidua ed estesa vigilanza nelle aree rurali, sia
nell’intensificare la tradizionale attività investigativa.
Per soddisfare queste esigenze, la Commissione ritiene utile la istituzione, in via
sperimentale, di un Ufficio specializzato nella lotta contro i sequestri, composto di
ufficiali di Polizia giudiziaria (Carabinieri, Pubblica Sicurezza e Guardia di Finanza),
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Si afferma: i più recenti sequestri di persona dimostrano che il “bandito sardo”
ha perduto gli aspetti che, in tempi lontani, ne caratterizzavano le gesta, e si è trasformato in un comune criminale, che non ha ritegno a sequestrare, per fini di lucro, perfino donne e bambini.
L’osservazione è importante e quindi conviene esaminarla.
Va rilevato che le stesse affermazioni si fecero anche all’epoca della banda
“Liandru”, quando i fratelli Tandeddu, dal 1949 al 1954, abbandonando la tradizione,
in un certo senso rispettosa delle Forze dell’ordine, uccisero numerosi carabinieri. Va
inoltre ricordato che se nel passato la letteratura popolare circondò il bandito di un
alone di leggenda, tuttavia vi furono sequestri e uccisioni di donne e bambini.
Non vi è dubbio che le trasformazioni in corso nella società isolana hanno modificato anche le abitudini e i costumi della Barbagia; però non hanno inciso in profondità sulla società pastorale. Sinora i cambiamenti hanno soprattutto reso più acuto lo
squilibrio tra i valori tradizionali e quelli della civiltà urbana e, in particolare, fra l’arretratezza secolare e i moderni mezzi di comunicazione e di scambio.
Alcuni recenti episodi criminali (in particolare i casi Ghitti e Villahermosa)
hanno tutti i caratteri della criminalità di tipo urbano, e perciò sono soltanto dei nuovi
delitti che si aggiungono a quelli tradizionali.
La figura “romantica” del bandito appartiene, dunque, più al mondo dei miti
delle comunità contadine soggette a dominii feudali che alla realtà. Ancor meno fondata appare la tesi secondo la quale, oggi, i banditi sarebbero organizzati in associazioni permanenti, dirette da persone che vivono nelle città. Infatti, l’ipotesi dell’esistenza di una “anonima sequestri” è stata sfatata dalla magistratura; e se esistono organizzazioni con propaggini urbane, esse non rappresentano un fenomeno nuovo: il Pais
Serra, nel secolo scorso, osservava che in Sardegna le “centrali” delle bande non stavano in montagna fra i latitanti ma nei centri della Barbagia, e persino nella città di
Nuoro.
La Commissione è anche venuta a conoscenza, sia pure in modo indiretto, di lettere minatorie indirizzate a scopo di estorsione a facoltosi cittadini sardi. Ma questo
fenomeno, impropriamente definito “mafioso”, non ha legami sistematici con la tipica
criminalità isolana.
Quali sono, dunque, gli elementi nuovi della criminalità sarda? Il primo è da
individuare nella lenta ma avvertibile trasformazione del mondo pastorale; il secondo
nell’evoluzione della tecnica del sequestro di persona, che ha raggiunto un alto grado
di perfezione.
Queste considerazioni ci portano a concludere che la recrudescenza dei sequestri
e i recenti omicidi per vendetta confermano che la tipica criminalità sarda conserva,
per ora, i suoi caratteri fondamentali.
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alle dipendenze del Procuratore Generale della Repubblica.
8. NUOVI ASPETTI DELLA CRIMINALITÀ SARDA
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III
MISURE DI PREVENZIONE
E REPRESSIONE
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1. LE MISURE DI PREVENZIONE
È stato già detto che la criminalità sarda non ha alcuna analogia, per genesi e
caratteristiche, con la mafia siciliana; si deve aggiungere che questo parere è unanime,
e gli effetti dell’applicazione della legge n. 1432, del 1956, sulle misure di prevenzione, effettuata negli anni successivi al 1966, vanno visti in questa luce. Perciò la tesi da
alcuni avanzata, secondo la quale l’intensa applicazione di tale legge è stata la causa
della recente flessione avutasi nel numero degli atti criminali, deve essere accolta con
prudenza. Se è vero che l’applicazione di quella legge ha dato buoni risultati, la diminuzione del numero dei delitti avutasi negli anni successivi al 1966, come si era già
verificato nel passato, dipende da un complesso di concause, fra le quali vi sono certamente anche le azioni di prevenzione e di repressione nel complesso considerate.
Le misure di prevenzione, per loro natura, devono sempre essere applicate con
grande attenzione, e, soprattutto, è da evitare l’eccesso di zelo, in particolare nel ritiro
delle patenti di circolazione con automezzi, esercitando nello stesso tempo un’assidua
revisione amministrativa sia dei provvedimenti di diffida sia di tutti gli altri provvedimenti di prevenzione, compreso il ritiro della patente di circolazione con automezzi.
Queste considerazioni concorrono a spiegare perché la Commissione ritenga che,
per evitare di colpire persone il cui comportamento non risulti socialmente pericoloso,
il provvedimento di diffida debba essere assoggettato ad alcune limitazioni. In particolare si suggerisce che esso non debba avere, come ha attualmente, durata illimitata.
Pertanto l’autorità che adotta il provvedimento dovrà motivarlo ed indicare il termine
– non superiore a due anni – scaduto il quale il provvedimento perde la sua efficacia,
ove non sia rinnovato.
Ad evitare eccessi di zelo o errori da parte dell’autorità di Pubblica sicurezza, si
potrebbe ammettere il ricorso dell’interessato al Tribunale competente, entro un termine stabilito, senza che il ricorso sospenda l’efficacia della diffida.
2. AZIONE DI POLIZIA E CRIMINALITÀ
La genesi della criminalità tipica della Sardegna, dunque, è diversa da quella
della criminalità che troviamo nelle città e nelle campagne dell’Italia centrale e settentrionale; e non è mai di tipo mafioso. Con ciò non si vuol dire che anche in Sardegna
l’azione della polizia non sia decisiva nel garantire la sicurezza dei cittadini e il rispetto della legge; si vuole soltanto ribadire il concetto che, nel caso specifico della
Sardegna, per sradicare un dato tipo di criminalità pastorale, l’azione di polizia non
basta.
Se si considera che le forze di polizia di cui dispone la Sardegna, con una popolazione di un milione e mezzo di abitanti, sono pari ai due terzi di quelle di cui dispone la Lombardia con oltre cinque milioni di abitanti, si comprende perché si debba
cercare di contenere l’inevitabile aumento dei costi. Tanto più che tutti i servizi di
polizia in Sardegna costano complessivamente circa 17 miliardi di lire all’anno, che
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È pacifico che quando la criminalità è anche la conseguenza di una data realtà
sociale deve essere affrontata con profonde conoscenze, e le azioni di polizia, che
interessano le popolazioni, devono essere condotte con estrema attenzione. In particolare in Sardegna, dove è così vivo e geloso il senso della giustizia, è desiderabile che
l’impiego in massa di uomini e mezzi, che tende a sopravalutare gli aspetti tecnici dell’azione repressiva, sia evitato il più possibile.
Anche se i reparti speciali, formati da giovani idonei ad eseguire servizi di squadriglia nelle zone montane, talvolta hanno dimostrato una loro validità, è da ritenere
che, di regola, l’impiego in massa di militari sia sconsigliabile. A parte i modesti risultati che si ottengono, questo spiegamento di forze determina effetti psicologici negativi sulle popolazioni interessate.
Unanime è, invece, la richiesta di rafforzare gli organi di polizia tradizionali e,
in particolare, le stazioni dei carabinieri. Tanto più che, mentre è stata constatata
un’adeguata dotazione di mezzi tecnici e di trasporto (le eccezioni non devono fuorviare da questo giudizio generale, che resta valido), vi sono oltre cento stazioni bisognose di adeguata sistemazione.
Si impone, quindi, il generale miglioramento delle condizioni nelle quali operano gli organi di polizia giudiziaria e le stazioni dei carabinieri, la cui diffusione capillare e la cui lunga attività svolta nell’Isola, con generale apprezzamento della popolazione, consente di riconoscere in esse uno strumento efficace per la prevenzione e la
repressione della criminalità sarda.
L’impegno finanziario per migliorie alle caserme dei carabinieri ed ai commissariati di polizia (oltre che alle caserme della Guardia di finanza, che concorre alla
repressione di reati comuni) è valutato in due miliardi di lire, che potrebbero essere
assicurati aumentando gli stanziamenti ordinari dei Ministeri competenti, per la durata
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3. LE STAZIONI DEI CARABINIERI
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rappresentano quasi la metà delle disponibilità annue medie del Piano di Rinascita.
Nella prevenzione e repressione dei reati non si possono ottenere durevoli risultati
se lo Stato, in tutti i suoi organi – dalla Magistratura alla Scuola, dall’Amministrazione
finanziaria a quella regionale, comunale e via dicendo – non dà prova di un’alta efficienza e di una scrupolosa giustizia.
In particolare, dati i caratteri specifici della criminalità sarda, si chiede il massimo di efficienza nell’Amministrazione della giustizia; il che vale sia per la giustizia
civile, sia per quella penale. Ci troviamo di fronte a popolazioni che hanno un culto
profondo della giustizia, che impone grande serenità e severità di intervento.
Occorre anche prevedere la istituzione di servizi di medicina criminologica,
quale opportuno sussidio scientifico nella attività di prevenzione del comportamento
delittuoso e antisociale, affidata alla polizia.
La tempestività dell’azione giudiziaria potrebbe contribuire a prevenire, oltre che
a reprimere, i fenomeni più tipici del banditismo sardo.
Negli allegati si trova la documentazione delle carenze che presentano gli organici della Magistratura e degli uffici giudiziari e le relative attrezzature. Porvi rimedio
è facile ed è da ritenere che il Governo e il Consiglio superiore della Magistratura, già
investiti da questa Commissione, vi abbiano provveduto. Ma questo è soltanto un
aspetto, e forse non il più importante, di un problema che si risolve soltanto se coloro
che sono impegnati in questa fondamentale azione di civiltà adempiranno pienamente
il loro dovere.
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LE ORIGINI DEL FENOMENO
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Dalla relazione di minoranza
(relatore Pazzaglia)
(pagg. 577-592)
Il termine usato dal legislatore per stabilire una delle competenze della
Commissione di inchiesta è quello di “genesi”. Alla Commissione era infatti affidato
l’incarico di esaminare la genesi, ovverossia l’origine dei fenomeni di criminalità in
Sardegna, ed è da ritenere che al Parlamento interessasse conoscere l’origine degli
attuali fenomeni. Concetto che ci pare diverso da quello di causa, che è più restrittivo
in quanto indica ciò che produce per effetto la criminalità.
Ma poiché la specificazione delle cause, in indirette e dirette, immediate e lontane, può consentire di giungere egualmente a ricomprendere il concetto di genesi della
criminalità, questa distinzione può anche apparire soltanto formale.
Interessa piuttosto in questa sede evidenziare che il criterio seguito è stato di
ricercare le “cause profonde”.
Occorre fare un discorso un po’ ampio per giungere a spiegare il motivo di questa scelta.
La “Scuola positiva” assegnava alla delinquenza – di qualunque forma o categoria – una origine ed una natura biologica e fisiologica. Come conclusione ne traeva la
sua “fatalità” nonostante qualsiasi mezzo intimidativo o repressivo.
Ma la fatalità la stessa scuola faceva anche derivare da fattori fisici e sociali:
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TESI DEL SECOLO SCORSO
“Sono costituiti i primi da tutte le cause appartenenti all’ambiente fisico, aventi
efficacia nella diversa manifestazione dei delitti. Tali il clima, la natura del suolo, la
vicenda diurna e notturna, le stagioni, la temperatura annuale, le condizioni meteoriche, la produzione agricola.
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Risultano gli altri dall’ambiente sociale in cui vive il delinquente: come la varia
densità della popolazione; lo stato dell’opinione pubblica, dei costumi e della religione; la costituzione della famiglia ed il regime educativo; la produzione industriale;
l’alcoolismo; l’assetto economico e politico; l’ordinamento dell’amministrazione pubblica, della giustizia e della polizia giudiziaria; ed infine l’ordinamento legislativo in
genere, civile e penale”.
Da ciò traeva la scuola una serie di deduzioni: al variare delle condizioni fisiopsichiche, della popolazione, dell’ambiente fisico o sociale corrisponderebbe un variare
della quantità di crimini; pertanto ogni regolarità statistica degli atti umani arbitrari è
il prodotto di “cause costanti”. Le pene non avrebbero l’efficacia che loro si attribuisce contro il delitto; basterebbe confrontare la somma e la varia natura dei fatti antropologici fisici e sociali, favorevoli o contrari alla genesi del fenomeno criminoso per
rilevare la scarsa potenza della pena contro il delitto.
Pur non volendo attribuire al Ferri tutte queste opinioni, ricordiamo il rilievo che
in questa scuola egli ebbe. Il suo libro “Teoria della imputabilità e negazione del libero arbitrio” edito a Firenze nel 1875 fu salutato dal Lombroso quale un vero avvenimento della scienza italiana definendola svolta al lume del moderno positivismo filosofico e incamminata “verso nuovi e grandi orizzonti”.
Non ci assumiamo il ruolo di cultori della storia del diritto, della filosofia del
diritto o della criminologia; ci siamo limitati a qualche ricerca il cui frutto, modesto,
riportiamo.
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UN VECCHIO DISCORSO ADATTATO AL PRESENTE
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Fra le nostre ricerche, fra le nostre letture, ricordiamo “Difese penali” del Ferri;
ne conosciamo un volume, dal quale abbiamo tratto una parte dell’arringa dal titolo “I
socialisti e l’articolo 247 del Codice penale”, pronunziata il 9 febbraio del 1895
davanti al Tribunale di Roma.
Il Ferri merita di essere ricordato fra i modelli dell’oratoria forense del tempo.
Noi lo vogliamo ricordare con il brano dell’arringa di contenuto politico che ha per
sottotitolo, « L’evoluzione sociale come fatto naturale”.
Dopo aver descritto l’ordinamento sociale di allora ed essersi qualificato come
uno dei socialisti, avversari di quell’ordinamento, egli precisò:
“Avversari, dunque, di questo ordinamento sociale; ma non perché noi crediamo
che le sanguinose ingiustizie sociali del mondo presente siano l’effetto della malvagità
di individui o di classi, che anzi, nella disciplina scientifica del socialismo che prende
nome da Carlo Marx – perché egli nel campo dell’economia sociale portava la luce di
quel determinismo naturale, che Darwin e Spencer hanno portato nel campo della biologia e della sociologia – noi crediamo che ogni società umana, per ogni ambiente
geografico ed in ogni momento storico di sua vita, non è che il prodotto della società
precedente così com’essa è, e non può che essere, l’incubatrice nel suo seno di società
future, che la supereranno per tanto di giustizia e di civiltà, per quanto essa è superiore
alle forme sorpassate di sociali ordinamenti.
E la causa determinante di questo ordinamento sociale, – che malgrado gli innegabili progressi non giunge ad assicurare il diritto alla vita per ogni lavoratore, che si
dice libero, ma è meno sicuro dello schiavo antico, se a questi l’interesse patrimoniale
del padrone assicurava per lo meno il pane quotidiano, – la causa profonda (la sottoli-
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La lunga citazione ed il richiamo alla scuola positiva, non hanno lo scopo di
aprire un dibattito di ordine filosofico o criminologico. Tuttaltro! Hanno lo scopo di
evidenziare come la ricerca delle “cause profonde”, – termine del Ferri – nelle modificazioni del regime della proprietà terriera, e le conclusioni cui giunge la maggioranza
per affrontare il problema del mondo pastorale, trovino collocazione puntuale nella
logica marxista.
Ciò per dire altresì che se la ricerca e le conclusioni alle quali si giunge da parte
della maggioranza sono da collocare “nella disciplina scientifica del socialismo che
prende nome da Carlo Marx” – per usare sempre parole del Ferri – le parti della maggioranza che a tali discipline si ispirano hanno operato nelle linee della loro cultura,
del loro pensiero, dei loro principi; e che le parti della maggioranza che a tale disciplina dicono di non ispirarsi (e che anzi dichiarano di avversare) non hanno agito nelle
linee del loro pensiero, dei loro principi, ma tali principi e il loro pensiero hanno
abbandonato per accettare le impostazioni altrui.
Non intendiamo, con ciò riallacciarci alla polemica della “Scuola positiva” che
rilevava la scarsa potenza della pena fino a quel momento incontestata.
Le nostre proposte in ordine alla modificazione delle pene per qualche reato di
cui a questa relazione o ad altre iniziative, hanno quale motivo la esigenza di “proporzionare” la pena al danno.
Ci rendiamo ben conto, infatti, che la certezza della impunità supera ogni timore
della pena, grave o lieve che sia.
Quando parliamo di insuccesso delle azioni criminali ci riferiamo a tutto quel complesso di misure (delle quali le pene sono parte) che costituiscono lo strumento organico
di prevenzione della criminalità. Ci riferiamo alla scoperta dei criminali, alla presenza
attiva dei poteri dello Stato che impedisce i reati, alle possibilità di protezione (più esattamente alla sicurezza) di chi denunzia o parla, alla collaborazione – ricercata o volontaria – delle popolazioni, cioè alle azioni e reazioni della società e della sua organizzazione pubblica, alla cui mancanza diamo un valore ed un rilievo fondamentali.
Se nelle Barbagie e nel Goceano il cittadino onesto fosse sicuro denunzierebbe le
estorsioni.
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neatura è del relatore) di ogni male e di ogni iniquità noi additiamo nella proprietà
individuale, che assoggetta al monopolio economico, politico e giuridico di pochi proprietari o capitalisti l’esistenza delle moltitudini di lavoratori manuali e intellettuali,
dal contadino al giudice, cioè l’esistenza dell’intera società; che si è veduta dal comunismo dell’umanità primitiva sequestrare nelle mani di un’infima minoranza, la terra,
sorgente col lavoro, di ogni ricchezza, base fisica dello stesso organismo sociale e
della natura non creata a vantaggio esclusivo di alcuna classe privilegiata.
Ma per quella stessa evoluzione naturale delle società civili per cui dalla originaria proprietà comune sorse il regime del feudalismo economico e politico e da questo
l’ordinamento moderno dell’assoluto individualismo, per cui la terra è giuridicamente
mobilizzata al pari della fede di credito che la rappresenta, come per le leggi
d’Australia; così noi vediamo che dal regime individualista giunto agli estremi ed agli
eccessi della ricchezza nei pochi e della miseria nei più, dovrà svolgersi un ordinamento economico, in cui la terra e i mezzi di produzione ridiventino proprietà collettiva o sociale, e sia così ad ogni creatura umana assicurata, coll’obbligo del lavoro, l’esistenza quotidiana – con evidenti, progressive modificazioni, per contraccolpo e adattamento dei sentimenti e delle idee negli individui come delle istituzioni politiche e
giuridiche nell’intera società”.
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Se nelle Barbagie o in qualunque contrada dell’isola il cittadino fosse sicuro fornirebbe la prova delle gesta criminali.
Se in Sardegna anche i più pavidi fossero sicuri, forse fornirebbero all’Autorità
giudiziaria o di polizia elementi più validi per le indagini.
Se in tutta l’Italia i cittadini fossero insicuri, a quell’episodio che riferiremo parlando delle Corti di Assise, se ne accompagnerebbero altri, a centinaia.
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UN PIÙ ANTICO RIFERIMENTO
Aggiungiamo ora una prova storica della non originalità della tesi di una criminalità determinata o causata dal conflitto fra mondo pastorale ed ambiente esterno; sta
nelle righe che Alberto Ferrero della Marmora (pag. 307 del Viaggio in Sardegna,
Edizione il Nuraghe 1926 – Prima parte) dedica alla lotta fra i pastori e gli agricoltori.
Egli scrisse, all’inizio del secolo scorso, che gli sembrò quello del suo viaggio il
momento “decisivo della lotta fra gli agricoltori ed i pastori per cui son passate tutte le
nazioni civili, colla sola differenza che nella maggior parte delle altre regioni ciò è
avvenuto da parecchi secoli”.
Dopo aver rilevato che nella Nurra ed in Gallura però già si coltivavano le campagne e che queste erano già popolate, che l’isolamento dei singoli era in fase di rottura con “l’aiutarsi mutuamente nelle loro occupazioni agricole”, conclude con questa
affermazione: “I delitti causati da vendette, risultato ordinario della vita pastorale, ed i
furti di bestiame diminuiranno con l’aumentare del numero dei coltivatori, che sono
pacifici per istinto e per interesse”.
Ci sembra poter cogliere in questa previsione del secolo scorso proprio qualche
elemento di alcune antiche utopie che trapiantate nei giorni di oggi hanno non soltanto
dell’anacronistico, ma del superficiale.
Per essere precisi il Lamarmora aveva ragione per il delitto di abigeato che egli
ha indicato; perlomeno parzialmente i fatti gli hanno dato ragione.
Ma la terapia valida allora e solo parzialmente (cioè solo per quel delitto) non
può essere adattata ai fenomeni di criminalità attuali (che certamente non sono causati
o determinati dal conflitto fra i proprietari e gli agricoltori), neppure se la terapia
viene operata su strutture in larga parte modificate; ed ancor meno si potrà rivelare
sufficiente per la eliminazione della criminalità in genere
LE NOSTRE TESI
La ricerca della origine della esplosione del fenomeno di criminalità del quale ci
occupiamo e che ha suggerito la costituzione di una Commissione Parlamentare di
inchiesta, può anche suggerire, a sua volta, un esame ampio delle condizioni della
sicurezza pubblica o dei fenomeni di criminalità in un recente o lontano passato, ma
deve essere fatto prevalentemente con un’indagine sui fatti, sulle situazioni e sulle
condizioni più vicine al fenomeno stesso. Ciò per evitare che si confondano fenomeni
di criminalità diversi e che per seguire strade, raggiungere obiettivi prestabiliti, vengano collocati tutti i fenomeni a qualunque epoca riferibili nello stesso calderone senza
riuscirne a filtrare gli elementi essenziali, né a ricavarne le eventuali componenti o
caratteristiche comuni, se ve ne sono.
Vi è stato e vi è un ambiente, in Sardegna, che è certamente quello entro il quale
si sono verificati i più gravi delitti: è l’ambiente delle montagne disabitate, dei paesi –
non tutti si badi – che attorno ad esse sono collocati e le cui popolazioni svolgono in
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La Sardegna registra nel quadriennio 1890-1893 rispetto a ogni altra regione
d’Italia l’indice più alto per ogni delitto in relazione alla popolazione (escluse le rapine e le estorsioni per una lievissima differenza in più della Sicilia). Si tratta di un triste primato.
In periodi più recenti, nonostante l’incremento sensibile della popolazione, si
ebbe una diminuzione rilevante dei più gravi delitti e se si esaminano le statistiche
attuali si può affermare che i livelli dei delitti commessi in Sardegna non sono elevati;
ve ne sono piuttosto alcuni tipici o più frequenti, che destano maggiore allarme ed
hanno caratteri particolari di pericolosità.
A conforto di queste affermazioni basta citare la stessa tabella che la maggioranza riporta all’inizio della propria relazione per evidenziare una costante diminuzione
degli omicidi dal 1890 in poi e per un periodo di oltre 50 anni con un calo enorme nei
decenni 1920-1929 e 1930-1939, a fronte di un aumento notevole e costante di popolazione.
Si registra poi una impennata post-bellica che eleva i delitti di omicidio, indicati
nella statistica del decennio 1940-49, a 1.544. Nello stesso periodo di tempo vengono
commesse estorsioni e rapine stradali in misura tanto elevata che le statistiche non
offrono confronti in altri periodi.
Vi sono stati, nei periodi considerati da queste statistiche, episodi caratteristici se
non storici della criminalità sarda.
Ne citiamo qualcuno.
Agli inizi di questo secolo ad Orgosolo due famiglie, quella dei Succu e quella
dei Corraine, dettero vita ad una feroce contesa essendo l’una ritenuta favorita dalla
giustizia, l’altra oppressa. In questa contesa furono travolti, per cause che appaiono
futili ad un ambiente diverso a quello nel quale si verificarono (questioni ereditarie,
rifiuto di un matrimonio etc.) altri gruppi famigliari, e la contesa cruenta diede luogo
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GLI INDICI DELLA CRIMINALITÀ E VECCHI EPISODI
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montagna l’unica o la prevalente attività che in esse si può esercitare: il pascolo
brado.
Quei territori, detti ambienti, in un passato più lontano, furono più ampi di quelli
entro i quali i fenomeni di criminalità si verificarono in un periodo più recente: le
montagne della Gallura, per fare un esempio concreto, hanno cessato da tempo di
essere frequentemente teatro di feroci delitti.
Sempre sono stati luoghi o ambienti ove il delitto è più frequente che in altre
zone, quelli delle Barbagie. Non si dovrebbe escludere del tutto il Goceano.
Ma neanche queste regioni geografiche esauriscono l’aerea della delinquenza,
non soltanto nel senso di area di operazioni criminali in passato o nel periodo più
recente; perché altre zone, di pianura o di collina, con mentalità e abitudini diverse o
con popolazioni che operano attività analoghe, sono state infestate da ogni tipo di
delitto.
Abigeato, pascolo abusivo, omicidi, rapine stradali, estorsioni, brigantaggio in
genere hanno avuto luogo – seppure in tempi diversi – in tutto il territorio dell’Isola,
anche in quello non a prevalente economia pastorale.
Certamente dei latitanti – che quasi sempre divengono banditi – sono state infestate soltanto le montagne, ma le montagne di ogni zona. Persino il Sulcis, zona povera, ma non teatro di gravi e frequenti delitti, ha avuto ed in tempi recenti, i latitanti nei
suoi monti; così il Sarrabus.
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ad una serie incredibile di omicidi per vendetta, di devastazioni, di sgarrettamenti, di
sequestri di fanciulli, in breve di distruzione di uomini e di beni dell’una e dell’altra
parte, ai quali seguirono gli arresti ed i giudizi ed agli arresti ed ai giudizi altre vendette.
Il tutto avvenne senza che la polizia riuscisse ad impedire le stragi e le distruzioni, perché, in realtà, la popolazione, per paura o nella convinzione che questi, in
fondo, stessero compiendo la giustizia che era stata negata, era favorevole ai latitanti.
In realtà da questa complessa vicenda che va collocata nel tempo e nel luogo in
cui avvenne, si può trarre il convincimento che l’atteggiamento della popolazione
ritenne lecito il “farsi giustizia da sé” da parte di chi si riteneva colpito da ingiustizia.
Nel dopoguerra, insieme al perdurare del fenomeno dell’abigeato che si ridurrà a
limiti modesti soltanto in tempi più recenti e cioè attorno al 1960, inizia il periodo
quasi decennale delle rapine stradali compiute da grosse bande armate, con strage di
carabinieri di scorta alle auto che trasportavano il denaro da rapinare.
LE CARATTERISTICHE DEI CRIMINI
Gli autori di queste stragi e di queste rapine sono sicuramente appartenenti alle
zone della Barbagia e anche allo stesso paese di Orgosolo; ma le caratteristiche dei
delitti, le cause che li determinano ed i successi conseguiti dai banditi non hanno niente di comune con i delitti della “disamistade” orgolese; così come è difficile trovare
identità di cause con omicidi e rapine che in altri tempi o in altri luoghi sono state eseguite, in episodi di vendetta conseguenti ai giudizi.
Da queste statistiche e da questi esempi deriva subito una prima considerazione:
non può essere condivisa la tesi secondo la quale il mondo pastorale reagisce alle crisi
economiche con efferati delitti e che il “ciclo” si riapre allorquando queste crisi si
verificano. Ancora meno può essere condivisa la tesi secondo la quale il pastore delinque per superare una propria difficoltà finanziaria.
La prima tesi, di estrazione materialistica, confonde la reazione alla crisi economica che si estrinseca in non gravi reati, con eventuali ritorsioni ai reati non gravi
compiute con reati più gravi; può esservi una coincidenza di tempi fra crisi economica
e delitti efferati ma non un rapporto diretto di causa ad effetto.
La seconda, nonostante prospettata ad alto livello, non corrisponde alla verità,
perlomeno su un piano generale; sembra espressione di un mancato approfondimento
del fenomeno ed il modo spicciativo per dare una giustificazione ritenuta gradita alla
maggioranza che quasi certamente neppure la condivide.
Dicevamo, all’inizio, che i fenomeni di criminalità del passato differiscono dai
fenomeni di criminalità attuali.
Appare una forzatura il ritenere che il mondo pastorale che è stato recentemente
impegnato nei sequestri di persona, abbia agito in relazione a spinte che sono comuni
o analoghe a quelle che hanno determinato altri crimini nel passato; così come appare
scarsamente attendibile che il mondo pastorale che si ritiene – non con precisione –
fermo alle condizioni di vita primitive a fronte di una società che si è evoluta abbia
reagito con siffatto tipo di partecipazione ai delitti, agli evidenti ed incontestabili squilibri di carattere sociale.
In primo luogo le analogie non esistono; inoltre per quanto primitive siano le
condizioni del mondo pastorale, una trasformazione è avvenuta in larga parte di esso
e, in senso relativo, in tutto lo stesso mondo pastorale; infine perché il tipo di delitto
scelto, non corrispondente a quelli tipici della più lontana criminalità imporrebbe di
sostenere, per giustificarlo come reazione, la volontà di realizzare una giustizia socia-
le non ottenuta. Il che è assurdo, salvo che non si ritenga una matrice politica del
fenomeno che recenti scoperte possono anche ritenere, in qualche caso, possibile.
Resta da spiegare perché nei sequestri di persona è impegnato il mondo pastorale, di quelle particolari zone dell’isola che sono le Barbagie.
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Si badi che l’accertamento giudiziale di responsabilità in ordine ai sequestri non
comporta che tutti i partecipanti siano stati incriminati o riconosciuti colpevoli; il che
lascia spazio al dubbio che anche elementi estranei a questo mondo vi abbiano partecipato. Così non deve essere sottovalutato che di numerosi sequestri non si conoscano
gli autori, che potrebbero essere di estrazione diversa da quella pastorale.
Ma anche a voler ammettere – contrariamente alla realtà – che siano da ritenere
impegnati nei sequestri soltanto gli appartenenti al mondo pastorale non si può da ciò
dedurre che è l’arretratezza economica e sociale di tale mondo a determinare il reato.
Sono i luoghi, le mentalità, le particolari predisposizioni che facilitano o consentono la delinquenza, sono i silenzi che la coprono elementi sicuramente facilitanti, se
non condizioni essenziali allo sviluppo della attività criminale.
Sono stati i provvedimenti mancati a stimolare la emulazione dopo i primi sequestri; la mancanza di insuccessi a non dissuaderli.
Ma soprattutto la presenza nel 1966 di numerosissimi latitanti nelle montagne è
stata la condizione trainante che ha determinato l’ondata ed ha impegnato nel delitto
uomini che, diversamente, avrebbero vissuto del loro duro ed onesto lavoro. Si calcolano intorno ai 150; nel 1967, agli inizi, i latitanti erano 139.
Se il latitante è quasi sempre un bandito, non sempre alla latitanza si dà chi ha
commesso un delitto. Lo abbiamo già detto.
È vero però che la latitanza porta a delinquere, degenera progressivamente.
Ciò occorre tenere presente per spiegare l’insorgere di quello che viene definito
un fenomeno ciclico della criminalità in Sardegna; noi crediamo invece fondatamente
che all’accrescersi del numero di latitanti sia da collegare strettamente l’accrescersi del
numero dei crimini e la “riesplosione” periodica dei fenomeni delinquenzali, e troviamo quindi una connessione con il rallentamento della prevenzione e della repressione.
Anche la “impennata” post-bellica ricordata prima, per chi ha conoscenza – ed è
nozione comune – della situazione della P.S. all’indomani dell’ultimo conflitto, è
legata alla presenza nei monti dell’Isola di numerosi latitanti e – lo diremo fra poco –
all’insufficienza della prevenzione e della repressione, alla certezza, nei banditi e nelle
popolazioni, della impotenza dello Stato e della mancanza di protezione.
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I SEQUESTRI DI PERSONA E GLI AUTORI
LA PRESENZA DELLO STATO
In sedi politiche il fenomeno della criminalità è stato considerato assai spesso
quale motivo per richiedere la adozione di misure di prevenzione indiretta e cioè di
trasformazioni economiche e sociali; ciò può essere stato determinato dalla aspirazione comune a tutti i sardi di vedere una Isola che ha perso nel periodo 1950-1970 oltre
150.000 abitanti per emigrazione definitiva (e che in precedenza non aveva mai conosciuto la emigrazione) evolversi verso livelli di progresso e di benessere che tuttora le
sono negati. Ma all’analisi di una Commissione parlamentare di inchiesta con compiti
specifici, non possono sfuggire le considerazioni da noi fatte, in relazione alle quali le
responsabilità di ordine politico nella prevenzione e nella repressione che siano stati
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determinanti od anche soltanto elementi concorrenti nella esplosione di criminalità
della quale ci occupiamo, debbono essere oggetto di esame.
Non intendiamo dire che lo Stato deve essere presente soltanto con i Carabinieri,
la Polizia, la Magistratura. Sia chiaro!
Intendiamo dire che laddove la mancata applicazione della legge non punisca i
colpevoli dei reati, là vi è spazio per le operazioni criminali ed in fondo ne è uno dei
supporti fondamentali, determinando, la insufficiente o carente protezione dello Stato,
la certezza, per il delinquente, della impotenza dello Stato medesimo e quindi della
impunità.
Cioè è la assenza dello Stato in tutte le sue espressioni, elemento rilevante nelle
esplosioni di criminalità.
E potremmo aggiungere, per valutare anche sul piano della storia, i fenomeni di
criminalità dei secoli scorsi, che i delitti compiuti in quei tempi non possono essere
interpretati alla luce del materialismo. All’inizio di questo secolo il brigantaggio, la
mafia, la criminalità in generale infestavano tutta l’Italia; la scomparsa successiva (o
la riduzione perlomeno), indiscussa e statisticamente provata, ed il ricomparire o il
riesplodere nel dopoguerra, altrettanto indiscussi e statisticamente provati, degli stessi
o di simili fenomeni, escludono la validità di una interpretazione fondata sulla mitologia sociologica. Uno Stato che non imponga la sovranità della legge non potrà sperare, di debellare la criminalità; qualunque sia la situazione economico-sociale.
L’esplosione di criminalità recente in Italia è una delle convalide di questa tesi.
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LA RICERCA DELLE “CAUSE PROFONDE”
Dicevamo che spesso il discorso sulle cause della criminalità ha portato verso la
ricerca di particolari condizioni economico-sociali. Pare che tale indirizzo sia stato
seguito prevalentemente dalla maggioranza della Commissione d’inchiesta.
Sulle cause della criminalità il processo logico che ha seguito la maggioranza
muove da una premessa che non può essere condivisa e cioè che ad un tipo di reato
più frequente in una zona del territorio debba corrispondere una “causa profonda”.
Dimenticando anzitutto che la causa fondamentale è l’uomo (3).
Sembra doversi escludere invece che esistano in realtà “cause” diverse da quelle
che determinano la criminalità in altre zone se non nel senso che ogni condizione,
geografica ed anche economica consente un certo tipo di crimine. Cioè non esiste una
criminalità che sia definibile “sarda” o catalogabile come tale in relazione a “cause
profonde”. Esistono piuttosto condizioni facilitanti e, conseguentemente, tipi di delitti
gravissimi più frequenti.
Peraltro analoghi delitti si stanno verificando largamente in altre zone del territorio nazionale. Se si attribuisce validità a questa tesi e se si accetta anche la teoria
secondo la quale la modifica delle condizioni socio-economiche non distrugge completamente i fenomeni criminali, si deve dare per scontato che, verificandosi soltanto
una auspicabile modifica delle condizioni socio-economiche della Sardegna, in qualunque direzione, non si avrà una eliminazione totale della criminalità ma soltanto la
scomparsa di taluni dei fenomeni attuali e, purtroppo, il verificarsi di altri fenomeni.
(3) È aperto più che mai il quesito di un determinismo biologico nella attività delinquenziale,
soprattutto di quella che è lucido parto di individui apparentemente sani e “normali”.
È invece ampiamente dimostrata in sede sociologica, psicologica e psicoanalitica, l’esistenza dell’individuo a tendenza antisociale.
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CAUSE E CONDIZIONI
Pertanto nelle misure di prevenzione indiretta, cioè sociale, da parte nostra daremo un particolare accento alle misure di carattere scolastico ed a quelle di tipo civile
che il “nuovo” piano dovrebbe, specificatamente prevedere.
Quanto noi chiediamo investe problemi che stanno a monte del fenomeno sardo
e della stessa Sardegna; investe cioè lo Stato, la crisi della società e dello Stato stesso,
la fiducia in esso di tutti i cittadini che è condizione per un inserimento completo, dei
cittadini nella società statuale, per il rispetto della legge uguale per tutti. La predicazione antistatuale che ha trovato terreno fertile proprio nelle zone che maggiormente
sono state investite da fenomeni criminali, non può non essere considerata ai fini della
valutazione del fenomeno e delle misure da adottare.
Poniamo il discorso in questi termini perché condividiamo la tesi che regioni
spopolate e depresse sono più facilmente teatro di alcuni delitti; ma soprattutto perché, pur considerando la vita del pastore, nella sua durezza e per i rischi ai quali espone, uno stato inaccettabile, non sentiamo di poter ricondurre ad essa la causa della cri-
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Non è fatalismo, è realismo.
Se dovesse essere accolta la tesi secondo la quale il sequestro di persona sostituisce altri reati tipici in passato delle zone interne dell’Isola (l’abigeato che si collega
col pascolo brado; la rapina che è facilitata dalla scarsa sorveglianza delle strade), non
si potrebbe contestare la tesi secondo la quale ad una trasformazione della vita, delle
abitudini, delle influenze ambientali non corrisponde sempre una evoluzione riduttiva,
ma spesso una modificazione negativa della criminalità.
Si può validamente sostenere infatti che il sequestro di persona, che è fenomeno
di gangsterismo (così la estorsione che è frequente in Sardegna), è una nuova forma di
criminalità, che coinvolge gli ambienti pastorali soltanto perché i pastori servono per
custodire gli ostaggi.
Si tratta – come abbiamo detto – di reato che richiede organizzazioni più complete (e normalmente facenti capo a non pastori) di quelle necessarie per compiere
altri delitti; è da ritenere – stando alle informazioni più attendibili – che molte sono le
organizzazioni, che non vi siano strumenti comuni neppure per la spendita dei riscatti.
Né si può considerare come “causa profonda” tutto il complesso di abitudini e di
consuetudini della vita pastorale del mondo barbaricino. Se in Sardegna dovesse essere, per ipotesi, eliminato il pascolo brado (non nomade e ne parleremo) immediatamente il pastore “localizzato” non potrebbe più essere certamente lo strumento necessario per la custodia dei sequestrati; sarebbe però del tutto illusorio sperare che soltanto in virtù di questa trasformazione al sequestro di persona non verrebbe probabilmente sostituito altro tipo di crimine e che gli elementi inclini al delitto estranei all’ambiente pastorale che oggi han ritenuto facile organizzare sequestri di persona nonché i
pastori loro strumento anche se collocati stabilmente in una azienda, non potrebbero
essere autori di diverse gesta criminali.
Si può considerare fondamentale più che la trasformazione delle condizioni
socio-economiche e del tipo della pastorizia – utili soltanto ad attenuare od a modificare (speriamo non in peggio) i fenomeni criminali – una più diretta e penetrante azione nel campo culturale e formativo, del cittadino.
Condividiamo largamente considerazioni che furono fatte, a titolo personale, dal
Sindaco di Cagliari del tempo dott. De Magistris, circa un generale “rilassamento”
morale, incentivante della delinquenza.
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minalità, ed anche perché non accettiamo l’equazione fra pastore e bandito. Il pastore
non è bandito. Il bandito non è sempre un pastore.
Perché si uccideva con facilità estrema in Sardegna? Perché si rubava con facilità
estrema il bestiame in Sardegna? Perché si rapinava con facilità estrema in Sardegna?
Perché sono avvenuti tanti sequestri in Sardegna?
La risposta è una sola: perché esistevano od esistono condizioni umane che ne
sono la causa e condizioni che facilitano tale azione, fra le quali, in primo luogo va
collocata la certezza della impunità.
La prova, a contrariis, di tale affermazione sta nel fatto che i pastori sardi trasferitisi nella penisola non hanno dato luogo a fatti criminali quali quelli che si registrano
nell’Isola, come ha accertato la Commissione parlamentare di inchiesta.
In realtà le condizioni umane che sono causa dei crimini sussistono anche se
l’uomo vive fuori dell’Isola; i “contrasti culturali” ai quali qualcuno attribuisce la qualità di causa si aggravano e non certo si attenuano fuori dell’Isola; i conflitti fra i
pastori e i proprietari, le difficoltà economiche generali o particolari sussistono anche
fuori dell’Isola. Mancano invece le già indicate condizioni ambientali e geografiche e
pertanto le azioni criminali non avrebbero successo.
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IL PASCOLO BRADO
Al pascolo brado sono da collegare direttamente alcuni delitti, cioè l’abigeato e il
pascolo abusivo in netta diminuzione.
Il termine “nomade” non appare esatto per quanto riguarda la pastorizia in
Sardegna, perlomeno come caratteristica costante.
Il pastore sardo ha, ormai da qualche tempo, zone ben delimitate per il pascolo
estivo ed il pascolo invernale. Talvolta coincidono.
Il trasferimento del bestiame dal paese al pascolo o da un terreno ad un altro,
avvengono nel giro di tempi limitati; soltanto il trasferimento dai pascoli estivi a quelli invernali avviene a sensibili distanze, ma nella maggioranza dei casi il bestiame
viene trasportato su camion.
È pertanto da ritenere che la pastorizia sarda sia brada nel maggior numero dei
casi. Purtroppo avviene assai spesso che il pastore si assenta per lunghi periodi dal
centro abitato e sia perciò difficilmente controllabile, che viva in condizioni di solitudine e di disagio gravissime.
Non sussiste neppure – come regola generale – che le condizioni economiche del
pastore siano misere, se il gregge è di dimensioni adeguate; né che alle ricorrenti crisi
di siccità che danneggiano l’allevatore, corrisponda l’acutizzarsi di delitti; né infine –
lo ripetiamo – che a condizioni economiche più disagiate corrisponda una maggiore
spinta criminale.
È da aggiungere la considerazione che la organizzazione e la esecuzione dei
sequestri comporta la disponibilità di mezzi finanziari non modesti, per le varie fasi
del delitto.
In questo modo ci sembra di avere indicato sufficientemente tutte le situazioni in
presenza delle quali si è verificata la “esplosione” dei sequestri di persone.
SINTESI CONCLUSIVA
Sintetizziamo quindi gli argomenti portati col dire che la criminalità è un fenomeno generale di tutti i tempi.
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La causa fondamentale è nell’uomo, è cioè causa di natura individuale, anche in
Sardegna.
Hanno operato come condizioni facilitanti o alimentatrici della criminalità,
situazioni ambientali, e la carente protezione e reazione dello Stato.
Ci saranno sempre individui capaci di violare i limiti che la società, con le proprie leggi, pone all’operare dell’uomo in difesa della società stessa.
La eliminazione delle condizioni facilitanti inciderà su alcune forme della criminalità non generalmente sulla criminalità; sulla quale influiranno invece in modo decisivo due tipi di misure: quelle dirette ad assicurare la protezione e la reazione dello
Stato contro la criminalità in genere; quelle dirette alla formazione del cittadino, ad
educare cioè al rispetto dei limiti che la società pone a propria difesa ed a creare l’isolamento del delinquente da parte di tutta la collettività in cui vive.
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COMMISSIONE
PARLAMENTARE DI
INCHIESTA SULLA STRAGE
DI VIA
FANI,
SUL
SEQUESTRO E L’ASSASSINIO
DI
ALDO MORO
TERRORISMO IN
ITALIA
LEGISLATURA)
Il 16 marzo 1978, mentre dalla sua abitazione si recava a
Montecitorio per la presentazione al Parlamento del IV Governo
Andreotti, della cui maggioranza facevano esplicitamente parte i
comunisti, chiamato in seguito Governo di solidarietà nazionale,
l’onorevole Aldo Moro fu rapito e tutti gli uomini che lo scortavano
(Oreste Leonardi, Giulio Rivera, Francesco Zizzi, Raffaele Jozzino)
furono uccisi.
Il 9 maggio successivo venne fatto ritrovare il suo cadavere, a
bordo di una automobile ferma a uguale distanza, si potrebbe dire anche
equidistante, dalle sedi nazionali della Democrazia Cristiana e del
Partito Comunista Italiano.
Con la legge 23 dicembre 1979, n. 597, venne decisa l’istituzione
di una Commissione di inchiesta per fare chiarezza su quel tragico fatto
e per indagare sul fenomeno del terrorismo e sul funzionamento degli
organi statali e sui sistemi di sicurezza.
La Commissione, composta da venti deputati e venti senatori,
presentò, dopo varie proroghe, la sua relazione il 29 giugno 1983,
relatore per la maggioranza il senatore Mario Valiante (DC) e relatori
per la minoranza: Covatta e altri (PSI); Franchi e Marchio (MSI);
Sterpa (PLI); La Valle (Ind. sin.).
Era presieduta inizialmente dal deputato Oddo Biasini (PRI), che
si dimise con la quasi totalità dei membri il 7 marzo 1980, per i
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(VIII
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contrasti sorti nella Commissione a seguito della contestazione da parte
di alcuni gruppi politici della presenza nella Commissione del deputato
Giacomo Mancini (PSI), che aveva preso parte ad una intervista in
carcere al brigatista Piperno, e che quindi avrebbe potuto essere
chiamato a deporre dalla Commissione. La Commissione venne
interamente rinnovata il 20 marzo 1980 con la presidenza del senatore
Dante Schietroma (PSDI), che si dimise perché nominato ministro e
venne sostituito dal senatore Valiante (DC).
La Commissione si è limitata ad indagare sull’episodio di via
Fani e sull’assassinio di Aldo Moro, e senaza affrontare il fenomeno del
terrorismo, che era tra gli obiettivi dell’inchiesta.
La legge istitutiva n. 597 del 1979 contiene una novità rispetto
alle precedenti leggi di istituzione di Commissione di inchiesta e che si
affermerà in molte di quelle successive: alla Commissione non è
opponibile il segreto di ufficio o professionale, né il segreto di Stato, in
quanto concernente fatti eversivi dell’ordine costituzionale, fatta
eccezione per quello attivato con la procedura prevista dalla legge 24
ottobre 1977, n. 801, relativo alle linee essenziali delle strutture e
dell’attività dei Servizi segreti.
In base alle considerazioni esposte nell’introduzione, questa
norma solleva notevoli dubbi di legittimità costituzionale, poiché amplia
notevolmente i limiti dei poteri riconosciuti all’autorità giudiziaria,
stabiliti nell’articolo 82 della Costituzione. A ben vedere in tale legge si
menzionano soltanto i “poteri” di cui l’autorità giudiziaria è dotata
senza alcun richiamo ai limiti. Questo pone non pochi problemi su quali
siano questi poteri.
La materia del terrorismo e delle sue origini, delle stragi e delle
loro origini ha formato oggetto nella X e XI legislatura di un’altra
specifica inchiesta, che si è rinnovata anche nella XII legislatura, di cui
daremo cenno più avanti, ma che formerà oggetto di un apposito volume
in questa stessa collana.
Le conclusioni della Commissione furono discusse alla Camera il
4 e il 5 luglio 1984 (un anno dopo la presentazione) ed anche
successivamente, in connessione con la presentazione di una relazione
della Commissione sulle stragi presieduta dal senatore Libero Gualtieri
nel 1990.
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1° AGOSTO 1980: AUDIZIONE
DI ELEONORA MORO
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Dagli allegati alla relazione (volume VII):
resoconti stenografici delle sedute della
Commissione (pagg. 81-85)
La seduta inizia alle ore 10.
(Si legge e si approva il processo verbale della seduta precedente).
(Viene introdotta la signora Eleonora Moro).
PRESIDENTE. Ho già spiegato alla signora Moro che cosa significa questa
audizione e che cosa comporta. La signora preferisce rispondere ad alcune domande.
Se la Commissione consente, comincerò io.
Lei sa, signora Moro, che la legge istitutiva della Commissione ci impone di
rispondere a determinati quesiti, alcuni dei quali piuttosto dettagliati. Il primo riguarderebbe quali minacce, avvertimenti o pressioni sono stati ricevuti dal compianto
Presidente, tendenti allo scopo di fargli abbandonare l’attività politica. Vorremmo
sapere se il Presidente le ha mai parlato di questo genere di minacce.
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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SCHIETROMA
ELEONORA MORO. Sì.
PRESIDENTE. Vorremo sapere quale fosse il suo stato d’animo, se dimostrava
preoccupazione e in quale misura.
ELEONORA MORO. Questa è una cosa che rimonta parecchio addietro, direi al
1975. Con precisione non saprei dire quando è cominciato; è una cosa che è venuta
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via via crescendo, diventando sempre più intensa e sempre più drammatica, direi.
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PRESIDENTE. Il Presidente se ne dimostrava preoccupato, oppure non vi dava
peso?
ELEONORA MORO. Da principio credo non avesse preso la cosa in grande
considerazione; ma, piano piano, si è dovuto rendere conto che non era la solita cosa,
una minaccia generica come quelle di cui spessissimo tutte le persone che hanno un
filo di spazio di responsabilità si vedono far oggetto, e che questa cosa era seria. Ho
sentito dire che anche a livello internazionale e nei suoi incontri come Ministro degli
esteri, apertis verbis varie volte alcuni gli avessero detto che, se non smetteva questa
sua idea, se non poneva fine a questo suo tentativo di portare (come si può dire?) non
l’attività politica in senso stretto, ma proprio la sua linea politica, cioè l’idea che tutte
le forze politiche dovessero collaborare e partecipare direttamente alla vita del Paese,
avere responsabilità sempre più dirette, ecc.; insomma, che questa era una cosa che
doveva smettere, altrimenti l’avrebbe pagata cara. Questo gli avevano detto.
PRESIDENTE. Sempre in ordine a questo genere di problemi ha mostrato di
nutrire apprensione per possibili attentati alla sua persona o ai suoi familiari? Vi è
stato un episodio?
ELEONORA MORO. Per quello che riguardava lui, quando aveva idea che una
cosa andasse fatta, non c’era nessuna potenza al mondo che lo fermasse.
Io ho fatto tutto quello che potevo; credo di avergli fatto passare, l’estate del ’75,
come una delle più terribili della sua vita, creandogli l’inferno perché egli si ritirasse e
la smettesse. E mi sono anche illusa di essere riuscita a scalfire un poco questa sua
cocciutaggine; poi mi son dovuta rendere conto che non c’era niente da fare e che la
nascita del suo primo piccolo nipote era stata determinante nel senso della responsabilità che un uomo, che aveva la possibilità di fare e operare quello che riteneva il bene,
dovesse farlo e non potesse tirarsi indietro.
PRESIDENTE. Vi è stato un episodio, per esempio quello dei motociclisti; lei lo sa?
ELEONORA MORO. Ma da questo momento in avanti è stato tutto un crescendo di avvertimenti, di lettere anonime, di telefonate, di segnali vari che in una certa
misura, vista la mia penso naturale apprensione, mio marito cercava di non farmi
conoscere, di non farmi pervenire; ma sui quali spesso l’intrattenevamo anche con
Leonardi, anche per vedere che cosa si potesse fare in una situazione così difficile
dato che quella che era la scorta, l’assistenza, la protezione erano così inadeguate.
Quindi lui diceva quello che succedeva, che lui stesso continuamente riferiva ai
suoi superiori e che lo preoccupava, perché era una bravissima persona e faceva il suo
servizio con molta dedizione e intelligenza.
PRESIDENTE. Relativamente alla scorta, lei sa se il Presidente avesse in animo
di chiedere o se chiese un rafforzamento della scorta?
ELEONORA MORO. Lo fece lui moltissime volte e lo fece Leonardi continuamente con i suoi superiori, ma questa cosa non fu mai presa in considerazione.
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PRESIDENTE. Io avrei introdotto in un certo senso l’audizione della signora
Moro; vediamo ora se i colleghi vogliono fare qualche domanda.
PECCHIOLI. Mi consenta, signora, di cercare di approfondire un po’ la prima
parte della domanda, cioè quella relativa alle minacce che l’onorevole Moro ricevette
prima. Lei le ha rapportate fondamentalmente alla linea politica dell’onorevole Moro.
PECCHIOLI. E lei non è in grado ad aiutarci a definire un po’ meglio la provenienza?
ELEONORA MORO. Mio marito era estremamente riservato, aveva il senso del
“sacro” di quello che passava nella sua esperienza, nell’ascoltare la gente, nel sentire
le cose; e sentiva il rispetto massimo che doveva alle persone che con lui si erano confidate, che andavano a parlargli un po’ di tutto: del loro caso privato, personale e di
tutte le altre cose che potevano aver sentito. Erano tante e lui aveva questo senso di
profondo rispetto per queste persone; per quello che era il suo lavoro doveva fare
tesoro di quello che gli era stato detto, leggere come segnali gli stati d’animo e le
situazioni.Questo soprattutto con il mondo giovanile, che lui seguiva particolarmente;
che questi segnali andavano presi molto seriamente e che bisognava fare qualcosa al
più presto possibile. Ma quello di andare a dire: “Il tale mi ha detto” era quasi impossibile che capitasse. Chi lo conosceva bene poteva rendersi conto da quale parte provenisse un discorso ma non era mai lui a dirlo.
Del resto, chi ha vissuto da vicino la vita del nostro paese, è raro che abbia sentito affermare da una persona, che pure ha scritto e parlato tanto, che le informazioni o i
dati che aveva in mano, che elaborava nel suo dire, venissero da una parte o dall’altra.
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ELEONORA MORO. Sì, politici.
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PECCHIOLI. Sempre da ambienti politici?
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ELEONORA MORO. Ho l’impressione che venissero da varie parti, che non
venissero da una parte sola.
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PECCHIOLI. Lei non ha la sensazione anche sul tipo di provenienza di queste
minacce? Da chi potevano giungere?
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ELEONORA MORO. Questa è la mia sensazione.
PECCHIOLI. Lei ha fatto un cenno anche ad ambienti – se ho ben capito, in caso
contrario me ne scuso – internazionali.
ELEONORA MORO. Lui era Ministro degli esteri a quel tempo.
PECCHIOLI. Quindi lei non esclude che queste pressioni potessero venire anche
da ambienti fuori dal nostro paese.
ELEONORA MORO. Certamente.
PECCHIOLI. Questo era il primo gruppo di domande. Se mi permette, passerei
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ad un secondo punto che riguarda, orientativamente, la fase del sequestro. Lei è in
grado, signora, di aiutarci a comprendere come, attraverso quali canali, i brigatisti riuscirono ad entrare in contatto con la sua famiglia, ma anche con gli amici dell’onorevole Moro che, in quella fase, sappiamo che erano molto impegnati a stare vicino a lei
e ai suoi familiari? Noi abbiamo a disposizione delle dichiarazioni rese da don
Mennini, vice parroco della Chiesa di S. Lucia, che ricevette delle lettere dall’onorevole Moro. Lei è in grado di aiutarci a comprendere come...
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ELEONORA MORO. Ricevette delle lettere durante il tempo del sequestro?
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PECCHIOLI. Questo risulta.
ELEONORA MORO. Io non ne so niente. So che gli fu telefonato perché andasse a prendere delle lettere dell’onorevole Moro e ce le portasse. E questo dovrebbe
risultare dal verbale perché sia noi che don Antonello l’abbiamo detto ripetutamente ai
giudici, sia durante il tempo che era in prigione, sia dopo. Molte volte l’abbiamo
detto. Io non so se abbiano verbalizzato tutto, ma noi l’abbiamo detto. L’abbiamo
detto più volte a tanti diversi giudici che sono venuti a chiederci le cose.
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PECCHIOLI. Ancora una domanda, se intende rispondere.
Sindona
ELEONORA MORO. Se la so, molto volentieri.
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PECCHIOLI. Corrado Guerzoni ha fatto un cenno, in una deposizione che risulta
agli atti, secondo cui la famiglia Moro si serviva di suoi canali per mantenere i contatti con i sequestratori dell’onorevole Moro. Lei è in grado di aiutarci a comprendere
questa affermazione?
ELEONORA MORO. Evidentemente Guerzoni si è sbagliato o non si è espresso
felicemente, perché lui ha vissuto con noi tutto il nostro dramma, particolarmente il
dramma intimo della famiglia che voleva far giungere a questa creatura, in una situazione di stress così grande, una parola di affetto, di partecipazione, di senso di essergli
vicino. Quindi sa benissimo che noi non siamo mai riusciti a stabilire un contatto con
le Brigate rosse, e sa benissimo che abbiamo dovuto usare i giornali e la stampa per
poter dire a questa persona che gli eravamo vicini, che gli volevamo bene.
PECCHIOLI. Un’ultima questione, che riguarda le borse che l’onorevole Moro
aveva al momento del sequestro e che risultano essere cinque.
Vorrei sapere se lei è in grado di aiutarci a capire quale tipo di documenti potevano contenere due delle cinque borse.
ELEONORA MORO. Lei parla delle borse che sono state prese dai brigatisti, per
intenderci; contenevano, la prima, medicinali. Infatti, da molti anni, avendo sempre
molto viaggiato, aveva l’abitudine di portarsi dietro questa valigetta di pronto soccorso che, ogni tanto, serviva a togliere dai guai qualcuno che si sentiva male; ricordo
che ben due volte, durante la sua vita parlamentare, venne usata alla Camera per aiutare qualcuno che si era sentito male in Aula. Lui si portava sempre dietro questa borsa.
La seconda borsa era quella dei suoi documenti personali, i suoi occhiali, i denari, le chiavi di casa, tutte quelle cose che riteneva riservate e che si portava sempre
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ELEONORA MORO. Non so niente né di questi appunti né di questa lettera e
non ho neanche una vaga idea del loro contenuto.
PECCHIOLI. La ringrazio.
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PECCHIOLI. Ancora un’ultima questione. Nel settembre del 1978, nel covo di
via Montenevoso, a Milano, è stata reperita una lettera inedita dell’onorevole Moro al
professor Rana. In questa lettera si fa cenno ad appunti dell’onorevole Moro stesso
sulla crisi di governo che si era conclusa proprio il giorno del sequestro.
Il mio quesito è questo: ebbe lei modo di vedere, di conoscere questi appunti dell’onorevole Moro?
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dietro: se scendeva dalla macchina questa borsa scendeva con lui, se veniva a casa se
la portava su, se andava in ufficio se la portava in ufficio ecc.
Le altre tre borse contenevano giornali e, in quel momento, tesi di laurea, nonché le cose che stava scrivendo. Quando è stato preso stava correggendo un articolo
che era in una di queste borse e che non è stato toccato: è stato lasciato lì.
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LOMBARDO. Signor Presidente, vorrei tornare – mi scusi la signora Moro della
mia insistenza – sui particolari delle minacce che, come ha detto la signora, datano fin
dal 1975 e che sono collegate con la linea politica che il Presidente Moro andava perseguendo con lucidità in tempi anche lunghi, ma con molta coerenza e continuità.
Lei, signora Moro, ha risposto a qualche domanda dell’onorevole Pecchioli. Io
credo che sia importante tornare su questi particolari e la mia domanda è specifica in
questo senso.
A livello internazionale, si trattava di minacce o di consigli? Ebbene, vorrei che
la signora Moro potesse ricordare questo aspetto; cioè, erano politici a livello internazionale che consigliavano all’onorevole Moro di abbandonare quella linea politica,
oppure si trattava di elementi di minaccia: “abbandona questa linea politica altrimenti
puoi correre dei rischi!”?
In realtà, poteva anche trattarsi di consigli che riferivano minacce che vi potevano essere a livello internazionale nella discussione che questo tema aveva oramai
acquistato anche in campo internazionale: cioè, dove andava il nostro Paese, la nostra
politica interna, le alleanze con gli altri partiti e, in modo particolare, il rapporto con
la sinistra in generale e con il PCI in particolare.
Ecco, la signora, facendo uno sforzo – anche se ha detto che il Presidente Moro
era piuttosto evasivo e molto riservato – può aiutarci nella ricerca della verità su questo punto molto importante.
Moro
PRESIDENTE. Le rivolgerà qualche domanda il collega Lombardo.
ELEONORA MORO. Posso provare a ripetere la sua domanda per vedere se
l’ho centrata perché non sono una persona molto capace di capire. Lei mi chiede se
mio marito abbia avuto dei consigli, diciamo affettuosi, a desistere da questa cosa che
poteva essere pericolosa per lui, o se gli è stato detto apertis verbis: «Guardi, che se
lei insiste in questa cosa, questa cosa le porterà dei guai». È una delle pochissime
volte in cui mio marito mi ha riferito con precisione che cosa gli avevano detto, senza
dirmi il nome della persona. Adesso, provo a ripeterla come la ricordo: «Onorevole
(detto in altra lingua, naturalmente) lei deve smettere di perseguire il suo piano politi149
co di portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui o lei smette di
fare questa cosa o lei la pagherà cara». Veda lei come la vuole intendere. La frase era
così. È una cosa che a me ha fatto molta impressione. Sono rimasta a meditarci a
lungo da allora in poi. Certo, via via, con gli avvenimenti come si sono svolti...
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LA VALLE. La data approssimativa?
ELEONORA MORO. Questo veramente è difficile dirlo perché io non sono una
persona che ha molta memoria e poi mi fanno più impressione le cose che non le circostanze. Non so come spiegarlo. Le cose mi colpiscono profondamente; poi, tutto
quello che è l’esterno, il giorno, l’ora, la situazione, mi sfugge perché sono una persona estremamente distratta. Ma non deve essere una cosa, se me la ricordo con tanta
precisione, tanto in là.
CORALLO. Signora, in queste settimane è in atto una campagna infamante, vergognosa nei confronti della memoria di suo marito da parte di un settimanale italiano,
il settimanale Candido, che cerca di distruggere la figura morale di Aldo Moro. Ora, a
noi risulta che un tentativo del genere, un tentativo di coinvolgere l’onorevole Moro
nella vicenda Lockheed fu fatto poco tempo prima del sequestro.
Io vorrei sapere da lei, se lo ricorda, quali furono le reazioni di suo marito di
fronte a quel tentativo di distruggerlo moralmente, perché, in riferimento a quanto ha
detto sulle minacce che aveva ricevuto, un uomo non lo si può uccidere, ma lo si può
anche distruggere in altro modo.
Vorrei sapere, a suo avviso, e se lo ricorda, se suo marito dette un’interpretazione
a quel tentativo e lo collegò a fatti politici, alla sua linea politica.
La signora sa che fu poco prima, qualche mese prima?
RODOTÀ. Il giorno stesso.
LA VALLE. Il giorno prima.
CORALLO. La mattina prima uscì la notizia dell’archiviazione, se ben ricordo,
da parte della Corte Costituzionale che già era al lavoro per il processo. Comunque
credo che lei abbia capito la questione che le pongo: se lei è in grado di riferire sulla
reazione di suo marito di fronte a quell’attacco, al tentativo di coinvolgerlo per
distruggerne la figura morale.
ELEONORA MORO. Tentativi di questo genere, per quel che ricordo, erano stati
fatti anche prima in vario modo. In questi lunghi pensieri che, dopo la sua morte ho
meditato, molte volte mi sono chiesta se la sua morte non era la soluzione al fatto che
avendo tentato di distruggerlo in tanti modi, l’unico sistema era l’eliminazione fisica.
E mi chiedo (anche in questo senso io ho un’enorme quantità di domande cui
vorrei una risposta), mi chiedo, quindi, se facendo questa strada, cioè ritornando
indietro, percorrendo la strada per vedere chi ha animato queste campagne, perché le
ha animate, non si arrivi alla verità.
In quanto alla maniera di reagire agli attacchi personali, di mio marito, normalmente la prendeva in maniera assolutamente calma, come una persona che, cercando
di fare delle cose buone, ha già messo in conto e scontato che riceverà solo cose spiacevoli in cambio; che è poi la situazione, penso, di ogni cristiano, il quale sa che non
150
avrà compenso per quello che pensa di fare di bene. Quindi non l’ho mai visto angosciato, agitato, preoccupato, ma l’ho visto solo fare le cose normali che si potevano
fare per chiarire la situazione e dare la prova della sua onestà, della sua rettitudine.
Non l’ho mai visto, ripeto, turbato da queste cose.
CORALLO. La ringrazio.
COVATTA. Signora, le è già stato chiesto circa gli avvertimenti o, comunque, le
minacce che il Presidente Moro ebbe a ricevere per la sua attività politica e per la sua
vita politica. Io vorrei chiederle con maggior precisione se, nei giorni immediatamente precedenti il sequestro, il Presidente ebbe a ricevere qualche minaccia o l’avvertimento di qualche minaccia: o direttamente o tramite suoi amici di partito o suoi colleghi di Governo.
ELEONORA MORO. Allora cercherò di rispondere indirettamente, perché direttamente non ho una risposta chiara.
Durante i mesi precedenti, sempre su mie insistenze – veramente pesanti, devo
dire – mio marito si era deciso a chiedere una più seria protezione nel complesso; e,
secondo me, se si era deciso nonostante la sua riluttanza, perché tutto quello che
riguardava lui non aveva importanza, quindi chiedere una cosa per sé gli dava veramente fastidio...
Credo che solo per farmi stare zitta abbia fatto questa richiesta. Se non avesse
avuto dei dati ben precisi avrebbe calmato me, non avrebbe fatto questa richiesta.
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Moro
ELEONORA MORO. Io non ho molta fiducia nelle opinioni, neppure se le
penso abbastanza serie: ho solo fiducia nei fatti. Se potessi dirle dei fatti avrei già
denunciato queste persone, e l’avrei fatto anche mio marito vivente e contro la sua
volontà.
Sindona
CORALLO. No, ha capito. Volevo solo chiederle allora quali fossero le sue opinioni sulla provenienza di quegli attacchi.
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ELEONORA MORO. Direttamente e chiaramente no, anche perché penso che
egli sapesse che la pensavo come lui e che quindi mi rendevo conto di come queste
cose potessero andare, potessero essere successe.
Forse non ho ancora capito, vero?
Mafia
CORALLO. Forse non mi sono spiegato bene. Non intendevo parlare di reazione
nel senso emotivo, quanto invece riferirmi al giudizio politico che egli dava su questi
attacchi; cioè chiedere se aveva una idea, se le confidò di avere una idea sulla mano
che lanciava il sasso.
COVATTA. A proposito di questa sua risposta, signora, altre personalità che
hanno reso la loro interpretazione dei fatti a questa Commissione hanno avuto modo
di sostenere che per l’appunto di questo si sia trattato e cioè che il Presidente non
chiese misure particolari di sicurezza, ma disse a lei di averle chieste, per calmarla,
per l’appunto.
ELEONORA MORO. A me non risulta mai che mio marito, in tutta la sua vita,
151
abbia detto una bugia e tanto meno a me. Quindi se lui mi ha detto questa cosa, sono
pronta a giurare davanti a un tribunale che mio marito l’ha detta.
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COVATTA. Mi perdoni se insisto sul punto precedente. Non mi riferivo tanto ai
mesi, quanto ai giorni precedenti immediatamente l’attentato. Nei giorni immediatamente precedenti non ebbe modo di parlare col Presidente di tali questioni?
ELEONORA MORO. Nei giorni immediatamente precedenti, diciamo una quindicina di giorni prima che fosse preso, dei conoscenti di mio marito, milanesi, che
possedevano un’automobile blindata per loro conto, perché preoccupati per se stessi e
per la loro famiglia, hanno insistito con lui, venendo a Roma e pregandolo vivamente
di accettare questa macchina, gli uni e gli altri, perché era evidente a loro che stavano
a Milano che queste cose finivano in questo modo: che lui avrebbe avuto necessità di
una cosa di questo genere.
COVATTA. L’onorevole Cossiga e l’onorevole Andreotti hanno avuto modo di
far rilevare che le abitudini del Presidente Moro, per esempio di fare lunghe passeggiate da solo, con il solo accompagnamento del maresciallo Leonardi, o anche la sua
abitudine di andare spesso al cinema, in sale pubbliche, erano tali da indicare che il
Presidente non temeva per la sua sicurezza, perché indubbiamente una sala pubblica
cinematografica non è il luogo più adatto per garantire questa sicurezza. Vorrei conoscere la sua opinione su ciò, se per esempio queste abitudini che si conoscevano sulla
vita del Presidente non avevano negli ultimi tempi subito delle modifiche, insomma
che cosa pensa di questa obiezione che ci è stata rivolta.
ELEONORA MORO. Ci sono varie cose da dire a questo proposito. Adesso
cerco di collegarle. Prima di tutto la cosa di cui mio marito aveva veramente paura era
che prendessero qualcuno dei suoi familiari, cioè facessero quello che era successo
all’onorevole De Martino. Da quando è successa questa cosa lui, per quelli di casa
sua, non ha vissuto più un momento in pace e quindi, conoscendolo, dico che lui abbia
giocato questa carta: io faccio la mia vita di sempre, vado a spasso come sempre, faccio quello che ho sempre fatto, prendete me e lasciate stare la gente cui io voglio
bene. E questo è un pezzetto della risposta. Poi c’è un altro fatto. Io me lo sono chiesto infinite volte; perché questa gente che poteva prelevarlo con tutta facilità, perché
bastava telefonargli e dirgli: guardi onorevole, che o lei viene via con noi o noi le
uccidiamo la scorta, lui sarebbe uscito pacifico e tranquillo e sarebbe andato con tutta
calma dove questa gente gli avrebbe detto di andare, perché era molto affezionato a
queste persone e se ne sentiva responsabile. Questo era uno dei pochissimi argomenti
che io avevo quando gli chiedevo di farsi proteggere meglio, perché lui rischiava la
vita di queste creature che, come loro stessi dicevano, da molti mesi, “noi stiamo qua
a fare da tiro a segno”, era questa, credo, la ragione per cui aveva chiesto un’organizzazione più seria della sua protezione, un’organizzazione più seria per queste creature
perché fossero protette in maniera più umana, ragionevole, aveva chiesto un servizio
in cui non fossero veramente un tirassegno. Poi c’era un’altra cosa...
COVATTA. Si è chiesta infinite volte...
ELEONORA MORO. Mi son chiesta infinite volte perché mai li abbiano uccisi
tutti quando se lo potevano portare via tranquillamente, e forse con più scena. Se si
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ELEONORA MORO. Era tanto tempo che si angosciavano enormemente su
queste cose e, quindi, cercavano nei limiti del possibile di cambiare i percorsi tutti i
giorni o ogni due giorni, di vedere di sistemare in qualche modo cambiamenti degli
orari se era possibile. La situazione di mio marito era che, pure essendo forse ordinato
mentalmente, esternamente non era molto ordinato, non è che uno potesse contare che
tutti i giorni o ogni due giorni di seguito sarebbe uscito a quell’ora, perché magari una
telefonata o qualche altra cosa lo obbligava a trattenersi ancora in casa a sbrigare
qualche cosa, a fare qualche cosa di diverso da quello che aveva messo in conto di
fare nella giornata. Questo è un altro problema: come potevano essere le Brigate rosse
così sicure che quel giorno, a quell’ora, in quel punto, l’onorevole Moro sarebbe passato? L’onorevole Moro lo potevano prendere nell’altro verso, nell’altro tipo di incrocio. Se si potesse chiarire come mai questa gente avesse questa sicurezza, un’altra
grossa parte della verità sarebbe evidente.
Sindona
COVATTA. Vorrei fare un’ultima domanda su questa prima parte degli avvenimenti. Chiedo scusa se la costringo ad andare con la memoria al momento, immagino,
più doloroso per lei. La mattina del 16 marzo è stato detto e scritto che il percorso dell’automobile del Presidente, l’itinerario dell’automobile cambiò all’ultimo momento,
che il maresciallo Leonardi fece una telefonata prima di uscire, e altre cose di questo
genere. A lei risultano preoccupazioni particolari, motivi particolari per giustificare
queste cose?
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preleva uno tranquillamente senza colpo ferire, si è più abili. Questa è una di quelle
cose che se la Commissione la scopre, secondo me, scoprirà una grossa parte della
verità.
ELEONORA MORO. Quello che so con sicurezza è che Leonardi prima di andare via chiamò la moglie al telefono perché si era dimenticato qualche cosa e voleva
che la signora... So che ha telefonato alle 8 e mezza e disse: “Dove sei? Sono nel corridoio. Vai nella nostra stanza, scusa arriva il Presidente: ti telefono più tardi”; questo
è tutto.
SCAMARCIO. Signora, abbiamo sentito da lei che segnali, telefonate, lettere
anonime mettevano sull’avviso suo marito in un crescendo che preoccupava per davvero, sino al punto che l’onorevole Moro si convinse che la sua scorta era inadeguata.
Domandò anche espressamente la dotazione in suo favore di una scorta adeguata con
un’auto blindata? Le domando questo perché a una nostra precisa domanda di tal
genere è stato risposto da chi abbiamo già ascoltato, lei comprende che ci riferiamo
agli onorevoli Cossiga e Andreotti, che giammai questa richiesta era stata fatta. “Per
mancanza di fondi”.
E questa frase la tolgo dalla sua dichiarazione già resa ai magistrati. Vuole confermarci questa circostanza?
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COVATTA. Questa telefonata di Leonardi ci fu?
ELEONORA MORO. Confermo tutto quello che ho detto ai magistrati, quello
che è verbalizzato e quello che non è verbalizzato. Non ho la abitudine di dire cose di
cui non sono sicura.
153
SCAMARCIO. Cioè, che l’auto blindata fu richiesta e la risposta fu data.
ELEONORA MORO. Alle mie insistenze ripetute e reiterate, veramente fino ad
essere opprimente (e qualche volta, ripensandoci ora, un pochino me ne dolgo, ma
d’altra parte...) la risposta di mio marito, quando gli chiesi come poi fosse andata la
vicenda circa la cosa che lo avevo tanto pregato di fare, fu che gli era stato risposto
che mancavano i fondi.
Moro
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SCAMARCIO. Da parte di chi? Suo marito glielo ha detto?
ELEONORA MORO. Né io glielo ho chiesto, né lui me lo ha detto, perché un
discorso di questo genere mi lascia senza fiato e senza parole. Davanti a certe affermazioni, non ho la capacità di porre una nuova domanda. Queste cose mi feriscono e
sono inquieta.
SCAMARCIO. Un’altra domanda. Via Savoia. Sappiamo che l’episodio nasce il
4 febbraio 1978; sappiamo anche che il professor Rana, dando credibilità all’episodio
narratogli dalla portinaia e da alcuni uomini della scorta, si premurò di telefonare al
113 lo stesso giorno; sappiamo anche che lei riferì ai magistrati un commento di suo
marito, cioè che sarebbe stata una prova generale dell’attentato.
Sindona
ELEONORA MORO. Mi scusi, a cosa si riferisce?
SCAMARCIO. All’episodio di via Savoia che fu considerato relativo ad un caso
di scippo.
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ELEONORA MORO. Il giornalista Di Bella?
SCAMARCIO. Sì. Lei ha detto: “So che mio marito parlò dell’episodio con il
Ministro dell’interno e con il Capo della Polizia, ma loro erano dell’avviso che trattavasi di uno scippatore”. Conferma?
ELEONORA MORO. Io qui non ho un’idea precisa, perché evidentemente sono
ancora molto sotto shock, e quindi non è che il mio cervello funzioni proprio tanto
bene. Spesso ho l’impressione di essere come quelle persone che sono sotto una tenda
ad ossigeno: comunicano con quelli fuori, ma fino ad un certo punto. Se devo dare
credito a quanto è scritto sulla stampa, il Capo della Polizia, la sera del 15, era andato
da mio marito a rassicurarlo che quell’episodio riguardava uno scippo. Invece mio
marito, la scorta presente, le persone che si trovavano lì per caso, ebbero tutti univocamente altra impressione.
SCAMARCIO. Vengo all’ultima domanda. Lei ha affermato che due sono stati i
motivi per cui non è stato fatto nulla per salvare l’onorevole Moro e quindi (aggiungo
io) forse perché eventualmente si era deciso in altro modo. Lei trova questi motivi nel
rifiuto del Governo, e in particolar modo della forza politica che rappresentava il
Governo, ad aprire un dialogo con i brigatisti, e nell’impossibilità – dice lei – per i
familiari dello statista di trovare un canale diretto con i terroristi. Sulla prima parte
credo che non vi sia ragione di chiederle se conferma il rifiuto del Governo: lo sappiamo; non solo, ma è stato confermato che, appena un’ora dopo il rapimento di suo
154
marito, il Governo non trovò...
ELEONORA MORO. A questo proposito mi aiutino a ricordare che ho un problema che vorrei sottoporre.
FLAMIGNI. Chi era l’autorità?
ELEONORA MORO. Io mi rivolsi al gruppo delle persone lì presenti che erano
alti ufficiali dei Carabinieri, di cui non posso dire il nome perché non li conoscevo. Io
conosco una infinità di persone attraverso il telefono, ma se poi debbo riconoscerle
dal viso è difficile perché ho sempre fatto una vita familiare molto casalinga e chiusa.
Poi c’era il Capo della Polizia e il Prefetto di Roma. Questo lo dico perché si sono
presentati e mi hanno detto chi erano. Io chiedevo in quel caos chi era la persona che
in quel momento aveva l’autorità di capo, per potermi rivolgermi a lui. Peraltro a
livello inconscio io ero preparata a sapere che mio marito sarebbe stato ucciso ma non
che sarebbe stato portato via. Quindi a livello inconscio non capivo come potesse
essere andata questa cosa. C’erano i morti, lui non c’era e per quello che avevo potuto
osservare dentro la macchina lui non era nemmeno ferito.
Mi chiedevo come facessero queste persone ad essere così sicure. Il giorno prima
il Capo della Polizia aveva detto che quelle persone erano scippatori: il secondo giorno era così? Dopo che per tanti giorni tutti si erano angosciati e agitati! Ricordo
Leonardi che era fuori dalla grazia di Dio perché gli avevano detto che c’erano briga-
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ELEONORA MORO. Al nipotino no perché l’avevo lasciato tranquillamente a
casa con la mamma. Allora stavo dicendo che sono andata subito e una delle cose che
mi ha maggiormente impressionata è stato che le autorità che sono poi arrivate (e sono
arrivate dopo di me, dieci minuti, o un quarto d’ora dopo, i tempi non posso certo
ricordarli con sicurezza, ma comunque so che sono arrivate dopo. Io era riuscita intanto a farmi un sopralluogo personale nella macchina per capire cosa fosse successo a
mio marito cioè se fosse ferito o non ferito), avendo io chiesto loro cosa fosse successo, mi hanno risposto in maniera precisa: sono state le Brigate rosse. Tanto che io mi
sono permessa di dire: ma Eccellenza, come fa lei ad essere così sicuro che siano state
le Brigate rosse? Qui potrebbero essere centomila le cose!
Debbo dire che ancora oggi io mi chiedo come questa gente fosse sicura e avesse
deciso senza incertezza. Perché per quello che io ricordo il primo bollettino dei brigatisti che rivendicavano il fatto è arrivato parecchio dopo, qualche giornata successiva,
forse due o tre.
Sindona
SCAMARCIO. Forse temeva che fosse successo qualcosa al nipotino?
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ELEONORA MORO. Poi lei dovrà rifarmi la domanda.
Io sono arrivata a via Fani almeno un quarto d’ora dopo, perché via Fani è alle
spalle della chiesa di S. Francesco dove io stavo facendo catechismo. Quindi non ho
sentito gli spari ma le sirene e tutto il resto. Il quartiere è stato di botto movimentato e
immediatamente l’autista che mi aveva accompagnato è arrivato dicendo che era successo qualcosa. Non riusciva a dire cosa fosse perché si trovava sotto shock. E immediatamente siamo andati a vedere insieme cosa era successo.
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SCAMARCIO. Se vuole esporlo, io attendo.
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Moro
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tisti non romani ma di varie città d’Italia e che sarebbe stata fatta un’interrogazione da
parte della Polizia che ne era venuta a conoscenza, alle autorità per sapere cosa se ne
doveva fare: se si dovessero fermare o seguire. Sempre per quello che gli avevano
riferito. Se poi fosse vero o non fosse vero non lo posso sapere. Leonardi era fuori di
sé perché gli era stato detto che lasciassero stare, che non si preoccupassero della presenza di queste persone in Roma.
SCAMARCIO. Il rifiuto del Governo lo conosciamo attraverso la constatazione
che ci ha ripetuto l’onorevole Andreotti nella sua esposizione. Il rifiuto del partito, che
il Governo dava in quel momento per il maggior numero di Ministri, lo conosciamo
anche, almeno da quello che abbiamo letto, attraverso la risposta negativa, che l’onorevole Zaccagnini dava a suo figlio Giovanni il pomeriggio del 23 aprile, quando,
dopo la telefonata Negri – si dice, si è letto, si è scritto – Giovanni avrebbe telefonato
a Zaccagnini. Quindi, conosciamo anche il rifiuto ufficiale da parte della DC.
La domanda è questa: fu impedito alla famiglia Moro, ai suoi componenti, ai
suoi amici, di trovare comunque la possibilità di un dialogo con le Brigate rosse?
ELEONORA MORO. Noi abbiamo fatto tanti tentativi ed io so che tanti amici di
Aldo hanno fatto tentativi per trovare una strada. Ma questi tentativi sono sempre falliti, perché, a un certo punto, qualcuno o qualcosa ha troncato tutto.
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SCAMARCIO. Qualcuno o qualcosa ha impedito l’allaccio, l’impatto o l’inizio
di queste trattative? Le sarei grato se potesse rispondere.
ELEONORA MORO. Forse è meglio che le racconti quel poco che io ricordo e
che so. Prendiamo il caso Payot. L’avvocato Payot era la persona che si era occupata
di prendere dei contatti con i brigatisti quando Schleyer era stato rapito in Germania.
Allora pensammo di cercare di prendere contatto con questa persona e vedere se attraverso altre strade lui riusciva in qualcosa. Questi erano i primi giorni, quando noi
familiari ci chiedevamo anche se questa cosa non era risolvibile pagando un grosso
riscatto per riaverlo. E allora pensammo che questa persona sarebbe potuta essere
utile. Attraverso faticose strade siamo riusciti a contattarlo. Questo signore è venuto a
casa nostra, ha parlato con me, perché voleva essere sicuro che era mia opinione e
mio desiderio che si facesse questo. Ha voluto avere assicurazione anche a livello di
autorità ed allora Lettieri molto gentilmente gli ha assicurato che era desiderio anche
loro trovare una strada o un modo per riavere l’onorevole Moro, che erano disponibili
loro stessi a trovare il denaro necessario.
Ed allora questo signore se ne è andato, cercando di fare ciò che poteva. Poco
tempo dopo questo signore (per quanto mi è stato riferito; certo io non ho prove per
fare queste affermazioni) è stato chiamato da uno dei ministri svizzeri e gli è stato
detto di non occuparsi della faccenda. L’associazione di cui lui era non so se presidente o membro importante in Svizzera lo ha pregato di dare le dimissioni e noi non
siamo riusciti più, in alcun modo, ad avere contatti con lui che è sparito completamente.
SCAMARCIO. Questo la preoccupò tanto da aver telefonato lei stessa al generale Dalla Chiesa per chiedere aiuto?
ELEONORA MORO. Non ho mai telefonato al generale Dalla Chiesa, di cui,
nella mia grande ignoranza, non conoscevo neppure l’esistenza; questo lo debbo dire,
156
a mio disdoro e vergogna!
Mi sono sempre occupata di tutt’altre cose.
SCAMARCIO. La ringrazio, signora.
ELEONORA MORO. Questa mi sembrava la spiegazione più naturale, lì per lì;
ma man mano che il tempo passa, mi soddisfa sempre meno.
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SCIASCIA. Vorrei domandare alla signora se l’ipotesi (perché lei ha attribuito
molta importanza a questo) l’ipotesi che la scorta sia stata uccisa, che le Brigate rosse
abbiano scelto quel momento per rapire l’onorevole Moro, abbiano voluto significare
una prova di efficienza militare, di una forza, la soddisfa?
Moro
ELEONORA MORO. Questo non lo so, non mi risulta. Il professor Tritto, per
quello che so io, fu chiamato varie volte, a varie riprese (due-tre, non saprei dire con
precisione) per telefono da un brigatista che gli diceva: “nel tal posto troverai una
cosa, vai a prenderla”. Questo è tutto ciò che io so che il professor Tritto ha fatto.
Sindona
SCAMARCIO. L’impedimento a trovare comunque la possibilità di contattare le
BR passava anche attraverso un pedinamento continuo, costante, che durava anche nel
corso delle ore della notte nei confronti del professor Tritto?
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ELEONORA MORO. E la stessa cosa è successa per tutti gli altri tentativi fatti;
sempre è successo qualche cosa.
ELEONORA MORO. Non credo che nessuno al mondo scelga la strada di uccidere la gente se non c’è una necessità: mi rifiuto, nettamente, di credere che l’animo
umano possa essere così cattivo da scegliere a tavolino ed a sangue freddo di uccidere
o non uccidere. Ci deve essere una ragione per cui valga la pena di farlo oppure che
sia necessario farlo, che non ci sia altra via di uscita che quella.
SCIASCIA. Le rivolgo una domanda apparentemente non collegata alla precedente, ma che io comunque collego.
Lei ha mai tentato di leggere le lettere di suo marito al di là del loro significato
letterale?
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SCIASCIA. In base a quali impressioni?
ELEONORA MORO. A me pare che già il significato letterale di quelle lettere
sia chiarissimo!
Certo, bisogna capire e credere a come era l’onorevole Moro. Se noi partiamo
dall’idea che l’onorevole Moro era un vigliacco, che aveva paura per la sua pelle e per
la sua vita perché era in una situazione di stress, complicata, difficile, dalla quale
doveva uscire in tutti i modi, per noi le lettere dell’onorevole Moro sono un libro
chiuso del quale non riusciremo a leggere nulla.
Se noi, invece, consideriamo l’onorevole Moro per quello che lui era, cioè una
persona che apparentemente era piena di apprensioni per cose piccolissime (come
dire, l’igiene, la salute, il fatto di raccomandare di non tornare tardi la sera, di andare
piano in macchina) ma che, in sostanza, non sapeva che cosa fosse la paura, allora
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Mafia
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Moro
possiamo capire molte cose.
Nei tanti anni che siamo stati insieme l’ho visto un paio di volte di fronte alla
morte, era pacifico e tranquillo; l’ho visto tirare giù il suo libro, guardarsi intorno per
continuare poi a leggere perfettamente calmo come una persona per la quale il servizio che faceva era importante, per cui era stato anche messo in conto che ciò poteva
essere pagato con la vita. Ma questo non contava niente. La sua situazione di uomo e
di cristiano era tale che non lo faceva raggiungibile dalla paura, né dalla paura fisica.
Tante volte ho pensato: Dio solo sa che cosa gli fanno, minacce, sevizie, le cose più
tremende, ma sapevo che per quel che riguardava lui, non erano capaci di scalfirlo. Se
lui scriveva quelle cose, le scriveva per noi, perché capissimo, gli dessimo fiducia e
credessimo che stando al di là, di noi altri si preoccupava; sì, la sua famiglia, ma quella che era, per cui aveva vissuto per tanti anni. In fondo, la sua vocazione era quella di
fare lo studioso, il ricercatore, vi aveva rinunziato in gran parte per fare questo servizio che gli era stato richiesto da persone che avevano un peso nella sua vita e lui riteneva di dover obbedire e che lui aveva fatto e faceva. Quindi vanno lette in altro
modo. Io penso che se la Commissione (per dire una frase infelice) chiamasse l’onorevole Moro a deporre e leggesse insieme considerandolo per quello che era, cioè un
uomo che non sapeva che cosa era la paura vera, la paura della morte, del dolore, dell’essere obbligato a dire una cosa. No, questa non esisteva per lui. Allora, cosa voleva
dire quando parlava? Probabilmente, l’onorevole Moro aiuterà loro molto più di quanto non possa fare io.
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SCIASCIA. Come forse lei sa, io ho sostenuto che l’onorevole Moro era perfettamente in sé e non aveva paura, per cui ho cercato di leggere sempre le lettere al di là
del significato letterale e mi interessa moltissimo il dettaglio di non aver avuto una
parola di commiserazione, di pietà per la scorta. Ho ritenuto che questa fosse una
cifra.
ELEONORA MORO. Lei si deve rendere conto che noi non le abbiamo avute
tutte le lettere dell’onorevole Moro. Leggendole con continuità, uno si rende conto
che ci sono dei vuoti; uno è questo. Probabilmente, lui le ha scritte queste lettere;
forse non le hanno fatte recapitare; forse, strada facendo è successo qualcosa; forse, le
Brigate rosse non ritenevano giusta una cosa del genere.
SCIASCIA. Ma ce n’è una che ne parla e dice soltanto che la scorta è inefficiente, inadeguata ecc.
ELEONORA MORO. Evidentemente, quest’altra parte era stata fatta prima e
non è arrivata. A mio avviso, noi non le abbiamo avute tutte, almeno, a casa mia, non
sono arrivate tutte le lettere che l’onorevole Moro ha scritto. È una mia convinzione
personale che vale per quello che è.
SCIASCIA. Io collego questo alla faccenda delle borse: com’è che hanno preso
le due borse?
ELEONORA MORO. Questo è un altro dei problemi che se uno riuscisse a scoprirlo, scoprirebbe la verità. Loro dovevano sapere quali erano e dove stavano nella
macchina perché era una bella costellazione di borse, messe così, così e così, prendere
a colpo sicuro quella... Io abito in quel quartiere e quindi le opinioni di esso mi si
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riversano addosso, lì per lì, adesso e sempre. Nessuno mai, nel quartiere, ha visto
prendere (e tanta gente ha visto i brigatisti, perché ci sono case grandi davanti) due
borse che erano belle piene, grandi, visibili. È veramente un grosso problema.
LA VALLE. Un’altra cosa, signora. Questi inviti a ritirarsi dalla vita politica si
sono intensificati o hanno avuto qualche relazione con l’ultimo viaggio che l’onorevole Moro fece in America?
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ELEONORA MORO. Da quello che posso dedurre, da come la gente fuori
d’Italia ha preso la cosa, la linea di politica estera dell’Italia portata avanti da mio
marito era apprezzatissima all’estero, a tutti i livelli: nei paesi dell’Est, dell’Ovest, nel
nostro continente, negli altri continenti. Quindi io non ritengo che fosse la sua politica
estera a procurargli questi guai, ma il suo pensiero personale, quello cioè per cui tutta
la gente doveva partecipare alla vita del suo Paese. E anche quello che lui ha sempre
fatto, cioè la lezione spicciola che amministrava ai suoi alunni normalmente, nelle
lezioni, nelle conversazioni private, negli incontri, era quella che ogni uomo deve partecipare alla vita del suo Paese, deve portarvi una collaborazione, deve seguirne la
vita; ché non si può imputare a chi governa e a chi dirige di spacciare o di fare cose
che non vanno fatte se non si partecipa, se non portiamo la nostra collaborazione,
prima di costruttori e poi di censori.
Sindona
LA VALLE. Un’altra domanda, ad esempio questa: lei ha detto che era il contenuto della politica dell’onorevole Moro all’origine degli inviti a lasciare la vita politica. Per quanto lei sa, questi contenuti erano solamente quelli relativi alla politica
interna, vale a dire allo sforzo di portare tutte le forze politiche alla responsabilità del
Paese, oppure erano anche le linee di contenuto internazionale, cioè le linee di impostazione che l’onorevole Moro seguiva anche in ordine alla politica internazionale: e
nei vari settori, non solo in quello maggiore, diciamo così?
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ELEONORA MORO. Come si fa a rispondere ad una domanda del genere?
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LA VALLE. Signora, subito dopo la uccisione dell’onorevole Moro, c’è stata una
dichiarazione della famiglia, in cui si diceva che la storia o il tempo avrebbe fatto
chiarezza e reso giustizia all’onorevole Moro. Lei crede che con il tempo che è passato, con tante cose che si sono sapute, con tanti indiziati arrestati la verità si sia fatta
strada; cioè, che oggi siamo più vicini alla verità di quanto vi fossimo il 9 maggio?
ELEONORA MORO. Potrebbe darsi.
LA VALLE. Altra domanda: qui non le chiedo fatti ma opinioni, di cui abbiamo
anche bisogno.
Lei è convinta che siano state le Brigate rosse a sequestrare l’onorevole Moro?
ELEONORA MORO. Bisogna che ci mettiamo d’accordo su cosa sono le Brigate
rosse.
BIONDI. Sì, che cosa sono?
LA VALLE. Abbiamo dei nomi, delle persone in carcere, abbiamo delle indica159
zioni di cui si è parlato. Per noi le Brigate rosse sono quelle di cui si è parlato in questi
sei mesi.
Sindona
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ELEONORA MORO. Certo, ci sarà stata la loro parte di lavoro. Ma chi ha armato ed animato questa gente a fare queste cose? Chi ha tenuto le fila in modo tale che
non si poteva comunicare durante il tempo che mio marito era sequestrato, che non si
poteva dire una parola diversa da quella che era stata la linea di condotta? Come mai
questa linea di condotta così dura, un’ora dopo che era successa la strage di via Fani,
era già stata presa così nettamente? Questi sono tutti problemi per me: bisognerebbe
scoprire i perché ed i come.
LA VALLE. Le loro insistenze perché si assumesse una linea diversa, si facesse
qualche tentativo per arrivare alla liberazione dell’onorevole Moro, erano solo il legittimo sforzo della famiglia perché si compisse qualunque tentativo, oppure vi erano
ragioni in base alle quali la famiglia pensava si potesse veramente arrivare ad un risultato?
ELEONORA MORO. Noi ci fidavamo di quello che papà diceva, scriveva da
dove era tenuto: se diceva che si poteva tentare una strada eravamo dell’opinione che
si poteva tentare.
Per quello che noi lo conosciamo, noi diamo credito e quello che Aldo Moro
diceva.
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LA VALLE. Lei non ha trovato una contraddizione tra la via che l’onorevole
Moro indicava nelle sue lettere e il complesso della sua dottrina politica, della sua
militanza politica?
ELEONORA MORO. Lui è sempre stato la persona che ha fatto l’impossibile
per salvare la vita di una persona sola. Io questo mi sono permessa di dirlo in largo e
in lungo e anche malamente, credo, ai responsabili della vita italiana in quel momento, quando alle mie insistenze perché si tentasse di fare qualche cosa o si lasciasse che
chi tentava di fare qualcosa, il Santo Padre, la CRI, le lettere scritte dalle persone con
una raccolta di firme e via di seguito... ho perso il filo del discorso.
LA VALLE. Che lei lo ha sempre detto ai responsabili.
ELEONORA MORO. Ho detto questo: non so se la vostra posizione giuridica
sia giuridicamente valida, perché io sono un’ignorante assoluta in fatto di diritto. Per
quello che mi pare ad occhio, la vita di un essere umano è sempre molto importante;
ad ogni modo una cosa so con certezza, ve la dico e portatevela dietro tutta la vita: se
al posto dell’onorevole Moro ci fosse stato chiunque altro, il suo peggiore nemico, la
persona che l’ha attaccato più malamente, che lui sa con sicurezza che è la persona
che lo odia a morte e lo distruggerà il giorno preciso che lui lo fa uscire, voialtri siate
sicuri che quella persona torna e vivrà.
LA VALLE. Ci può dire, signora, quali sono stati gli altri episodi simili a quelli
dell’avvocato Payot, dove c’è stata una interruzione di tentativi che erano in corso?
ELEONORA MORO. Quello della Croce Rossa Internazionale, per cui questa
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era pronta a prendere lei iniziative di trattative con le Brigate rosse; era d’accordo
Waldheim, era una cosa che ci dava molta speranza. Avevano bisogno, o ritenevano
giusto e opportuno, che ci fosse un cenno, neppure forse di approvazione, ma non di
negazione da parte del Governo e hanno avuto una negazione assoluta e quindi quella
strada si è interrotta.
LA VALLE. Non sa se questi brigatisti erano gli stessi i cui nomi sono stati dif-
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ELEONORA MORO. Io so che Leonardi mi disse: la situazione è più grave ogni
giorno; mi dicono, mi riferiscono che la Polizia ha potuto constatare (non so se la
Polizia di quartiere) che ci sono dei Brigatisti di altre città, noti alla Polizia come tali,
e i nuclei di Polizia che hanno constatato questa presenza hanno chiesto alle autorità
che cosa devono fare; se seguirli, fermarli. La risposta che hanno avuto è che non si
occupassero di niente e lasciassero stare.
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LA VALLE. Ci può precisare meglio questo episodio cui lei si è riferita, cioè
della conoscenza presso la Polizia della presenza a Roma di brigatisti di altre città, e
quindi dell’iniziativa del maresciallo Leonardi?
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ELEONORA MORO. I nomi non li ho saputi, Leonardi non li sapeva; era una
voce che gli era arrivata attraverso i colleghi, i compagni, la gente con cui lui viveva.
Non posso che riferire così.
Moro
fusi?
161
Moro
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Dagli allegati alla relazione (volume VII):
resoconti stenografici delle sedute della
Commissione (pagg. 81-85)
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13 GENNAIO 1981: AUDIZIONE
DI ALFREDO CARLO MORO
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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SCHIETROMA
La seduta inizia alle 18.
(Si legge e si approva il processo verbale della seduta precedente)
(Viene introdotto il dottor Alfredo Carlo Moro)
PRESIDENTE. Dottor Moro lei conosce la legge istitutiva. Sa quali sono i motivi per cui ci riuniamo in questa Commissione per questa inchiesta. La ringraziamo di
questa collaborazione di cui non abbiamo potuto fare a meno e la interroghiamo in
audizione libera; il che significa che lei fa un’esposizione di quello che ci può dire e
poi i colleghi faranno qualche domanda; lei può rispondere subito o se lo ritiene può
anche riservarsi di farlo.
ALFREDO CARLO MORO. Posso dire molto poco su quello che è successo in
quei giorni, se è questo, come credo, quello che la Commissione vuole sapere, perché
in realtà non ho saputo quasi nulla di quello che avveniva durante quei giorni. Dopo i
primi due o tre giorni subito dopo il rapimento di mio fratello, infatti, mia cognata
fece chiaramente capire, sia a me che ai miei fratelli, che intendeva gestire direttamente, attraverso il consiglio di alcune persone, questo terribile avvenimento e quindi
che non era opportuno che noi fratelli prendessimo alcuna iniziativa.
Debbo aggiungere che di fronte a questa posizione, che io non potevo che rispettare, mi trovai nella impossibilità di muovermi in qualunque senso anche perché quan162
PRESIDENTE. La ringrazio molto. Adesso sentiamo se ci sono colleghi che
vogliono sapere qualche cosa da lei.
SCIASCIA. Vorrei fare una domanda soltanto su quest’ultima affermazione del
dottor Moro: che le lettere di suo fratello gli davano l’impressione di una non globale
autenticità. Lei continua ad avere questa impressione?
ALFREDO CARLO MORO. Direi di sì, anzi direi che è stata accentuata dalla
lettura di altre lettere che prima non conoscevo. Vorrei precisare che non ho usato il
termine “autenticità”, ma il termine “genuinità”.
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do ebbi la notizia attraverso i giornali che era giunta una lettera (si diceva da parte dei
giornali) alla famiglia chiesi a mia cognata se effettivamente questa lettera era arrivata; mi fu risposto che si trattava in realtà di una fantasia dei giornalisti. Senonché il
giorno successivo, sentii alla televisione l’onorevole Andreotti dichiarare in
Parlamento che effettivamente una lettera era arrivata. E allora capii che anche queste
notizie non sarebbero giunte a noi.
Allora, di fronte a questa situazione, sia pure con molta amarezza e con molta
angoscia decidemmo di non muoverci in nessun senso, di non far nulla perché in
realtà eravamo nella situazione di non conoscere quello che effettivamente stava avvenendo, e vi era quindi il pericolo di muoverci in una dimensione, in una direzione che
poteva essere del tutto controproducente non conoscendo i fatti, la realtà, i movimenti,
le questioni che stavano sorgendo. E quindi di fronte a questa situazione rimanemmo
del tutto inerti. E a persone amiche che mi chiedevano consiglio sul da farsi, persone
da me conosciute molti anni prima e impegnate nella politica, io dissi che non potevo
dare nessun consiglio proprio perché mi trovavo in questa situazione di sconoscenza
della realtà delle cose e di fronte al pericolo di dare dei consigli sfalsati e controproducenti nei confronti di altre attività che si stavano svolgendo.
D’altra parte, non avendo mai avuto nessunissimo segnale né da parte di mio fratello né da parte di altri e quindi essendo in questa situazione di completa sconoscenza
del fenomeno, della situazione che si andava creando, non potevo muovermi in nessun
modo.
D’altra parte debbo anche aggiungere che a mio modo di vedere le lettere che
leggevo sui giornali riportate come lettere inviate da mio fratello mi lasciavano qualche perplessità sulla loro globale genuinità; e quindi anche questo paralizzava ogni
possibilità di muovermi in qualunque senso.
Questa è la situazione che io e i miei fratelli abbiamo vissuto in quei giorni senza
possibilità di far niente e senza avere nessuna notizia, senza avere nessun segnale.
SCIASCIA. Sì, sì.
ALFREDO CARLO MORO. Cioè io ritengo che (e se la Commissione lo desidera, io avevo fatto un appunto in questo senso) il modo con cui si è fatta la lettura di
queste lettere, a mio modo di vedere, non è esauriente; cioè la polemica che ne è nata
ha finito con il contrapporre o una immagine di lettere del tutto inautentiche, cioè in
cui tutto il contenuto era totalmente condizionato dalla particolare situazione in cui si
trovava mio fratello, oppure che le lettere erano tutte integralmente ascrivibili a mio
fratello. Dalla lettura che avevo fatto allora e che ripeto è stata corroborata dalla lettura a mente più calma successiva e dalla lettura di altre lettere che prima non conosce163
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vo, ho avuto l’impressione che certamente molte cose sono sicuramente scritte da mio
fratello per lo stile, per il modo e per il tipo di ragionamento, ma che ci fossero anche
nell’ambito di queste lettere tutta una serie di segnali – che io almeno ho interpretato
come segnali – attraverso cui mio fratello cercava di far filtrare alcune indicazioni
dalla sconoscenza di certe situazioni, della sua situazione necessitata, alcune possibilità di manipolazioni di queste lettere che mi sembrano rendere necessaria, almeno a
mio modo di vedere, una lettura meno sicura in un senso o nell’altro e più attenta a
cercare di scorgere se effettivamente questi segnali esistevano. Io ho preparato un
appunto di questo genere come contributo: non ho certezze nemmeno io sulle singole
frasi che ho rilevato. Mi è sembrato comunque un contributo utile segnalare queste
ambiguità di alcune affermazioni che potevano legittimare una lettura più attenta e più
puntuale tenendo conto della particolare situazione in cui si trovò.
SCIASCIA. E allora possiamo acquisire, signor Presidente, questo appunto; io
non ho altro da chiedere.
VIOLANTE. Scusi dottore, quanti fratelli eravate?
Moro
ALFREDO CARLO MORO. Tre; ce n’era un altro, morto precedentemente.
Quindi io, un fratello e una sorella.
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VIOLANTE. Nessuno di voi tre in qualche modo è intervenuto nella vicenda dei
54 giorni, per capirci?
ALFREDO CARLO MORO. No, tutti e tre eravamo nella stessa, identica situazione. Siamo stati molto tra noi a cercare di capire; abbiamo continuato a frequentare
la casa di mio fratello, ma su un piano così di assistenza parentale, senza aver nessuna
notizia di che cosa andava avvenendo durante quei giorni.
VIOLANTE. Quindi praticamente le vostre fonti di informazione erano quelle
pubbliche?
ALFREDO CARLO MORO. I giornali e la televisione.
VIOLANTE. Il rapporto tra voi e vostro fratello Aldo era buono?
ALFREDO CARLO MORO. Ottimo.
VIOLANTE. Cera un motivo particolare esposto dalla signora per il quale era
stata scelta questa strada?
ALFREDO CARLO MORO. Non c’è stato un motivo particolare o almeno non
mi è stato detto: posso solo riferire il fatto che fossimo troppo coinvolti in questa
vicenda: adesso non posso indicare dei motivi particolari, non posso raccontare che
dei fatti.
VIOLANTE. La signora Moro fece riferimento anche ai nomi di coloro che l’avrebbero assistita in questo periodo più da vicino?
164
ALFREDO CARLO MORO. Non fece riferimento, ma i primi giorni erano lì
presenti in particolare Manzari e Rana.
VIOLANTE. Ho capito.
VIOLANTE. Quindi fu fatto prima dalla signora e poi da Manzari?
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ALFREDO CARLO MORO. E il discorso in cui appunto ci fu detto che si preferiva gestire loro questa questione, di non prendere iniziative mi fu fatto anche da
Manzari.
VIOLANTE. Né lei, né suo fratello, né sua sorella hanno mai avuto prese di contatto, segnalazioni?
ALFREDO CARLO MORO. Assolutamente nessuna.
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ALFREDO CARLO MORO. Contemporaneamente.
VIOLANTE. Il suo nome era allora sulla guida telefonica?
ALFREDO CARLO MORO. No, non c’era da tempo.
VIOLANTE. Lei comunque era presidente del tribunale dei minori?
ALFREDO CARLO MORO. Sì e infatti molta gente mi ha telefonato al tribunale dove andavo tutte le mattine.
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ALFREDO CARLO MORO. Ho avuto delle telefonate in ufficio; io ho continuato ad andare al tribunale dei minorenni; ho avuto delle telefonate ma direi di mitomani che dicevano: “alla stazione tale” e quando io dicevo: «rivolgetevi alla polizia”
o rispondevano di “sì o di no” o “vogliamo parlare con lei”; oppure davano indicazioni di questo genere: ho visto passare un treno con delle persone sospette; ma non ho
avuto nessunissima indicazione o messaggio.
Moro
VIOLANTE. Neanche in ufficio lei?
VIOLANTE. Grazie. Non ho altro da chiedere.
CABRAS. Scusi, dottor Moro, nel corso di alcune testimonianze che abbiamo
udito ed anche in alcune notizie di stampa si è fatto riferimento ad un intervento del
Pontefice, della S. Sede nel corso della vicenda che ha riguardato il Presidente Moro,
volto ad attivare qualche modalità di trattativa, di intervento diverso da quello che
tutti ricordiamo della lettera che Paolo VI indirizzò alle Brigate Rosse. Lei ha avuto
per caso notizia di un intervento diverso appunto da quello che è a tutti noi noto?
ALFREDO CARLO MORO. No.
FLAMIGNI. Vorrei sapere se lei, dottor Moro, ha mai fatto una richiesta per un
controllo dei suoi telefoni.
165
ALFREDO CARLO MORO. No.
FLAMIGNI. Quindi sia il telefono presso il tribunale dei minorenni che quello di
casa non sono mai stati controllati?
ALFREDO CARLO MORO. Io non ho mai chiesto controlli di nessun genere.
Non so se siano stati controllati o no ad iniziativa di altri.
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PRESIDENTE. Il compianto Presidente ha mai parlato con lei di problemi
riguardanti la sua sicurezza o di cose di questo genere, di preoccupazioni sue al
riguardo?
ALFREDO CARLO MORO. No. Ricordo, perché avevamo due appartamenti
uno sotto l’altro in villeggiatura a Terracina, che parecchi anni fa c’erano state minacce ma molto generiche; si parlò di questo circa sei anni prima; di minacce specifiche
in epoca successiva né a me né ai miei fratelli ha mai parlato. Può essere che non ne
abbia parlato solo per non angosciarci.
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PRESIDENTE. La ringraziamo moltissimo.
166
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3 FEBBRAIO 1983:
AUDIZIONE
DI VALERIO MORUCCI
Moro
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Dagli allegati alla relazione (volume X):
resoconti stenografici delle sedute della
Commissione (pagg. 612-615)
PRESIDENTE. Dovremmo intenderci sul modo con cui procedere all’esame del
nostro prossimo ospite. Non sappiamo cosa abbia da dirci, quindi non sono in grado di
prospettarvi il tipo di domande da fare. Ritengo che non dovremmo consentire discorsi
di carattere ideologico poiché questi rischierebbero di fare diventare la Commissione
una specie di tribuna. Dovremmo chiedergli di attenersi ai fatti. D’altra parte direi di
fermare il nostro discorso al caso Moro. Se dovesse dirci qualcosa attinente a fatti precedenti, lo ascolteremo volentieri.
Se lo lasceremo parlare liberamente correremo il rischio di sentirci ripetere le
cose che ha già detto nell’intervista al Manifesto o le cose scritte nel documento che
ha firmato nel carcere.
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(La seduta, sospesa alle 14.20 riprende alle 15.05).
RODOTÀ. Si potrebbe partire da una domanda che utilizzi proprio l’accenno critico che lui fa relativamente alla ricostruzione di quello che avvenne quella mattina a
via Fani. Io partirei proprio da questo punto.
MARCHIO. Ritengo che bisognerà evitare nella maniera più assoluta che qui si
facciano proclami, per cui pregherei il Presidente non solo di togliergli la parola, ma
di invitarlo ad andarsene nel caso in cui questo accadesse, e tornare là dove ingiustamente è stato messo perché secondo me dovrebbe stare in un altro posto! A prescindere da queste considerazioni, ritengo che sia opportuno che in questa sede non vengano
fatti proclami sulla lotta armata.
167
Moro
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MILANI. Sul Manifesto è stato scritto che la partecipazione dei singoli e la dinamica di via Fani sono a tutt’oggi chiacchiere di quarta mano e ci si trova di fronte a
tanti schemi e schemini.
Anche nel dibattimento non si è riusciti a stabilire quante persone si trovassero
nella Fiat 128 bianca: tutte le ricostruzioni del fatto ricalcano stranamente il disegno
fantasioso pubblicato dal Messaggero. A me viene spontaneo fare alcune considerazioni. Tutte le foto mostrano la portiera di destra, ecc. Egli su questo punto afferma: state
facendo delle chiacchiere su come è avvenuta la vicenda di via Fani. Secondo me
dovremmo attenerci a questo fatto. Per quanto riguarda il suo pensiero politico vediamo che è stato riassunto in quella intervista; è riassunto nel documento dei “51”, di cui
siamo a conoscenza; quindi penso che non dovremmo soffermarci su questa parte
della vicenda bensi su ciò che ha da dirci circa la dinamica della vicenda di via Fani.
PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, se siete d’accordo io comincerei col ricordargli quali sono i problemi che ci impone la legge sull’inchiesta parlamentare, e che
noi dobbiamo rispondere a questi argomenti. Se egli è in grado o ha volontà di darci
delle risposte le accetteremo molto volentieri. Ovviamente non dovremo rompere il
discorso perché ne avremo bisogno anche per la seconda fase dell’indagine; anzi sottolineeremo nella presentazione di questa nostra esigenza, che noi speriamo di poterlo
ascoltare una seconda volta sul problema del terrorismo in Italia.
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(Viene introdotto in Aula il signor Valerio Morucci)
PRESIDENTE. La ringrazio di aver aderito all’invito di parlare davanti alla
Commissione parlamentare d’inchiesta. Lei può immaginare l’interesse che abbiamo a
sentirla tanto più che per aver accettato di venire da noi ci dà la sensazione di aver
preferito l’istanza politica a quella giudiziaria e su questo piano intendiamo portare il
dialogo con lei. Lei conoscerà la legge che ha istituito questa Commissione parlamentare; il Parlamento ci ha dato incarico di accertare tutto quello che è avvenuto a via
Fani e successivamente di approfondire il fenomeno del terrorismo in generale. Siamo
attualmente nella prima fase e quindi ci interessano particolari e aspetti sul problema
di via Fani, del sequestro e della uccisione di Moro. In un secondo tempo, invece,
intendiamo approfondire i problemi del terrorismo in generale; le saremmo grati se in
una prossima occasione accetterà di parlare anche di problemi più generali.
In questa sede invece vorremmo chiedere alla sua cortesia la collaborazione per i
fatti di sua conoscenza su via Fani e di quelli connessi. Solamente per reciproca intelligenza voglio dirle che la nostra Commissione d’inchiesta si propone di accertare
come è avvenuta la strage di via Fani, il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, la strategia e gli obiettivi perseguiti dal terrorismo e ogni fatto, comportamento e notizia
comunque relativi a quei tragici eventi. In particolare la Commissione dovrà accertare
se vi siano state informazioni comunque collegate alla strage di via Fani concernenti
possibili azioni terroristiche nel periodo precedente il sequestro di Aldo Moro; se Aldo
Moro abbia ricevuto nei mesi precedenti il rapimento (le leggo cose anche non di sua
competenza)...
MORUCCI. Sì, certo.
PRESIDENTE. ...minacce o avvertimenti diretti a fargli abbandonare l’attività
politica; le eventuali carenze di adeguate misure di prevenzione e tutela della persona
168
MORUCCI. Che debbo dire...
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di Aldo Moro; eventuali disfunzioni e omissioni e le conseguenti responsabilità verificatesi nella direzione e nell’espletamento delle indagini, sia per la ricerca e la liberazione di Aldo Moro, sia successivamente all’assassinio dello stesso; quali siano state
le iniziative e le decisioni comunque assunte da organi dello Stato per attribuire particolari poteri, funzioni e compiti di interventi anche al di fuori delle ordinarie competenze di istituto; quali iniziative o atti siano stati posti in essere da pubbliche autorità,
esponenti politici e privati cittadini, per stabilire contatti diretti o indiretti con i rapitori o con rappresentanti di movimenti terroristici o presunti tali durante il sequestro di
Aldo Moro al fine di ottenerne la liberazione o dopo l’assassinio; eventuali collegamenti, connivenze e complicità interne e internazionali.
Siamo rispettosi della sua libertà di scelta. Peraltro, sapendola ancora implicato
in processi, non pretendiamo da lei che dica cose lesive dei suoi interessi. Ci aspettiamo da questa sua disponibilità tutte le informazioni che ci consentano di svolgere il
nostro compito.
Fatte queste premesse, vorrei sapere da lei che tipo di informazioni ritiene di
poterci dare oggi in modo da regolare l’andamento dei nostri lavori. Mi permetto di
ripeterle che saremmo interessati a sentirla in un secondo momento sul problema del
terrorismo in generale. Si renderà conto che siamo informati delle poche cose che ha
già detto nel processo, fino alle dichiarazioni dell’ultimo giorno e delle altre cose che
invece ha scritto nel documento venuto fuori dal carcere, dell’intervista al Manifesto.
Su questo ovviamente potrà dirci qualche chiarimento o qualche allargamento, ma le
notizie e le sue opinioni ci risultano già. Preferiremmo avere notizie che non ha già
manifestato.
MORUCCI. I termini sono di esatto rovesciamento di quanto già detto al Foro
Italico. Se ritenevo quella sede non opportuna per un qualsiasi sviluppo di argomentazioni politiche, non ritengo questa sede opportuna per un qualsiasi sviluppo di argomentazioni che abbiano rilevanza penale. Ho semplicemente rovesciato quella proposizione.
PRESIDENTE. Visto che qui la legge ci chiede di fare una serie di indagini di
natura non penale ma politica...
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PRESIDENTE. Vogliamo precisare i termini del discorso?
MORUCCI. Certo.
PRESIDENTE ....se lei potesse parlarci in questo settore sarebbe già importante.
MORUCCI. Relativamente a queste cose sono disponibile a rispondere ai vari
quesiti, ma non credo sia possibile...
PRESIDENTE. Tanto per sgomberare o chiudere il primo argomento, visto che
non è disponibile in questa sede a parlare di problemi giudiziari, lei ha detto nella sua
intervista al Manifesto che al processo presso la Corte d’Assise di Roma sono state
riferite molte cose inesatte, anzi, a suo parere la maggior parte delle cose erano inesatte. Su questo potrebbe darci qualche chiarimento anche senza scendere in particolari?
169
MORUCCI. Ma... sì, certamente.
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PRESIDENTE. Visto che non intende parlare di problemi giudiziari ma di problemi politici, potrebbe dirci come è venuta fuori l’idea del sequestro Moro? E un
aspetto politico che è di nostra competenza e che non la mette in difficoltà nella sua
determinazione di non parlare in questa sede di aspetti giudiziari.
170
MORUCCI. Sì, certo. Innanzitutto vorrei precisare che quanto ho da dire è
comunque sia un insieme di fatti che di interpretazioni. Sono assolutamente contrario
a ogni costruzione di macchine di “verità assolute” su avvenimenti così complessi pur
essendo direttamente inserito all’interno dell’organizzazione Brigate rosse.
Nonostante questo, penso che sia impossibile per chiunque, anche per i più alti
responsabili dell’organizzazione, affermare delle cose con assoluta certezza. Quindi,
penso che più che rapportare le cose che voglio dire a fatti specifici, queste cose sono
da rapportare alle mie conoscenze del fenomeno e dell’organizzazione delle Brigate
rosse, al mio inserimento in quest’organizzazione.
Questo lo dico anche perché ho abbastanza l’impressione che ci sia stata un’utilizzazione specifica di tutti quegli ex appartenenti ad organizzazioni terroristiche che
avevano deciso di collaborare con la Magistratura, in funzione, appunto, di configurare le dichiarazioni di queste persone come “la verità”. Ora, mi risulta che dalle stesse
dichiarazioni di queste persone, che hanno reso questa collaborazione, questa impostazione sia nettamente smentita; cioè nessuna di queste persone si pone mai in questi
termini nei confronti di quello che dice, ma, appunto, ribadisce che riporta cose ascoltate, cose rispetto alle quali non è responsabile. Fatto questo inciso relativamente alla
sua domanda, penso che l’insieme di questa operazione politica poi denominata “operazione Moro” sia probabilmente all’origine della stessa fondazione della colonna
romana delle BR. Questo, ovviamente, alla luce di una serie di ragionamenti posteriori, di valutazioni politiche in base alla conoscenza di certi fatti, in base alla conoscenza della storia di questo fenomeno in Italia. Penso che la colonna romana delle BR sia
stata fondata per riuscire ad avere un polo di intervento direttamente all’interno del
cuore politico dello Stato.
PRESIDENTE. Lei si riferisce all’ultima ricostituzione della colonna romana?
MORUCCI. Sì. Le altre non le ritengo costituzioni perché non hanno dato luogo
a nulla, cioè sono state soltanto dei tentativi. Quindi mi rendo conto che affermando
queste cose vengono meno una serie di cose dette da altri molto tempo fa e anche
recentemente. Probabilmente si potrà chiedere: lei ha dei riscontri a questo tipo di
affermazione? Purtroppo, non ci sono riscontri fattuali. Si possono fornire sicuramente dei riscontri di carattere politico, cioè il fatto che l’organizzazione BR è un’organizzazione... prettamente operaista, cioè legata ad uno sviluppo organizzativo-politico di
un progetto legato al ruolo della classe operaia; legato alla classe operaia delle medie
e grandi fabbriche del Nord, ovviamente, quindi l’hinterland milanese e quindi
Torino. Quindi c’è già, come dire, un’anomalia da risolvere nella fondazione della
colonna romana delle BR che non si potrebbe spiegare altrimenti. Perché mai un’organizzazione prettamente operaista decide, ad un certo punto, di aprire un polo di intervento in una situazione che non ha mai avuto una storia di movimento di operaio classico, cioè di movimento operaio legato, appunto, a situazioni di fabbrica? Secondo me
la spiegazione di questa anomalia è proprio questa, cioè che la fondazione della colon-
PRESIDENTE. Scusi, può darci qualche delucidazione in proposito? La colonna
romana si è ricostituita nel 1975-1976?
MORUCCI. Sì, più o meno.
PRESIDENTE. Lei quando è entrato? Lei non ha partecipato alla ricostituzione,
lei è entrato successivamente, no?
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na romana è interna ad uno sviluppo tutto politico dell’impianto dell’organizzazione.
Non ha più a che vedere con la determinazione di una capacità organizzativa e politica
in relazione al proprio referente di classe, ma invece è tutta relativa ad un progetto
politico, se questo progetto politico si articola nella necessità e capacità di riportare la
forza operaia, o comunque l’attacco operaio, nei confronti del potere capitalistico.
(Ovviamente, quando dico tutte queste cose uso un linguaggio che non necessariamente è il mio, perché poi io queste cose, ovviamente, le vedo in tutta altra maniera.
Quindi, per portare questo attacco necessariamente deve fare un salto organizzativo e
politico, che appunto non è più direttamente rapportato al proprio referente di classe
specifico, ma è soltanto interno, appunto, ad un progetto politico. Questa secondo me
è la spiegazione della fondazione della colonna romana delle BR. Questo è il motivo
che ha portato a questa fondazione. E, come dire, questa cosa è riscontrabile in una
serie di fatti, che ovviamente sono a mia conoscenza e che sono appunto lo spaesamento totale dei militanti delle BR nei confronti della situazione romana, che è una
situazione abbastanza anomala per un quadro politico formatosi nell’esperienza dell’intervento su situazioni di fabbrica, perché appunto, come dire, da questo punto di
vista, quella romana è abbastanza una situazione media, una situazione ritardata, una
situazione a traino delle situazioni più avanzate, con una composizione di classe estremamente variegata, non molto forte, non molto concentrata. Per quanto io possa ricordare, c’è da registrare questo enorme spaesamento dei militanti che sono venuti a
Roma per fondare questa colonna rispetto a questa situazione; quasi una rimozione
della complessità di modificare l’impianto politico, l’impianto analitico, l’impianto
teorico che aveva portato alla costituzione delle colonne del Nord rispetto alla situazione romana. Quindi c’era proprio un rimuovere dei problemi, quasi un rimandarli,
un puntare tutto su fattori puramente organizzativi. Ora, secondo me da questo tipo di
necessità, da questo tipo di esigenza scaturisce l’operazione Moro. Quindi non mi
sembra né occasionale quest’operazione, né dovuta, come dire, a decisioni non ragionate o improvvise.
MORUCCI. Sì, si può dire così.
PRESIDENTE. Questa valutazione che lei fa, la colonna romana è sorta proprio
per poter realizzare questo grosso exploit di carattere politico, l’ha potuta ricavare
successivamente o era una cosa di cui è stato portato a conoscenza quando è stato
invitato ad entrare nelle BR o quando lei ha deciso di entrarvi?
MORUCCI. Mi rendo conto che le cose sono complesse, però quando dico che
l’operazione Moro era interna alla costituzione della colonna romana, non vuol dire
che la colonna romana si è costituita per fare l’operazione Moro. Voglio dire che l’operazione Moro era logica conseguenza, era la naturale e logica conseguenza, del tipo
di costituzione della colonna romana, delle BR; che era una costituzione determinata
171
proprio dal fine di avere un polo di intervento all’interno del cuore politico dello
Stato. Da questo tipo di impostazione politica, precedente già alla stessa decisione,
che non so quando è intervenuta, di portare a compimento l’operazione Moro, scaturisce proprio politicamente, logicamente, questo tipo di azione. Quindi, non è né casuale né improvvisa. Quando sia stata decisa, io non lo so. So soltanto che, appunto...
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BOSCO. C’era un obiettivo di fondo!
MORUCCI. No, l’obiettivo di fondo era riuscire ad avere un polo di intervento
nel “cuore dello Stato”. Che poi questa cosa potesse configurarsi come operazione
Moro, non lo sapeva nessuno al momento della fondazione, perché nessuno al
momento della fondazione della colonna romana poteva pensare di poter raggiungere
mai un livello di potenza organizzativa tale da permettere questo tipo di intervento:
cioè, se il livello organizzativo fosse rimasto quello dell’impianto, come dire, questa
progettualità, questo intento alla base della costituzione poteva benissimo risolversi
nel fatto che si bruciava la macchina di qualche esponente democristiano, oppure si
bruciava la macchina, casualmente, di Aldo Moro all’Università o non so bene dove.
Quindi non è che sia la decisione dell’operazione Moro costitutiva della colonna
romana.
Le cose sono rovesciate, cioè il tipo di costituzione della colonna romana ha già
in sé, proprio come germe, un tipo di intervento sull’apparato dello Stato, ovviamente
raffigurato, all’interno della colonna romana delle BR, dalla DC. Che poi materialmente questa cosa si sia manifestata nell’operazione Moro è conseguente e comunque,
a mio parere, proprio il tipo (non tanto di decisione operativa perché le decisioni operative sono sempre da valutare nell’arco di un mese o di un mese e mezzo precedente
al fatto) ma proprio la decisione politica di porre in atto tutte le operazioni propedeutiche alla possibilità di passare ad una decisione operativa, sono sicuramente abbastanza lontane nel tempo dalla sua esecuzione.
PRESIDENTE. In effetti questo episodio di via Fani e del sequestro di Moro è la
prima vera azione che è da ascriversi alle Brigate rosse a Roma; cioè, fino ad allora le
BR avevano partecipato a quel generale movimento di agitazione, di protesta e di tentativi di insurrezione.
MORUCCI. Lei ha detto che questa sarà materia di un’altra audizione e preferirei non entrare nel merito, si entrerebbe in un altro campo, se lei mi chiede questo
devo rispondere e dire che le Brigate rosse non hanno avuto niente a che vedere con il
movimento del ’77, si sono sempre poste in termini di estraneità e inimicizia nei confronti dei movimenti spontanei, proprio per struttura ideologica e teorica.
PRESIDENTE. A noi risulta che alcuni brigatisti rossi romani erano in prima fila
o comunque in posizione non secondaria in manifestazioni dell’Autonomia romana.
MORUCCI. La cosa è del tutto casuale e ha dato adito a rimproveri all’interno
dell’organizzazione. Dico questo per far capire quale tipo di rapporto c’è stato: per
esempio, Savasta è stato ripreso.
CABRAS. Seghetti all’università di Roma?
172
MORUCCI. È stato ripreso anche lui.
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MORUCCI. Più che un’invenzione è un’interpretazione un po’ ingenua di qualcosa sicuramente complesso da spiegare, mi rendo conto che non è facile: c’è qualcuno che dice “struttura di cerniera”, ma non so cosa si voglia dire. Le stesse persone,
che poi sono definite collaboratori della magistratura hanno chiesto il significato di
questo termine che comunque non è nostro, come terminologia viene usato da qualche
altra parte; non è nostro nell’ambito del movimento rivoluzionario, non è usato nel
lessico ordinario con il quale si parla, si ragiona e si scrivono documenti, infatti da
nessuna parte compare una tale definizione. Secondo me è un tipo di categoria interpretativa e di spiegazione dei fenomeni, certamente complessi, estremamente semplicista, di comodo perché vuol ridurre necessariamente la complessità di questi fenomeni ad una spiegazione che ne dia completa ragione.
Ovviamente, secondo me, dato che sono abbastanza convinto che ogni categoria
d’interpretazione non possa essere oggettiva ed autonoma, ma necessariamente legata
al punto di vista di chi la propone, il punto di vista di chi la propone tende a totalizzare il fenomeno eversivo e a darne una spiegazione univoca legata non a processi
sociali, ma a processi politici e quindi a processi conoscibili che hanno degli agenti
soggettivi, con qualcuno che li provoca e cerca di determinarli, ma non ha niente a
che vedere con la spiegazione del fenomeno sociale e, rispetto ai fenomeni sociali,
categorie di questo genere non spiegano nulla.
Sindona
PRESIDENTE. Questo movimento di cerniera di cui si è parlato molto, il movimento di collegamento tra le Brigate rosse da un lato e l’Autonomia – o comunque il
movimento rivoluzionario – dall’altro che fondamento ha? È un’invenzione di chi ha
parlato al processo o un fatto reale?
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MORUCCI. Assolutamente no.
L’ostilità che le Brigate rosse hanno manifestato nei confronti del movimento del
’77 è la stessa del Partito comunista per gli stessi motivi. Qualsiasi movimento autonomo o di massa che si pone al di fuori di una capacità di gestione di un ambito organizzativo di partito è vista con ostilità; l’ostilità che hanno manifestato le Brigate
rosse nei confronti del movimento del ’77 è simmetrica a quella del Partito comunista
e ha la stessa matrice teorica e politica.
Mafia
PRESIDENTE. Perché questa ostilità, o meglio questo disimpegno nei confronti
di Autonomia, non poteva far comodo?
PRESIDENTE. È un’interpretazione puramente organizzativistica.
MORUCCI. Una spiegazione che tende a vedere collegamenti laddove collegamenti non vi sono o, comunque, sono del tutto al di fuori di qualsiasi compenetrazione
politica, teorica o organizzativa tra componenti che si sono sempre fatte apertamente
guerra politica.
PRESIDENTE. Lei di questa funzione comunque denominata ha avuto notizia
per la prima volta al processo?
MORUCCI. No, anche prima. Penso che questa linea di interpretazione sia stata
173
interna al cosiddetto “teorema Calogero” cioè all’indagine condotta dal giudice
Calogero sul “7 aprile”.
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PRESIDENTE. Veramente è stato Savasta a parlarne.
MORUCCI. Savasta è stato arrestato dopo l’indagine sul 7 aprile e non credo sia
stato lui. Comunque, il tipo di interpretazione che vuole fornire questa categoria mi
sembra interno a questo tipo di logica e a questo stabilire non soltanto un parallelo
come collocazione sociale di fenomeni che ovviamente sono tutti genericamente assimilabili ad un eversismo sociale, ma che tra queste cose ci sia necessariamente un collegamento organizzativo, politico mi sembra lasci il tempo che trova come se, per
esempio, tra il Partito comunista spagnolo e quello filo-sovietico ci sia una certa cerniera, non penso, anzi si fanno la guerra.
PRESIDENTE. Questo significa che nelle manifestazioni romane del ’77 le
Brigate rosse non c’erano affatto, neanche come comparse individuali?
MORUCCI. Come comparse individuali sì, è attestato da alcune fotografie, ma è
del tutto occasionale e non ha nulla a che vedere con un intervento specifico perché
altrimenti, sappiamo perfettamente, si sarebbe manifestato: cioè, un intervento specifico delle Brigate rosse nel movimento del ’77 qualcosa avrebbe determinato, non
credo si sarebbe limitato al fatto di rompere le vetrine o comunque questi militanti BR
non sarebbero andati disarmati. Cioè, la stessa idea che un militante delle Brigate
rosse abbia compiti organizzativi all’interno di un movimento disarmato non regge;
per fare qualcosa come militante delle Brigate rosse all’interno di un progetto come
minimo era necessario essere armati. Il fatto che io mi sia trovato alcune volte a pranzo nello stesso ristorante con l’onorevole Rumor o con l’onorevole Colombo evidentemente non significa nulla.
PRESIDENTE. È vero?
MORUCCI. Sì è vero, ma è anche vero che ho visto un film nello stesso cinema
con Pertini, però evidentemente non significa assolutamente nulla. (Nashville - Radio
City).
Questo che vuol dire? C’era, come dire, un afflusso di gente, c’era un avvenimento e quindi si andava.
PRESIDENTE. Gli stessi rapporti tra brigatisti rossi e il circolo di via dei Volsci
sono meramente occasionali – se ci sono stati – o c’è qualche cosa di più?
MORUCCI. Innanzitutto penso che siano precedenti al fatto che questi militanti
fossero delle Brigate rosse. E poi, anche se ce ne sono stati penso che siano stati assolutamente casuali. Ripeto, c’è un’incompatibilità di fondo, strategica, teorica, ideologica, politica (si possono usare non so quanti altri aggettivi) fra il fenomeno
dell’Autonomia e il fenomeno delle Brigate rosse.
COLOMBO. Questo visto dalla parte delle Brigate rosse. Ma, visto dalla parte
dell’Autonomia, non può essere che ci sia stato qualche tentativo in direzione di quella struttura di cerniera di cui si parlava?
174
MORUCCI. Di persone con progetti velleitari è pieno il mondo; è quindi possibilissimo che ci fosse qualcuno che avesse questo tipo di velleità in testa.
BOSCO. Infatti stiamo qui proprio per questo, perché tale velleità è vera!
MORUCCI. No, questo neanche, altrimenti non sarebbero stati due fenomeni
distinti. In sostanza, non sono due fenomeni distinti solo perché qualcuno ha deciso
che fossero distinti; questa mi sembrerebbe un’interpretazione che lascia il tempo che
trova.
PRESIDENTE. Durante il sequestro Moro, l’Autonomia fece un sacco di propaganda a Roma, sottolineando l’importanza di quest’operazione, sollecitando solidarietà alle Brigate rosse. Non lo faceva per niente, o no?
MORUCCI. A me sembra di no, sinceramente. A me sembra che l’Autonomia
romana abbia detto proprio: quest’operazione è un disastro e va conclusa prima possibile, senza ulteriore spargimento di sangue, perché è un disastro per tutti che quest’operazione si concluda, con una raffigurazione dell’olocausto, con la morte dell’onorevole Moro; sarebbe una dannazione per il movimento rivoluzionario – questo pensando ai propri interessi –.
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PRESIDENTE. Però poteva essere loro interesse, tanto per citare l’opinione del
collega, giocare a fare i rivoluzionari cercando il massimo di rapporti con voi, e quindi collaborando con voi?
Sindona
MORUCCI. Assolutamente no, basta prendere i documenti ufficiali delle Brigate
rosse, queste non sono mie interpretazioni.
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PRESIDENTE. Può convalidare l’interpretazione che io cerco di dare; cioè non
era nell’interesse delle Brigate rosse dare spazio a movimenti rivoluzionari per burla,
da vetrina?
Mafia
MORUCCI. Parlo di velleità nel senso che non ha dato corpo assolutamente a
nulla. E comunque una cerniera abbraccia due superfici, altrimenti non si può definire
tale: è solo una velleità, un’intenzione.
PRESIDENTE. In che occasione hanno detto questo?
MORUCCI. A me sembra che gli esponenti dell’Autonomia romana si siano
mossi proprio in questo senso. Al processo ho ascoltato la testimonianza di uno di
questi esponenti, il quale ha detto proprio che era loro interesse, per quanto possibile –
cioè molto poco – adoperarsi politicamente per fare pressione sulle Brigate rosse e
sullo Stato affinché ci fosse una conclusione non cruenta dell’operazione, perché ritenevano che una conclusione cruenta sarebbe stata una dannazione per il movimento
rivoluzionario.
PRESIDENTE. Lei si riferisce alla deposizione di chi?
MORUCCI. Mi riferisco alla deposizione di un esponente dell’Autonomia che è
175
stato chiamato a testimoniare al processo Moro.
PRESIDENTE. Chi è?
SERRI. Il processo è un fatto pubblico, quindi lei può dirlo.
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MORUCCI. Ho dei problemi miei, di idiosincrasia, nel fare nomi.
SERRI. Allora lasciamo stare questa deposizione.
C’è uno dei massimi teorici dell’Autonomia romana il quale dice un’altra cosa:
bisogna coniugare – e parlo di Piperno – la geometrica potenza espressa in via Fani
con il movimento, quindi non si tratta di contrapposizione, si tratta di metterli insieme.
MORUCCI. Certo. Comunque, Piperno non penso che sia il massimo esponente
dell’Autonomia romana, anzi non è mai stato esponente dell’Autonomia da nessuna
parte. Piperno si era ritirato dall’attività politica.
Moro
PRESIDENTE. Dopo Potere operaio?
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SERRI. Non si può sostenere che si è ritirato dall’attività politica.
MORUCCI. Non mi sembra che sia un fatto anomalo che qualcuno si ritiri dall’attività politica: succede tutti i giorni. Comunque Franco Piperno non è mai stato
leader dell’Autonomia, anzi c’è da dire che la spaccatura di Potere operaio è proprio
una spaccatura tra i teorici dell’Autonomia e chi era contrario a quell’ipotesi, per cui
non si riesce a capire perché mai Franco Piperno possa essere considerato un padre
fondatore dell’Autonomia. Potere operaio si è spaccato proprio su questa tematica
specifica: cioè, da una parte c’era un gruppo – che era tutto il gruppo del nord – che
sosteneva la necessità dell’irradiazione organizzativa all’interno dei fenomeni sociali
antagonisti; vi era poi un’altra parte dell’organizzazione che invece sosteneva la
necessità del mantenimento di una centralizzazione organizzativa.
Ora, Franco Piperno sta dalla seconda parte, quindi non è mai stato un teorico
dell’Autonomia, anzi ha portato la spaccatura in Potere operaio proprio perché era contrario a quel tipo di progetto. Dopo di che a me non risulta che Piperno abbia mai militato in nessuna organizzazione definibile Autonomia. Il semplice fatto che Piperno fa
una dichiarazione non significa necessariamente che egli sia all’interno
dell’Autonomia. Perché si dovrebbe affermarlo? Solo perché fa un discorso genericamente di sinistra rivoluzionaria? Mi sembra abbastanza poco per configurare la sua
partecipazione in entità organizzative specifiche.
MILANI. Mi pare che avevamo convenuto sul fatto che questa parte generale
che riguarda la dinamica terroristica l’avremmo ripresa, con disponibilità eventuale di
Morucci, nella seconda fase. Le considerazioni che venivano fatte adesso, per quello
che mi riguarda, le ho portate in questa Commissione. Una cosa è la teorizzazione di
Toni Negri e una cosa, al limite, è Potere operaio nel suo complesso; la figura di Toni
Negri e per certi aspetti, se vogliamo assumere quello che era un po’ il leader di
Potere operaio a Roma, Franco Piperno sono cose che vanno distinte. Sono anche
confluite, in momenti specifici, su un progetto politico unitario, ma sostanzialmente
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con delle culture e con comportamenti diversi. Non è un caso che – probabilmente
Morucci lo sa – Potere operaio a Roma veniva definito, prima ancora del 1970, come
l’organizzazione “bombarola”. Questa coniugazione che verrà dopo è la parte della
cultura di Potere operaio romano, ed io non sono per fare questa confusione. Toni
Negri spinge nell’altra direzione, lo si può considerare il teorico di Autonomia operaia, in senso lato, perché ha un suo modo di pensare il progetto rivoluzionario.
Diversa è la questione della nascita di Autonomia romana: nascita, esperienze
che riguardano collettivi specifici che sono quello dell’Enel, quelli del Policlinico;
cioè da un rapporto diretto con il sociale, nasce il tentativo di collegarsi ad un progetto
politico, addirittura a questo progetto politico e quindi vi è il tentativo di costituirsi in
organizzazione autonoma, che fra l’altro non coincide con Autonomia operaia in
senso lato. L’Autonomia operaia romana, cioè, ha dei rapporti diciamo culturali in
senso lato con questo progetto generale, ma sono culture di tipo diverso, e di tale
distinzione ne riparleremo quando andremo a riproporci e a ridiscutere questo problema.
Però una cosa mi permetto di dirle: ad un certo momento Morucci, proveniendo
da questa cultura, decide di collocarsi nell’ambito delle Brigate rosse, quindi rompe
con un suo progetto che era quello che lui tentava di definire; Piperno era al limite
partitistico, quindi molto centralizzato, per una operazione di tipo diverso. Finisce
nelle Brigate rosse; si arriva al 1977 e poi al sequestro e all’uccisione dell’onorevole
Moro. Dopo questi avvenimenti, credo nel 1979, esce un documento dalle carceri che
riguarda la rivalutazione – mi sembra – di questi rapporti tra avanguardia e movimento armato, cioè che non può esservi distinzione; è già una critica allora al modo d’essere delle BR.
Voglio chiedere se questo documento è stato condiviso o no da Morucci, perché
qualcuno l’ha accreditato a lui in particolare, cioè, questo documento esce dopo la rottura, il carcere eccetera e viene pubblicato se non sbaglio, su Lotta Continua. È un
documento in cui questa critica, questa separatezza tra organizzazione armata e movimento è a pieno tondo, se mi consentite. Allora, vorrei capire se Morucci fu uno degli
estensori del documento e se ne fu estensore allora quando prese coscienza del dato
degenerativo del modo d’essere delle Brigate rosse e perché non avvertì nell’operazione del sequestro Moro, che pure fu un attacco al cuore dello Stato, un’astrattezza
dalla natura e dal modo di essere delle Brigate rosse, se è vero che esse nacquero in
rapporto alla conflittualità operaia. Quali sono allora questi passaggi? Quando si prende coscienza, quando si rompe? Allora a questo punto mi chiedo come è stato rovesciato il teorema: non ha voluto rispondere in sede giudiziaria, chiedendo una sede
politica per parlare di cose politiche; qui vogliamo parlar di politica e non di questioni
giudiziarie. Va benissimo: però credo che sia doveroso per noi riproporre alcuni interrogativi che, sia pure lateralmente, ripropongono la questione giudiziaria nel senso
che, se a posteriori si prende coscienza dell’assurdità di quell’intervento, dell’artificiosità dell’azione della colonna romana delle Brigate rosse, allora perché non la si è
impedita in qualche modo? Quale è stata la dinamica, come si è stati condizionati,
quale misura di responsabilità politica, lasciando stare quella giudiziaria, vi è stata in
quest’operazione?
Io credo molto a questa vicenda; credo molto al fatto che Piperno abbia potuto
dire quelle cose e che le Brigate rosse no; che siano stati criticati Seghetti e Savasta.
Insomma, che queste cose potessero essere utili alle Brigate rosse non vi è dubbio ma
credo anche che la conflittualità sociale c’entri meno, anche a livello di movimento
del 1977 a Roma. Non credo semplicemente alla critica, ma credo al fatto che la situa-
177
zione rappresentasse un terreno in qualche modo agibile per le Brigate rosse.
MORUCCI. Lo crede veramente?
MILANI. Sì, lo credo.
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MORUCCI. Dato che un commissario ha poc’anzi dato questa interpretazione,
devo dire che non sono qui per cercare di spiegare le mie responsabilità politiche o
per cercare di mettere le mani avanti rispetto a queste vicende. Se è interessante dal
punto di vista della comprensione di alcune dinamiche parlare specificamente della
nostra esperienza, se ne può parlare. Se però è più interessante l’ambito generale...
MILANI. Chiedo in primo luogo perché arriva quel documento uscito nel 1979,
cioè una critica esplicita all’operazione Moro, preso atto del fallimento di quell’operazione, di cui Morucci – non lo so, ma almeno dal punto di vista della sentenza – viene
ritenuto partecipe. Perché c’è questa autocritica e, d’altro canto, Morucci è prigioniero
di un’operazione che a posteriori si riconosce assurda e fallimentare?
MORUCCI. Quel documento è uscito dopo il nostro arresto, quindi un anno
dopo l’operazione Moro. Quindi il documento non ha a che vedere col fatto che noi,
pure avendo quella posizione, eravamo prigionieri della logica delle Brigate rosse.
Semmai il problema è un altro. Comunque sia, c’è sicuramente ad un certo momento
questa caratteristica specifica che ho detto prima, fondativa della colonna romana
delle BR, per la quale acquista completamente il suo carattere politico e si configura
appunto come necessità di collocare l’intervento dell’organizzazione in un ambito
prettamente politico, intendendo qualcosa di più complesso, cioè un ambito istituzionale politico, politico come sfera istituzionale, come sfera di rapporti politici, tra le
forze sociali e tra i partiti.
Questo tipo di tangenzialità ovviamente rappresenta una forzatura di un ipotetico, voluto rapporto tra intervento organizzativo e dinamica sociale. E all’interno di
questo tipo di rottura (non di scollamento perché secondo me non c’è mai stata unità)
proprio in questa manifestazione piena della divaricazione tra intervento organizzativo
soggettivo e dinamica della conflittualità sociale si determina sicuramente da parte
nostra un disaccordo su questo tipo di impostazione.
PRESIDENTE. Questo già durante il periodo del sequestro?
MORUCCI. Questo sull’operazione Moro nel suo complesso, cioè come operazione del tutto separata da una qualsiasi possibilità di prefigurare un collegamento tra
intervento dell’organizzazione e dinamica della conflittualità sociale.
PRESIDENTE. Lei aveva già individuato questo aspetto prima ancora che si
compisse la vicenda?
MORUCCI. Sì già in fase organizzativa.
PRESIDENTE. Quindi prima che si iniziasse.
MORUCCI. Sì. Mi permetto di dire questa cosa perché risulta agli atti.
178
PRESIDENTE. Scusi l’esemplificazione, ma lei, quando si è decisa quest’operazione, è stato contrario?
MORUCCI. Quando si è decisa quest’operazione io ed Adriana Faranda abbiamo manifestato la nostra contrarietà, ritenendo che questo tipo di operazioni determinasse una divaricazione nettissima tra intervento organizzativo e dinamica della conflittualità sociale e che, quindi, l’organizzazione, al contrario di quanto veniva ritenuto
dalla sua direzione, non dovesse arroccarsi su una posizione di chiusura organizzativa,
bensì dovesse cercare di diluire le proprie istanze organizzative, la propria capacità
organizzativa e politica all’interno della dinamica della conflittualità sociale. Questo
tipo di posizione, manifestata embrionalmente, allora, si è sviluppata, man mano,
dopo, fino ad arrivare ad una proposta implicita, ma neanche troppo, di scioglimento
dell’organizzazione Brigate rosse, cioè, dell’accettazione della fine del suo ruolo
organizzativo.
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MORUCCI. Non era chiaro all’inizio, si è venuto chiarificando mano a mano;
all’inizio era un disagio, cioè, un rendersi conto che questo tipo di livello di intervento
aveva molto poco a che vedere con gli intenti costitutivi.
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PRESIDENTE. Se questo era già chiaro all’inizio...
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MORUCCI. Bisognerebbe andare molto addietro, comunque piena e completa
lucidità su questa cosa si ha ovviamente dal momento della conclusione dell’operazione Moro fino alla nostra uscita dalle Brigate rosse. In tutto questo periodo si sviluppa
tutto ciò che era prima sentito come disagio politico; si sviluppa proprio in termini di
disaccordo politico, quindi come determinazione di un antagonismo politico, di una
linea alternativa, della necessità di un’elaborazione alternativa a quella proposta dall’organizzazione. Cosa questa che sfocia appunto in una contrapposizione frontale
all’interno dell’organizzazione e che porta di fatto alla nostra uscita da essa per totale
ed assoluta inconciliabilità tra le nostre posizioni e la posizione dell’organizzazione;
questo è riconosciuto non solo da noi, ma, a maggior ragione, dall’organizzazione
stessa. Ora, se ho ben capito...
Mafia
MILANI. È la lucidità con cui si critica una cultura propria delle Brigate rosse, proprio in seguito ad un’altra cultura, ad un’altra logica che porta al sequestro di via Fani.
PRESIDENTE. Loro, durante il pericolo del sequestro, hanno preso una posizione contraria all’esecuzione.
MORUCCI. Sì, quella logica conseguenza, sia di quello che di altri motivi,
ovviamente, che non hanno a che vedere con queste scelte politiche, che sono di carattere più generale, comunque, proprio il venir meno della funzione organizzativa.
PRESIDENTE. Loro perciò hanno partecipato alla vicenda soltanto per disciplina di gruppo, per regole di convivenza interne; messi in minoranza avete, sostanzialmente, dovuto obbedire?
MORUCCI. La cosa non è cosi semplice, per chi conosce il funizionamento
delle organizzazioni comuniste sicuramente questa cosa è estremamente comprensibi179
le. Oltre a questo fatto, però, c’è sicuramente il dato che, comunque sia, soltanto dall’interno era possibile determinare, perlomeno un tentativo di regolare questa totale
tangenzialità della linea che si stava affermando o, comunque, cercare di farlo, dato
che si sapeva e si capiva perfettamente che quegli eventi non sarebbero stati secondari
rispetto alla dinamica interna delle relazioni sociali del paese; non si trattava di andare
a bruciare una macchina.
Moro
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PRESIDENTE. Quindi, il fatto di essere rimasti solidali con un’operazione che
non si condivideva era anche nella speranza di poterla indirizzare in modo più vicino
al proprio punto di vista.
MILANI. Ho capito benissimo, però, se lei mi consente, signor Presidente, insisterei su una cosa: non so se Morucci lo sa, ma io presiedevo al circolo Medini di
Milano, quindi, da questo punto di vista, le vicende le conosco, per cui so come poi si
tentano dei progetti politici, come si dissolvono eccetera. Quello che voglio capire è
questa posizione: come BR, io rifiuto il movimento del 1977, però, dal punto di vista
di questa riflessione, che è anche a posteriori, ma che appartiene ad una certa cultura,
ad un certo modo di rapportarsi ai problemi che si dicono della rivoluzione, quanto
meno, per Morucci e Faranda, il movimento del 1977 non era un fatto estraneo ad una
certa cultura e a questa riflessione che poi matura a posteriori.
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MORUCCI. No.
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COMMISSIONE
PARLAMENTARE DI
INCHIESTA SUL CASO
SINDONA
E SULLE
RESPONSABILITÀ POLITICHE
ED AMMINISTRATIVE AD
ESSO EVENTUALMENTE
CONNESSE
LEGISLATURA)
Con la legge 22 maggio 1980, n. 204, veniva istituita una
Commissione parlamentare di inchiesta per indagare su eventuali
attività del banchiere Michele Sindona, in ordine a suoi finanziamenti a
partiti politici, membri del Governo o dipendenti di amministrazioni o
enti pubblici, o se questi abbiano favorito le attività risalenti a Sindona;
su rimborsi effettuati dopo il fallimento della Banca privata italiana; su
eventuali iniziative concernenti i debiti di Sindona e su eventuali
comportamenti di pubblici dipendenti volti a ostacolarne l’estradizione
o il compimento delle indagini.
La Commissione, composta da venti deputati e venti senatori, era
presieduta dal deputato Francesco De Martino (PSI), nominato d’intesa
tra loro dai Presidenti delle due Camere.
Il termine, inizialmente fissato in nove mesi, fu prorogato al 25
marzo 1982 e la relazione della maggioranza, relatore il deputato
Giuseppe Azzaro (DC), venne presentata il 24 marzo 1982, cui
seguirono il 15 aprile le relazioni di minoranza: D’Alema ed altri (PCI);
Teodori (PR); Rastrelli (MSI-DN).
Le conclusioni sono state discusse alla Camera il 4 ottobre 1982
e in quella occasione è stata approvata una risoluzione con la quale si
prendeva atto che si erano verificati fatti idonei a danneggiare e
inquinare il mondo economico e si impegnava il Governo a chiarire
punti ancora oscuri, particolarmente in ordine alla “lista dei 500”.
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La Commissione venne incidentalmente in possesso, a seguito
dell’invio da parte dell’Ufficio istruzione del tribunale di Milano, di
documenti inerenti all’attività di Licio Gelli e della loggia massonica
P2, che, anche su raccomandazione di questa Commissione, dettero
luogo alla istituzione di un’apposita Commissione parlamentare di
inchiesta.
I suoi lavori sono particolarmente importanti perché nel loro
corso si pose per la prima volta il problema di norme giuridiche di
attuazione dell’articolo 82 della Costituzione, mediante legge ordinaria
o regolamento parlamentare approvato a norma dell’articolo 64 della
Costituzione, da entrambe le Camere nello stesso testo.
Inoltre stabilì per i suoi lavori un codice di comportamento in cui
spicca la distinzione delle audizioni in “audizioni libere”, svolte cioè in
modo sostanzialmente conforme alle audizioni delle Commissioni
permanenti delle Camere in sede di controllo; e “testimonianze
formali”, da svolgere con severe procedure e con la possibilità di
attivare su di esse il “segreto funzionale” individuato dalla Corte
Costituzionale con la sentenza n. 231 del 1975. Ciò che avrebbe
consentito di non trasmettere, anche se richiesti, all’autorità giudiziaria
atti riguardanti persone che avrebbero potuto legittimamente astenersi
dal rendere dichiarazioni, in quanto imputate in procedimenti penali, e
al riguardo fu ammessa l’assistenza dei difensori.
Della relazione della maggioranza (Azzaro) pubblichiamo qui
uno stralcio riguardante la “lista dei 500” e uno stralcio della relazione
di minoranza del deputato Giuseppe D’Alema su Sindona, la mafia e le
connessioni americane.
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5. TECNICA DEI COSIDDETTI
“DEPOSITI FIDUCIARI”
E “TABULATO DEI 500”
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Dalla relazione conclusiva
(relatore Azzaro)
(pagg.45-56)
LA VICENDA DEL “TABULATO DEI 500”.
È sotto certi aspetti strettamente connesso al problema dei “depositi fiduciari”
quello della cosiddetta lista o “tabulato dei 500”, e cioè il documento che avrebbe
contenuto più di 500 nomi di persone (o enti), titolari di depositi effettuati fiduciariamente, in divisa estera, presso le due banche italiane di Sindona, attraverso Finabank;
una lista cioè di somme che Finabank aveva avuto in deposito fiduciario da un certo
numero di persone, mai appurato nella sua esatta entità (si è infatti parlato di 543, 553
o 554 persone).
Dell’esistenza del tabulato sembra trovarsi una traccia documentale (sia pure non
esplicita) in un appunto concernente una riunione tenutasi presso la Banca d’Italia il
28 agosto 1974 (quando già le due banche di Sindona si erano fuse nella Banca
Privata Italiana), appunto che per la parte che interessa risulta essere del seguente
testuale tenore:
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“28 agosto 1974. Si è tenuta una riunione a cui hanno partecipato per la Banca
d’Italia Carli, Occhiuto, il direttore centrale Ignazio Pritano, l’ispettore capo Antonino
Arista; per il Banco di Roma l’amministratore delegato professor Ferdinando
Ventriglia, l’amministratore delegato avvocato Mario Barone, il presidente del collegio sindacale Tancredi Bianchi, il direttore centrale Pier Luciano Puddu. Scopo della
riunione era quello di mettere a punto alcune informazioni intorno alla situazione
della Banca Privata Italiana e a tal fine il professor Ventriglia ha esibito al signor
Governatore il prospetto qui accluso, compilato a mezzo di funzionari del Banco di
Roma, riflettente le posizioni in valuta della predetta Banca Privata Italiana alla sera
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del 26 agosto. Dall’esame di tale prospetto emerge che lo sbilancio deriva da crediti
verso società del gruppo Sindona che sono di impossibile esazione; da perdite su affari ormai conclusi; da probabili perdite su affari ancora aperti.
Il professor Ventriglia mette in particolare evidenza che nella sezione “depositi
ricevuti” figurano alla voce 3° “gruppo Sindona” crediti dell’Amincor per dollari
50.176.000 e della Finabank per dollari 43.620.000 e – ad illustrazione di dette voci –
informa che il credito della Finabank, detratti dollari 7.000.000 circa e quindi per residui dollari 37.000.000, rappresenta depositi di somme avute fiduciariamente da nominativi diversi (oltre n. 500), con scadenze varie già in corso di maturazione, alcune
addirittura scadute nel corrente mese.
Il professor Ventriglia – dopo precisazioni varie anche da parte di altri intervenuti a]la riunione – propone e il dottor Carli approva che soprattutto allo scopo di sostenere la credibilità del nostro sistema all’estero, la Banca Privata Italiana faccia fronte
agli impegni con la Finabank alle singole scadenze, previa verifica di regolarità” (v.
documenti Banco di Roma, 00l67/Sind.)”.
Sembra desumersi con sufficiente chiarezza dall’appunto suddetto, che in sostanza costituisce il verbale di una riunione ufficiale presso la Banca d’Italia, il riferimento all’esistenza di 500 e più persone (o enti) che, attraverso il sistema dei depositi
fiduciari, avevano esportato valuta all’estero e rispetto ai quali era stato ordinato il
rimborso delle somme depositate, con denaro di una banca, quale la Banca Privata
Italiana, che a pochissima distanza di tempo sarebbe stata posta in liquidazione coatta.
Era naturale di conseguenza (anche se a quell’epoca l’esportazione di valuta non
costituiva un illecito penale) che il giudice istruttore di Milano iniziasse, nell’ambito
delle più generali indagini concernenti il crack di Sindona, una specifica indaginc
diretta a stabilire se esistesse la lista dei cinquecento titolari dei depositi fiduciari, per
rintracciarla o per ricostruirne il contenuto, al fine di stabilire se le vicende ad essa
relative potessero integrare ipotesi di reati patrimoniali o fallimentari. Nel corso di
pazienti indagini, i giudici milanesi accertarono - secondo quanto emerge, per grandi
linee, dall’istruttoria compiuta - che il documento era stato ricevuto sotto forma di un
tabulato elettronico (e di qui il nome che da allora la lista avrebbe preso), dal direttore
centrale addetto ai servizi esteri del Banco di Roma Pier Luciano Puddu; che il Puddu
a Roma ne aveva parlato a Ferdinando Ventriglia, amministratore delegato del Banco
di Roma; che il documento era stato sottoposto all’attenzione del Governatore Carli,
che aveva autorizzato il rimborso dei depositi fiduciari; e che infine il documento,
secondo la versione data da Puddu, sarebbe stato consegnato, perché lo conservasse,
all’altro amministratore del Banco di Roma, Mario Barone. Malgrado gli accertamenti
compiuti, anche attraverso organi di polizia, i giudici non riuscivano a rintracciare il
tabulato tra i documenti delle banche di Sindona conservati presso il Banco di Roma;
mentre dal canto suo Mario Barone, interrogato sulla vicenda come testimone, veniva
ritenuto reticente e mendace e veniva perciò provvisoriamente arrestato.
Durante la detenzione, Barone dichiarava quindi di non potere escludere che
Puddu gli avesse consegnato una busta contenente il tabulato e dal carcere, con il consenso del giudice, si metteva telefonicamente in contatto con il terzo amministratore
del Banco di Roma Giovanni Guidi, nel tentativo non riuscito di recuperare il documento. Barone veniva pertanto scarcerato, in relazione all’ipotizzata accusa di falsa
testimonianza, ma veniva poi formalmente incriminato, per la sparizione dei tabulati,
del delitto di cui all’articolo 490 del codice penale (soppressione, distruzione e occultamento di atti veri); mentre per gli stessi fatti veniva indiziato anche Giovanni Guidi.
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Entrambi però, sia il Barone che il Guidi, con sentenza istruttoria del 19 febbraio
1977, venivano prosciolti dai reati loro ascritti per amnistia; ma con la stessa sentenza
il giudice disponeva la continuazione delle indagini intese ad acquisire il tabulato o a
ricostruirne il contenuto, anche ai fini di accertare eventuali appropriazioni o distrazioni di fondi in lire o in valuta in danno della Banca Privata Finanziaria, commesse
dalle stesse persone già imputate o da altre.
In questa stessa direzione, nell’ambito del suo mandato e quindi per fini diversi
da quelli del giudice penale, si è attivamente e con rigore impegnata la Commissione,
nell’intento di accertare, mediante la ricostruzione, se non il recupero, del tabulato, se
personalità politiche o funzionari amministrativi avessero commesso illeciti valutari o
di altro tipo, e più in generale se avessero comunque tratto dai loro rapporti con
Sindona vantaggi di qualsiasi genere, come quello appunto di potere illecitamente
esportare capitali all’estero e di potere ottenere anticipatamente il rimborso delle
somme depositate fiduciariamente, con preferenza rispetto ad altri creditori delle banche di Sindona.
A questo fine sono stati più volte esaminati, anche in confronto tra loro, tutti i
personaggi di maggiore rilievo coinvolti nella vicenda, e le indagini sono state indirizzate verso più direzioni: ad accertare, anzitutto, non solo la materiale esistenza del
cosiddetto tabulato, quanto soprattutto la sua autenticità, e quindi la sua compilazione
da parte della Finabank e la sua provenienza da questa; ad acquisire, poi, ogni utile
elemento circa le modalità con cui il tabulato era stato portato a conoscenza del
Governatore della Banca d’Italia e circa le ragioni e i modi con cui era stato disposto
(ed eventualmente eseguito) il rimborso delle somme depositate fiduciariamente presso Finabank; a stabilire, quindi, che sorte avesse avuto il documento dopo la riunione
presso la Banca d’Italia; a individuare, infine, induttivamente e attraverso le testimonianze, una volta esclusa la possibilità di venire in possesso materialmente del tabulato, quali fossero i nomi (o alcuni dei nomi) che esso conteneva.
In ordine al problema della materiale esistenza del tabulato, un elemento a favore
della soluzione positiva è offerto dalle dichiarazioni rese da Puddu, Barone e
Ventriglia che presuppongono sempre come incontestabile l’esistenza del documento.
Come si avrà modo di chiarire meglio in prosieguo, Bordoni, che pure ha parlato di
una lista di depositi fiduciari presso Finabank, sembra però riferirsi ad un documento
diverso, che non conteneva i nomi dei depositanti, a loro volta desumibili da un altro
documento. Se le dichiarazioni di Bordoni lasciano intravedere quindi la eventualità
che i tabulati fossero due, v’è peraltro anche chi, come Magnoni (8 aprile 1981, Bal.
XIX/2 e 3), ha negato l’esistenza della lista, aggiungendo, però, di non poter escludere
che, quando la gestione delle banche non era più sotto il controllo di Sindona (e dunque nel periodo che qui interessa), qualcuno fosse andato alla Finabank a farsi dare i
nomi dei titolari dei depositi fiduciari.
Il primo a ricevere il documento in Italia sarebbe stato, in data 27 agosto 1974,
Pier Luciano Puddu, direttore centrale addetto al servizio estero del Banco di Roma.
Al ritorno dalle ferie, Puddu era stato inviato a Milano da Ventriglia per svolgere una
ispezione sulla posizione in valuta della Banca Privata Italiana; fu in quella occasione
che avrebbe avuto il documento, ma sulle modalità il teste ha dato prima ai giudici e
poi alla Commissione informazioni imprecise e contraddittorie. In particolare, mentre
al giudice istruttore aveva affermato di non ricordare in che modo avesse avuto il
tabulato, se a Roma dai dipendenti del servizio che dirigeva, o se a Milano dai funzionari preposti alla Banca Privata Italiana, alla Commissione ha in un primo tempo ripetuto di non essere certo se il documento gli fosse stato consegnato a Milano o se l’a-
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vesse trovato sulla sua scrivania, tra gli altri documenti, al ritorno dalla trasferta di
Milano; per poi finire con l’attestarsi, nel confronto del 4 febbraio 1981, sulla versione che, secondo i suoi ricordi, al 90 per cento delle probabilità il documento l’aveva
avuto a Milano durante la sua visita del 27 agosto e che poteva averlo ricevuto o da
Giovambattista Fignon, che dirigeva per conto del Banco di Roma la Banca Privata
Italiana, o da Ugo Grazia, della segreteria di Fignon, o da Nicola Biase, responsabile
del servizio estero della Banca Privata Finanziaria. Tutti costoro hanno smentito
Puddu, anche se Fignon ha ammesso di avere visto una volta il tabulato; così come
Alessandro Gregori, capo servizio della Centrale cambi del Banco di Roma (e che
dunque, secondo una delle prime versioni di Puddu, sarebbe stato il primo consegnatario del documento), ha negato la circostanza.
Al di là di questa pluralità di contraddittorie versioni, sta di fatto comunque che
Puddu non ha mai messo in dubbio l’autenticità del documento, e cioè la sua effettiva
e volontaria provenienza dai funzionari dirigenti di Finabank; tanto che nella sua
dichiarazione alla Commissione (Sant. IX/2) ha affermato, evidentemente per esplicitare ed avallare tale sua convizione, che il documento, consistente in un elenco di
nomi, era intitolato a “Finabank”. Non diversa si è dimostrata l’opinione di Carlo
Bordoni, assunto da Sindona nel 1971 per guidare gli affari valutari delle societa del
gruppo, che ha dichiarato di aver ricevuto da Hans Hoffer, funzionario di Finabank,
un tabulato (materialmente diverso, evidentemente, da quello consegnato a Puddu),
contenente una lista di 543 titolari di depositi fiduciari presso Finabank. Al riguardo,
Bordoni ha indicato una serie di elementi (come ad esempio l’uso delle virgolette al
posto degli zeri) da cui era possibile desumere con certezza la provenienza da una
banca svizzera del tabulato. Bordoni ha peraltro precisato che, pur non potendo essere
sicuro dell’attendibilità del contenuto (ma non della genuinità) della lista, se l’era fatta
consegnare, per poterla usare eventualmente contro Sindona, in vista di asseriti pericoli che lo minacciavano; e che l’aveva quindi affidata in Venezuela al legale Oscar
Rasquin, perché ne depositasse tre esemplari presso tre notai di tre paesi diversi. La
lista. ha aggiunto Bordoni, avrebbe dovuto essere pubblicata qualora egli fosse morto.
Ma, malgrado le informazioni ora riassunte e la convinzione più volte ribadita dal
teste circa l’autenticità della lista, circa cioè la sua provenienza da Finabank, Bordoni
non è stato in grado di fornire alla Commissione nessun elemento utile per il recupero
del documento, affermando di non conoscere i nomi dei notai a cui il tabulato sarebbe
stato consegnato, mentre Oscar Rasquin, che li conosceva, era nel frattempo deceduto.
Molto piu problematico è il punto di vista espresso da altre persone, che pure
non negano la materiale esistenza del tabulato, sulla legittimità della sua provenienza.
Così, ad esempio, Ventriglia ha accennato alla possibilità che il documento fosse stato
sottratto a Finabank (dato il rigore delle norme circa il segreto bancario vigente in
Svizzera) ed ha avanzato anche altre ipotesi, variamente argomentate, circa la provenienza del documento; così ancora Carli ha messo in dubbio, più o meno apertamente,
la possibilità di considerare il tabulato come un documento legittimamente formato e
uscito da Finabank, sostenendo che avrebbe invece potuto trattarsi di nient’altro che
di un documento anonimo; così, infine, Barone ha escluso che il tabulato, pur venendo
da Finabank, potesse avere valore giuridico.
Quale che sia la verità su questo punto, è risultato comunque che la mattina del
28 agosto 1974 Puddu parlò del tabulato a Ventriglia, spiegandogli che parte dei depositi di Finabank erano costituiti, per un numero superiore a 500, da depositi fiduciari.
Secondo Puddu, Ventriglia avrebbe mostrato specifico interesse al documento, sottolineando la necessità di andare a parlarne a Carli. Ventriglia ha invece sostenuto di non
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avere attribuito nessuna particolare importanza, ai fini delle informazioni che si dovevano dare a Carli, al tabulato dei 500; ed ha aggiunto di non avere nemmeno esaminato il documento, se non dandogli una scorsa fugace, e ciò per deontologia professionale, trattandosi di un documento che si affermava proveniente da una banca svizera e
dunque vincolata al riserbo. Lo stesso Ventriglia ha tuttavia riconosciuto di aver detto
a Puddu che del tabulato avrebbero dovuto parlare a Carli, in occasione della riunione
con questi già fissata per quella stessa mattina; va ribadito peraltro che oggetto specifico della riunione prestabilita erano soltanto i risultati delle rilevazioni effettuate, per
suo incarico, da Puddu nella sede di Milano della Banca Privata Italiana. Pertanto,
secondo Ventriglia, la riunione tenutasi presso la Banca d’Italia il 28 agosto era stata
una sola, aveva avuto inizio poco dopo le 11, ad essa avevano partecipato le persone
indicate nell’appunto prima trascritto, e vi erano stati discussi i problemi e prese le
decisioni di cui all’appunto stesso. Puddu invece ha dichiarato, come del resto aveva
già fatto durante l’inchiesta penale svolta dal giudice istruttore di Milano, che quella
mattina le riunioni presso la Banca d’Italia furono due; la prima, cui parteciparono
soltanto Carli e Ventriglia, che egli stesso aveva accompagnato in macchina, ebbe ad
oggetto la questione del tabulato; la seconda, invece, fu quella plenaria di cui all’appunto piu volte citato. Questa versione è stata indirettamente confermata davanti alla
Commissione, così come davanti al giudice istruttore, da Mario Barone, che ha sempre dichiarato che Puddu gli aveva parlato di un primo incontro con Carli, precedente
a quello a cui anch’egli aveva ufficialmente partecipato.
Ventriglia invece, come si è accennato, ha insistito sulla tesi dell’unica riunione,
cercando di spiegare le diverse affermazioni di Puddu con il rilievo che questi, parlando di due riunioni presso Carli, poteva essersi confuso con i due incontri che quella
stessa mattina aveva avuto con lui, a breve intervallo di tempo, prima che si recassero
alla Banca d’Italia, e sempre riguardo alle questioni di cui avrebbero dovuto parlare
con Carli. Quest’ultimo dal canto suo ha anch’egli sempre affermato, nella dichiarazione resa alla Commissione ed in sede di confronto, che la mattina del 28 agosto la
riunione svoltasi nel suo studio fu una sola, cominciò con breve ritardo e non fu preceduta da nessun incontro bilaterale con Ventriglia. Carli ha peraltro aggiunto che,
prima della riunione, Ventriglia si era limitato a farsi vedere, affacciandosi alla porta
del suo studio, ed ha reiteratamente dichiarato di non aver voluto nemmeno vedere il
tabulato, anche se ha escluso, contrariamente a quanto ha affermato Ventriglia, di aver
fatto un gesto di repulsione (o di orrore, come sostiene Barone di aver appreso da
Ventriglia) a sentirne parlare. Ha anzi chiarito di non aver nemmeno voluto discutere
di un tabulato, in quanto doveva trattarsi o di un documento anonimo, di provenienza
ignota, e dunque inutilizzabile, posto che egli non poteva considerarsi investito (neppure nella sua veste di capo dell’Ufficio italiano cambi) di funzioni di polizia; oppure
di un documento realmente proveniente da una banca svizzera, e quindi compilato e
diffuso in violazione delle rigorose norme sul segreto bancario vigenti in Svizzera, del
quale, quindi, sarebbe stato sbagliato parlare, nell’interesse del paese. Se poi il tabulato fosse stato sottratto a Finabank, sarebbe stato gravemente dannoso avvalersene per
l’Italia.
Tutti coloro che parteciparono alla riunione ufficiale verbalizzata nell’appunto di
cui si è più volte parlato hanno escluso che in quella occasione il tabulato fosse stato
mostrato a Carli; in particolare, Puddu, che durante l’inchiesta giudiziaria aveva detto
di averlo portato alla riunione in una busta gialla e di aver messo la busta sul tavolo
intorno a cui sedevano i partecipanti alla riunione, ha dichiarato alla Commissione che
aveva tenuto il documento in borsa e che Carli, con un cenno, gli aveva fatto capire di
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non estrarlo neppure.
Quali che siano state le modalità della riunione, è comunque certo che le sue
conclusioni, in merito alla lista dei 500, furono quelle documentate nell’appunto. In
precedenza, com’è noto, la Banca d’Italia aveva disposto, con un provvedimento che
aveva preso il nome di “cordone sanitario”, che le banche italiane di Sindona non
effettuassero pagamenti a società o persone in qualsiasi modo legate al gruppo
Sindona. Il cordone sanitario già prima del 28 agosto aveva subìto deroghe, come si è
detto in altra parte della relazione, e sarebbe stato poi completamente eliminato. Per
quanto riguarda i conti fiduciari di Finabank, il pagamento fu disposto, secondo le
persone esaminate, sul presupposto che i titolari dei conti dovessero essere trattati alla
stessa stregua delle persone fisiche e giuridiche non collegate con il gruppo Sindona e
che i rimborsi dunque dovessero essere senz’altro effettuati a favore di chi appariva –
come coloro che figuravano nel tabulato – non collegato a Sindona e al suo gruppo.
Si stabilì perciò che la Banca Privata Italiana facesse onore agli impegni con la
Finabank alle singole scadenze e si aggiunse che ciò doveva avvenire “previa verifica
di regolarità”. Il significato di questa clausola è stato oggetto di una specifica indagine, che non ha dato nemmeno essa risultati univoci. Per Carli, infatti, la condizione
stava ad indicare l’obbligo di non effettuare pagamenti quando si fosse acquisito il
convincimento che i conti fossero intestati a persone fisiche o giuridiche legate a
Sindona; mentre Ventriglia ha aggiunto che la clausola comportava anche la necessità
di una verifica di regolarità valutaria e, dal canto suo, Antonino Arista ha precisato
che la clausola imponeva di accertare, prima di eseguire i pagamenti, che i depositi
fiduciari fossero effettivamente esistenti, che fra i depositi non vi fossero partite di
pertinenza del gruppo Sindona e che i depositi stessi fossero stati effettuati secondo le
norme valutarie allora vigenti.
Al termine della riunione che portò alle decisioni accennate, il tabulato fu riportato da Puddu negli uffici del Banco di Roma; qui Puddu, secondo una dichiarazione
più volte ribadita, avrebbe chiesto a Ventriglia che cosa doveva fare del documento e
Ventriglia gli avrebbe risposto di darlo al suo superiore, e cioè a Barone (che era l’amministratore delegato preposto al servizio esteri); egli pertanto avrebbe seguito Barone
nel suo ufficio e, secondo le sue indicazioni, gli avrebbe lasciato il tabulato in una
busta che egli stesso aveva chiuso leccandone i lembi. Ventriglia, invece, ha sostenuto
davanti alla Commissione, e anche in sede di confronto, di avere detto a Puddu di
consegnare il documento al servizio esteri e non al suo diretto superiore ed ha precisato di non aver visto Puddu consegnare materialmente il documento a Barone: circostanza che, peraltro, non si è detto in condizione di escludere. Dal canto suo, Barone
ha sempre negato di aver preso in consegna il tabulato, e ha affermato che quando
Puddu lo aveva invitato a far ciò, gli aveva risposto di tenere per sé il documento e di
metterlo in cassaforte. A sostegno della sua tesi, Barone ha chiarito in più occasioni
che non vi erano ragioni perché egli personalmente conservasse il documento, tanto
più che non aveva una cassaforte, che non era abituato a conservare documenti in ufficio e che, a suo parere, il tabulato, essendo privo di ogni valore giuridico, non era in
alcun modo necessario o utile per la verifica di regolarità, a cui erano condizionati i
rimborsi.
È risultato, peraltro, che Barone mise in atto, attraverso propri incaricati e a costo
di un personale sacrificio economico, un serio tentativo per recuperare il tabulato e
metterlo a disposizione della giustizia. Barone, non solo durante il tempo del suo arresto provvisorio si rivolse a Guidi, pregandolo di rintracciare il tabulato; ma successivamente incaricò uno straniero, non nominato al giudice istruttore, di contattare i fun-
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zionari di Finabank per avere, a pagamento, un esemplare del tabulato. Alla
Commissione Barone ha fatto per la prima volta il nome dello straniero, indicandolo
nella persona dell’avvocato statunitense Roberto Memmo; costui, seguendo le istruzioni di Barone, si era messo in contatto con il dottor Pietro Oliviero di Finabank,
dandogli, per il recupero del tabulato, un assegno di centomila dollari, corrispondenti
alla liquidazione di Barone; ma Oliviero, dopo aver promesso la consegna del tabulato, aveva successivamente restituito l’assegno, dicendo di non essere più in possesso
del documento. Con la conseguenza che Barone non aveva potuto portare a termine il
suo tentativo, posto in atto – secondo la sua versione – non già perché egli fosse in
qualche modo responsabile della sparizione del documento, ma soltanto per evitare le
complicazioni giudiziarie in cui era stato coinvolto; ed anche perché Andreotti, dopo
il suo primo fermo giudiziario, lo aveva pregato di fare ogni sforzo per trovare e produrre il tabulato, allo scopo di evitare che si volessero coprire gli evasori e che rimanesse il sospetto che si tentava il salvataggio di importanti personaggi della democrazia cristiana.
È inoltre certo che, insieme a questo di Barone, fu fatto anche un altro tentativo
di rintracciare il tabulato. Al riguardo Ventriglia ha precisato che, il 2 o 3 settembre
1974, aveva chiesto a Guidi di sistemare tutte le carte riguardanti Sindona in un locale
dell’ufficio diretto da Tommaso Rubbi, capo dell’ufficio legale del Banco di Roma.
Successivamente, durante la cerimonia per il matrimonio di un figlio di Guidi, Puddu
lo aveva pregato di chiedere a Guidi e a Rubbi di fare qualcosa per rintracciare il tabulato, ed egli effettivamente si era rivolto ai due, senza però ottenere nessun risultato.
Anche Guidi ha dichiarato che Puddu, nella primavera del 1976, gli aveva fatto presente la difficoltà di rintracciare il tabulato ed ha aggiunto che, durante il matrimonio
del figlio, Ventriglia lo aveva pregato di cercare il tabulato, chiedendolo a Rubbi; al
che egli gli aveva risposto che, trovandosi Rubbi tra gli invitati, la richiesta poteva
rivolgergliela direttamente. Rubbi, infine, ha ammesso di aver sentito parlare del tabulato durante il matrimonio del figlio di Guidi, ma ha negato di esserne stato mai in
possesso. Anche Alessandro Gregori (capo servizio della Centrale cambi del Banco di
Roma), che, secondo Ventriglia, avrebbe dovuto materialmente conservare il documento, ha negato di esserne mai venuto a conoscenza.
Il tabulato, così, non è stato più rintracciato, ma è certo che la riunione presso
Carli mise in moto l’operazione dei pagamenti dei depositi, anche se al riguardo
Barone ha dichiarato alla Commissione di non sapere se i rimborsi siano poi effettivamente avvenuti, precisando altresì che comunque, a questo fine, la Banca Privata
Italiana non aveva utilizzato denaro datole dal Banco di Roma, bensì le proprie residue disponibilità finanziarie.
C) INDAGINI SUI NOMI PRESUNTIVAMENTE CONTENUI NEL TABULATO
Resta a questo punto la domanda circa i nomi di coloro che figuravano nel tabulato e circa l’esatta natura delle infrazioni configurabili a loro carico. In mancanza del
documento, anche a questa domanda è impossibile dare una risposta più o meno precisa, data l’eterogeneità e la contraddittorietà dei dati forniti in proposito dalle persone
che hanno ammesso di aver avuto tra le mani il tabulato o, per lo meno, di averne
avuto conoscenza. È da mettere in particolare rilievo, a tal proposito, che tutti coloro
che hanno fatto dei nomi li hanno tratti esclusivamente dalla loro memoria, senza fornire alcun riscontro documentale od obiettivo. Bordoni, in particolare, si è addirittura
messo – si è avuto modo di vedere – nella condizione di non poter offrire la prova
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documentale che pure ha affermato essere stata in suo possesso.
Come si è già accennato, Carli ha detto di non avere nemmeno voluto vedere o
parlare del tabulato, mentre Ventriglia ha sostenuto di non ricordare se avesse o no
sfogliato il documento che gli veniva mostrato da Puddu, ma ha comunque ribadito di
non averlo esaminato e di non aver letto i nomi in esso contenuti.
Bordoni, invece, per quanto riguarda la questione dei nomi, ha spiegato che il
documento venuto in suo possesso era diviso in tre colonne: la prima recava dei
numeri (corrispondenti ai depositi), la seconda, che avrebbe dovuto contenere i nomi
dei titolari dei conti, era in bianco, la terza riportava gli importi e la valuta dei singoli
depositi. Ha peraltro aggiunto che esisteva una chiave per desumere i nomi degli intestatari dei conti da un altro documento pure in suo possesso, e pure consegnato alle
persone di cui si è detto. Sulla base di queste precisazioni, facendo appello alla memoria, e non escludendo la possibilità di errori o di imprecisioni, Bordoni ha fatto una
serie di nomi in parti diverse della sua deposizione, spontaneamente o fornendo precisazioni alle sollecitazioni dei commissari. Da un esame globale delle dichiarazioni di
Bordoni si ricava che i nomi da lui complessivamente fatti sono i seguenti: Mr. New,
dal teste identificato in Shadick della Franklin; Glison, presidente della Franklin
National Bank; David Kennedy, già ministro del tesoro degli USA; “Mike” (che
sarebbe poi l’onorevole Micheli, segretario amministrativo della democrazia cristiana); l’onorevole Giacomo Mancini; Anna Bonomi; Jack Surley; Acheson, un avvocato
di New York, presidente di società controllate da Sindona; Lolli Ghetti; Licio Gelli,
capo della loggia massonica P2; Sabini; John Mac Caffery sen., capo del servizio
segreto britannico in Italia, e il figlio omonimo; il generale Picchiotti; Pighini (che è
anche lui un ufficiale); Cacioppo (generale o ammiraglio); Scarpitti; i fratelli
Caltagirone; Nicola Biase; un certo Jack C., corrispondente forse a Jack Connally;
Gianluigi Clerici; Gaetano Di Maggio; Pier Sandro Magnoni; Rosalyn Shipping (una
sigla che – come s’è detto nel secondo capitolo – Bordoni ha asserito essere corrispondente alla DC, ed alla quale avrebbe fatto riscontro, sempre secondo Bordoni, il
numero 58259). Bordoni ha anche precisato che a Clerici corrispondeva il numero
01476 e a Magnoni il numero 025444 o 2544. Ha infine escluso che nell’elenco figurasse il nome di Birindelli, mentre ha detto che vi figurava quello di Fanfani, aggiungendo però che poteva anche trattarsi di una sigla di fantasia.
A sua volta Puddu, che pure ha detto di aver consultato il tabulato, ha sempre
asserito di avervi letto soltanto nomi di banche e di privati (tra cui quello della società
Agusta); mentre ha escluso che vi fossero nomi noti. In particolare ha escluso che vi
fossero i nomi di Leone, Saragat, Rumor, Andreotti, Colombo, Mancini e Nenni: circostanza che ha detto di aver riferito anche a Ventriglia, per escludere che nel tabulato
vi fossero i nomi di quelli che – secondo lui, che per dieci anni era stato a New York –
erano in quel momento gli uomini politici italiani più conosciuti. La circostanza è
stata confermata negli stessi termini anche da Ventriglia; mentre Guidi, durante l’inchiesta penale, ha dichiarato che Puddu gli parlò non soltanto della società Agusta, ma
anche di altri nomi, come quelli di un importante industriale, di un dipendente di
banca e del segretario amministrativo di un partito. Ma davanti alla Commissione, in
sede di confronto, Puddu ha negato di aver fatto nomi a Guidi; e Guidi, come già era
avvenuto nel corso dell’istruttoria penale, ha detto che allora i nomi doveva averglieli
fatti Barone.
Quest’ultimo, dal canto suo, pur affermando, come più volte si è detto, di non
aver mai personalmente consultato o esaminato il tabulato, ebbe a dichiarare il 7 febbraio 1978 al giudice istruttore milanese di aver saputo,
“Non è che io abbia detto i nomi; il giudice Viola ed il giudice Urbisci mi chiedevano: le risulta questo nome? le risulta quest’altro? mi lessero un elenco di cinquanta o sessanta nomi e ad alcuni dissi di sì, ad altri di no, tanto che per l’onorevole
Piccoli dissi che poteva essere, che non lo ricordavo. Questo l’iter dell’interrogatorio
e il giudice Viola era soprattutto interessato ai nomi dei magistrati; ricordo che insisteva molto per Spagnuolo: io dissi che mi sembrava di sì. Non tutti i nomi furono pronunciati da me; furono i magistrati ad elencarli.
I magistrati non è che avessero un elenco di cento o duecento nomi, avevano un
tabulato (questo è ormai il termine invalso) sul quale c’erano dei nomi; poi altri li
facevano a braccio” (Barone, 8 gennaio 1981 pom., Dini IX/2 e 4).
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Anche alla Commissione Barone ha ripetuto di non aver letto personalmente i
nomi e di averli appresi da altri. Egli è stato sul punto impreciso e spesso contraddittorio, dando versioni mutevoli e non sempre nette. Dalla prima deposizione di Barone
alla Commissione si trae che i nomi gli sarebbero stati fatti alcuni da Ventriglia, alcuni
da Puddu e un paio da Fignon; e che, peraltro, i nomi fatti nel corso del suo interrogatorio, testé citato, dinanzi al giudice istruttore del Tribunale di Milano sarebbero scaturiti, almeno per la maggior parte, da specifiche domande rivoltegli dagli inquirenti.
Barone, difatti, ha dichiarato testualmente:
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“in tempi e circostanze diverse e da persone diverse, in banca e fuori banca (e tra le
persone che me ne parlarono, anche se non posso ricordare quali di esse mi fecero i
singoli nominativi, certamente c’erano Ventriglia, Puddu, Fignon), che nel documento
in questione erano compresi i seguenti nominativi: conte Agusta; Bonomi Anna;
Micangeli Lamberto; Lolli Ghetti Glauco (armatore genovese – NAI); Lolli Ghetti di
Ancona (dietro il quale potrebbero nascondersi altri nominativi di rilievo);
Caltagirone (quello dell’Italcasse, amico dell’onorevole Evangelisti); Rosalyn
Shipping (che mi si disse che copriva interessi di uomini della democrazia cristiana;
onorevole Piccoli?); “Mike” (che mi si disse corrispondere all’onorevole Micheli);
onorevole Giacomo Mancini; onorevole Flavio Orlandi del PSDI; Carini Tom, direttore ICIPU, e una sua amica; Gelli Licio, capo della loggia massonica P2; generale
Picchiotti dei carabinieri; generale del SID Miceli (sul nome ho qualche perplessità);
il magistrato Spagnuolo; Peter Shadick; Nicola Biase; Scarpitti Raffaello; John Mc
Caffery; Valentini Stelio; Lalatta o Laratta (bancario)”.
Barone ha altresì precisato che erano stati, in particolare, i magistrati a chiedergli
di “Mike” e di Flavio Orlandi, mentre i nomi di Lolli Ghetti di Ancona e di Tom
Carini gli erano stati fatti da Ventriglia; e che era stato probabilmente Puddu a dirgli
che la sigla Rosalyn Shipping avrebbe coperto la DC. Egli ha poi chiarito di aver
avuto delle perplessità circa il nome di Miceli, data “la differenza del nome Miceli –
Micheli”, di sapere che Stelio Valentini era genero di Fanfani e di avere escluso, dopo
la testimonianza al giudice, che Laratta potesse essere il vice direttore della Banca
Nazionale del Lavoro, trattandosi invece, come si era appurato a seguito di una smentita di quest’ultimo, di un omonimo funzionario della Banca Privata Italiana. Barone
ha ricordato infine che, all’epoca della sua testimonianza al giudice istruttore, un settimanale aveva pubblicato alcuni nomi che sarebbero stati contenuti nella lista: per cui
poteva essere avvenuto che vi fosse stato un accavallamento di ricordi tra ciò che altri
gli avevano detto e quanto egli stesso aveva letto sulla stampa.
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Dal canto loro, Ventriglia, Puddu e Fignon hanno smentito di aver fatto dei nomi
a Barone, e, in sede di confronto, Barone ha notevolmente rettificato le sue precedenti
dichiarazioni, rese sia alla Commissione sia al giudice istruttore dottor Urbisci. Egli
ha asserito, difatti, che qualche nome glielo aveva fatto Puddu, ma di non poter affermare con nessuna certezza che altri nomi glieli avessero fatti Ventriglia e Fignon. In
verità – ha dichiarato Barone – oltre ai nomi appresi da Puddu,
“altri li rilevai dalla stampa e, siccome capii che i magistrati volevano che io dicessi
qualche cosa, li dissi” (Barone, 4 febbraio 1981 pom., Fradd. VII/5).
Come può vedersi, in ordine alla vicenda del tabulato, la quale presenta aspetti
inquietanti, in relazione alle responsabilità, anche penali, di molte persone, la
Commissione non è stata in grado di pervenire a risultati di certezza, anche per le reticenze e le contraddizioni che hanno caratterizzato le deposizioni di alcuni dei testimoni esaminati.
Proprio in vista di queste reticenze e contraddizioni, nelle date del 4 febbraio e
del 12 febbraio 1981, la Commissione ha disposto, anche riguardo alla vicenda del
tabulato, la trasmissione all’autorità giudiziaria delle dichiarazioni rese da Barone,
Fignon, Puddu, Ventriglia e Carli, “per accertare se i fatti rilevati costituiscano o meno
reati e quale sia la loro definizione giuridica”.
Occorre infine registrare alcune nette smentite opposte da persone chiamate in
causa come facenti parte dell’elenco; nonché dare conto dei risultati conseguiti da
ulteriori indagini disposte in merito dalla Commissione.
Nella sua deposizione davanti alla Commissione il senatore Fanfani ha ribadito
la smentita già fatta in precedenza, nella quale si esclude nel modo più categorico di
avere avuto conti sulle banche di Sindona e tanto meno in Svizzera. Del pari l’onorevole Giacomo Mancini, che ha chiesto di essere sentito dalla Commissione dopo che
il Bordoni aveva fatto il suo nome nell’interrogatorio del 1° aprile 1981, ha smentito
nel modo più reciso di avere avuto conti su banche svizzere, ha lamentato la campagna scandalistica nei suoi confronti e ha chiesto che la Commissione compia tutti gli
atti possibili per la ricerca della verità, dichiarandosi disposto a qualunque collaborazione anche nei confronti della Svizzera.
La Commissione ha preso in esame l’opportunità di un intervento presso il
Governo svizzero per ottenere che si deroghi alle norme sul segreto bancario vigenti
nella vicina Confederazione, magari anche sulla base di richieste specifiche delle persone interessate. Sono stati assunti, a tal fine, pareri di organi competenti, ed in particolare della Guardia di finanza, data la sua competenza sulle infrazioni valutarie.
Secondo un appunto informativo inviato alla Commissione in data 6 maggio 1981 dal
Nucleo speciale di polizia valutaria di tale colpo, esisterebbero scarse possibilità di
ottenere informazioni dalla Svizzera, data la rigidità delle norme vigenti e della loro
osservanza. La Commissione ha tuttavia richiesto l’intervento del Governo italiano
presso quello svizzero, ma non è nondimeno riuscita ad ottenere risultati di sorta.
La Commissione ha infine chiesto all’Ufficio italiano cambi di far conoscere se
nei rientri di capitali in Italia in seguito alla legge 30 aprile 1976, n. 159, vi siano tracce di operazioni concernenti il supposto elenco di nomi del tabulato, o se vi siano altri
elementi su accertate esportazioni di valuta. Dai dati resi noti alla Commissione nulla
è emerso al riguardo.
Sindona
MICHELE SINDONA, LA P2,
LA MAFIA E LE CONNESSIONI
AMERICANE
Moro
CAPITOLO VIII
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
Dalla relazione di minoranza
(relatore G. D’Alema)
(pagg. 479-501)
La esposizione dei fatti non può concludersi senza un resoconto, sia pure sommario, delle indagini che la Commissione ha ritenuto di dover compiere circa i rapporti intercorsi tra Sindona, la mafia e parte della massoneria, con quasi esclusivo
riferimento, per quanto attiene a quest’ultima, alla loggia segreta P2, nonché con
ambienti statunitensi.
Si tratta, per la verità, di argomenti che, come tali, non formano oggetto di quesiti specificamente sottoposti alla Commissione, ma è sembrato che gli accertamenti
compiuti su questi versanti potessero essere utili non solo per completare l’intricato
panorama di rapporti, più o meno leciti, di insidiose connivenze o di vere e proprie
attività delittuose, in cui si è collocata la complessa attività del bancarottiere siciliano,
ma anche per trarne direttamente spunti utili per una risposta più approfondita e insieme più incisiva agli specifici quesiti posti dalla legge istitutiva. Ciò in quanto la loggia P2 (nell’ambito della massoneria) e quell’associazione a delinquere che è la mafia
sono state e continuano ad essere (come ormai nessuno può disconoscere) un tramite
di collegamenti, non certo leciti col mondo politico, finanziario e burocratico. In questo senso, non è priva di significato la circostanza che i torbidi scopi e gli inconfessabili legami che hanno caratterizzato la loggia P2 siano venuti alla luce proprio in
occasione delle indagini sul caso Sindona ed è stato certo un merito non trascurabile
della Commissione – sia detto senza falsa modestia – quello di aver contribuito,
acquisendo la documentazione raccolta al riguardo dall’autorità giudiziaria e rendendola pubblica, a porre le premesse per fare chiarezza sull’argomento: sicché non è
ovviamente possibile che la Commissione non riferisca succintamente almeno sui fatti
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Campania
1. PREMESSA
195
Mafia
materiali emersi circa i rapporti tra Sindona e il suo entourage da una parte e Licio
Gelli dall’altra, anche se ovviamente l’istituzione di un’apposita Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia P2 ha indotto la Commissione a non proseguire le
indagini in questa direzione ed impone ora, in questa sede finale, di non spingere il
proprio intervento oltre i limiti accennati, per non invadere le altrui competenze istituzionali e per mantenersi entro i limiti del mandato ricevuto, con la certezza che i dati
di fatto accertati a proposito del caso Sindona potranno essere utilizzati, nel quadro
più ampio della sua indagine, dalla Commissione parlamentare sulla loggia P2.
Terremoto Terrorismo P2
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Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
2. LA P2
Quali sono questi dati di fatto? Non si può rinunciare a rendere conto, sia pure in
modo rapido e succinto, dell’indagine che la Commissione decise all’inizio dei propri
lavori di condurre sulla presenza e sulla iniziativa della loggia P2 nell’affare Sindona.
Ecco perché dobbiamo mettere nel necessario risalto, sulla base della documentazione
fornita nel corso della presente relazione, tale presenza e queste iniziative nei momenti salienti della vicenda del banchiere siciliano. Esse riguardano soprattutto persone
appartenenti alla loggia P2. Esse agiscono a vantaggio dell’avvocato Sindona e alcune
di loro, insieme con Sindona, sono collegate a personaggi e ambienti di una parte
della massoneria americana, di cui parla l’ex ambasciatore Gaja nella sua deposizione
davanti alla Commissione. È da sottolinearsi innanzi tutto la costante attività di Gelli a
sostegno di Sindona in tutto il periodo che va dal 1974 sino al cosiddetto sequestro del
bancarottiere. Dalla documentazione e dalle audizioni, per quanto riguarda i tentativi
di risolvere la liquidazione coatta amministrativa, Gelli, e, accanto a Gelli, Calvi e
Ortolani sono particolarmente attivi, specie nella fase iniziale del “salvataggio” di
Sindona e della Banca Privata Italiana. I rapporti tra Sindona e Calvi risultano essere
precedenti il crack delle banche sindoniane; i loro affari si intrecciano, dalla faccenda
Pacchetti al tentativo di scalata alla Italcementi, alla Bastogi, alla Banca Nazionale
dell’Agricoltura. La Centrale passerà sotto il controllo del presidente del Banco
Ambrosiano. A tal punto gli affari dei due si intrecciano che Sindona si sentirà di parlare di società di fatto con Calvi, come risulta dai documenti acquisiti dalla
Commissione. Seppure non si sono trovati riscontri delle affermazione del Guzzi,
Gelli sarebbe intervenuto presso la Banca d’Italia a favore dei progetti di sistemazione
della Banca Privata Italiana. D’altra parte lo stesso maestro della P2 appare informato
delle iniziative del senatore Stammati presso la banca centrale per raggiungere lo stesso fine. Stammati è nell’elenco della P2 e viene descritto da Guzzi come amico di
Gelli. Lo stesso avvocato Guzzi dà notizie secondo cui il capo della loggia P2 sarebbe
in ottimi rapporti con l’onorevole Giulio Andreotti (“è ben nota l’amicizia tra Gelli e
Andreotti”). Sui rapporti tra Sindona e Andreotti rimandiamo ad altra parte della relazione oltre che alla lettera di Sindona ad Andreotti del 28 settembre 1976.
L’onorevole Andreotti nega di essere in rapporto di amicizia con Gelli e afferma
di avere avuto con questi rapporti che nulla hanno a che fare con la questione
Sindona. Tuttavia da due lettere apparse su Panorama e da nessuno smentite, una di
Gelli all’onorevole Andreotti e la seconda di risposta di quest’ultimo al primo, appare
esservi fra i due personaggi un rapporto tutt’altro che formale.
L’avvocato Guzzi conferma poi il fatto che Andreotti ricevette il 6 aprile 1977 il
banchiere Calvi quando si adombrò l’intervento del Banco Ambrosiano per la siste196
“Faccio pool grossi, un’intera città in Venezuela, nel Texas e una nuova città a
Montecarlo con un pool di banche”.
Egli è un finanziere, dunque, fondatamente amico di Sindona, anche se lui lo
nega. Costui appare negli elenchi della loggia P2, ed è legato anche in affari a
Federici, anch’egli presente con attività economiche e affaristiche nel Texas. L’attività
di Roberto Memmo intesa a favorire Sindona è connessa a quella di Gelli. È in casa
Memmo che Gelli, Federici e Guzzi decidono di provocare l’incontro tra Andreotti e
Calvi. Memmo è anche in relazione con il presidente del Banco Ambrosiano e riteniamo abbia qualche significato che all’epoca dell’affare Pantanella (1974-75) Roberto
Memmo fu tramite fra la centrale di Calvi e un gruppo americano. Egli nega di aver
avuto allora un rapporto diretto con Calvi per l’affare. Egli afferma che rappresentava
la Centrale Dino Minciaroni, anche questi, comunque, presente negli elenchi di Gelli.
Roberto Memmo inizialmente sembra essere incaricato da Sindona di fare da tramite tra Sindona e Federici.
Quello che è certo è che la casa di Memmo in via Condotti – come afferma
Guzzi e come conferma Memmo stesso – era il centro delle riunioni che riguardavano
un po’ tutta la vicenda Sindona, dalla “sistemazione” all’estradizione. Anche l’affidavit sottoscritto dall’onorevole Orlandi per sostenere Sindona negli USA viene concordato in casa Memmo, presenti gli avvocati americani del bancarottiere. Risulta dalle
affermazioni di Guzzi che questi avvocati parlano con Memmo dei profili politici del
processo americano per il ruolo che Roberto Memmo svolgeva. Costui partecipa – a
causa, egli dice, della sua amicizia con Federici – a tutti gli incontri presso il Banco di
Mafia
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mazione della Banca Privata Italiana. Andreotti nega anche questa circostanza e la
nega anche Calvi. Tuttavia appaiono poi inspiegabili tutti gli avvenimenti successivi a
questo presunto incontro e conseguenti al suo esito deludente, tanto che l’interesse di
Calvi all’operazione ne risultò raffreddato. Appare cioè inspiegabile quanto riferisce
l’avvocato Guzzi (ed è annotato nella sua agenda), e cioè la mobilitazione di Gelli e di
altri presunti membri della loggia P2, quali Memmo e Corbi, i quali cercheranno di
riaccendere in Calvi l’interesse a portare innanzi il progetto di sistemazione della
Società Generale Immobiliare-Banca Privata Italiana.
Gelli, dunque, non si limita solo a fare da intermediario in rapporto alla sistemazione interdipendente della Società Generale Immobiliare e della Banca Privata
Italiana in connessione con gli interessi dei “palazzinari” Belli e Genghini (anch’essi
negli elenchi della P2), ma si adopera anche a favore dell’altro progetto di salvataggio
che sta a cuore di Andreotti e Stammati e preme, sia pure senza successo, sulla
Guardia di Finanza, in particolare su L.p. (probabilmente il generale Lo Prete, coinvolto nello scandalo dei petroli), perché il maresciallo Novembre, esperto di particolare valore e collaboratore dei giudici di Milano, sia allontanato da questo incarico. Il
trasferimento del maresciallo Novembre è uno degli obiettivi indicati insieme con
quello di colpire i giudici di Milano, ed altri ancora, nel memoriale (che sembra redatto da Sindona) del 1° gennaio 1977, consegnato ad Andreotti – con ogni probabilità –
dall’avvocato Ungaro. Andreotti nega questa circostanza, ma afferma però di avere
ricevuto dall’avvocato Ungaro un appunto. Ungaro ammette di avergli consegnato
una busta chiusa.
In tutta questa fase compare Roberto Memmo, cittadino americano di Houston,
amico e legato in affari con Connolly, che non fa il costruttore – come egli afferma –
bensì il procuratore di aree dove capita.
197
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Roma a proposito della “lista dei 500” e viene incaricato di recarsi a Lugano presso il
dirigente della Finabank Oliviero per cercare, offrendogli 100 mila dollari, di ottenere
il famoso tabulato arricchito dei nomi dei titolari dei depositi. A proposito di questi
impegni relativi all’affare Sindona, Roberto Memmo si giustifica adducendo la sua
amicizia con Federici. Egli quindi sarebbe partecipe delle preoccupazioni e delle iniziative di Federici nella direzione della salvaguardia degli interessi del Banco di
Roma, e perciò della stessa vicenda della “lista dei 500”. Tuttavia questa giustificazione entra in contraddizione con alcuni fatti riferiti da Guzzi i quali riguardano anche
Fortunato Federici. Memmo e Federici furono infatti consultati da Guzzi, il quale sottopose ad essi la documentazione fornita a Sindona dall’avvocato Domenico Iorio e
riguardante l’Edilcentro, che investiva responsabilità del Banco di Roma. Memmo fu
chiamato da Guzzi per esaminare una memoria del Guzzi medesimo nell’interesse di
Michele Sindona in un processo tra la Fasco Europe e il Banco di Roma. Quanto riferito fa sorgere più di qualche dubbio sul fatto che Roberto Memmo agisse nell’interesse del Banco di Roma e del suo amico Federici, e non invece a favore di Michele
Sindona, fratello e amico, anche se Memmo lo nega.
Se Gelli mette a disposizione di Sindona il proprio avvocato Sotgiu per la vicenda della Cassazione, Memmo investe della cosa Spagnuolo e il dottor Pone, anch’essi
presenti negli elenchi di Gelli. Il magistrato Spagnuolo è l’artefice del “processo massonico” a carico di Sindona, che naturalmente si concluse con l’assoluzione del bancarottiere. L’avvocato Domenico Iorio si dà da fare perché intervenga il magistrato
Angelo Iannuzzi, mentre Bellantonio, gran maestro di piazza del Gesù, sollecita iniziative dei magistrati della propria loggia.
Per quanto riguarda la questione della estradizione, di cui si è già parlato, gli
interventi avvennero essenzialmente in direzione di autorità statunitensi e mobilitando
ambienti massonici (oltre che mafiosi) statunitensi.
Vogliamo sottolineare che con ogni probabilità vi fu un forte intervento di
ambienti massonici negli USA a favore del rifiuto della estradizione. Si sono mossi
particolarmente certi ambienti italo-americani, che si spinsero sino a fare una indagine
sullo stato delle carceri italiane allo scopo di rafforzare la loro testimonianza circa i
pericoli gravi che il “perseguitato politico” Sindona avrebbe corso se estradato in
Italia. Rao figlio, Philip Guarino, Biaggi sono alcuni di questi italo-americani. Il nome
di Philip Guarino appare insieme con quelli di Gelli, del massone Bellantonio, del
piduista Spagnuolo tra gli autori degli affidavit a favore di Sindona, insieme con John
Caffery, Stefano Gullo, Anna Bonomi, Flavio Orlandi, Edgardo Sogno.
Verso il dottor Spagnuolo furono finalmente presi provvedimenti e si chiuse così
una fase della travagliata storia della procura generale della Repubblica di Roma.
A proposito di questi ambienti italo-americani, che non vanno assolutamente
confusi con la intera comunità italo-americana, essi si muovono tra massoneria, affarismo e mafia. Si legga a questo proposito la deposizione resa alla Commissione dall’ex
ambasciatore Gaja il quale, esprimendo la sua ammirazione per il procuratore Kenney,
afferma:
“Perché ci vuole grande coraggio: pensi che pressioni e che rischi avrà avuto il
Kenney per fare un’operazione del genere, cioe per mettere insieme gli atti sufficienti
per far condannare Sindona”.
Alla domanda di un commissario: “La mafia?”, Gaja risponde:
198
“Suppongo. La mia impressione è che purtroppo quasi tutti questi esponenti di
queste comunità italo-americane sono connessi ad organizzazioni di altro genere”.
“Si tratta della mafia?”, gli viene chiesto ancora. E Gaja risponde:
“Nessuno di noi ha la prova, ma è l’impressione generale”.
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Ed è con questi ambienti di New York, con i dirigenti della Giustinian Society
(che sono dello stesso stampo) che l’ambasciatore Gaja deve purtroppo constatare che
viene a contatto lo stesso onorevole De Carolis, presente nella lista della loggia P2. Si
tratta di un deputato democristiano che, da un’attività di difesa dei piccoli azionisti
della Banca Privata Italiana contro Sindona, passa – non sappiamo se per amicizia
verso Pier Sandro Magnoni, o per altro – a comportamenti che vanno nella direzione
contraria, cioè a sostegno del bancarottiere.
Infine, riteniamo di poter affermare che gli anni in cui si svolge la vicenda
Sindona, dopo il crack, sono quelli in cui la P2 allarga la sua influenza a tutti i gangli
della vita statale. Questo potere occulto si intreccia con i più delicati poteri istituzionali. La sua funzione, nel tentativo di salvare Sindona, membro della P2, costituisce,
come abbiamo detto, un unico elemento che coagula i diversi interessi in giuoco e
rafforza i rapporti tra persone così differenti e diversamente collocate.
Il suo intervento, dopo il crack, l’intervento almeno del suo capo, non si arresta
sul terreno politico e giudiziario. Esso scenderà su quello criminale intrecciandosi con
l’operato della mafia. Su Sindona e Gelli indagano i magistrati in relazione agli assassini di Ambrosoli e Pecorelli. L’affare Sindona, l’attività complessa dell’affarista siciliano costituiscono una pagina di una vicenda non solo finanziaria, ma politica. Una
delle vicende della storia del nostro paese che più ha fatto emergere in modo drammatico la questione morale, e cioè il dilagare della corruzione al livello di forze politiche
dominanti e di settori dell’apparato pubblico e statale e il progressivo deteriorarsi
delle istituzioni.
I contorni di questa vicenda possono individuarsi non solo nel sistema di potere
della democrazia cristiana, cioè nelle relazioni e complicità italiane del bancarottiere,
ma, forse, nei legami da questi intrecciati a livello internazionale e nei disegni della
loggia P2. Questa loggia appare come una cerniera tra aspetti interni e internazionali
dell’affare Sindona.
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“L’ambiente italo-americano aveva l’aspetto di essere ambiente di tipo mafioso”.
Mafia
E, a proposito della giornata di Colombo a Chicago, afferma:
3. LA MAFIA
Per quanto invece riguarda la mafia, la Commissione, che si è potuta muovere
sul punto senza altri limiti che non fossero quelli oggettivi derivanti dal carattere sfuggente che ha il fenomeno, è stata obbligata ad occuparsene, malgrado che esso non
rientrasse tra gli specifici quesiti della legge istitutiva, in quanto le vicende in cui è
stato coinvolto nei tempi più recenti Michele Sindona, e soprattutto il suo falso sequestro, sono parse indicative, anche per l’attenzione che in questo stesso senso vi ha
dedicato l’autorità giudiziaria, di una funzione di intermediazione svolta anche in questa occasione dalla mafia, per procurare a Sindona (con determinati tipi di intervento
199
Mafia
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in Italia e negli Stati Uniti) i mezzi necessari per mettere in atto un estremo tentativo
di salvataggio.
In proposito, la Commissione ha trovato il punto di partenza per gli accertamenti
di sua competenza nelle istruttorie penali svolte a Milano e a Palermo sul falso sequestro di Sindona, e in particolare nei risultati delle indagini condotte con eccezionale
impegno su questo argomento e sulla parallela attività delittuosa di una organizzazione di stampo mafioso siculo-americana dal giudice istruttore di Palermo, indagine
recentemente conclusasi con un provvedimento di rinvio a giudizio di molti imputati.
In questo provvedimento si sottolinea esattamente come la nuova mafia non si
identifichi più con le vecchie e conosciute forme di parassitismo mafioso, ma si caratterizzi soprattutto, anche se l’attività parassitaria non può dirsi del tutto scomparsa,
con “la diretta immissione dei mafiosi nell’ambito delle attività produttive”. Ne deriva, accanto all’apparente recupero di valori tradizionali, il superamento degli ambiti
territoriali d’influenza propri delle vecchie organizzazioni mafiose. Inoltre, mentre la
vecchia mafia tende ad essere spazzata via definitivamente dall’affermazione delle
nuove leve, i mafiosi più giovani operano, spesso alla luce del sole ed avvalendosi
delle risorse economiche che ad essi derivano dalla natura illecita della loro attività e
dagli stretti legami stabiliti col mondo delle banche, come veri e propri imprenditori
del crimine, organizzandosi, su scala nazionale e internazionale, in associazioni delittuose, che hanno ad oggetto esclusivo la preparazione e l’attuazione di illeciti penali,
quali il traffico di stupefacenti e di valuta, il contrabbando di tabacchi, i sequestri di
persona, le estorsioni e infine gli omicidi, estremo mezzo di affermazione della supremazia di singole bande e di singoli personaggi del mondo mafioso.
Se tutte queste considerazioni, contenute nel provvedimento del giudice di
Palermo, indubbiamente disegnano con sufficiente precisione e nettezza di contorni,
l’attualità del fenomeno; e se anche è vero – come pure si mette in evidenza nel provvedimento più volte richiamato – che maggiore e più incisiva sta divenendo, da qualche tempo a questa parte, la reazione di pubblici poteri alle ingerenze mafiose, non
può tuttavia mettersi in dubbio (e basta per confermarlo l’accenno fatto dal giudice di
Palermo ai rapporti di connivenza esistenti tra la mafia e il mondo delle banche) che è
tuttora pesante l’influenza quando non si traduca in una vera e propria identificazione,
che le organizzazioni mafiose riescono ad esercitare, per i loro fini illeciti, su esponenti del mondo politico, finanziario e burocratico. Così che è stato proprio per accertare se qualcosa del genere non si sia verificato in qualcuno dei momenti che hanno
caratterizzato una vicenda così complessa come quella sindoniana, che ha interessato
tanti settori della vita pubblica nazionale e degli stessi rapporti del nostro con Paesi
stranieri, che la Commissione si è indotta ad indagare anche in questa direzione.
A)
I RAPPORTI TRA SINDONA E IL SUO GRUPPO, LA MAFIA E PARTE DELLA MASSONERIA
Se la mafia è quella descritta nel provvedimento, di cui si è detto, del giudice di
Palermo, se essa intesse trame delittuose e se la sua attività criminosa si concreta in
particolare nel traffico degli stupefacenti e nel contrabbando di tabacchi, non c’è dubbio che il primo documento agli atti della Commissione di cui bisogna tener conto, ai
fini che ora interessano, è la lettera del 1° novembre 1967 scritta dal Fred J. Douglas,
capo dell’International Criminal Police Organisation di Washington alla Criminalpol
di Roma. In quella lettera si diceva esplicitamente:
“I seguenti individui sono implicati nell’illecito traffico di sedativi, stimolanti e
200
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La lettera purtroppo non fu seguita (e certamente nemmeno preceduta) da nessuna seria indagine circa gli illeciti traffici attribuiti a Sindona e Porco; ma è certo tuttavia che neppure successivamente sono emersi dati probanti, che abbiano visto implicato Michele Sindona nel traffico di stupefacenti, sia pure nella forma di riciclaggio,
attraverso le sue banche, del denaro da esso ricavato. È un dato di fatto, però, che i
rapporti tra Sindona e Porco (noto alla polizia federale americana nei termini accennati), se erano già molto stretti al tempo della lettera del 1967, divennero in seguito sempre più intensi e vorticosi. Si può dire anzi che Sindona sia entrato nel mondo finanziario attraverso le mille occasioni di investimento e di creazione di società commerciali fornitegli da Porco e che costui, d’altra parte, dopo avere anche lui creato una
propria società quotata in borsa (la Amdanpco) si trasformò negli ultimi anni – per
rifarsi a una espressione usata dal teste Pontello, ascoltato dalla Commissione – nel
punto di forza dell’impero finanziario che con gli anni Sindona era riuscito a costituirsi negli Stati Uniti d’America. Né è senza significato che a tanta distanza del 1967 il
giudice di Palermo abbia incriminato Sindona di essersi associato con altre persone,
molte sicuramente appartenenti alla mafia, in Palermo e altrove fino al maggio del
1980, “al fine di commettere più delitti di indole mafiosa tra cui traffico e contrabbando di valuta proveniente da attività illecita”. Contemporaneamente alla istruttoria concernente questo delitto, il giudice di Palermo ha anche proceduto a carico di alcune
persone, ma non di Michele Sindona, per il delitto di associazione in traffico di
sostanze stupefacenti; ed è anche da rilevare che l’istruttoria, riguardante l’imputazione elevata nei confronti di Sindona, non è stata definita, ma è tuttora in corso, dopo
essere stata separata dagli altri procedimenti (tra cui appunto quello riguardante la
droga) a cui era inizialmente unita. Resta tuttavia il fatto che, negli anni coevi o
immediatamente successivi al suo crack finanziario, Sindona si è trovato implicato in
vicende, anche giudiziarie, che hanno per protagonisti personaggi di spicco del mondo
mafioso.
Ma, al di là di questi dati, che potrebbero apparire (e non sono) di tenue significato probatorio, sta il fatto, accertato dalla Commissione ma emerso con chiarezza
soprattutto dall’istruttoria del giudice di Palermo che Sindona durante la sua permanenza strinse intimi collegamenti con la mafia siculo-americana.
Si deve al riguardo in primo luogo ricordare, come già si è accennato nella parte
della relazione concernente l’estradizione, che Sindona negli Stati Uniti cercò e riuscì
Sindona
“allo stato degli accertamenti da noi svolti, non sono emersi elementi per potere affermare che le persone di cui innanzi, e soprattutto il Porco e il Sindona, siano implicati
nel traffico degli stupefacenti tra l’Italia e gli USA”.
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A questa lettera, trasmessa alla polizia di Milano, il questore di Milano rispose
con una lettera, di stile burocratico, in cui si faceva cenno ai rapporti di affari esistenti
tra Porco e Sindona, ma nella quale si concludeva perentoriamente che
Mafia
allucinogeni tra l’Italia e gli Stati Uniti e fra altre regioni di Europa: Daniel Anthony
Porco, nato a Pittsburgh (USA) il 7 novembre 1922, professione contabile. Pare abbia
grosse somme in Italia, presumibilmente ricavate da attività illecite negli Stati Uniti;
Michele Sindona, nato a Patti (Messina) l’8 maggio 1920, professione procuratore,
residente a Milano in via Turati; Ernest Gengarella, che pare abbia interesse nel motel
Sands di Las Vegas; Vio Rolf, nato a Milano, su cui per il momento non abbiamo altri
dati”.
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a stabilire stretti rapporti con la comunità italo-americana, formata – come ha detto
alla Commissione un teste insospettabile quale l’ambasciatore Gaja – da elementi che,
sia pure in base a “un’impressione” priva di riscontri probatori, apparivano collegati
ad organizzazioni di altro genere, “anche mafioso”. Gli esponenti di questa comunità,
e in particolare taluni tra essi, come Guarino e Rao figlio, sul quale pure l’ambasciatore Gaja ha espresso sospetti di appartenenza alla mafia, furono più volte e con ogni
genere di mezzo strumentalizzati da Sindona, per riuscire a entrare in contatto con
autorità americane, con i funzionari della rappresentanza diplomatica italiana negli
USA o con uomini politici italiani in visita negli Stati Uniti; e fu sicuramente a seguito delle sue pressioni che, dopo la prima pronuncia di estradizione del giudice Griesa,
i membri di questa comunità, come già si è ricordato, si affrettarono ad esprimere al
Presidente del consiglio italiano, Andreotti, le loro rimostranze e la loro solidarietà
con Sindona, facendo propria la tesi che la procedura messa in atto nei suoi confronti
non fosse altro che l’espressione di una persecuzione politica.
È certo inoltre (e si tratta qui di elementi ben più corposi di quelli finora messi in
evidenza) che Sindona – come risulta dal provvedimento del giudice di Palermo –
conosceva ed era in rapporti di una certa intimità con John Gambino, nipote del famoso boss di “Cosa Nostra”, Charles, tanto da essere il consulente finanziario della
società costituita da lui e da Genovese. È fuori discussione inoltre che Sindona conobbe in America Rosario Spatola, che attraverso una serrata indagine, di cui sarebbe inutile ripetere qui i passaggi, il giudice di Palermo ha individuato come uno degli esponenti di spicco della nuova mafia e che difficilmente del resto sarebbe possibile considerare diversamente, anche ad aver presente la sola audizione di lui dinanzi alla
Commissione, tante sono le reticenze, le menzogne, e in una parola l’omertà che
caratterizzano quell’atto. A proposito di Spatola, anzi, è anche risultato che Sindona
manifestò per lui un preciso interesse, raccomandandolo a Ruggero Gervasoni, per
fargli ottenere l’iscrizione nell’albo nazionale degli appaltatori, in una categoria superiore a quella alla quale fino allora figurava iscritto. Se a questo si aggiunge che
Spatola e Gambino erano legati tra loro da vincoli di parentela; che Spatola è anche
cugino di quel Fazzino che è stato arrestato perché responsabile di avere appiccato il
fuoco al portone di casa del presidente della Mediobanca; che attraverso Gambino e
Spatola Sindona entrò in contatto anche con altri personaggi della mafia siculoamericana (quali Joseph Macaluso, Giacomo Vitale, Antonio Caruso), come poi apparirà
palese al momento del suo finto rapimento, vi è già quanto basta per avere un quadro
illuminate dei legami tra Sindona e la mafia, e quindi delle reciproche indebite interferenze, che presumibilmente dovettero fare da cemento a tali legami.
Ma il quadro non sarebbe completo (sia pure da un’angolatura con ogni verosimiglianza almeno parzialmente diversa), se non si accennasse ai rapporti stretti in
America (e che ebbero poi una specifica esternazione al momento del falso rapimento) tra Sindona e Giuseppe Miceli Crimi, un personaggio che, per taluni degli episodi
della sua vita e per le contraddizioni, le palesi reticenze e le furbesche allusioni, che
hanno caratterizzato la sua dichiarazione davanti alla Commissione, è apparso a dir
poco sconcertante e certamente enigmatico, circa la sua vera attività e gli effettivi propositi da lui perseguiti in questi ultimi anni.
Miceli Crimi, medico chirurgo, specializzato in chirurgia estetica, genero di un
questore, è stato per molti anni, dal 1957 al 1966, medico della polizia presso la questura di Palermo, avendo modo così, oltre che per la sua estrazione familiare, di farsi
molte conoscenze e amicizie negli ambienti della polizia siciliana. Egli peraltro ha
esplicitamente dichiarato di aver sempre coltivato ideali massonici, definendosi in un
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primo momento come un “massone sentimentale e internazionale” non appartenente
ad alcuna loggia; ma poi specificando, alle pressanti domande dei commissari, di
essere stato iniziato alla massoneria fin da quando aveva 18 anni dal professor
Giovanni Baviera, di avere quindi appartenuto a varie logge, anche nel periodo di
clandestinità dell’associazione, di essere stato da ultimo membro della loggia “La
Fiaccola” e di avere qui raggiunto, nel 1972, il grado di “33”, conferitogli da Tito
Ceccherini. Miceli Crimi ha anche riconosciuto come probabile di essere stato nel
1976 gran maestro della massoneria di piazza del Gesù. Successivamente, dal 1977 in
poi almeno, era stato “in sonno”, non aveva più fatto parte attiva di logge massoniche,
ma considerava “sovrano” dell’ideale massonico, e spinto da questo ideale aveva
cominciato a coltivare l’idea di unificare sotto un unico segno e in una sola organizzazione tutte le associazioni massoniche, tra cui anche la Camea, filiazione siciliana
della massoneria di piazza del Gesù.
Egli ha sostenuto peraltro, nel suo racconto, che, mentre era medico della polizia,
esercitava anche la professione privata, eseguendo una serie di operazioni in Italia e in
particolare in Sicilia, e dedicandosi anche all’attività scientifica con pubblicazioni, di
cui però ha stentato – quando addirittura non è riuscito – ad indicare gli argomenti e le
case editrici. Nel 1964, quindi, aveva chiuso una clinica privata che aveva a Palermo,
la clinica “Miceli”, che – secondo la deposizione resa alla Commissione da Francesca
Paola Longo (un’amica del Crimi) – era in pratica fallita, e si era recato negli Stati
Uniti d’America, con nessun altro avallo, per poter continuare il suo lavoro oltre oceano, che la raccomandazione di un maresciallo di pubblica sicurezza, e avvalendosi di
una legge che favoriva l’emigrazione dei medici. Aveva tuttavia cominciato subito a
lavorare al Metropolitan Hospital di New York e poi nel New Jersey, dove aveva eseguito una serie di interventi chirurgici, ed aveva insegnato in una università (è da
notare che in tutto ciò Miceli Crimi è stato smentito dalla Longo). Nel 1971, peraltro,
era diventato cittadino americano, tanto che il console statunitense lo aveva più volte
visitato in carcere, quando l’autorità giudiziaria italiana lo aveva arrestato in relazione
alla fuga di Sindona. Ha altresì aggiunto che nel 1966-67 aveva fondato negli USA
una lega calcio della comunità italo-americana.
Ha quindi sostenuto, a proposito di Sindona, di averlo conosciuto personalmente
nel 1977, e di aver lui preso l’iniziativa per avvicinarlo di persona, quando i giornali
avevano parlato dell’esistenza di un collegamento tra di loro. Ha chiarito che nel 1979
i rapporti con Sindona erano diventati ancora più stretti, per l’interessamento che la
malattia di un suo nipotino aveva suscitato in Sindona, e che si erano trasformati in un
legame di amicizia quando aveva saputo, per averglielo detto lo stesso Sindona, che
anche questi era massone e condivideva il progetto di riunificazione della massoneria.
Ha anzi chiarito di sapere, nonostante i dinieghi di Sindona, che lo stesso apparteneva
alla loggia P2. Certo è che era stato Sindona nel 1977 che gli aveva presentato Gelli.
In seguito egli aveva visto Gelli due o tre volte a Roma e due volte ad Arezzo (ma
anche qui la Longo lo ha smentito, sostenendo che gli incontri di Miceli Crimi con
Gelli a Roma erano stati ben più frequenti). Il teste peraltro ha affermato che si recava
ad Arezzo non solo per incontrare Gelli, ma anche perché aveva (lui, cittadino americano, residente a New York) in quella città il proprio dentista, Beppe Benvenuti; e che
anche dopo il finto sequestro di Sindona era tornato ad Arezzo, senza però incontrare
Gelli.
Inoltre, con riferimento alle persone che, come poi si vedrà, avranno una parte
preponderante nel finto sequestro Sindona, Miceli Crimi ha dichiarato di aver conosciuto Giacomo Vitale, in quanto presentatogli da un ginecologo siciliano, e Michele
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Barresi, presidente della Camea, aggiungendo che il Barresi gli aveva dato in quell’occasione le più ampie garanzie sulla riservatezza del Vitale; ha escluso però di
sapere che Vitale (che faceva parte pure lui della Camea) fosse un mafioso, mentre era
a conoscenza che egli era cognato di Bontade, stimato un boss della mafia. Ha invece
ammesso di aver conosciuto Joseph Macaluso e il figlio ed anche John Gambino e il
padre, ed ha precisato che aveva paura di Gambino, perché appartenente ad un clan
potente, che gli avrebbe potuto fare del male, un clan che in Italia – sono le sue parole
– si potrebbe definire clan mafioso. Ha anche dichiarato di aver conosciuto, a quanto
sembra già prima del sequestro di Sindona, Antonio Caruso e Zizzo, implicato nel
traffico di stupefacenti, di conoscere solo di nome Martino Gioffrida e non di avere
invece mai conosciuto Rao. Anche con Gelli aveva parlato del progetto di riunificazione della massoneria e a questo scopo aveva preparato un documento, che presentò
non solo a Gelli ma a tutti coloro che erano disposti a sottoscriverlo per partecipare
all’impresa che aveva ideato.
Miceli Crimi ha inoltre parlato, ma con estrema reticenza, di un incontro tra massoni avvenuto al largo di Ustica a bordo di un motoscafo nel 1978, rifiutando di indicare il nome delle persone che avevano partecipato all’incontro; mentre la Longo ha
esplicitamente dichiarato di essere stata a conoscenza del viaggio dell’amico Miceli
per partecipare alla riunione di massoni, ed ha anche aggiunto che tra gli altri era presente Connolly, ministro del tesoro dell’amministrazione Carter.
A proposito di Carter, il teste ha peraltro sostenuto di avergli portato una fiaccola
etrusca datagli a questo scopo da un polacco, di cui non ricordava il nome, esponente
di un’associazione afro-italiana, ma ha negato di avere avuto contatti con membri o
esponenti del Governo americano; mentre, al contrario, la Longo, confermando l’incontro con Carter, ha chiarito di averne dedotto che Miceli era stato in contatto anche
con altri esponenti governativi statunitensi ed ha poi precisato alla Commissione (pur
tornando, in un secondo momento, sul fatto che si era trattato di una sua deduzione)
quanto più chiaramente aveva detto ai giudici, e che cioè Miceli Crimi le aveva confidato di avere avuto diretti contatti con membri del Governo americano, che gli avevano esternato le loro preoccupazioni circa la situazione politica italiana. Ai giudici,
anzi, la Longo aveva sostenuto che questi contatti con i governanti americani Miceli
Crimi li aveva presi insieme e per il tramite di Klausen, “sovrano” massonico della
Gran Loggia Madre del Mondo, aggiungendo che in quei colloqui si era convenuta
un’azione per arginare il fenomeno comunista in Italia.
Miceli Crimi ha ancora riferito di aver avuto contatti con Battelli soltanto per
telefono, di essersi incontrato in Sicilia con un funzionario della regione, Bellassai,
massone, probabilmente iscritto alla P2, ma di non averlo più visto dal 1978; ed ha
poi detto che il commissario Boris Giuliano, prima della sua morte, si era recato a
New York per incontrarlo, e si era fatto accompagnare alla sua abitazione da un
appuntato di pubblica sicurezza (il cui nome il teste ha detto di non ricordare), senza
però riuscire ad avere l’incontro desiderato, perché in quel momento egli era assente
da New York.
Ma tra tutti gli episodi narrati alla Commissione da Miceli Crimi, il più enigmatico resta certamente quello che si riferisce a un colloquio che il teste avrebbe avuto
con Giacomo Vitale dopo più di un anno che i due si conoscevano, e durante il quale
il Vitale gli avrebbe domandato se egli era un agente della CIA. Il Miceli Crimi avrebbe risposto di no, ma che, anche se lo fosse stato, gli avrebbe detto la stessa cosa. E
negli stessi termini il teste ha risposto alla Commissione, quando gli è stata fatta la
stessa domanda, per poi finire col rispondere in termini decisamente negativi, quando
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All’interno di questi rapporti e delle vicende prima descritte, matura quell’episodio che è rappresentato dal falso rapimento di Michele Sindona e che è ormai troppo
noto in tutti i suoi aspetti esteriori, perché sia qui necessario rifarne la storia particolareggiata.
Basta ricordare che Sindona scomparve da New York il 2 agosto 1979, quando
era passato meno di un mese da che il giudice Werker aveva revocato il provvedimento di estradizione e quando il bancarottiere, che intanto aveva ottenuto la liberazione
dalla cauzione (in precedenza prestata) di beni della moglie e della figlia, avrebbe
dovuto comparire, il 10 settembre successivo, davanti all’autorità giudiziaria, in relazione al fallimento della Franklin. Per lasciare New York, Sindona si servì di un falso
passaporto intestato a Joseph Bonamico, e partì dall’aeroporto Kennedy con un volo
diretto a Vienna, accompagnato da Antonio Caruso, che aveva acquistato i biglietti
con denaro procuratogli da Giuseppe Macaluso. Giunto a Vienna, Sindona, invece di
proseguire in macchina per Catania come era nei programmi, si era invece recato a
Salisburgo, dove aveva preteso, telefonandogli, che lo raggiungesse anche Macaluso.
Costui, Caruso e Sindona avevano fatto quindi ritorno a Vienna, dove avevano alloggiato all’Hotel Intercontinental dal 4 al 5 agosto 1979. In questa data, quindi, Antonio
Caruso era tornato a New York, mentre Macaluso si sarebbe recato a Catania.
A sua volta, Sindona era partito per Atene, tanto che il 6 agosto aveva alloggiato
all’Hotel Hilton di quella città. Successivamente, Sindona era stato raggiunto ad
Atene, in tempi diversi, da Miceli Crimi, Giacomo Vitale, Francesco Foderà, Ignazio
Puccio e Giuseppe Sano, amico di Macaluso. Dopo alcuni giorni, quindi, Sindona e i
suoi amici abbandonarono l’idea, avanzata in un primo tempo, di raggiungere l’Italia
con un’imbarcazione privata guidata dal Puccio e si imbarcarono invece per Brindisi
su una comune nave di linea. Secondo il programma originario, essi avrebbero dovuto
recarsi a Catania, dove Sindona avrebbe dovuto prendere alloggio in una villa, che gli
avrebbe dovuto procurare Macaluso. Il rifugio però era diventato indisponibile per
motivi rimasti ignoti e pertanto, una volta sbarcati a Brindisi, Miceli Crimi e Puccio
proseguivano in taxi per Taranto e quindi in treno per Palermo, mentre Sindona, insieme con Vitale e Foderà, si recava a Caltanissetta, dove giungeva nella notte tra il 15 e
il 16 agosto.
A Caltanissetta, Sindona era atteso da Gaetano Piazza, un professionista avvertito da Miceli Crimi, e da Francesca Paola Longo, amica intima di Miceli.
Dopo aver cenato tutti insieme, Vitale e Foderà andarono via, mentre Sindona e
la Longo rimasero ospiti del Piazza.
Il giorno seguente, quindi, Miceli Crimi (che intanto aveva raggiunto Palermo),
si recò a Caltanissetta e di qui il Piazza accompagnò in macchina lui, Sindona e la
Longo nel capoluogo siciliano, dove pertanto Sindona giunse il 17 agosto fruendo
Sindona
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B) IL FALSO RAPIMENTO DI
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gli è stato fatto notare che la sua prima risposta era evidentemente equivoca. Ma ciò
che rende l’episodio ancora più sconcertante, e più inquietante il personaggio di
Miceli Crimi, è che la Longo ha dichiarato di avergli fatto la stessa domanda durante
la comune permanenza in Sicilia, al tempo del finto sequestro di Sindona, e di avergliela fatta per caso, spinta dal solo fatto che stava vedendo alla televisione, un film
poliziesco; al che il Miceli le aveva risposto negativamente, dicendole però che altre
persone – tra le quali la Longo ricordava solo il nome del Vitale – gli avevano fatto la
stessa domanda.
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alloggio in casa della Longo.
In seguito, dopo l’arrivo in Sicilia di John Gambino, e precisamente il 6 settembre 1979, Sindona si trasferì in un villino di proprietà dei suoceri di Rosario Spatola,
sito in contrada Piano dell’Occhio di Torretta, di cui lo stesso Spatola aveva consegnato le chiavi al Gambino, sia pure (secondo la sua versione) per una ragione del
tutto diversa da quella reale.
Intanto, fin dai primi giorni della sua fuga, Sindona, evidentemente aiutato dai
suoi amici, aveva cercato di accreditare la tesi del rapimento, inviando una serie di
messaggi ai suoi familiari, al genero Pier Sandro Magnoni e al difensore, avvocato
Guzzi. In questi messaggi sosteneva di essere stato rapito da un “gruppo proletario
eversivo per una giustizia migliore”, e in particolare nelle lettere inviate all’avvocato
Guzzi precisava che i suoi rapitori avevano bisogno di numerosi documenti, concernenti i suoi rapporti con il mondo politico e finanziario italiano e tra l’altro della “lista
dei 500”. In genere le lettere (ad una delle quali era allegata una fotografia di Sindona,
con un cartello con la scritta: “il giusto processo lo faremo noi”) erano scritte a macchina dallo stesso Sindona, ma ce n’è anche una, caratterizzata da toni minacciosi,
scritta a mano sempre da Sindona personalmente. Tutte le missive, contenute in buste
con i nomi dei destinatari, venivano quindi consegnate a Macaluso, Caruso o altri, che
provvedevano a impostarle negli USA ovviamente allo scopo di dare ad intendere che
Sindona si trovava negli Stati Uniti e non in Sicilia.
Sempre nello stesso periodo del falso rapimento e con scopi ricattatori o di
richiesta di danaro o di documenti vennero fatte da persone, che si facevano passare
per i rapitori di Sindona, numerose telefonate agli avvocati Guzzi e Agostino
Gambino. Tra le altre, si possono ricordare le telefonate estortive o di sollecitazione
dell’invio di documenti, ricevute il 3 e il 18 settembre 1979 dall’avvocato Guzzi,
quella del 26 settembre 1979 all’avvocato Gambino, con la quale si chiedeva un
incontro che sarebbe dovuto avvenire di là a qualche giorno, e quelle ancora del 1°, 5
e 8 ottobre, sempre dirette ai due avvocati. Inoltre, il 18 settembre 1979 fu inviata da
Roma una lettera minatoria a Enrico Cuccia, che Sindona – com’è noto – riteneva uno
dei suoi più accaniti nemici, mentre il 5 ottobre la porta d’ingresso della abitazione
milanese di Cuccia veniva data alle fiamme e successivamente la figlia di Cuccia riceveva una telefonata minatoria, con un esplicito riferimento all’incendio della porta.
Alcune lettere risultano per altro inviate anche alla figlia di Sindona e al genero Pier
Sandro Magnoni, che deve fondatamente ritenersi, come risulta dalle indagini compiute dai giudici milanesi e siciliani e come mette in evidenza il giudice istruttore di
Palermo nel provvedimento conclusivo dell’istruzione (p. 831), fossero a conoscenza
di quanto era in effetti avvenuto, per esserne stati informati dallo stesso Miceli Crimi,
in un viaggio compiuto a New York durante la scomparsa di Sindona. Nell’ultima lettera al genero, che è tutta una serie di allusioni e di avvertimenti e in cui vengono fornite notizie e impartite istruzioni, spesso scritte come in un linguaggio cifrato, si fa tra
l’altro riferimento alla circostanza che l’avvocato di Roma sarebbe stato contattato
martedì o mercoledì 26 (settembre) con “notizia drammatica certamente documentabile”.
Si tratta, come è chiaro, di una allusione che non può essere interpretata se non
come il preannuncio del ferimento di Sindona, da lui stesso fermamente voluto, da parte
di Miceli Crimi. Al riguardo, le istruttorie giudiziarie in corso hanno accertato, al di là di
ogni ragionevole dubbio, che il 25 settembre 1979, nel villino della Torretta, alla presenza della Longo e di John Gambino, Miceli Crimi ferì Sindona, su sua pressante richiesta,
sparandogli un colpo di pistola alla gamba dopo aver preso le opportune precauzioni per
C) IL RUOLO DELLA MAFIA E DELLA P2 NEL FALSO RAPIMENTO DI
MICHELE SINDONA
Le cose dette nelle pagine precedenti e gli accertamenti compiuti dal giudice
istruttore di Palermo dimostrano, in modo non dubbio, che il finto sequestro di
Michele Sindona fu gestito dalla mafia, in tutte le sue fasi, da quella preparatoria a
quella finale del rientro negli Stati Uniti; così come si può ritenere accertato che anche
Licio Gelli, se pure non prese parte diretta alla messinscena, ne fu tuttavia messo al
corrente.
È anzitutto un dato di fatto, come risulta tra l’altro dalle dichiarazioni di Miceli
Crimi, che l’idea del finto rapimento risalga a parecchio tempo prima della sua attuazione; e poiché, come si è detto, il Sindona espatriò dagli Stati Uniti con un falso passaporto, è già questo un segno per dedurne che a ciò provvide l’organizzazione criminale che faceva capo a John Gambino, e ciò dati gli stretti rapporti, a cui pure si è
accennato, esistenti tra lui e Sindona. È d’altra parte probabile, come sottolinea il giudice istruttore, che si ricolleghi ai preparativi del viaggio di Sindona la circostanza
che, a metà luglio 1979, Giuseppe Macaluso si recò in Sicilia, a Racalmuto e a
Palermo, per poi incontrarsi a Roma con Gaetano Graci, un costruttore e imprenditore
catanese, proprietario tra l’altro, almeno apparentemente insieme con propri familiari,
della banca Agricola Etnea; così come è verosimile che si ricolleghi parimenti a questa fase preparatoria del viaggio una telefonata partita dall’ufficio siciliano di Rosario
Spatola per l’Hotel Pierre, dove alloggiava Sindona.
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Infatti, verso le 18, Rosario Spatola ritirò il plico, per consegnarlo quindi, affinché lo recapitasse a Guzzi, al fratello Vincenzo. Costui però alle ore 9,45 del 9 ottobre
1979, veniva arrestato, subito dopo aver consegnato la lettera all’avvocato Guzzi,
dando così l’avvio alla fase delle indagini, che si è rivelata decisiva per scoprire la
messinscena di Sindona.
Intanto, fallito l’incontro di Vienna, Sindona si era recato a Francoforte e di qui il
13 ottobre 1979 aveva raggiunto in aereo New York, dove era rimasto nascosto nel
motel Conca d’Oro di Staten Island, per farsi poi trovare la mattina del 16 ottobre, in
una cabina telefonica di Manhattan, in condizioni fisiche che aveva volontariamente
provveduto a far degradare per assumere l’aspetto di un vero sequestrato.
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evitare che si potesse accertare che il colpo era stato sparato a bruciapelo.
Il ferimento, voluto da Sindona evidentemente al fine di rendere più attendibile il
sequestro, costituì d’altro canto, per così dire, il primo passo della decisione da lui
presa di tornare negli Stati Uniti. Infatti, dopo tre giorni la ferita era già chiusa, e
Sindona il 1° ottobre si trasferì nuovamente in casa della Longo. Successivamente, il
2 ottobre veniva spedita da Milano una lettera all’avvocato Guzzi, nella quale si
comunicava che Sindona avrebbe dovuto incontrarsi a Vienna 1’11 ottobre con lo
stesso Guzzi e con l’avvocato Gambino, che pertanto per quella data avrebbero dovuto prendere alloggio all’Hotel Intercontinentale. Senonché da una successiva telefonata dell’8 ottobre risultò che Guzzi non ancora aveva ricevuto la lettera e allora la
Longo provvedeva a telefonargli da una cabina pubblica, per comunicargli che l’indomani un corriere gli avrebbe recapitato una lettera dei “rapitori” di Sindona. La lettera
fu come al solito compilata da Sindona, che quindi quello stesso giorno (8 ottobre)
lasciò la casa della Longo a Palermo, insieme con Gambino, non prima che la donna
fosse stata avvertita che in serata il messaggio a Guzzi sarebbe stato ritirato da una
persona di fiducia.
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È d’altra parte risultato, secondo quanto si è detto in precedenza, che, nei suoi
vari spostamenti che da New York lo portarono prima a Caltanissetta e poi a Palermo,
Sindona venne aiutato e materialmente accompagnato, oltre che da Miceli Crimi, da
altri personaggi, tutti appartenenti al mondo della mafia, quali Macaluso, Vitale,
Foderà, Puccio. Un ruolo di primo piano svolse in questa fase Giacomo Vitale, col
quale Miceli Crimi prese contatti, facendo intervenire, con una telefonata, Michele
Barresi, che in precedenza glielo aveva presentato. Il Vitale, sempre secondo il racconto di Miceli Crimi, saputo che si trattava di aiutare un fratello massone, quale era
Sindona, non fece difficoltà di sorta, occupandosi in prima persona dell’organizzazione del viaggio di Sindona in Sicilia, e procurando l’attiva partecipazione all’impresa
di Foderà e di Puccio. A Caltanissetta, secondo ciò che pure si è detto, intervennero il
Piazza, che era stato presentato a Miceli Crimi da quel funzionario massone della
regione, Bellassai, di cui prima si è detto; nonché la Longo, anche essa massone e
legata, come più volte si è ripetuto, da un legame di affettuosa amicizia con Miceli
Crimi. A Palermo infine, è appena il caso di ricordarlo, Sindona fu ospite prima della
Longo e, dopo l’arrivo in Sicilia di John Gambino, del villino della Torretta, appartenente ai suoceri di Rosario Spatola, che lo stesso Spatola aveva messo a sua disposizione. In questo periodo anche altre persone, come ad esempio il fratello di Giuseppe
Macaluso, Salvatore, e come gli Inzerillo, tra cui Salvatore, poi ucciso nel 1981, ebbero una parte non sempre marginale nell’impresa di Sindona; mentre dal canto suo Pier
Sandro Magnoni si era spostato in Spagna, dove avrebbero dovuto raggiungerlo
Giuseppe Macaluso e l’avvocato Ahearn, con l’intento, tra l’altro, di cercare di curare
attraverso la stampa (anche provocando l’eventuale intervento di Leonardo Sciascia)
un’opinione pubblica favorevole a Sindona.
Questo massiccio intervento della mafia a favore di Sindona trova peraltro ulteriore riscontro nelle numerose telefonate, che durante la permanenza a Palermo dell’interessato si intrecciarono, cosi come ha accertato il giudice di Palermo, tra personaggi della mafia siciliana, tra cui in primo luogo lo Spatola, e persone appartenenti in
America al clan di John Gambino; mentre molte chiamate raggiunsero dagli USA le
utenze di mafiosi siciliani, tra cui anche quelle degli Inzerillo. In particolare, il giudice
istruttore ha anche potuto stabilire che il 10 settembre 1979, e cioè il giorno prima
della partenza per la Svizzera di Vincenzo Spatola, dall’utenza telefonica americana di
Erasmo Gambino perveniva una telefonata nell’abitazione di Marcia Radcliff, convivente con un nobile siciliano, che successivamente avrebbe ammesso di aver conosciuto ed anche aiutato in una determinata circostanza Salvatore Inzerillo.
Anche il ritorno di Sindona negli Stati Uniti fu favorito ed anzi organizzato da
una parte di quelle stesse persone che lo avevano aiutato a raggiungere la Sicilia, e in
primo luogo da John Gambino. La partenza fu preceduta dal cambio di un assegno di
100.000 dollari effettuato presso la Sicilcassa di Palermo da Rosario Spatola, mediante
l’utilizzazione del falso passaporto di Michele Sindona, intestato a Joseph Bonamico.
Inoltre, Giuseppe Macaluso ai primi di ottobre raggiunse dall’America Catania, insieme con l’avvocato Ahearn e con la moglie di quest’ultimo. Subito dopo i tre, insieme
con Salvatore Macaluso, si erano recati a Palermo e qui i due Macaluso avevano parlato con Sindona, evidentemente per discutere le modalità del rientro in America. Quindi,
dall’8 al 9 ottobre, Giuseppe Macaluso, la moglie e i coniugi Ahearn avevano alloggiato a Taormina e la notte successiva all’Hotel Jolly di Roma. In tutti i casi, come egli
stesso ha ammesso davanti alla Commissione, i conti degli alberghi erano stati pagati
dall’imprenditore Graci, che ha affermato di aver fatto ciò per ricambiare una cortesia
ricevuta dal Macaluso, anche se non aveva gradito che gli fosse stato addebitato
D)
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dall’Hotel Jolly anche il conto degli ospiti americani del Macaluso.
Non è dubbio infine che nella fase finale del viaggio per l’America uno degli
accompagnatori di Sindona fu John Gambino.
A queste protezioni e a questo aiuto che Sindona ricevette, per realizzare il suo
disegno, bisogna aggiungere quello della loggia P2. In proposito, sono già significativi i nomi tante volte ricorrenti della Longo, del Piazza, del Bellassai, del Barresi e
dello stesso Miceli Crimi, sempre che quest’ultimo si limiti ad essere un massone e la
sua personalità non abbia invece (come si potrebbe evincere da quanto si è riferito
riguardo ai colloqui circa la sua appartenenza alla CIA) risvolti ed aspetti ben più
inquietanti. Ma a tutto ciò bisogna aggiungere che, secondo le dichiarazioni da lui
rese alla Commissione, Miceli Crimi, durante la permanenza di Sindona a Palermo, si
recò ad Arezzo per parlare, su incarico di Sindona, con Licio Gelli. A Gelli, Miceli
Crimi si sarebbe limitato a dire quanto gli aveva suggerito lo stesso Sindona. In particolare gli aveva domandato se non gli sembrava eccessivo il linciaggio morale a cui
Sindona era stato sottoposto e, alla sua risposta positiva, gli aveva rimproverato di
non aver fatto niente per cercare di attenuare questo linciaggio. Il Gelli allora gli
aveva risposto che qualcosa aveva fatto e che gli effetti si sarebbero visti il giorno
successivo. Il Miceli quindi gli aveva chiesto se avrebbe potuto fare qualcosa se la
famiglia di Sindona si fosse trovata in condizioni di bisogno, di non poter vivere; al
che Gelli gli aveva detto che, se la famiglia aveva bisogno, doveva farglielo sapere,
perché lui avrebbe cercato di muovere le persone adatte. A Gelli, sempre a suo dire,
Miceli Crimi aveva parlato di Sindona come di un rapito e gli aveva fatto le domande
suggeritegli da Sindona come se fossero sue; ma la Longo ha sostenuto di credere che
Gelli sapesse che Sindona si trovava in Sicilia.
Miceli Crimi, inoltre, sempre nella dichiarazione resa alla Commissione, ha
anche parlato di una telefonata fatta a Gelli dal vice comandante dei carabinieri
Picchiotti, nella quale costui avrebbe detto che anche loro si trovavano male in Italia
come Gelli, nella sua stessa situazione, sottolineando come i suoi “ideali” a proposito
dell’antiateismo e dell’anticomunismo fossero gli stessi di quelli di Gelli.
Non si può fare a meno di ricordare che Miceli Crimi ha riferito alla
Commissione che Sindona gli aveva parlato di protezioni di vario genere, gli aveva
accennato alla sua conoscenza con Gambino e al suo proposito di fare con lui un giornale per gli italiani in America, gli aveva parlato di Gelli, e una volta aveva fatto
anche riferimento ad un ammiraglio del Pentagono, mostrandogli anzi una lettera che
diceva fosse proprio di questo alto personaggio militare.
Quest’ultima circostanza si trova anche nella deposizione alla Commissione di
Francesca Paola Longo, che ha appunto riferito che, durante la permanenza nella sua
abitazione, Sindona le aveva mostrato una lettera, scritta in inglese, che si era portata
dietro e che diceva provenisse dal Pentagono. Lo stesso Antonio Caruso, peraltro, in
un memoriale acquisito agli atti dell’istruttoria penale svoltasi a Palermo, ha affermato che Macaluso non solo gli aveva detto che Sindona godeva della protezione, in
Sicilia, della massoneria e di mafiosi che controllavano uomini e postichiave, ma gli
aveva anche mostrato alcune lettere compromettenti tra Sindona e un ammiraglio
americano.
LA PERMANENZA DI SINDONA A PALERMO E GLI SCOPI DEL FALSO RAPIMENTO
I risultati delle indagini, sommariamente esposti nelle pagine precedenti, sono
già di per sé indicativi (anche se non si sono raggiunti al riguardo precisi riscontri pro209
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batori) di indebite interferenze di personaggi diversi da quelli che compaiono sulla
scena della vicenda, nel falso rapimento di Sindona e negli scopi che con tale mezzo
questi si proponeva di raggiungere. In effetti, se una organizzazione mafiosa, quale
quella di cui si è parlato, profuse tanto impegno per aiutare Sindona a raggiungere la
Sicilia ed a rientrare poi negli USA, segno è che le persone che ne facevano parte
intendevano così pagare un debito in precedenza contratto con Sindona, o si ripromettevano di trarre in futuro un utile dall’aiuto a lui prestato. Ma è anche verosimile che,
quale che fosse lo scopo direttamente e più immediatamente perseguito, doveva essercene un altro diverso e non visibile, inteso, come è proprio delle organizzazioni
mafiose, a costituire o a rinsaldare quella ragnatela di complicità e di connivenze con
ambienti in qualche modo vicini ai pubblici poteri, che serve a fare tuttora della mafia,
come prima si è accennato, un fenomeno non solo criminale, ma che ha capacità reali
di condizionamento della vita pubblica del paese. Sindona e l’aiuto prestatogli per la
sua fuga dovettero essere, nell’occasione che interessa, uno strumento efficace per
raggiungere questi scopi; né diverse finalità dovettero avere gli ambienti della massoneria, e specie quelli rappresentati da Licio Gelli, che si impegnarono anche essi nel
dare aiuto al latitante Sindona.
Di fronte a tali sospetti (che sono peraltro, per quanto si è detto, qualcosa di più
di semplici sospetti), la Commissione si è impegnata a ricercare il vero scopo che
indusse Sindona a fingere il rapimento e a recarsi in Sicilia, nemmeno direttamente,
ma attraverso un itinerario a dir poco tortuoso.
A quest’ultimo proposito, Miceli Crimi ha sostenuto che il giro attraverso paesi
stranieri prima di raggiungere la Sicilia era stato determinato dall’esigenza di far perdere le tracce di Sindona; ma la spiegazione, come molte di quelle date da Miceli
Crimi, è poco convincente, specie se si pensa che fu proprio all’albergo dove alloggiò
a Vienna che Sindona firmò col proprio nome. Comunque, sempre secondo Miceli
Crimi, fu Sindona che gli comunicò il progetto di venire in Europa e in Sicilia. Tale
disegno avrebbe dovuto avere due scopi: quello di favorire la riunificazione della
massoneria (che era poi il disegno che, a suo dire muoveva veramente Miceli Crimi) e
di mettere in moto un tentativo separatista della Sicilia, in una chiave che si ricollegasse agli ideali massonici, antiateisti e anticomunisti, per estendere quindi questi
ideali a tutta l’Italia; e l’altro scopo di ricercare in Italia i documenti che avrebbero
potuto aiutare Sindona nelle sue vicende di carattere finanziario e giudiziario. Il primo
di questi scopi è stato definito dal giudice di Palermo come un mero pretesto, ma bisogna pur tenere conto che, nell’istruttoria in corso a Milano, è stato chiesto a Miceli
Crimi se una iniziativa del genere non fosse stata prospettata e coltivata, per lo meno
nella fase iniziale, perché fosse poi possibile allo stesso Miceli renderne conto al
Governo statunitense; mentre è pure un dato di fatto che Miceli Crimi, nella stessa
deposizione resa alla Commissione, mentre in un primo tempo parla del progetto
separatista e di moralizzazione dell’Italia, a cominciare dalla Sicilia, come di una
invenzione messa avanti da Sindona per convincerlo ad aiutarlo e a recarsi con lui in
Sicilia, sembra poi attribuire a tale progetto una maggiore consistenza, quando afferma che Sindona gli aveva accennato, contemporaneamente al falso rapimento, alla
possibilità di fare qualcosa per la Sicilia domandandogli se aveva degli uomini da
mettere a disposizione per una impresa del genere. Alla domanda Miceli Crimi avrebbe risposto che qualche centinaio di persone poteva trovarle, avendo quindi da
Sindona l’assicurazione di non preoccuparsi, perché appena arrivato in Sicilia ci
avrebbe pensato lui. Anche da Gelli, peraltro, Miceli Crimi si attendeva qualcosa in
proposito, e cioè che gli presentasse delle persone che lo aiutassero nel suo progetto.
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Ad ogni modo, sempre secondo Miceli Crimi, per l’idea del golpe, Sindona sarebbe
stato in contatto con il Pentagono e non con i servizi segreti; ed ha aggiunto che successivamente, prima di lasciare la Grecia e raggiungere la Sicilia, Sindona gli aveva
detto che era necessario abbandonare ogni proposito del genere di quelli indicati, sia a
proposito della riunificazione delle logge massoniche, sia riguardo alla secessione
della Sicilia e alla diffusione dell’idea anticomunista.
D’altra parte, Miceli Crimi ha precisato che Sindona, dopo averlo messo a parte
dei suoi progetti, ne parlava pochissimo. Egli voleva dei documenti che lo scagionassero sia in Italia che in America; questi documenti non voleva richiederli direttamente,
ma voleva fare apparire che a chiederli, in forme ricattatorie, erano i suoi rapitori politici. Era nata appunto di qui l’idea del falso rapimento, appunto perché risultasse che
erano altri e non lui che avevano interesse ad avere i documenti che egli in effetti cercava; del pari, a questa stessa intenzione di Sindona si connetteva pure la necessità
che egli, nel periodo del finto rapimento, soggiornasse in Italia, perché in Italia avrebbe potuto più facilmente manovrare per avere i documenti. Quando però gli è stato
fatto notare, nel corso della sua audizione, che le richieste di documenti venivano fatte
spedire dall’America e che quindi, ai fini indicati, Sindona poteva fingere il rapimento
rimanendo negli Stati Uniti e senza venire in Sicilia, Miceli Crimi ha dovuto ammettere di non aver mai chiesto spiegazioni a Sindona su questa che pure appariva una
patente contraddizione ed ha riconosciuto di essere stato un “burattino” nelle mani di
Sindona, mosso soltanto dal desiderio, per l’ascendente che questi esercitava su di lui,
che la sua opera potesse servire a farlo riabilitare.
La Commissione, peraltro, non è stata nemmeno in grado di accertare, al di là
delle indicazioni contenute nelle lettere spedite da Sindona, quali fossero i documenti
che effettivamente Sindona cercava e se e di quali di questi documenti Sindona sia
riuscito a venire in possesso. L’unico dato disponibile è l’affermazione di Miceli
Crimi, secondo il quale in un primo momento Sindona, dopo il ritorno in America,
non gli era apparso contento, non essendo riuscito ad avere tutti i documenti che gli
interessavano; mentre successivamente, intorno al Natale, gli era sembrato tranquillo,
perché aveva avuto la maggior parte delle carte che cercava e perché era convinto che
il processo sarebbe andato bene.
È certo, d’altro canto, che durante la loro permanenza in Sicilia tanto Sindona,
quanto Miceli Crimi ebbero contatti con molte persone. Lo stesso Miceli Crimi ha
affermato, nel corso delle istruttorie penali, di aver contattato in Sicilia molte persone,
in particolare massoni, per sviluppare le sue progettate iniziative anticomuniste. Egli
ha detto peraltro che Sindona aveva avuto a Palermo rapporti con molte persone, ma
ha aggiunto che non prestava molta attenzione ai suoi movimenti. Ha comunque precisato di aver visto nella casa della Torretta dove Sindona si era rifugiato John
Gambino, Rosario Spatola, Caruso e Macaluso, sostenendo anche che Spatola non
conosceva neppure Caruso e Macaluso; così come ha affermato di aver conosciuto
solo in Sicilia Macaluso, Spatola e Inzerillo. Ha aggiunto che i documenti che
Sindona faceva spedire venivano consegnati a persone diverse da lui, e che certamente erano al corrente della presenza di Sindona a Palermo Vitale, Barresi, Macaluso,
Caruso, Gambino, Spatola, Foderà e Puccio. Ha infine riconosciuto di aver passeggiato per Palermo insieme con Sindona per recarsi a casa della Longo. Sempre a proposito dei rapporti di Sindona con altre persone, Miceli Crimi, dopo aver chiarito che era
stato lui a presentare Vitale a Sindona, ha anche affermato che quando si erano incontrati ad Atene i due si erano appartati fuori della sua presenza ed erano rimasti da soli
impegnati in un lungo colloquio, dandogli l’impressione che si conoscessero da tempo
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e che avessero tra loro rapporti di una certa intensità.
A sua volta, la Longo, dopo aver detto di avere ospitato Sindona, che aveva
conosciuto solo in occasione del loro incontro, per l’affetto che portava a Miceli
Crimi, ha ammesso di essere anch’essa massone e di battersi per l’autonomia delle
logge massoniche femminili, una delle quali (“Atena”) era da lei diretta, e per la riunificazione della massoneria. Ha altresì affermato di sapere che pure Sindona era massone e di essere a conoscenza dei progetti di Miceli Crimi, che a questo scopo girava
per la Sicilia per fondare clubs, di giovani, votati all’idea, e anche per stabilire un rapporto con il Fronte nazionale siciliano separatista.
La Longo ha quindi chiarito che la sua casa a Palermo, già prima dell’arrivo di
Sindona, era sempre stata a disposizione di Miceli Crimi, che se ne serviva come studio per le sue prestazioni professionali, tanto che Rosario Spatola, sia pure mentendo,
ha sostenuto di avere in un primo tempo conosciuto Miceli Crimi, da cui aveva fatto
visitare una propria figlia, non con il suo cognome ma con quello di Longo.
Sempre la Longo ha poi dichiarato che, durante la permanenza in casa sua di
Sindona, si erano recate da lei, per incontrarsi con il suo ospite Sindona, molte persone, tra cui Barresi, Caruso, Macaluso, Vitale, Foderà. Il Barresi, anzi, in una di queste
occasioni le aveva proposto di unificare con la sua la propria loggia massonica, ma la
proposta non le era sembrata chiara ed essa l’aveva respinta. Ha aggiunto che non
sapeva che Vitale fosse un mafioso, ed ha pure detto che Gambino, che essa non sapeva chi fosse, spesso si recava a casa sua e usciva con Sindona. Anche gli altri uscivano
talora con Sindona; questo può considerarsi un dato acquisito, essendo tra l’altro risultato nelle istruttorie penali che Sindona si recava anche in pubblici ristoranti. È certo,
in particolare – ed ha finito per ammetterlo lo stesso Spatola – che una volta Miceli
Crimi, lo Spatola, John Gambino, una ragazza che accompagnava questi (Ritz Mixie)
e Sindona avevano mangiato insieme in un ristorante a Mondello.
Spatola tuttavia ha sempre negato di aver conosciuto Sindona, sia pure ammettendo che era possibile che glielo avesse presentato in America, senza che egli vi
facesse caso, il cugino John Gambino. Lo Spatola peraltro, dopo aver parlato della sua
carriera di imprenditore, che lo aveva portato ad avere fino a 3-400 operai, ha affermato che, in occasione di una campagna elettorale, si era impegnato con l’avvocato
Francesco Renda a fare propaganda per Ruffini, ma non aveva poi mantenuto fede
alla promessa.
La Longo, inoltre, ha dichiarato che Sindona gli aveva detto di essere venuto in
Sicilia liberamente, ma che non doveva sapersi che egli si trovava a casa sua; tanto
che, una volta in cui lei gli aveva detto che lo avrebbe denunciato ai carabinieri, le
aveva risposto che “così sarebbe finita sui giornali”. Ha pure aggiunto che, dopo i
fatti, aveva avuto la sensazione che vi fossero dei legami tra Miceli Crimi, la mafia e
Sindona, ed ha infine narrato un episodio che appare di particolare significato: che,
cioè, nell’agosto 1979, quando Miceli Crimi era momentaneamente tornato in
America, un maresciallo di pubblica sicurezza si era recato da lei, per chiedere a
Miceli un posto per sua nipote. Nella casa si trovava Sindona.
Del resto lo stesso Miceli Crimi non ha avuto esitazione ad affermare davanti
alla Commissione di avere avuto la sensazione (anche se adesso più chiara di quanto
non fosse stata a quel tempo) di essere stato pedinato, durante la sua permanenza a
Palermo insieme con Sindona; ed ha anche aggiunto che, ripensando al passato, gli
veniva il sospetto che qualcuno della polizia sapesse della presenza di Sindona a
Palermo e non fosse tuttavia intervenuto.
Questa affermazione, valutata in riferimento allo specifico episodio narrato dalla
Mafia
Longo circa la visita del maresciallo di pubblica sicurezza, assume un significato, a
cui non può non attribuirsi valore probatorio circa quelle indebite protezioni, che la
presenza della mafia è in grado di procurare; e insieme rappresenta un segno, indubbiamente tenue, ma non per questo meno rilevante – se messo in rapporto con i contatti, di cui pure si è parlato, che Miceli Crimi avrebbe avuto con personalità del
Governo statunitense – di un tentativo, compiuto da Sindona con il viaggio in Sicilia,
non tanto di avere documenti che gli potessero servire, quanto di entrare in diretto
contatto con persone che potessero venirgli concretamente in aiuto in un momento
così difficile della sua vicenda, e che doveva precedere di poco il definitivo riconoscimento, per ora soltanto negli USA, delle sue irrefutabili e gravissime responsabilità.
“Nella prima fase Sindona si sentiva assolutamente sicuro della sua posizione
grazie agli appoggi che lui riteneva di avere nell’amministrazione americana, nel
Dipartimento di Stato, a New York e probabilmente negli ambienti parlamentari”;
ma questa sicurezza, pare a noi, dovette via via venir meno, tanto è vero che andranno
intensificandosi i legami tra Sindona e la mafia e certa massoneria, scivolando, l’ex
banchiere, sempre più rapidamente dal terreno politico e giudiziario a quello criminale.
In relazione però alla questione dell’estradizione, in base alla esposizione dei
fatti oggettivi effettuata nell’apposito capitolo, nutriamo il dubbio che vi siano stati
interventi autorevoli sui giudici statunitensi da parte di altre autorità di quel paese. Ma
non è questo tuttavia il tema che attira maggiormente l’attenzione, un tema che non
poteva interessare quanto quei rapporti politici di Sindona negli USA o con ambienti
statunitensi in Italia, che potevano avere un qualche riflesso sulla situazione in Italia e
sulle vicende italiane del banchiere siciliano. E, perciò, non i rapporti di affari con
Dan Porco o con Macaluso e Genovese o addirittura con David Kennedy, presidente
della Fasco A.G. ed ex ministro del tesoro dell’amministrazione Nixon, o con altri
personaggi del mondo finanziario ed economico nord-americano potevano e dovevano occupare l’inchiesta sull’affare Sindona; né lo poteva il fatto che Michele Sindona
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Sembra doveroso, infine, anche se la materia esula dagli obiettivi indicati dalla
legge istitutiva della Commissione, riferire più approfonditamente, nei limiti dei risultati dell’indagine svolta, sulle connessioni americane di Michele Sindona.
Non pare possano sussistere dubbi sul fatto che l’affare Sindona si colloca in uno
scenario non solo finanziario ma politico più vasto di quello nazionale. L’intreccio dei
legami politici di Sindona va oltre i confini segnati dai rapporti con uomini di partito e
del settore pubblico del nostro paese. Questo intreccio di legami politici si ripete
soprattutto negli USA. Le cosiddette “connessioni” americane non riguardano solo
quel mondo italo-americano – e quindi non tutta la comunità italo-americana – dal
quale emergono personaggi come Rao, Guarino, Miceli Crimi e qualche congressman
quale, ad esempio, Biaggi, di cui si è parlato in precedenza. Che Michele Sindona
abbia tratto giovamento da questi legami non tanto per evitare l’estradizione quanto
per uscire con il minor danno possibile dalla vicenda del fallimento della Franklin non
può essere affermato, né l’argomento rientra tra gli scopi dell’inchiesta. Tuttavia non
appare infondato il giudizio offerto alla Commissione dall’ex ambasciatore Gaja, laddove dice:
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4. MICHELE SINDONA E LE CONNESSIONI AMERICANE
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abbia avuto determinate relazioni negli ambienti democratici o nell’entourage di
Nixon, ad esempio appunto con David Kennedy e con Connolly, ex ministro dell’amministrazione Nixon ed ex governatore del Texas, legato ai petrolieri di quello Stato.
Ha invece interessato, pur se la Commissione istituzionalmente non poteva occuparsene, l’impegno politico di Sindona negli USA, per la luce che esso getta sui suoi rapporti e sulle sue relazioni politiche in Italia. E ciò anche per la commistione politicoideologico-affaristica che contraddistingue il suo comportamento. Naturalmente
Sindona enfatizza le ragioni politico-ideologiche (non certo quelle affaristiche) con
cui intende giustificare i finanziamenti effettuati a favore di partiti e uomini politici,
proiettando un’ombra inquietante sulle stesse ragioni della sua fuga dagli USA a
Palermo perché si è cercato di motivarla anche con obiettivi autonomisti e separatisti.
Le stesse “idealità” per cui si muove il massone e mafioso Miceli Crimi sembrano
animare Sindona, Gelli e i loro fratelli. La lotta all’ateismo e al comunismo muovono
Miceli Crimi, ed egli afferma di battersi per l’unificazione della massoneria oltre che
per quella delle forze anti comuniste in Sicilia a fini separatisti. È lo stesso “ideale”
antiateista e anticomunista per cui nasce, allo scopo di intervenire nella campagna
elettorale del 1976, l’Americans for democratic Italy, di cui fa parte il gruppo di Rao e
di Philip Guarino, oltre a Connolly. È questo lo stesso Connolly di cui si è parlato,
probabile massone – come dice l’ex ambasciatore Gaja – socio in affari di Memmo e
che, secondo Francesca Longo, invitò Miceli Crimi, nel 1978, sul proprio yacht al
largo di Ustica dove si trovavano stranieri i cui nomi Miceli Crimi ha rifiutato di fare
davanti alla Commissione.
L’ex ambasciatore Gaja, cui ripugnava avere rapporti con certi ambienti italoamericani, viene attirato ad un ricevimento promosso dall’Americans for democratic
Italy anche allo scopo di farlo incontrare con Sindona che cercava di migliorare la sua
immagine negli USA. L’annuncio del ricevimento venne fatto a nome non
dell’Americans for democratic Italy bensì dell’American Legion. Gaja si accorge del
tranello e si allontana dalla riunione. Guarino e Rao telefonano al Quirinale e altrove
cercando di colpire il nostro ambasciatore come un diplomatico che non ha “il senso
della democrazia”.
Ma se questo avviene nel periodo di cui Sindona cerca rapporti, aiuti, sostegni
diretti ed indiretti prima della sua condanna, assai precedenti a questo periodo sono le
sue relazioni, ad esempio, con gli ambasciatori statunitensi in Italia Martin e Volpe, di
cui si parla nell’audizione di Andreotti dinanzi alla Commissione. Sindona acquistò il
giornale americano Daily Rome, notoriamente legato all’ambasciata degli USA, ed è
l’ambasciatore Martin che finanzia la campagna elettorale del generale Miceli, membro della loggia P2 e capo del SID, di cui sono noti i rapporti con Gelli ed anche con
Sindona. Tanto è vero questo intervento di Martin, che l’onorevole Andreotti credette
suo dovere inviargli un telegramma per chiedere di conoscere a quale forza politica
l’ambasciatore avesse fornito denaro. L’onorevole Andreotti afferma di attendere
ancor oggi una risposta.
Un’altra testimonianza è venuta ad arricchire le informazioni della
Commissione, testimonianza che non trova riscontri, ma che diventa oggetto di riflessione e desta preoccupazione in una cornice di fatti e di avvenimenti di cui si è parlato
anche in altre parti della presente relazione. Vogliamo alludere in primo luogo alle
minacce di Sindona di rivelare segreti di Stato che possono mettere in difficoltà i rapporti tra Roma e Washington se non vi sarà un concreto intervento in suo favore del
Presidente del consiglio, minacce fatte conoscere ad Andreotti da Guzzi per mezzo di
una lettera che è agli atti della Commissione. Secondo Guzzi, Andreotti si affrettò a
Per quanto si voglia dubitare di tale testimonianza non è possibile ignorare i rapporti tra Sindona ed Edgardo Sogno, ad esempio, ma soprattutto tra Sindona e Gelli;
ed ignorare, quindi, l’attività politico-affaristica in senso antidemocratico di Gelli,
oltre che i suoi legami con i servizi segreti italiani sin dai tempi di Piazza Fontana e
dell’Italicus.
Libertà vo cercando ch’è sì cara come sa chi per lei vita rifiuta fa stampare
Miceli Crimi in apertura di un suo libro consegnato alla Commissione e dedicato al
supremo ideale della libertà. Ebbene, oggi si sa chi è Miceli Crimi. Risulta agli atti
che egli avrebbe avuto rapporti con autorità americane che gli hanno esternato preoccupazione per la situazione politica italiana. Sappiamo per certo che egli è stato ricevuto da Carter e come ciò sia avvenuto non siamo in grado di dirlo. Vi sono poi i
sospetti di Francesca Longo e del mafioso Vitale che egli sia un agente della CIA,
sospetti che egli respinge nei modi descritti in questo capitolo.
Infine, chi è Roberto Memmo? Anch’egli è cittadino statunitense. Fa capo ad
Houston. Siamo nel Texas, lo Stato di Connolly, che, come Roberto Memmo, si è
occupato dell’acquisto della Società Generale Immobiliare e della Società Condotte.
Non ci sono riscontri presso la Commissione. Certo è che se n’è occupato Roberto
Memmo in rapporto con società e banche americane, come la First National Bank. Se
ne occupa, dice, facendo da tramite fra queste e Federici. È difficile trovare una giustificazione plausibile dell’intervento molteplice e costante di Roberto Memmo nell’affare Sindona, cosi come risulta dalle testimonianze dell’avvocato Guzzi e, in parte,
dalle sue stesse affermazioni. Egli nega persino di essere amico di Sindona e il suo
operato non si può giustificare con l’amicizia verso Federici, anche se di questi è
socio d’affari. Neppure è sufficiente il suo rapporto d’amicizia con Pier Sandro
Magnoni. Ciò che è certo è che Roberto Memmo lo troviamo a fianco di Gelli e, come
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“Sindona perseguiva scopi politico-militari e mi disse che l’Italia aveva bisogno di un
Governo forte”.
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rassicurare l’avvocato di Sindona, raccomandando riservatezza, per mezzo di una
telefonata che però viene negata dallo stesso Andreotti. Tuttavia Guzzi ribatte che esiste (ed è agli atti) una lettera immediatamente successiva a quella telefonata con la
quale, tra l’altro, l’avvocato di Sindona ringrazia Andreotti appunto per il messaggio
telefonico. Si allude poi, in secondo luogo, alle ragioni addotte per giustificare la loro
presenza in Sicilia da Miceli Crimi e da Sindona; ragioni che possono apparire inverosimili, ma che ritornano con preoccupante frequenza e che riguardano in sostanza la
lettera di un ammiraglio del Pentagono, con cui si sollecita Sindona ad agire in senso
anticomunista e con obiettivi separatisti in Sicilia.
Non possiamo, infine, non fare riferimento a quanto è stato detto nell’aula di
Montecitorio dall’onorevole Belluscio, anch’egli massone e presente nelle liste di
Gelli, le cui affermazioni riferiamo solo in quanto la nostra fonte è un atto parlamentare (seduta del 27 febbraio 1981, v. resoconto stenografico n. 381). Afferma l’onorevole Belluscio che, per ottenere il visto di segretezza della NATO, era preferibile essere
massone. Ed ecco dunque la testimonianza di cui si è parlato. Essa è portata alla
Commissione da Bordoni (v. audizione del 1° aprile 1981, VI/l9 e 20; VII/l), il quale
parla di finanziamenti di Sindona all’ammiraglio Pighini, comandante della NATO nel
Mediterraneo. Si tratta di milioni di dollari depositati presso l’Amincor Bank di
Sindona e di benefici derivanti da grosse operazioni in argento. Bordoni afferma che
con tali finanziamenti
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Gelli, appare difficile che intervenga nell’affare Sindona solo per “fratellanza massonica”. Per noi resta l’interrogativo: per quali ragioni si muovono Gelli e Roberto
Memmo? Per quali ragioni si muovono in primo piano uomini come Miceli Crimi e
Roberto Memmo, cittadini americani, oltre a Gelli e Ortolani, l’uno con una qualche
veste diplomatica fornitagli dal governo argentino, l’altro con la stessa veste fornitagli
dall’Ordine dei Cavalieri di Malta. Ci auguriamo che a questi interrogativi possa
rispondere la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia P2.
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COMMISSIONE
PARLAMENTARE DI
INCHIESTA SULLA LOGGIA
MASSONICA
P2
LEGISLATURA)
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La Commissione di inchiesta su Sindona era venuta in possesso,
ed aveva disposto la pubblicazione, degli elenchi sequestrati dalla
magistratura nell’ufficio di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi, relativi
alle persone appartenenti alla loggia massonica P2. In seguito alla
lettura di tali elenchi – considerati, pur senza entrare nel loro merito,
autentici –, la Commissione aveva segnalato l’opportunità di una
specifica inchiesta parlamentare. Con la legge 23 settembre 1981, venne
istituita appunto tale Commissione. Composta di deputati e senatori fu
presieduta dal deputato Tina Anselmi (DC), che il 12 luglio 1984
presentò la relazione per la maggioranza, approvata col voto favorevole
dei commissari dei gruppi DC, PCI, PSI, PRI e Sinistra Indipendente.
L’attività di questa Commissione è assai interessante, perché nel
corso dei suoi lavori assunse varie decisioni che hanno inciso nella
sfera privata di cittadini, con limitazioni della loro libertà, mediante
sequestri e anche con l’uso di altri strumenti coercitivi, ciò che solleva,
come si è visto nell’introduzione, non pochi dubbi di legittimità
costituzionale. Ne è derivata una configurazione della Commissione di
tipo giudiziario, mentre essa ha, in modo inequivocabile, natura
prettamente parlamentare.
Si è proceduto infatti a perquisizioni e sequestri attraverso la
polizia giudiziaria; si è fatto ricorso all’accompagnamento coatto di
testimoni ed all’arresto, sia pure temporaneo, di testimoni per reticenza
o falsa testimonianza e alla loro denuncia all’autorità giudiziaria.
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Fatto unico in una sede parlamentare, furono ammessi nella
discussione, di carattere giuridico, sul ricorso a tali mezzi, i magistrati
consulenti della Commissione, quindi estranei non solo alla
Commissione ma anche alle Camere nel loro complesso.
Dall’effettuazione dei sequestri derivarono conflitti di
competenza con l’autorità giudiziaria, aspri contrasti interni alla
Commissione ed anche un ricorso alla Corte di cassazione che dichiarò
il difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria, adita dal Grande
Oriente (GOI) per vedere annullato il sequestro delle schede personali
dei suoi affiliati.
Oltre alla relazione della maggioranza sono state presentate
cinque relazioni di minoranza: senatore Bastianini (PLI); deputato
Ghinami (PSDI); deputato Matteoli (MSI-DN); senatore Pisanò (MSIDN); deputato Teodori (PR).
Dalla relazione della maggioranza pubblichiamo uno stralcio
concernente la loggia P2 come associazione politica; il Piano di
rinascita democratica e le conclusioni, oltre ad alcuni documenti
inerenti alle procedure di affiliazione, dai quali sono stati cancellati i
nomi delle persone, nonché tutti gli elementi atti ad identificarle.
Le conclusioni furono discusse sia al Senato, sia alla Camera ed
entrambe le Camere impegnarono il Governo ad emanare direttive per
una proficua utilizzazione degli elementi raccolti dalla Commissione ed
a rendere efficace il controllo parlamentare sulle nomine per i vertici
dell’Amministrazione; a garantire la trasparenza proprietaria nel settore
dell’editoria ed a rafforzare i controlli sul sistema bancario.
Si deve altresì ricordare che con la legge 25 gennaio 1982, pochi
mesi dopo la costituzione della Commissione, la loggia P2 venne
dichiarata segreta e quindi sciolta a norma dell’articolo 18 della
Costituzione.
La Commissione ha pubblicato, in allegato alle relazioni, 114
volumi di documenti e resoconti delle sedute, per la cui consultazione la
Camera dei deputati ha pubblicato una guida dal titolo “Indici degli atti
della Commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia massonica
P2”. Tra tali documenti vi sono anche numerosi atti giudiziari che,
all’epoca della pubblicazione da parte della Commissione, erano
ancora coperti dal segreto istruttorio.
NB: Dal testo delle pagine seguenti sono state espunte le note a piè
di pagina che rimandavano ad altre parti della relazione qui non
pubblicate, e perciò in questo contesto inutili.
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Gli elementi di conoscenza in ordine agli episodi citati ci conducono a porre il
quesito se l’attività di pressione, di intervento e di infiltrazione documentata possa
essere inquadrata nell’ambito di normali operazioni di lobbying, che sarebbe ipocrita
non riconoscere ampiamente praticate – anche se nel caso della Loggia Propaganda si
palesa il ricorso a mezzi di pressione di particolare incisività – o se invece esse siano
riconducibili ad un disegno politico di più vasta portata.
Correttamente argomentando, i problemi a cui dare risposta sono:
a) se la Loggia Propaganda 2 sia definibile come associazione politica
b) in caso di risposta positiva, quali finalità politiche essa poneva al suo operare.
Rispondere a questi interrogativi significa ripercorrere riassuntivamente quanto
sinora si è venuto esponendo nelle varie parti della relazione per rinvenire un filo conduttore che dia a fenomeni e a situazioni spesso in apparenza distanti, se non divergenti, una interpretazione che tendenzialmente ci conduca ad una visione unitaria
della Loggia Propaganda 2, delle sue molteplici ramificazioni e della sua multiforme
attività. A tal fine possiamo riprendere le notazioni più volte espresse che emergono
dallo studio della vicenda organizzativa e funzionale della Loggia P2, rilevando come,
nell’arco del decennio che segna approssimativamente il periodo della sua operatività,
essa sembri vivere sostanzialmente due stagioni che con diverso segno contraddistinguono la sua struttura, l’ambito dei suoi interessi, le forme di intervento.
La prima è quella che corre grosso modo dalla fine degli anni sessanta alla metà
degli anni settanta; nel corso di questa prima fase, la Loggia Propaganda vive sostanzialmente ancora nell’orbita della massoneria di Palazzo Giustiniani, che conserva su
di essa, attraverso la Gran Maestranza, una sorta di primazia esercitata in condominio
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II. LA LOGGIA P2 COME
ASSOCIAZIONE POLITICA
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Dalla relazione (relatore Anselmi)
(pagg.138-155)
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con Licio Gelli. Essa è già certamente qualcosa di diverso dalla tradizionale Loggia
P2, ma comunque sempre secondo una linea di continuità ideale ed organizzativa che
unisce le due organizzazioni, ben rappresentata dal continuo contrasto tra il Gelli ed il
Salvini, questi sempre volto al tentativo di riaffermare il suo ruolo di suprema guida
della famiglia massonica e quindi di tutte le strutture in essa ricomprese.
È questa la fase della penetrazione massiccia negli ambienti militari che vede il
Gelli, secondo la precedente ricostruzione, dedicare le sue energie al reclutamento di
un gran numero di uomini in divisa. Il tenore dei discorsi che ad essi tiene è quello del
verbale della riunione del 1971 (1): sono discorsi di segno spiccatamente conservatore
che si indirizzano ad una condanna del sistema nel quale le forze politiche da controbilanciare vengono individuate in un’area che si definisce clerico-comunista. La
Loggia si caratterizza così ai nostri occhi per una forte connotazione anti-sistema e, di
conseguenza, per una sua accentuazione indirettamente eversiva, che si riflette nelle
allusioni ad eventuali soluzioni di tipo autoritario che il Gelli non tralascia di ventilare
all’elemento militare, il quale, come abbiamo visto, costituisce se non l’elemento portante, certo una componente essenziale dell’organizzazione. Una testimonianza diretta
di questo indirizzo politico ci viene offerta dalla riunione dei generali che si tiene a
Villa Wanda nel 1973.
Ma al Gelli, uomo d’ordine che chiede o sembra chiedere esiti politici che portino, all’insegna della conservazione, a situazioni di maggiore stabilità nel Paese, corrisponde in questi anni in modo speculare il Gelli che trama con gli ambienti dell’eversione nera, secondo la ricostruzione offerta nel capitolo apposito, con quegli elementi
cioè che coltivano progetti ed attuano iniziative che si pongono come non ultimo degli
elementi destabilizzanti di quel periodo. Sono questi gli anni del golpismo strisciante
(golpe Borghese) e degli attentati dinamitardi che da piazza Fontana in poi accompagnano e segnano una stagione politica contrassegnata dalla ricerca di soluzioni non
effimere, dopo la rottura degli equilibri politici e sociali intervenuta alla fine degli
anni sessanta, quando si consumava la prima fase dell’esperimento politico di centrosinistra Durante questa fase, conviene da ultimo rilevare, Gelli gode del più assoluto
anonimato presso l’opinione pubblica e può agire indisturbato all’ombra dello scudo
che gli viene assicurato dalla doppia cintura protettiva garantita dalla copertura massonica e dalla motivata disattenzione dei Servizi segreti nei suoi confronti.
Questa situazione si evolve in ogni senso verso la metà degli anni settanta, quando non solo il Gelli sale alla ribalta delle cronache e finisce per essere sottratto definitivamente all’anonimato del quale ha goduto finora, ma alcuni apparati informativi –
non collegati ai Servizi segreti – come la Guardia di Finanza e l’Ispettorato contro il
terrorismo, nonché i giudici di varie procure (Vigna, Pappalardo, Occorsio) iniziano
ad occuparsi del Gelli e della sua Loggia. Nel 1975 viene verosimilmente redatto,
come vedremo, il piano di rinascita democratica che, dal punto di vista operativo piuttosto che da quello ideologico, registra una radicale conversione di rotta, delineando
una strategia affatto diversa di occupazione articolata del sistema. Intervengono, poco
dopo la sua redazione, le ristrutturazioni della loggia che, attraverso l’operazione di
sospensione pilotata dal Gamberini, consentono una definitiva copertura dell’organizzazione che nel contempo è oramai stabilmente entrata sotto la sfera di controllo assoluto del Gelli, al quale il Gran Maestro, definitivo perdente dello scontro, non può che
limitarsi a consegnare le tessere di affiliazione in bianco. Di esse, ed in gran numero,
il Gelli sembra avere bisogno perché, secondo quanto il piano richiede, questa è la
fase del proselitismo massiccio che segna il salto di qualità tra la vecchia Loggia P2
(sia pure ampliata e rivitalizzata) e la nuova struttura di impronta marcatamente gel-
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liana che allinea quell’impressionante schieramento di nomi qualificati che è dato
riscontrare negli elenchi di Castiglion Fibocchi. Nell’ambito di questo nuovo impulso
organizzativo diminuisce l’interesse del Gelli per i militari visti come categoria, come
denuncia la mirata politica di reclutamento verso il settore che privilegia la qualità
sulla quantità degli affiliati in divisa, cha vengono presi di mira soprattutto nei massimi vertici.
Per converso questa fase è contrassegnata dal rilievo che assumono le attività di
tipo finanziario e dal peso che in questo mutato contesto rivestono figure come quelle
di Umberto Ortolani e di Roberto Calvi, stabilmente schierati, verso la metà degli anni
settanta, sotto l’insegna del Venerabile aretino: per concludere, è un periodo questo
che vede il declino, nella Loggia P2, dei generali, ai quali subentrano come elemento
portante gli uomini di finanza. È questa infatti la fase che vede espandersi l’intreccio
di combinazioni affaristiche, che ruotano attorno alla figura di Roberto Calvi e prosperano all’ombra dello stretto sodalizio che lega il Presidente del Banco Ambrosiano
alle due figure più eminenti della Loggia P2: Licio Gelli ed Umberto Ortolani. Ma
soprattutto è questa la fase che vede l’ingresso del gruppo Rizzoli nella Loggia P2,
con la conseguente acquisizione alla sua diretta azione di influenza e di indirizzo del
Corriere della Sera. La fase di sviluppo di questi eventi infine cade proprio mentre la
vita politica nazionale, dopo le elezioni del 1976, registra quei risultati elettorali e
quei cambiamenti di linea politica che condurranno alla politica di solidarietà nazionale. Non può non colpire in questo breve riepilogo, che deve essere letto riportandosi
alla conclusione dei precedenti capitoli, la constatazione di come la vita della Loggia
Propaganda corra in parallelo, secondo un mutuo rapporto di scambievole influenza,
con le vicende politiche del Paese, ad esse parametrando le stagioni organizzative ed i
piani di intervento, con una sintonia tra il dato interno e quello esterno alla Loggia che
il Commissario Covatta ha voluto sintetizzare definendo la Loggia P2 una struttura
“plastica rispetto al potere”. Non è chi non veda, infatti, come nella storia del suo sviluppo sia dato individuare una prima fase di contatto con gli ambienti militari da un
lato e con le fasce estreme dell’eversione nera dall’altro, che caratterizza marcatamente la prima metà degli anni settanta, quando la provvisorietà delle soluzioni politiche e
la ricerca faticosa di più solide maggioranze davano spazio e margine di credibilità
politica a quei conati di golpismo strisciante, che solo in seguito si sarà in grado di
collocare nella giusta prospettiva, ma che all’epoca non mancarono di esercitare il
loro effetto di allarme destabilizzante. Come del pari ad un effetto destabilizzante
miravano eventi clamorosi di tragico segno quali gli attentati, che accreditarono, nella
logica della strategia della tensione, la teoria degli opposti estremismi e per alcuni dei
quali sappiamo che la Loggia si poneva come retroterra politico e finanziario (1).
Come abbiamo già osservato se è certo che Gelli ed ambienti della Loggia P2
hanno tramato con l’eversione nera, sarebbe peraltro giudizio politicamente incauto
identificarli con essa, risolvendo così in modo semplicistico un più complesso rapporto con fenomeni ed ambienti che appaiono piuttosto strumentalizzati, secondo una
accorta strategia di inserimento che punta ad incentivarli, salvo poi a disinnescarli al
momento opportuno. Traspare piuttosto dalla trama degli eventi un disegno che sollecita iniziative di valore eversivo puntando al vantaggio politico di eventuali contraccolpi sul sistema, più che ad un reale suo impossessamento nel segno della restaurazione. Solo la pochezza politica di qualche generale di mal apposte ambizioni poteva
farsi irretire dalla prospettiva di un governo presieduto da Carmelo Spagnuolo, quale
il Gelli agitava ai suoi ospiti con le stellette nella riunione di Villa Wanda.
Fino al 1975 Licio Gelli sembra aver giocato con pari impegno sui due tavoli
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diversi – ma lo furono poi veramente? o non fu piuttosto una medesima spregiudicata
partita che su di essi Gelli, o chi per lui, condusse? – dell’eversione violenta al sistema e della politica di ordine e di restaurazione, all’ombra dei militari. È questa la stagione politica nella quale la Loggia P2 si configura dunque, secondo l’espressione del
Commissario Occhetto, come il luogo nel quale passa la convergenza fra le forze dell’eversione ed il “partito d’ordine”. Ma la non identificazione di Licio Gelli con l’eversione, l’approssimazione cioè di una lettura del personaggio e del fenomeno che ad
esso risale in chiave nera, risalta con netto rilievo quando si consideri l’evoluzione
che ci è dato registrare secondo una lettura non schematica degli eventi successivi,
quando la strategia della tensione si avvia al tramonto.
Il piano di rinascita democratica segna l’ingresso alla seconda fase, quella della
penetrazione nel sistema, che viene aggredito attraverso la ragionata acquisizione di
alcuni suoi gangli di funzionamento essenziali. È la stagione organizzativa della completa copertura della Loggia e del suo qualificato ampliamento, con le quali i gruppi
che si identificano nella loggia accompagnano l’esperimento politico dell’inserimento
del partito comunista nella maggioranza di governo.
Se vogliamo apprezzare in pieno la flessibilità dell’operazione e la tempestività
dei suoi tempi di attuazione, non possiamo non dare rilievo, a questo punto dell’analisi, al dato emergente dall’istruttoria, ampiamente esposto precedentemente nelle sue
modalità operative, sull’ingresso del Corriere della Sera nell’orbita di influenza della
Loggia P2; dato questo suffragato, con riscontro puntuale, dal documento che il
Comitato di redazione e di fabbrica del giornale ha inviato alla Commissione. In questo lavoro è rinvenibile una ampia e documentata testimonianza della penetrante azione, a livello anche di gestione di notizie minori, che veniva esercitata sul quotidiano,
il cui direttore, Di Bella, era iscritto alla Loggia P2, completando così l’organigramma
di controllo della testata. Di fronte a questo rilievo non può non essere posto in luce
che il giornale mantenne durante l’esperimento politico della solidarietà nazionale un
orientamento di sostanziale appoggio alla soluzione politica, di governo e di maggioranza parlamentare, che si veniva enucleando nelle sedi istituzionali. Valga per tutte la
testimonianza offerta dall’editorialista politico del quotidiano, Gianfranco Piazzesi, il
quale afferma in un suo volume di aver propugnato e difeso nei suoi corsivi tale linea
senza che la direzione avesse mai ad interferire in senso censorio. Il sostegno fornito
dalla direzione di Di Bella all’operazione guidata dall’onorevole Moro va peraltro
letto alla luce dei dati in nostro possesso sulla compenetrazione tra gruppo Rizzoli e
Loggia Propaganda e sul controllo che Gelli poteva esercitare, ed in fatto esercitava,
nella sua qualità di garante ultimo di quella situazione proprietaria e gestionale emblematicamente rappresentata dal famoso “pattone”.
I dati conoscitivi sul Corriere della Sera si pongono così alla nostra attenzione
con tutta la carica del loro ambivalente significato, poiché, se da un lato segnalano
alla nostra riflessione il rilievo indubitabile degli interessi politici della Loggia, dall’altro sollecitano un’analisi scevra da ogni schematismo interpretativo, non dismettendo il quale diventa impossibile cogliere il fenomeno nel suo più recondito significato.
Partendo da questa osservazione di metodo, il dato dal quale bisogna prendere le
mosse è la constatazione di indubbio riscontro storico che le elezioni del 1976 avevano provocato nella situazione politica del Paese un mutamento profondo, costituito dal
ruolo inedito che il partito comunista veniva ad assumere, anche per la condizione
posta dal partito socialista di non far parte di alcuna maggioranza di governo che non
includesse, in qualche modo, il partito comunista stesso.
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Quanto ci è dato riscontrare, riferendoci ai dati sinora acquisiti, è che l’instaurarsi di questa nuova situazione si accompagna al contemporaneo dispiegarsi di due concorrenti attività:
a) nel 1977 – prima operazione di ricapitalizzazione del gruppo Rizzoli – viene
acquisito alla loggia un primario strumento di formazione dell’opinione pubblica e
viene iniziata una vasta operazione di espansione nel settore della stampa quotidiana;
b) Licio Gelli procede ad una selezionata acquisizione di uomini collocati in
ruoli centrali e determinanti della pubblica amministrazione, dei vertici militari nella
loro massima espressione, della dirigenza più qualificata del mondo bancario e finanziario.
Non sembra, a questo punto del discorso, un voler forzare l’interpretazione il
riconoscere che i fenomeni descritti sono legati da un rapporto di causa ed effetto, e
che i dati che abbiamo allineato all’attenzione dell’osservatore si pongono con un
rilievo tale, sia per il numero e il peso delle persone coinvolte, sia per la quantità di
mezzi impiegati, da non consentire di confinare operazioni di così vasto raggio nell’ambito indefinito della casualità e della coincidenza
Se vogliamo collegare questi dati al complesso delle considerazioni svolte nel
corso di tutto il lavoro, passando da un apprezzamento puramente esterno degli accadimenti ad una lettura che entri nel merito dei contenuti, siamo allora in grado di
affermare che fatti ed avvenimenti sembrano invece legarsi tra loro secondo una logica ben precisa. Posti di fronte alla nuova situazione che si era venuta ad instaurare,
Licio Gelli e gli uomini che nella sua loggia e tramite essa si esprimevano – il gruppo
che si riconosceva nel piano di rinascita democratica dove si stigmatizzava nel partito
comunista “La sua capacità di mimetizzazione pseudo-liberale in seno alla nuova
società italiana composta di ceti medi” – dovette realisticamente prendere atto della
situazione ed approntare le opportune misure di intervento. Nasce così l’operazione di
concentrazione di testate che opera programmaticamente nel senso di allineare,
Corriere della Sera in testa, un blocco di quotidiani nel quale si riconoscesse la maggioranza di quei ceti medi rivelatisi capaci di così imprevisti scarti elettorali. Ed è in
parallelo a questa operazione che si svolge quella di affiliazione, selettivamente mirata, di tutta una serie di personaggi senza i quali e contro i quali è difficile governare,
in ragione del personale peso specifico e della collocazione strategica degli incarichi
loro affidati.
Il controllo di queste situazioni-chiave costituisce il rovescio della medaglia,
imprescindibile per la comprensione del vero significato del prudente appoggio alla
politica di graduale inserimento del partito comunista nell’area di governo, consentito
a livello di immagine ma che gli uomini della Loggia P2 non potevano accettare senza
precostituire nella sostanza una sorta di meccanismo di garanzia. Il senso reale dell’operazione Corriere della Sera ci appare così come quello di un accorto adeguamento
tattico che mimetizza una situazione reale di contenuto affatto diverso, ovvero l’autentico volto della Loggia P2 nella sua seconda fase: un organismo di garanzia e di
controllo, articolato a più livelli di efficacia e di incisività rispetto ai processi decisionali che accompagnano l’attività politica.
Quale concreta percezione nelle forze politiche si sia avuta della esistenza di
questi fenomeni così collegati – nella loro consistenza e nel loro intrinseco e reciproco
significato politico – come essi abbiano interagito con i concreti processi decisionali,
quali ulteriori connivenze ad ogni livello ed in ogni settore abbiano registrato per
esplicare la loro funzione, questi sono argomenti per i quali non si dispone di elementi
sufficienti al fine di più mature conclusioni. Il contributo che si può portare al dibatti-
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to delle forze politiche è l’affermazione non controvertibile dell’esistenza di questa
struttura, legata in modo funzionale ad una situazione politica determinata e la verifica che non costituì ostacolo al suo approntamento, né fu presidio sufficiente contro il
pericolo che essa rappresentava, la realizzazione dell’accordo di più ampia portata tra
le forze democratiche.
Quanto sinora detto costituisce una risposta implicita ma non equivocabile al
primo dei quesiti dai quali abbiamo preso le mosse, poiché non sembra possa essere
ulteriormente messa in discussione la valenza politica della Loggia P2. Abbiamo
infatti dimostrato in altro luogo che la storia della loggia può essere ricostruita individuando in essa una coerente logica interna; ora, sulla base delle ultime notazioni,
siamo in grado di affermare che questa logica interna corrisponde a sua volta, correndo in parallelo, ad eventi esterni alla loggia: nella specie, gli eventi politici; non ne
rimane che concludere che la Loggia P2 è associazione politica nella sua stessa ragione di essere.
Volendo quindi dare risposta al secondo quesito, che nasce di conseguenza, sugli
obiettivi politici dell’organizzazione, non è difficile, tirando le fila del discorso, definire adesso la Loggia P2 come una associazione che non si pone il fine politico di pervenire al governo del sistema, bensì quello di esercitarne il controllo. La ragione politica ed il movente ispiratore della Loggia P2 vanno individuati, alla stregua di questo
criterio, non nella conquista politicamente motivata delle sedi istituzionali dalle quali
si esercita il governo della vita nazionale, ma nel controllo anonimo e surrettizio di
tali sedi, attraverso l’inserimento in alcuni dei processi fondamentali dai quali l’azione
di governo nasce ed attraverso i quali concretamente si dispiega.
Sotto il segno unificante di questo dato interpretativo comprendiamo come Licio
Gelli possa ispirare, con pari lucidità e con identica fermezza, sia le forme di eversione violenta ed esterna al sistema proprie della prima fase, sia la più sottile ma non
meno pericolosa eversione all’ordine democratico che la Loggia P2 rappresenta nel
suo secondo stadio di attuazione Le due fasi identificate altro infatti non rappresentano se non le diverse tattiche attraverso le quali attuare una medesima strategia di controllo del sistema, aggredito dall’esterno prima, occupato dall’interno dopo: la prima
come la seconda consumando diverse ma non meno perniciose forme di violenza nei
confronti delle istituzioni. Un ordine di concetti, questo, che è stato dal Commissario
Covatta incisivamente riassunto con il definire la Loggia P2 un complotto permanente
– tale infatti esso è, poiché rappresenta un modo sommerso di fare politica – che si
sviluppa e si plasma in funzione dell’evoluzione della situazione politica ufficiale.
Alla luce di queste affermazioni appare allora spiegata l’ambivalenza del dato
relativo al Corriere della Sera.
Quale che fosse infatti la linea politica ufficiale mantenuta dal giornale, l’ingerenza della Loggia P2 si manifestava in un sottile tentativo di riallineamento dell’opinione pubblica, che riporta alla mente le tecniche note della persuasione occulta.
Valga d’esempio la serie di articoli inquadrati nell’occhiello “Le cose che non vanno”
pubblicati non firmati nel periodo precedente la consultazione elettorale del 1979.
Scorrendone i titoli sembra di leggere altrettanti capoversi del piano di rinascita
democratica (1), dal quale mutuano l’allarmismo pessimista proprio di tanti documenti della loggia, così lontano dalla critica costruttiva che al sistema rivolge chi in esso
tuttavia si riconosce.
(l) Confronta: “La giustizia umiliata”, “Due decreti non cancellano le colpe dello Stato”, “La scuola
rotta”, “Bisogno di pulizia”, “Le piaghe della sanità”, “La polizia liquefatta”.
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III. IL PIANO DI RINASCITA
DEMOCRATICA ED IL
PRINCIPIO DEL CONTROLLO
L’analisi sviluppata nel corso di questo capitolo trova puntuale conferma in due
documenti di singolare ed illuminante contenuto: il piano di rinascita democratica ed
il memorandum sulla situazione politica in Italia.
L’esame dei due documenti lascia ritenere che la loro redazione materiale sia
riconducibile a persona in grado di formulare analisi politiche non prive di finezza
interpretativa, nonché dotato di una preparazione giuridica di ordine superiore; trattasi
inoltre, e lo testimonia la padronanza di terminologie proprie agli addetti ai lavori, di
persona in dimestichezza con gli ambienti parlamentari. Il piano di rinascita democratica può essere datato, in ragione di riferimenti interni, con sufficiente approssimazione, alla seconda metà del 1975 o agli inizi del 1976. Si tratta certamente di due testi
comunque non redatti dal Gelli personalmente, se non altro per la sua carenza di cultura giuridica specifica, ma da lui direttamente ispirati a persona molto vicina.
L’attenzione da rivolgere al piano di rinascita democratica è giustificata dalla
considerazione che il documento si pone come il risultato finale di una serie di testi
nei quali è consegnata al nostro studio una ideologia che abbiamo già definito di stampo genericamente conservatore, contrassegnata da una propensione di avversione al
sistema nel suo complesso e da un superficiale apprezzamento del ruolo dei quadri
tecnici in rapporto alla dirigenza politica. Sono queste le osservazioni già sviluppate
analizzando il verbale della riunione di loggia del 1971 (1), rispetto al quale il piano
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Il discorso svolto sul Corriere della Sera ci riporta, con evidente analogia all’analisi precedentemente condotta, sull’informativa COMINFORM, per rilevare come
in entrambi i casi abbiamo dovuto esercitare uno sforzo interpretativo che andasse al
di là delle conclusioni di primo approccio che i dati sembrano offrire. Questo ci sembra uno dei connotati essenziali dell’intera vicenda della Loggia P2, storia quant’altra
mai ricca di ambivalenze e di dati di duplice significato; una storia nella quale apparenza e sostanza dei fenomeni si svelano legate da uno scambievole rapporto di funzionale interdipendenza, una storia nella quale, come ha efficacemente sottolineato il
Commissario Mora, assieme ad elementi che avvalorano una tesi, emergono quasi
sempre circostanze in grado di giustificare l’antitesi. Il rinvio continuo tra quello che i
dati ci sembrano dire a prima vista e quello che in realtà in essi si cela nasconde la
prima ragione delle fortune di questo fenomeno altrimenti non spiegabile e cela l’insidia principale di un meccanismo che, con sapiente regia, gioca sull’ambiguità offrendo chiavi di lettura sulle quali innestare, con scontata previsione, inevitabili polemiche il cui unico esito è quello di perdere il significato profondo degli eventi.
Lo sforzo dell’interprete è quindi di non cedere alla tentazione di affrettate conclusioni: noi sappiamo infatti come interpretare questa ambiguità, perché sappiamo
che essa rimonta alle scaturigini stesse del personaggio Gelli, a quel suo rapporto con
i Servizi segreti che nasce all’inizio degli anni cinquanta e si perpetua lungo l’arco di
sei lustri, secondo una logica di continua ma smentita compromissione reciproca.
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di rinascita democratica si pone come una successiva e più sistematica articolazione.
Altro riferimento documentale al quale riportarsi è il piano elaborato dal gruppo
Sogno all’incirca nello stesso torno di tempo (2). Va infine ricordato che la terza nota
informativa dell’ispettore Santillo denuncia la circolazione nell’ambiente della loggia
di un documento del quale si riassumono i punti principali, in modo da consentirci di
affermare che il testo in questione era il piano al nostro esame o documento estremamente simile (3). I riferimenti formali e sostanziali enunciati ci consentono pertanto di
collocare nella giusta prospettiva il piano di rinascita democratica che rispetto a questi
testi si contraddistingue, secondo una linea di continuità, come la più articolata e consapevole espressione di una somma di opinioni ed idee che costituivano il minimo
comune denominatore ideologico dei gruppi che si esprimevano nella Loggia P2.
Come tale il piano non va né sottovalutato, riducendolo a semplice manifesto propagandistico agitato soprattutto a fini di confusione dell’osservatore esterno, né sopravvalutato considerandolo come le immutabili tavole di un organismo che, come sappiamo, “metteva al bando la filosofia”. Un documento quindi che deve essere preso in
considerazione e studiato per quello che esso realmente vale: ovvero il riepilogo rivelatore degli umori politici di ambienti determinati, la cui qualificata presenza nella
vita del Paese deve indurci a non trascurare alcun dettaglio conoscitivo.
In tale prospettiva lo studio del piano di rinascita democratica, sotto il profilo dei
contenuti, conferma la filosofia di fondo di stampo conservatore, o meglio predemocratica secondo le parole del Commissario Ruffilli, che ci è nota, concretando in tale
direzione un ulteriore stadio di sviluppo quando si consideri la finalizzazione che esso
postula del funzionamento della società e delle sue istituzioni al perseguimento dell’obiettivo della massima incentivazione della produzione economica. Traspare infatti
dalle righe di questo singolare breviario politico, calata in una prospettiva genericamente tecnocratica, l’immagine chiusa e non priva di grigiore di una società dove si
lavora molto e si discute poco. L’analisi a tal fine svolta nel testo degli istituti politici
ed amministrativi viene condotta, con conoscenza di causa, nel dettaglio dei problemi:
dalla riforma del pubblico ministero agli interventi sulla stampa, dai regolamenti parlamentari alla politica sindacale, sino alla legislazione antimonopolio ed a quella sull’assetto del territorio, nulla sembra sfuggire all’attenzione dell’anonimo redattore del
documento eccezion fatta per i problemi del settore militare, secondo il rilievo prima
analizzato (4).
Il dato di analisi che occorre qui sottolineare è che il piano di rinascita democratica non è un testo astratto di ingegneria costituzionale, come molti affermano proponendo incauti paragoni, né un documento di intenti che lo possa qualificare come il
manifesto della Loggia P2. Esso è piuttosto un piano di azione che, oltre a fissare
degli obiettivi, predispone in dettaglio le conseguenti linee di intervento e come tale
ne arriva a preventivare perfino il fabbisogno finanziario.
È facile constatare infatti che l’analisi in esso effettuata e le terapie predisposte
non appaiono astratte ed avulse dal concreto della realtà politica italiana; valga per
tutte considerare quanto previsto dal punto D del n. 3: “dissolvere la RAI-TV in nome
della libertà di antenna ex art. 21 della Costituzione”. Affermazione questa che offre
ampi spunti di meditazione quando si ponga mente alla data della sua formulazione
(1975) nonché alla singolare, a dir poco, preveggenza di quanto verificatosi successivamente. Di maggior pregio il riscontro che le operazioni politiche effettuate in danno
della Democrazia Cristiana e del Movimento Sociale Italiano, sopra citate in dettaglio,
trovano nel testo puntuale e specifica previsione.
Si vuole ancora portare all’attenzione il passaggio del testo in cui possiamo leg-
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Non vi è difficoltà a riconoscere nel testo citato, al di là del farisaico riferimento
alle virtù degli affilati, una descrizione fedele ed esauriente della Loggia Propaganda,
dove non si sa se apprezzare di più l’illuminante riferimento alla eterogeneità dei
componenti od il richiamo alla massoneria internazionale. Altra notazione da sottolineare è il tipo di rapporto delineato con il mondo politico, per il quale si avverte l’assoluta indifferenza verso precise scelte di campo, come quando, in altro punto del
testo, si ipotizza l’eventualità di avvicinare (“selezionare gli uomini”) esponenti di
forze politiche diverse, appartenenti ad aree persino opposte. Ma certo una delle peculiarità del documento è l’approccio asettico e in certo senso neutrale che esso prospetta nei confronti delle forze politiche, viste come uno degli elementi del sistema sui
quali influire, di nessuna sposando per altro la causa politica in modo determinato.
Rivelatore è in proposito il brano dianzi citato, dove si legge: “uomini... tali da costituire un vero e proprio comitato di garanti rispetto ai politici che si assumeranno l’onere dell’attuazione del piano...”. Traspare da queste parole una concezione di subalternità e di strumentalità della politica in genere che costituisce uno dei tanti motivi di
riflessione che siamo venuti a sottolineare nel corso del nostro lavoro sulla reale portata del personaggio Gelli e sui possibili suoi punti di riferimento politico e strategico.
Come si può constatare, la ricostruzione sinora condotta dei rapporti politici e
dell’azione politica della Loggia P2 trova puntuale riscontro nei contenuti del piano di
rinascita democratica e viene pertanto confermata sul versante ideologico oltre che su
quello immediatamente operativo. A non dissimile conclusione infatti possiamo pervenire, rispetto a quanto prima enunciato, affermando che la vera filosofia di fondo,
che permea le pagine di questo documento, è quella di un approccio ai problemi della
società finalizzato al controllo e non al governo dei processi politici e sociali. La
denuncia inequivocabile di questa concezione politica, sottesa a tutto il documento,
sta proprio nel ruolo subalterno che alle forze politiche viene assegnato nel contesto
del progetto sistematico racchiuso nel documento, che a sua volta collima con il
miraggio dell’opzione tecnocratica intesa come alternativa a quella politica, secondo
una indicazione ricorrente sin dal primo documento in nostro possesso. Un ruolo che
abbiamo definito strumentale, secondo un rilievo che ci consente di affermare a tutte
lettere come la loggia P2, secondo quanto il piano di rinascita conferma, non sia in
realtà attribuibile a nessun partito politico in quanto tale, né sia essa stessa filiazione
del sistema dei partiti. Lungi infatti dal porsi l’obiettivo di correggere le eventuali
disfunzioni di tale sistema, essa s’innesta su di esse ed esse mira a coltivare ed incentivare; perfettamente logico appare, in tale distorta prospettiva, che nel piano di rinascita democratica si prospetti la creazione di due nuove formazioni politiche in funzione di contrappeso a quelle esistenti.
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“Primario obiettivo ed indispensabile presupposto dell’operazione è la costituzione di un club (di natura rotariana per l’eterogeneità dei componenti) ove siano rappresentati, ai migliori livelli, operatori imprenditoriali e finanziari, esponenti delle
professioni liberali, pubblici amministratori e magistrati nonché pochissimi e selezionati uomini politici che non superi (sic) il numero di 30 e 40 unità”.
“Gli uomini che ne fanno parte devono essere omogenei per modo di sentire,
disinteresse, onestà e rigore morale tali cioè da costituire un vero e proprio comitato di
garanti rispetto ai politici che si assumeranno l’onere dell’attuazione del piano e nei
confronti delle forze amiche nazionali e straniere che lo vorranno appoggiare.
Importante è stabilire subito un collegamento valido con la massoneria internazionale”.
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Ci si svela, in questi passaggi nei quali si prevede di “selezionare gli uomini” e
di intervenire sulle formazioni politiche esistenti, una delle connotazioni principiali
del progetto politico della Loggia P2, individuata dal Commissario Occhetto nell’operare attraverso continue mediazioni. che si innestano nelle divisioni del sistema, una
continua ricomposizione della classe dirigente.
La logica del controllo, vera chiave di volta interpretativa della storia della
Loggia P2, è appunto quella di interagire sulle forze presenti nel sistema, e tra queste
e le forze politiche, pedine sulla scacchiera alla pari delle altre, per pervenire al raggiungimento degli obiettivi del piano non con assunzione diretta di responsabilità, ma
per via di delega: sono questi i politici ai quali affidare l’attuazione del piano, che l’ignoto redattore qualifica con sinistra e involontaria ironia: “onere”.
La logica del controllo contrapposta a quella del governo balza qui in evidenza
con tutta la cinica conseguenzialità di una visione politica che tende a situare il potere
negli apparati e non nella comunità dei cittadini, politicamente intesa. È alla razionalizzazione degli apparati e dei processi produttivi, infatti, non del sistema di rappresentanza della volontà popolare del quale i partiti sono manifestazione, che il piano
sintomaticamente si finalizza con lucida coerenza: una razionalizzazione che appare
calata dall’alto – o iniettata dall’esterno? – e che non promana come frutto dei processi politici attraverso i quali una società libera e vitale esprime le proprie tensioni e
trova i suoi assetti istituzionali.
Questo è il limite storico del piano di rinascita e dell’esperimento politico della
Loggia P2: il vizio d’origine che ne fa una soluzione alla lunga perdente per una
società nella quale la libera dialettica delle diverse scelte politiche costituisce presupposto imprescindibile per la vita delle istituzioni. Ma sarebbe assurdo e pericoloso
adagiarsi su tale certezza e non riconoscere che in quella libera dialettica, o meglio
nelle sue possibili disfunzioni, si può celare il punto nevralgico di possibili debolezze
sulle quali fenomeni quali la Loggia P2 s’innestano e fanno leva, per dispiegare in tal
modo tutta la forza di eversione corruttrice di cui sono potenzialmente capaci.
In questo ordine di idee possiamo allora affermare che la Loggia P2 si contraddistingue per una connotazione politica che ci è dato definire come di sostanziale neutralità, volendo con tale termine individuare in primo luogo la potenzialità del progetto, al di là delle pregiudiziali ideologiche, ad uniformarsi alle situazioni politiche che
li determinano nel sistema, quella che il Commissario Padula ha chiamato la versatilità della Loggia P2, ovvero la sua capacità di adattamento. Neutralità che non deve
peraltro confondersi con una generica indifferenza verso le vicende politiche, che al
contrario ricevono un diverso grado di attenzione e quindi di gradimento, secondo
quanto ci dimostra l’analisi storica effettuata ed il diverso impegno programmatico ed
organizzativo che da essa traspare nelle vicende dell’organismo studiato. Neutralità
vuole infine indicare la sostanziale posizione di esteriorità nella quale il sistema viene
collocato dal progetto piduista: un sistema che viene prospettato come entità esterna
da sottoporre per l’appunto a controllo. In questo senso la Loggia P2 attraversa, per
usare l’espressione del Commissario Rizzo, il potere politico senza identificarsi mai
completamente con esso; stabilisce rapporti e contatti con le forze politiche organizzate in partiti, che il dato delle affiliazioni indica in modo emblematico ma di certo non
esaurisce, però si pone comunque sempre rispetto ad esse, come del resto rispetto alle
altre situazioni con cui entra in contatto, in termini di esternità ovvero di strumentalizzazione.
Un esempio di questo ambiguo rapporto che la Loggia P2 intesse con il potere
può essere individuato nella vicenda del Presidente della Repubblica, Giovanni
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Leone, nel senso indicato dal Commissario Petruccioli quando ha rilevato come il
Gelli che rivolge le sue blandizie al neoeletto Presidente, pervenendo a farsi da questi
ricevere, ed il Gelli che si vanta con l’onorevole Craxi di poter condizionare la suprema magistratura della Repubblica, non solo non siano figure in contrasto tra loro ma
possano in ipotesi essere considerati due concordanti aspetti di un identico modo di
porsi di fronte al potere politico. Una ipotesi questa che la gravità del problema e l’altissima responsabilità che ne viene interessata impongono di prendere in attenta e non
preclusiva considerazione.
In armonia con queste considerazioni si pone l’insistente accenno al ruolo dei
tecnici, contrapposti dialetticamente ai politici più che ad essi coordinati in funzione
di ausilio e collaborazione: è infatti nella rottura dell’equilibrio tra decisione politica
ed attuazione tecnica che viene individuato, con modernità di approccio, un cuneo di
inserimento per l’attuazione dell’operazione di controllo.
Ponendosi in questa prospettiva esegetica possiamo allora allargare ad un più
generale ordine di considerazioni lo spunto interpretativo emerso nel capitolo riservato ai vertici militari, per affermare che una delle idee centrali della operazione piduistica è appunto la riscoperta e l’accentuazione del valore mediatamente politico che
gli apparati rivestono al di là ed oltre l’immediata fruibilità meramente tecnica ed esecutiva che di essi sembra avere una diffusa seppur non apertamente professata cultura
di governo.
Ancora una volta, per apprezzare il rilievo del progetto piduistico dobbiamo
scendere sul piano dei contenuti osservando che negli elenchi di Castiglion Fibocchi
sotto questo profilo non è tanto l’aspetto quantitativo, il numero degli iscritti, a colpire
l’attenzione; non è cioè il fatto che vi si trovino molti direttori generali di ministero
ma il rilievo che ve ne sono alcuni che sono titolari di precise determinate direzioni
generali, quali ad esempio il direttore generale del Tesoro e il segretario generale della
Farnesina. Sono questi titolari di funzioni sul cui tavolo passa quanto di decisivo e di
politicamente significativo interessa un ministero, incarichi il cui peso ed il cui significato possono essere apprezzati solo prendendo a metro di paragone il ruolo del ministro. Comprendiamo allora perché nel piano di rinascita venga prospettato il reinserimento dei segretari generali nei ministeri, di un istituto amministrativo cioè invalso
nell’epoca liberale e poi largarnente caduto in disuso, anche per la sua funzione di stabile contraltare amministrativo contrapposto dialetticamente alla provvisorietà dei
titolari del dicastero. Il progetto politico piduista mira a ristabilire queste situazioni
per garantirsi l’esistenza di una rete permanente ad alto livello nella quale potersi
inserire ed esplicare quella funzione di controllo che, come abbiamo già detto, costituisce la chiave di volta di tutta l’operazione: una funzione di controllo messa al riparo della naturale provvisorietà che contrassegna l’evoluzione delle fasi politiche. Ci si
mostra ancora una volta, nel dettaglio analitico, la lucidità di un disegno che dà pregio
a quel dato di antica conoscenza sulla stabilità degli apparati e sul loro perpetuarsi
attraverso diversi regimi.
La individuazione di questa filosofia di condizionamento surrettizio delle strutture
non può non indurre ad alcune considerazioni sul pericolo di un distorto rapporto tra il
potere politico, che ripete la sua legittimazione dai processi elettivi, e il potere burocratico, in sé autoperpetuantesi: è attraverso le smagliature di tale sistema che possono
venire a crearsi i punti di attacco per operazioni che nel loro risultato finale finiscono
per porsi come fenomeni sostanzialmente eversivi. E non è chi non veda come un rapporto tra queste due attività di governo, pur diverse per segno ed intensità, che si consumi in situazioni di traumatico impegno che la prima può esercitare sulla seconda al
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momento della nomina, in quella fase concentrando tutto il suo potere di primazia, può
dare spazio ad una debolezza del sistema che sarebbe pernicioso sottovalutare.
Lo studio del fenomeno P2 ci ricorda che l’attività di governo consiste anche in
un pedestre rinvio alla quotidianità, nella applicazione vigile allo sviluppo delle cose e
degli eventi attraverso il loro apparentemente insignificante dettaglio: quella che, con
terminologia a torto superata, veniva chiamata l’arte del buon governo.
In questo senso possiamo affermare che la vicenda della Loggia P2 rappresenta
la rivincita degli apparati poiché vale a riportare alla nostra attenzione la constatazione di indubbio rilievo politico che il funzionamento fisiologico di un sistema democratico risiede non solo nella presenza di una opinione pubblica vigile e matura, ma
altresì nel corretto funzionamento delle strutture di governo, considerate anche nelle
loro ramificazioni operative e nella garanzia che il potere politico assicuri, alla comunità e per conto della comunità, la loro affidabilità.
È questa una concezione che, come abbiamo accennato, denota una modernità di
impostazione che sarebbe pernicioso sottovalutare, poiché una simile posizione rimarcherebbe una non corretta comprensione del rilievo che lo sviluppo tecnologico e la
molteplicità di compiti che ad uno Stato moderno vengono assegnati comportano in
termini di immediata valenza politica. Lo sviluppo degli apparati, che in un moderno
Stato industriale corre in parallelo all’allargamento della base democratica di consenso
– secondo un nesso di inscindibile correlazione funzionale, con esso ponendosi in rapporto di consequenzialità – impone alle forze politiche una non effimera ed approfondita rimeditazione del rapporto da instaurare con strutture che, lungi dal rappresentare
l’elefantiaca espansione delle articolazioni amministrative elaborate dallo Stato liberale, sono l’indispensabile strumento che consente alla volontà politica dei cittadini, fondamento dello Stato democratico, di tradursi in modelli di libertà e benessere.
IV. CONCLUSIONI
La trattazione che abbiamo condotto nel corso dei capitoli che precedono ci consente di procedere alla formulazione di alcune considerazioni di ordine conclusivo,
specifiche sul problema della Loggia P2 e del suo inserimento nella vita del Paese.
L’esame di queste situazioni ci consente in primo luogo di ribadire con fermezza il
rilievo assoluto che la Loggia P2 ha rivestito nelle vicende della vita nazionale, intrecciandosi ad essa secondo trame che, se non completamente conosciute, non è possibile
ignorare o ridurre ad interpretazioni di basso profilo. Questa è stata peraltro la valutazione che l’opinione pubblica – alla quale sola, si spera, troppo affrettatamente si è
inteso fare riferimento in pur autorevole sede quando si è parlato di “improvvisati tribunali di opinione” – ha istintivamente fornito al momento della pubblicazione delle
liste, con un generale movimento di allarme e di necessariamente generica riprovazione.
La documentazione in possesso della Commissione, la mole di dati e di notizie
in essa contenute, le audizioni effettuate, le argomentazioni che da un tale complesso
patrimonio conoscitivo è possibile svolgere motivatamente, nonché smentire le prime
reazioni della pubblica opinione si allineano dinanzi alla nostra attenzione per suffra-
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gare in ben precisa direzione il quadro iniziale quale si ricavava dalla semplice consultazione delle liste. Un quadro che, pur nella non ancora precisata nettezza di particolari e di aspetti anche fondamentali, disegna una riconoscibile trama che si presta a
risolvere molti interrogativi e altri ne apre nel contempo di inquietante portata, tali, gli
uni e gli altri, da non consentire sommarie liquidazioni del fenomeno e delle sue molteplici inaspettate ramificazioni.
L’esame degli avvenimenti ed i collegamenti che tra essi è possibile instaurare
sulla scorta delle conoscenze in nostro possesso portano infatti a due conclusioni che
la Commissione ritiene di poter sottoporre all’esame del Parlamento.
La prima è in ordine all’ampiezza ed alla gravità del fenomeno che coinvolge, ad
ogni livello di responsabilità, gli aspetti più qualificati della vita nazionale. Abbiamo
infatti riscontrato che la Loggia P2 entra come elemento di peso decisivo in vicende
finanziarie, quella Sindona e quella Calvi, che hanno interessato il mondo economico
italiano in modo determinante. Non si è trattato in tali casi soltanto del tracollo di due
istituti di credito privati di interesse nazionale, ma di due situazioni finanziariamente
rilevanti in un contesto internazionale, che hanno sollevato, con particolare riferimento al gruppo Ambrosiano, serie difficoltà di ordine politico non meno che economico
allo Stato italiano. In entrambe queste vicende la Loggia P2 si è posta come luogo privilegiato di incontro e centro di intersecazione di una serie di relazioni, di protezioni e
di omertà che ne hanno consentito lo sviluppo secondo gli aspetti patologici che alla
fine non è stato più possibile contenere. In questo contesto finanziario la Loggia P2 ha
altresì acquisito il controllo del maggiore gruppo editoriale italiano mettendo in atto,
nel settore di primaria importanza della stampa quotidiana, una operazione di concentrazione di testate non confrontabile ad altre analoghe situazioni pur riconducibili a
preminenti centri di potere economico. Queste operazioni infine, come abbiamo visto,
si sono accompagnate ad una ragionata e massiccia infiltrazione nei centri decisionali
di maggior rilievo sia civili che militari e ad una costante pressione sulle forze politiche. Da ultimo, non certo per importanza, va infine ricordato che la Loggia P2 è entrata in contatto con ambienti protagonisti di vicende che hanno segnato in modo tragico
momenti determinanti della storia del Paese.
La seconda conclusione alla quale siamo pervenuti è che in questa vasta e complessa operazione può essere riconosciuto un disegno generale di innegabile valore
politico; un disegno cioè che non solo ha in se stesso intrinsecamente valore politico,
ed altrimenti non potrebbe essere per il livello al quale si pone, ma risponde nella sua
genesi come nelle sue finalità ultime a criteri obiettivamente politici.
Le due conclusioni alle quali siamo pervenuti ci pongono pertanto di fronte ad
un ultimo concludente interrogativo: è ragionevole chiedersi se non esista sproporzione tra l’operazione complessiva ed il personaggio che di essa appare interprete principale. È questa una sorta di quadratura del cerchio tra l’uomo in sé considerato ed il
frutto della sua attività, che ci mostra come la vera sproporzione stia non nel comparare il fenomeno della Loggia P2 a Licio Gelli, storicamente considerato, ma nel riportarlo ad un solo individuo, nell’interpretare il disegno che ad esso è sotteso, e la sua
completa e dettagliata attuazione, ad una sola mente.
Abbiamo visto come Licio Gelli si sia valso di una tecnica di approccio strumentale rispetto a tutto ciò che ha avvicinato nel corso della sua carriera. Strumentale è il
suo rapporto con la massoneria, strumentale è il suo rapporto con gli ambienti militari,
strumentale il suo rapporto con gli ambienti eversivi, strumentale insomma è il contatto che egli stabilisce con uomini ed istituzioni con i quali entra in contatto, perché
strumentale al massimo è la filosofia di fondo che si cela al fondo della concezione
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politica del controllo, che tutto usa ed a nessuno risponde se non a se stesso, contrapposto al governo che esercita il potere ma è al contempo al servizio di chi vi è sottoposto. Ma allora, se tutto ciò deve avere un rinvenibile significato, questo altro non
può essere che quello di riconoscere che chi tutto strumentalizza, in realtà è egli stesso
strumento. Questa infatti è nella logica della sua concezione teorica e della sua pratica
costruzione la Loggia Propaganda 2: uno strumento neutro di intervento per operazioni di controllo e di condizionamento. Quando si voglia ricorrere ad una metafora per
rappresentare questa situazione possiamo pensare ad una piramide il cui vertice è
costituito da Licio Gelli; quando però si voglia a questa piramide dare un significato è
giocoforza ammettere l’esistenza sopra di essa, per restare ndla metafora, di un’altra
piramide che, rovesciata, vede il suo vertice inferiore appunto nella figura di Licio
Gelli. Questi è infatti il punto di collegamento tra le forze ed i gruppi che nella piramide superiore identificano le finalità ultime, e quella inferiore, dove esse trovano
pratica attuazione, ed attraverso le quali viene orientata, dando ad essa di volta in
volta un segno determinato, la neutralità dello strumento. Che questa funzione di travaso tra le due strutture non sia eccessiva per un personaggio quale Licio Gelli ci
sembra indubbio: non solo egli viene a trovare una logica e concretamente accettabile
collocazione, ma il fenomeno stesso nel suo intero appare non improbabile nella sua
struttura complessiva e nelle sue finalità ultime.
Questa interpretazione del fenomeno può essere feconda di risultati in sede analitica
qualora non venga intesa in modo meccanico, come delimitazione netta di zone o aree di
collocazione di ambienti e personaggi, ma piuttosto come esemplificazione illustrativa
del ruolo di punto di snodo che il personaggio Gelli ha rivestito ponendosi come elemento di raccordo tra forze di varia matrice e di diseguale rilievo, che tutte hanno concorso
alla creazione come alla gestione della Loggia Propaganda. Funzione certo di non minor
momento se, avuto riguardo, dall’eterogeneità delle forze e dei gruppi interessati a questo
progetto, dei quali le liste rappresentano uno spaccato esemplificativo, non è, come ha
osservato il Commissario Andò, l’identità dei fini ultimi a rendere efficiente l’organizzazione e forte il progetto, ma il sistema delle convenienze reciproche che costantemente
interagisce.
Quali forze si agitino nella struttura a noi ignota questo non ci è dato conoscere, sia
pure in termini sommari, al di là dell’identificazione del rapporto che lega Licio Gelli ai
Servizi segreti; ma, riportandoci a quanto detto in proposito, ccrto è che la Loggia P2 ci
esorta ad una visione della realtà nella sua variegata e spesso inafferrabile consistenza.
Ne viene anche un invito ad interpretazioni non ristrette ad angusti orizzonti domestici,
ma che sappiano realisticamente guardare ai problemi della nostra epoca, ed al ruolo che
in essa il nostro Paese viene a ricoprire.
In questa dimensione la Loggia P2 consegna alla nostra meditazione una operazione
politica ispirata ad una concezione pre-ideologica del potere, ambìto nella sua più diretta
e brutale effettività; un cinismo di progetti e di opere che riporta alla mente la massima
gattopardesca secondo la quale “bisogna che tutto cambi perché tutto resti com’era”: così
per Gelli, per gli uomini che lo ispirano da vicino e da lontano, per coloro che si muovono con lui in sintonia di intenti e di azioni, sembra che tutto debba muoversi perchè tutto
rimanga immobile.
La prima imprescindibile difesa contro questo progetto politico, metastasi delle istituzioni, negatore di ogni civile progresso, sta appunto nel prenderne dolorosamente atto,
nell’avvertire, senza ipocriti infingimenti, l’insidia che esso rappresenta per noi tutti –
riconoscendola come tale al di là di pretestuose polemiche, che la gravità del fenomeno
non consente – poiché esso colpisce con indiscriminata, perversa efficacia, non parti del
sistema, ma il sistema stesso nella sua più intima ragione di esistere: la sovranità dei cittadini, ultima e definitiva sede del potere che governa la Repubblica.
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Dagli Allegati alla relazione (vol. 3°, t. I)
(pagg. 877-884; 887-890)
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documento
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Dai documenti allegati (volumi???,
pagg.????)
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COMMISSIONI
PARLAMENTARI
DI INCHIESTA SUL
TERRORISMO E SULLE
CAUSE DELLA MANCATA
INDIVIDUAZIONE DEI
RESPONSABILI DELLE
deliberazione della Camera del 23 ottobre 1986, una Commissione di
inchiesta, che terminò i suoi lavori a causa dello scioglimento anticipato
delle Camere e non pubblicò la relazione.
Con la legge 17 maggio 1988, n. 172 (X legislatura) venne istituita una Commissione di inchiesta, composta di senatori e di deputati,
presieduta dal senatore Libero Gualtieri (PRI), il quale presiedette, nella
XI legislatura, la Commissione istituita con la legge 23 dicembre 1992,
n. 449. Essa è stata nuovamente istituita nella XII, presidente il senatore
Giovanni Pellegrino (Progressisti-PDS).
Queste Commissioni hanno prodotto relazioni su molti episodi di
strage o ritenuti connessi a stragi.
Per la X legislatura si segnala qui la relazione sulla documentazione, concernente gli “omissis” dell’inchiesta sugli eventi del giugnoluglio 1964 (SIFAR), fatta pervenire dal Presidente del Consiglio dei
ministri il 28 dicembre 1990 ai Presidenti delle due Camere e da questi
trasmessa alla Commissione. Ne deriva la pubblicazione di molti volumi, dai quali presentiamo nel presente volume le pagine relative al
cosiddetto “Piano Solo”, corrispondenti a quelle tratte dalla relazione
sugli eventi del giugno-luglio 1964 (SIFAR).
Qui pubblichiamo inoltre uno stralcio dalla relazione sulla tragedia di Ustica.
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Su questo oggetto fin dalla IX legislatura venne istituita, con
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Dalla relazione sulla documentazione (vol 1°)
(pagg. 17-27)
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Dalla relazione sulla tragedia di Ustica
(pagg. 33-52)
A partire dai primi mesi del 1981 l’inchiesta subì un significativo rallentamento.
L’“ufficializzazione” del punto di vista dell’Aeronautica – che fondava il rifiuto dell’ipotesi del missile sul mancato avvistamento da parte dei radar militari di altri velivoli nei pressi del DC9 – ebbe l’effetto di controbilanciare i risultati dei numerosi
accertamenti effettuati da autorevoli esperti italiani e stranieri, concordi nell’interpretare i dati radar di Ciampino come prova sufficiente della presenza di un secondo
“oggetto non identificato” in prossimità dell’aereo civile.
Riproponendo la tesi del cedimento strutturale, contro tutte le evidenze esposte
dalla commissione Luzzatti nella seconda relazione preliminare, l’Aeronautica non
soltanto ottenne di rimettere in discussione la direzione presa dalle indagini ma ne
provocò la sostanziale sospensione. Prevalse infatti, anche in ambito giudiziario, l’argomento secondo cui nulla si sarebbe potuto con certezza affermare riguardo alle
cause dell’incidente fino a quando non fosse stato recuperato il relitto. A tale proposito il giudice Santacroce ha affermato in Commissione, nell’audizione del 3 dicembre
1991: “Il recupero dell’aereo, sul quale avevo puntato tutta la mia inchiesta, rappresentava il presupposto necessario per avanzare richieste articolate e precise” (resoconto stenografico della 97a seduta, pag. 186).
Nella fase successiva l’inchiesta si attestò infatti su un’attesa semi-passiva della
risoluzione dei problemi tecnico-finanziari connessi al recupero di quanto del DC9
restava in fondo al mare. La prima richiesta in tal senso fu rivolta dal sostituto procuratore Santacroce al ministro dei trasporti Balzamo il 23 novembre 1981. Poi, sul versante della magistratura, più nulla fino al 1984, quando il collegio peritale nominato
dal giudice istruttore Bucarelli fu incaricato di riesaminare la questione. Le operazioni
di recupero ebbero effettivamente inizio soltanto nel 1987, dopo un ulteriore periodo
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IL LUNGO LETARGO
DELL’INCHIESTA
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CAPITOLO VI.
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di attesa dovuto in parte ai tempi richiesti dagli studi tecnici di fattibilità ed in parte ad
un complesso iter burocratico che verrà più analiticamente trattato in seguito.
La determinante importanza attribuita al recupero del relitto (che all’epoca, va
precisato, veniva ritenuto difficilmente realizzabile) determinò l’oscuramento di altri
possibili filoni di indagine. In particolare, le interpretazioni avanzate dall’Aeronautica
circa i rilevamenti dei radar militari furono considerate soddisfacenti e conclusive, talchè l’autorità giudiziaria non ritenne di dover procedere ad ulteriori acquisizioni. La
documentazione dell’esercitazione SYNADEX, essenziale per ricostruire la reale
situazione della difesa aerea la sera dell’incidente, venne sequestrata solo il 12 febbraio 1987, la documentazione radar del centro di Poggio Ballone, collegato con
Marsala e pertanto potenzialmente rilevante ai fini della ricostruzione delle fasi dell’incidente, fu acquisita agli atti il 12 agosto 1988 (per poi essere nuovamente acquisita nel novembre 1989 e nel giugno 1990, in quanto ritenuta incompleta); la distruzione dei modelli DAl di Licola, indispensabili per verificare la coerenza tra dati radar
militari e interpretazione ufficiale fornita dall’Aeronautica, fu rilevata soltanto il 18
agosto 1988, nel corso dell’esecuzione di un decreto di sequestro emesso qualche
giorno prima; le trascrizioni delle registrazioni terra-bordo-terra e delle conversazioni
telefoniche intercorse tra Roma-Ciampino ed enti vari furono disposte il 21 ottobre
1989, ben nove anni dopo la loro acquisizione; le registrazioni delle conversazioni
telefoniche dei centri della difesa aerea di Martina Franca, Poggio Ballone e Monte
Venda, la cui analisi ha recentemente consentito di risalire all’allarme suscitato la sera
dell’incidente da un possibile traffico americano nella zona di Ustica, furono sequestrate solo nel novembre 1990.
Come si vede, un’ampia serie di elementi rilevanti ai fini del proseguimento dell’inchiesta è rimasta del tutto ignota per un lunghissimo periodo di tempo, in conseguenza di una “sospensione del giudizio” che ha avuto altresi l’effetto di minimizzare
quella linea di indagine che da Lippolis a Rana, da Macidull a Luzzatti, aveva consentito, sulla base di precisi riscontri, di restringere l’ambito delle possibili cause del
disastro, individuando nell’esplosione di un ordigno (un missile, con maggiore probabilità) l’ipotesi più plausibile.
Un’altra vicenda, caratterizzata da un’impressionante serie di oscurità e contraddizioni, rimase per lungo tempo “sepolta”: quella del Mig 23 libico rinvenuto sui
monti della Sila il 18 luglio 1980.
Non è detto che tale episodio sia da collegarsi in via di fatto con il caso Ustica.
Certo è che ogni tentativo di verificare la tesi ufficiale, elaborata dalla commissione di
inchiesta italo-libica costituita pochi giorni dopo l’accaduto, ha dato luogo ad una
serie di ulteriori interrogativi rimasti per lo più senza risposta. Tali interrogativi concernono, tra l’altro, l’identità e la nazionalità del pilota, la provenienza del volo, la sua
destinazione, l’avvistamento da parte della difesa aerea italiana, la data e le cause dell’incidente, le ispezioni compiute sui resti del velivolo.
L’inchiesta della magistratura fu archiviata dopo solo pochi giorni, il 31 luglio
1980 dal Tribunale di Crotone, “non essendo emersa responsabilità a carico di alcuno”, per essere riaperta nel 1986, nell’ambito dell’istruttoria condotta dal giudice
Bucarelli in ordine al disastro del DC9 Itavia, a seguito delle dichiarazioni rese alla
stampa dai professori Zurlo e Rondanelli, autori dell’autopsia sul cadavere del pilota
del Mig 23. Secondo i due medici, la morte doveva essere retrodatata di almeno quindici giorni rispetto a quanto attestato nel primo referto autoptico da loro stessi stilato.
L’antedatazione del decesso rivestiva un grande rilievo poichè autorizzava a porre in
collegamento la caduta del Mig 23 con l’incidente occorso al DC9 Itavia. Particolare
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importanza assunse, in questo contesto, il fatto che la “nota aggiuntiva” depositata, a
detta dei due medici, presso la Procura di Crotone il giorno successivo a quello in cui
era stata espletata l’autopsia, al fine di segnalare il mutamento di opinione riguardo la
data del decesso, fosse scomparsa dagli atti dell’inchiesta giudiziaria.
Le indagini condotte nel corso del 1988 dai magistrati di Crotone, in ordine alla
sparizione della predetta “nota”, si conclusero tuttavia con l’archiviazione per “manifesta infondatezza dei fatti denunciati”. Nel decreto di archiviazione il giudice istruttore di Crotone notava anche che la vicenda era stata “imbastita” su argomentazioni
scientificamente errate e su considerazioni di “livello infantile”. A conclusioni analoghe giunse la stessa Commissione, dopo un confronto effettuato il 26 luglio 1989 tra i
professori Zurlo e Rondanelli ed i professori Giusti e Dina, questi ultimi incaricati
dalla Commissione di verificare l’attendibilità delle argomentazioni addotte a favore
della retrodatazione del decesso del pilota del Mig.
Indipendentemente dal problema relativo alla data della caduta del Mig 23, restano tuttavia altri aspetti che contribuiscono a mantenere su questa vicenda un persistente alone di dubbio.
Vi è da segnalare, infatti, l’impossibilità di accertare con ragionevole sicurezza
l’ora dell’incidente, stante il contrasto tra le dichiarazioni dei testimoni (nessuno dei
quali oculare) e l’analisi del data flight recorder del velivolo. La stessa lettura dei dati
del flight recorder, poi, ha riservato più di una sorpresa, in quanto ha evidenziato un
malfunzionamento dell’apparecchiatura che ha di fatto reso impossibile ricostruire
l’intero svolgersi del volo del Mig. Altra fonte di perplessità ha costituito la tesi,
sostenuta dalla commissione d’inchiesta italo-libica, secondo cui la caduta del velivolo sarebbe stata la conseguenza di un malore del pilota, sopravvenuto mentre questi
partecipava ad un’esercitazione nei cieli della Libia. Dagli accertamenti condotti,
sembrerebbe infatti del tutto improbabile che un aereo affidato al pilota automatico
possa seguire una traiettoria tanto regolare quanto quella evidenziata dai dati, pur parziali, del flight recorder. Tanto più che, per penetrare nello spazio aereo italiano senza
essere avvistato dai radar della difesa aerea, il Mig avrebbe dovuto viaggiare ad una
altezza incompatibile con il volo in assetto automatico.
Ulteriori motivi di dubbio ha suscitato inoltre la vicenda relativa ai rottami del
velivolo. Da un lato, l’estrema urgenza con cui le autorità libiche ne hanno richiesto
ed ottenuto il rimpatrio, dall’altro il fitto riserbo con cui, fino ad un tempo recente,
l’Aeronautica militare ha coperto gli accertamenti tecnici condotti tanto nell’immediatezza dell’incidente (anche ad opera di esperti americani) quanto, in seguito, presso
laboratori italiani e britannici. Per poi scoprire, anche questo in data recente, che
l’Aeronautica italiana aveva trattenuto per le proprie analisi non quella minima parte
di selezionati reperti che si riteneva, bensì alcune casse.
Tornando al “letargo” dell’inchiesta sul disastro di Ustica, va rilevato che esso
riguardò l’intero complesso delle attività istruttorie e coinvolse la stessa commissione
Luzzatti. È significativa a tale proposito la storia dei rapporti tra commissione ministeriale ed autorità giudiziaria. Una volta ricevuti dalla Procura di Palermo gli atti dell’inchiesta, il sostituto procuratore Santacroce non ritenne formalmente possibile
nominare un proprio collegio peritale (resoconto stenografico della 97a seduta, pag.
94), né considerò opportuno formulare nuovi quesiti ai periti nominati dal giudice
Guarino (che peraltro, pur senza direttive, furono mantenuti nell’incarico). Santacroce
preferì stabilire un rapporto di stretta collaborazione con la commissione Luzzatti (ibidem, pagg. 102-104), la quale infatti partecipò attivamente a tutti gli accertamenti
condotti nel corso dell’istruzione sommaria (a Borgo Piave per la lettura dei nastri di
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Marsala l’11 novembre 1980, negli Stati Uniti presso la FAA e il NTSB nell’autunno
1980, a Londra presso l’AIB – Accident Investigation Branch – e il RARDE – Royal
armament research and development establishment – dal 2 al 6 novembre 1981).
Proprio a seguito degli elementi acquisiti nel corso di tale ultima visita, il magistrato e la commissione Luzzatti decisero di comune accordo – così come riferito da
Luzzatti al Ministro dei trasporti nelle lettere del 12 febbraio e del 22 settembre 1983
– di richiedere ulteriori analisi ai laboratori dell’Aeronautica. Il 16 marzo 1982 la
commissione Luzzatti presentò al Ministro dei trasporti una relazione, che sarebbe
stata anche l’ultima della commissione, le cui conclusioni mettevano in evidenza che
“causa dell’incidente è stata la deflagrazione di un ordigno esplosivo”. La individuazione della natura dell’ordigno (interno o esterno) veniva rimandata alle ulteriori analisi di laboratorio commissionate all’Aeronautica. Quando tuttavia, nell’ottobre dello
stesso anno, la 4a Divisione esplosivi e propellenti dell’Aeronautica militare consegnò
al sostituto procuratore Santacroce la relazione riportante i risultati delle analisi, che
evidenziavano la presenza di tracce di esplosivo T4 su alcuni reperti, il magistrato
rifiutò di trasmetterla alla commissione Luzzatti, perché coperta da segreto istruttorio.
Santacroce, nell’audizione dinanzi alla Commissione, ha più volte insistito sull’importanza che gli accertamenti operati dall’Aeronautica ebbero ai fini della successiva forrnalizzazione dell’inchiesta, in quanto proprio la scoperta di tracce di T4 consentì di fissare quel titolo di reato (“disastro aviatorio doloso e di strage”) senza del
quale non sarebbe stato possibile il passaggio all’istruzione formale (resoconto stenografico della 97a seduta, pagg. 169 e 183-185). Quel che tuttavia non è risultato altrettanto chiaro è perché, dopo l’acquisizione di questo importante elemento, il magistrato abbia comunque atteso tredici mesi prima di procedere alla formalizzazione dell’inchiesta e, inoltre, che cosa gli abbia impedito in questo lungo lasso di tempo di mettere Luzzatti a parte dei risultati delle analisi di laboratorio, come già era avvenuto in
precedenza per altri accertamenti disposti dal magistrato.
Malgrado il fitto scambio di opinioni e suggerimenti che aveva caratterizzato il
primo periodo di collaborazione tra la commissione ministeriale e il magistrato, quest’ultima, a partire dalla fine del 1981, fu dunque posta nella condizione di non poter
proseguire le proprie indagini. Tale situazione non mutò neppure quando l’inchiesta,
essendo stata formalizzata, passò al giudice Bucarelli. Benché infatti questi avesse trasmesso a Luzzatti la relazione dei laboratori dell’Aeronautica che Santacroce si era
rifiutato di inviargli, i successivi rapporti furono “scarsissimi, per non dire nulli”
(resoconto stenografico della 58a seduta, pag. 34). Traccia eloquente di tali difficoltà
si trova nel provvedimento con cui il 25 febbraio 1987, a sette anni dall’avvio dell’inchiesta, il giudice Bucarelli sollecitò i periti a suo tempo nominati da Guarino a presentare le proprie relazioni conclusive. Scriveva infatti Bucarelli che “a seguito di illegittimo intervento” della commissione Luzzatti nell’attività dei periti nominati dal
magistrato, i periti stessi “vennero posti in condizione di non poter adempiere l’incarico ricevuto”.
Il 25 marzo 1986 Luzzatti comunicò al ministro dei trasporti Signorile che il
compito della commissione da lui presieduta doveva ritenersi esaurito “in mancanza
di ulteriori elementi conoscitivi”. Nella lettera Luzzatti sottolineava come: “La commissione, che ha avuto a disposizione pochissimi reperti, ha, purtuttavia, svolto un
lavoro degno di nota a livello mondiale, stanti le difficoltà incontrate. Basti pensare
che il Laboratorio dell’Aeronautica militare, in un primo tempo, non aveva trovato
tracce di esplosivo e che malgrado ciò essa (commissione) stabilì che l’aeromobile era
andato distrutto a causa della deflagrazione di un ordigno esplosivo”.
Moro
A giustificazione del lungo stallo dell’inchiesta il giudice Bucarelli, nell’audizione dinanzi alla Commissione del 24 gennaio 1992, ha addotto la necessità di attendere
l’esito delle perizie tecniche affldate al collegio presieduto dal professor Massimo
Blasi, cui era stato richiesto di accertare la dinamica e la causa del disastro.
L’iniziativa di nominare i periti venne assunta da Bucarelli l’8 novembre 1984,
undici mesi dopo aver ricevuto l’incarico dell’istruttoria formale. La relazione del collegio peritale (composto, oltre che da Blasi, dai professori Cerra, Imbimbo, Lecce,
Migliaccio e Romano) fu depositata il 16 marzo 1989, a più di quattro anni di distanza
dal conferimento dall’incarico. Richiesto dalla Commissione di spiegare i motivi dell’abnorme durata degli accertamenti peritali il professor Blasi, nella seduta del 9 ottobre 1991, ha a sua volta riferito che i lavori del collegio tecnico furono condizionati
dal lungo tempo occorso per progettare, finanziare e realizzare il recupero del relitto
del DC9.
In un successivo capitolo si dirà come il fatto di non aver subito iscritto il recupero del relitto tra le spese di giustizia, la cui autorizzazione non poteva che essere di
esclusiva competenza del magistrato procedente, abbia contribuito in misura determinante ad ostacolare e ritardare il corso dell’inchiesta.
Le operazioni di ripescaggio furono effettuate nel corso di due campagne, la
prima nel periodo giugno-luglio 1987 e la seconda nel periodo aprile-maggio 1988.
Le attività, di cui era stata incaricata la società francese IFREMER, si svolsero sotto il
controllo di alcuni tecnici della società italiana TECNOSPAMEC, nominati ausiliari
del collegio peritale. Il recupero fu interrotto quando i periti ritennero, sulla base di
una valutazione compiuta insieme all’IFREMER, che fosse stata riportata in superficie parte significativa dei resti dell’aereo, restando sul fondo solo alcuni relitti non
essenziali ai fini dell’indagine perché di piccole dimensioni.
Tra le due fasi del recupero si inserì l’episodio dell’informativa inviata il 17 giugno 1987 dal direttore del SISMI, ammiraglio Martini, al Ministro della difesa
Gaspari, per informarlo dei legami della società IFREMER con i servizi segreti fran-
Sindona
LE DUE RELAZIONI PERITALI
DEL COLLEGIO «BLASI»:
1989-1990
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CAPITOLO VII.
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
Il progressivo deterioramento dei rapporti tra autorità inquirente e commissione
Luzzatti può essere assunto come esplicita indicazione della situazione di stallo alla
quale l’inchiesta era pervenuta nella prima metà degli anni’80. Dopo la prima fase,
durata dal luglio al dicembre 1980, in cui le indagini erano rapidamente venute trovando una propria direzione di sviluppo, la successiva “strategia dell’attesa” – di un
recupero invocato ed evocato piu che concretamente progettato – aveva indotto quel
lungo letargo dell’inchiesta durante il quale alcune delle iniziali acquisizioni furono
disperse o revocate in dubbio.
Perciò si è detto che l’inchiesta, in realtà, si è fermata nel dicembre 1980.
269
Mafia
Criminalità SIFAR
Sardegna
Moro
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270
cesi. Nell’appunto si rovesciava il giudizio espresso dall’ammiraglio Martini in una
precedente nota inviata all’onorevole Amato, sottosegretario alla Presidenza del
Consiglio, in data 11 novembre 1986, nella quale si segnalava l’affidabilità della
società francese e l’opportunità di affidarle il recupero. Tale appunto era stato a sua
volta preceduto da una nota del 2 ottobre 1986 con cui Martini rispondeva ad una
richiesta di informazioni pervenuta da parte dell’onorevole Amato e riguardante gli
eventuali rapporti dell’IFREMER con i servizi francesi. Nella risposta il SISMI non
aveva escluso la circostanza, senza tuttavia prendere esplicitamente posizione.
In seguito a questo primo appunto l’onorevole Amato ebbe un colloquio con il
giudice istruttore Bucarelli, nel corso del quale riferì al magistrato quanto appreso dal
Sismi. In quell’occasione Bucarelli avrebbe osservato che il sospetto di possibili
inquinamenti poteva essere avanzato nei confronti di qualsiasi società straniera chiamata ad effettuare il recupero e pertanto, poichè in Italia non erano presenti strutture
tecnicamente in grado di realizzare l’operazione, l’unica scelta possibile consisteva
nell’affidare l’incarico ad una ditta straniera sotto lo stretto controllo di un’azienda
italiana a quella non legata da alcun rapporto di interesse. Tutto ciò è stato riferito
dallo stesso onorevole Amato nella seduta della Commissione dell’11 luglio 1990. Il
professor Blasi, nel corso della sua audizione, ha da parte sua riferito che il giudice
non informò il collegio peritale di alcuno dei giudizi formulati dal SISMI.
Le parti di relitto recuperate furono oggetto di una serie di accertamenti tecnici,
le cui risultanze, insieme a quanto emerso dai numerosi esami sui materiali recuperati
nel 1980 e dall’analisi dei tracciati radar di Ciampino, Marsala e Licola, portarono il
collegio Blasi a concludere che la causa della caduta del DC9 andava individuata nell’esplosione esterna, ravvicinata, di un missile. La relazione peritale affermava a questo proposito: “Tutti gli elementi a disposizione fanno concordemente ritenere che
l’incidente occorso al DC9 I-TIGI sia stato causato da un missile esploso in prossimità della zona anteriore dell’aereo. Allo stato odierno mancano elementi sufficienti
per precisare il tipo, la provenienza e l’identità del missile stesso”.
Il problema di accertare il tipo e la provenienza del missile che aveva colpito il
DC9 fu pertanto al centro dei nuovi quesiti che il giudice Bucarelli pose ai periti il 29
settembre 1989, sei mesi dopo il deposito della prima relazione. Nel frattempo, prima
che il collegio peritale si ponesse nuovamente al lavoro, erano stati resi noti i risultati
di due ulteriori inchieste disposte rispettivamente dalla Presidenza del Consiglio dei
Ministri e dal Ministro della difesa.
La prima inchiesta fu affidata il 23 novembre 1988 dall’allora Presidente del
Consiglio, onorevole De Mita, ad una commissione appositamente costituita e presieduta dal dottor Carlo Maria Pratis. Dopo aver esaminato una considerevole documentazione raccolta presso diversi apparati pubblici, ed avendo effettuato alcuni autonomi
accertamenti in merito al funzionamento dei radar civili e militari, la commissione
Pratis presentò una relazione, il 10 maggio 1989, le cui conclusioni riammettevano l’ipotesi dell’esplosione di un ordigno collocato all’interno dell’aereo. Oltre a ciò, la
commissione aveva espresso la propria convinzione che dovessero respingersi le insinuazioni circa il supposto occultamento di dati da parte dei centri di Licola e Marsala,
e riaffermò come tutti gli accertamenti effettuati avessero portato ad escludere la presenza, nell’ora e nella zona dell’incidente, di aerei o navi delle forze armate nazionali
o degli Stati esteri interpellati (Stati Uniti, Francia, Germania occidentale, Gran
Bretagna, Israele).
La seconda inchiesta fu invece avviata il 17 marzo 1989 dal capo di Stato
Maggiore dell’Aeronautica, generale Pisano, su incarico dell’allora Ministro della
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difesa, onorevole Zanone, al fine di accertare, in connessione alle conclusioni presentate nella perizia del collegio Blasi, se enti e comandi delle forze armate comunque
interessati avessero pienamente rispettato, in relazione all’incidente occorso al DC9,
“le norme e le procedure in vigore e la necessaria diligenza”. Gli esiti dell’indagine
furono presentati al Ministro della difesa il 5 maggio 1989, con una relazione che
ribadiva la totale estraneità dell’Aeronautica all’incidente e la collaborazione completa e pronta prestata agli inquirenti (salvo alcuni ritardi o imprecisioni connesse alle
lacune della normativa allora vigente in materia di conservazione della documentazione). A conclusione della relazione, nell’evidenziare alcuni aspetti non attinenti al mandato ricevuto dal Ministro della difesa, il Capo di Stato Maggiore aggiungeva che alla
luce dei dati disponibili non sembrava sussistere non solo certezza, ma neanche probabilità della presenza di un caccia nei pressi del DC9.
L’ipotesi del missile, sostenuta nella perizia del collegio Blasi, veniva ancor più
nettamente respinta nella cosiddetta “controperizia” elaborata dallo Stato Maggiore
dell’Aeronautica e trasmessa, il 26 agosto 1989, al Gabinetto del Ministro della difesa.
Avendo presenti le conclusioni delle succitate inchieste, i periti coordinati dal
professor Blasi ripresero il proprio lavoro nell’autunno del 1989, commissionando ad
esperti esterni al collegio analisi sui dati radar di Ciampino e sulle teste di guerra
impiegate nei missili aria-aria. I consulenti a tal fine cooptati nell’attività peritale non
furono tuttavia nominati dal giudice, né questi venne a conoscenza della loro attività
fino al deposito della seconda relazione: gli esperti prescelti per le due ricerche (il
professor Galati della seconda Università di Roma e gli ingegneri Giaccari e Pardini,
dirigenti della Selenia, per lo studio dei dati radar; l’ingegner Spoletini, dirigente della
BPD-Snia Viscosa, per lo studio degli esplosivi) furono nominati dallo stesso collegio
peritale, con la qualifica di “ausiliari”, senza prestare alcun giuramento: un fatto che
lo stesso giudice Bucarelli, nell’audizione del 24 gennaio 1992, definisce “gravissimo”.
La figura “dell’ausiliare” è prevista, nell’espletamento di perizie giudiziarie, in
funzione di una prestazione d’opera meramente esecutiva o di una rilevazione di dati
materiali, e comunque per operazioni rispetto alle quali il perito sia in grado di esprimere un’autonoma e competente valutazione. È del tutto improprio far rientrare in
questa categoria gli accertamenti succitati, i quali, per la specificità delle competenze
impiegate, avrebbero piuttosto richiesto un ampliamento del collegio peritale. Tanto
più che le relazioni predisposte dai cosiddetti “ausiliari”, ebbero un ruolo fondamentale nel determinare la spaccatura del collegio peritale nella risposta ai quesiti aggiuntivi
posti dal giudice istruttore.
Quando il 26 maggio 1990 il collegio Blasi depositò le risultanze del supplemento di perizia, venne alla luce un clamoroso dissidio interno tra i periti Blasi e Cerra, da
una parte, e i periti Imbimbo, Lecce e Migliaccio, dall’altra. Mentre questi ultimi
riconfermarono nella sostanza le conclusioni evidenziate nella relazione del 16 marzo
1989, Blasi e Cerra si dissero convinti che l’incidente fosse da attribuire ad un “fenomeno esplosivo interno”. Determinanti, nella maturazione di questa nuova opinione,
risultarono i pareri espressi dagli “ausiliari”. L’analisi dei dati di Ciampino condotta
da Galati, Giaccari e Pardini aveva infatti escluso che vi fossero altri velivoli nei dintorni del DC9: “Le due traiettorie che inequivocabilmente si intersecano debbono
attribuirsi la prima ai frammenti del DC9, la seconda al corpo principale dell’aereo
stesso”. Mentre Spoletini, da parte sua, aveva concluso che l’esplosione interna doveva considerarsi come l’ipotesi più probabile, riconducendo a questa interpretazione gli
271
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stessi risultati delle analisi effettuate nel 1988 presso i laboratori inglesi del Rarde.
La seconda relazione del collegio Blasi ha quindi avuto l’effetto di riportare l’inchiesta al punto in cui essa era alla fine del 1980, quando l’ipotesi del missile venne
avanzata per la prima volta e fu prontamente contraddetta dai sostenitori del cedimento strutturale. I soli “dati” nuovi, se così si possono definire, emersi nel periodo 19891990 si possono quindi sintetizzare nella riproposta dell’esplosione interna come
bilanciamento e neutralizzazione rispetto all’ipotesi del missile e nell’invio di 23
mandati di comparizione ad altrettanti militari in forza a Marsala e Licola all’epoca
dell’incidente, richiesto dal pubblico ministero Santacroce e disposto dal giudice
istruttore Bucarelli in data 5 agosto 1989.
Il 25 settembre 1990 il giudice istruttore Priore, al quale l’inchiesta era stata
assegnata dopo l’accoglimento dell’istanza di astensione presentata il 17 luglio 1990
dal giudice Bucarelli, nominò un nuovo collegio peritale coordinato dal professor
Misiti. All’atto della nomina dei periti l’autorità giudiziaria formulò tra l’altro il
seguente quesito: “Considerate le parti recuperate, esaminate quelle che risultano
riprese dalle video-cassette all’atto dell’interruzione delle operazioni di recupero e
valutate l’entità e l’importanza delle parti mancanti, riferiscano sull’opportunità di
procedere ad una ulteriore campagna di recupero”.
Al fine di rispondere al quesito i nuovi consulenti tecnici analizzarono le operazioni di recupero effettuate dalla IFREMER e descritte nella perizia Blasi; quindi – in
applicazione della normativa ICAO (International civil aviation organization) in
materia di indagini su disastri aerei – disposero la ricostruzione del relitto presso l’aeroporto di Pratica di Mare allo scopo di valutare l’entità delle parti mancanti. Tali analisi preliminari consentirono di evidenziare che, in termini di superficie, nel 1987-88
era stato recuperato non più del 30 per cento del velivolo (dovendosi quindi interpretare la valutazione IFREMER relativa al recupero dell’80 per cento dell’aereo come
una stima riferita al peso). In fondo al mare restava invece il 70 per cento circa della
fusoliera, elemento di primaria importanza per la determinazione delle cause dell’incidente occorso al velivolo.
In base a tali elementi, il giudice istruttore Priore affidò alla società inglese
WINPOL l’incarico di recuperare le parti mancanti del velivolo. Nel maggio 1991 la
WINPOL avviò la campagna di recupero, che ebbe termine nel successivo mese di
dicembre, una volta riportata in superficie la quasi totalità dei resti ancora giacenti sul
fondo marino, inclusa la seconda scatola nera (Data flight recorder).
Il 4 dicembre 1991 è stato prorogato al 23 ottobre 1992 il termine ultimo per
concludere le istruttorie relative ad inchieste riguardanti i casi di strage.
Il 30 dicembre il giudice Priore ha inviato 13 comunicazioni giudiziarie ad alti
ufficiali dell’Aeronautica e del Sismi tra i quali i generali Tascio, Ferri, Bartolucci e
Pisano.
Al momento in cui la Commissione si accinge a trasmettere al Parlamento la presente relazione la perizia del collegio Misiti non è stata ancora depositata. Il giudice
Priore ha anzi disposto nuove e più estese perizie.
CAPITOLO VIII.
“Il fatto di Ustica si verificò la notte tra il 27 e il 28 giugno e il governo Cossiga
cadde il 28 settembre, se non ricordo male, e nel mese di luglio noi avemmo il caso
Donat-Cattin davanti alle Camere, avemmo il caso Morlino, cioè la mozione di sfiducia al Ministro della giustizia, e il 2 agosto si verificò la strage di Bologna. Quindi non
ci fu più nessuno che andò a pensare a Ustica con tutto quello che avevamo per le
mani. Obiettivamente devo dire che non vennero informazioni ma neanche le sollecitammo perché eravamo travolti da una serie di avvenimenti che avevano tutti le stimmate dell’attentato, mentre quello non le aveva” (resoconto stenografico della 91a
seduta, pagg. 123-124).
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Abbiamo sin qui ricostruito la lunga storia di Ustica. Una storia che ha come
suoi principali protagonisti la magistratura e l’Aeronautica militare. Sporadicamente
hanno fatto la loro comparsa sulla scena i servizi di informazione e di sicurezza, recitando una parte spesso ambigua e contraddittoria. E certamente un ruolo minore, inadeguato all’importanza che Ustica ha avuto nella storia recente del Paese, hanno per
lungo tempo recitato il Governo e il Parlamento.
Nei giorni immediatamente successivi al disastro il Ministro dei trasporti
Formica – 1’8 luglio – e il Ministro della difesa Lagorio – il 10 luglio – tennero informato il Parlamento sui primi accertamenti.
L’allarme determinatosi all’indomani della sciagura cessò con le assicurazioni
fornite dall’Aeronautica e fatte proprie dal ministro Lagorio. Esclusa la presenza di
altri aerei nella zona, non restava che la tesi del cedimento strutturale: una tesi “comoda” perché non chiamava in causa responsabilità particolari, nemmeno quella del
Ministero dei trasporti, dal momento che era stato subito accertato che i controlli sul
DC9 erano stati regolarmente effettuati.
Dopo il 10 luglio, dunque, sulla vicenda calò per la prima volta il silenzio.
Il senatore Mazzola, all’epoca sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con
delega per i servizi, ha così descritto alla Commissione questo passaggio:
Mafia
GLI INTERVENTI DEL
PARLAMENTO, DEL GOVERNO
E DEI VERTICI
ISTITUZIONALI
Alla metà di dicembre del 1980, però, l’attenzione si ridestò drammaticamente: il
17 dicembre l’Itavia diramò un comunicato stampa che indicava il missile come unica
ipotesi valida a spiegare la caduta dell’aereo e lo stesso giorno il ministro Formica
affermò alla Camera di ritenere l’ipotesi del missile “più probabile delle altre”.
Quattro giorni prima, il 13 dicembre, il ministro Formica aveva trasmesso al
Presidente del Consiglio, al Ministro della difesa e alle Camere la seconda relazione
preliminare della commissione Luzzatti che escludeva le ipotesi del cedimento strutturale e della collisione con un altro velivolo.
Non restavano dunque che due possibilità: la bomba o il missile. Di fronte ad
una simile alternativa, che in qualsiasi modo fosse stata risolta chiamava direttamente
in causa gli organi di Governo deputati alla pubblica sicurezza e indirettamente non
poteva non attivare i poteri di controllo del Parlamento, si registra invece una grave
273
carenza di interventi da parte dei vertici istituzionali, una carenza protrattasi per lunghi anni.
Nel corso del 1980 (e fino al 1988) Ustica non ha mai formato oggetto specifico
di discussione in sede di Consiglio dei Ministri. L’onorevole Forlani, Presidente del
Consiglio dal 18 ottobre 1980 al 28 giugno 1981, ha affermato davanti alla
Commissione:
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“Riunioni ad hoc non ne sono state tenute. Certamente vi fu qualche occasione in
cui si discusse di tali argomenti” (resoconto stenografico della 92a seduta, pagg. 1112).
E ancora:
274
“Ci riferiamo al periodo dall’ottobre al dicembre, e nel dicembre 1980 comparve
la prima relazione [ndr. in realtà la seconda] della commissione tecnico-amministrativa. È un periodo, rispetto a questa vicenda, di attesa delle conclusioni o delle prime
conclusioni alle quali può arrivare la commissione, mentre l’attività di Governo è
dominata da altri fatti drammatici che intervengono in quel periodo: il terremoto, le
dimissioni dell’onorevole Rognoni, le esternazioni del Presidente della Repubblica (le
esternazioni sono sempre avvenute), il terrorismo, i sequestri. Certamente ricorderei
se la questione fosse stata portata all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri per
una valutazione collegiale, ma forse non esistevano neppure le condizioni perché la
questione in quel momento potesse essere assunta nel Consiglio dei ministri in quanto
vi era una indagine in corso della quale si attendeva l’esito” (ibidem, pag. 15).
La questione Ustica fu però toccata in una riunione del Comitato interministeriale per l’informazione e la sicurezza (CIIS), presieduto dal Presidente del Consiglio e
del quale fanno parte i Ministri degli esteri, dell’interno, della giustizia, della difesa,
dell’industria e delle finanze. Ne ha parlato per primo alla Commissione, nella sua
audizione del 6 luglio 1989, il Ministro della difesa dell’epoca, onorevole Lagorio:
“Se la memoria non mi tradisce, alla fine del 1980 o nei primi giorni del 1981 vi fu
una riunione del CIIS per discutere sul sequestro del magistrato D’Urso, ed in quella
occasione si trattò incidentalmente anche il caso di Ustica” (resoconto stenografico
della 24a seduta, pag. 25).
Nel corso della stessa audizione, l’onorevole Lagorio ha detto che si parlò del
possibile coinvolgimento delle Forze armate “in sede formale nel dicembre 1980, in
una riunione del CIIS; nel momento più drammatico, quando l’ipotesi missile prese
una consistenza, tanto è vero che il Parlamento si allertò. Quello fu il momento in cui
ricominciarono le indagini dentro le Forze armate” (ibidem, pagina 79).
Lagorio dunque richiese allo Stato Maggiore dell’Aeronautica una nuova
approfondita ricerca di tutti gli elementi di conoscenza in possesso dell’Arma.
Risultato di tale ricerca, ha sostenuto lo stesso Ministro in Commissione, fu un rapporto “redatto dallo Stato Maggiore dell’Aeronautica – credo dal 3° reparto che era
abilitato a queste cose – e trasmesso al Presidente del Consiglio e al Ministro dei trasporti dal Ministro della difesa con la sua firma” (ibidem, pag. 55).
Il rapporto in questione, tuttavia, non è stato acquisito agli atti dell’inchiesta
parlamentare né di quella condotta dalla magistratura. Ciò che invece risulta agli atti,
in data 20 dicembre 1980, ed ha come fonte proprio il 3° reparto dello Stato Maggiore
dell’Aeronautica e come destinatario lo Stato Maggiore della Difesa, è quell’appunto
(che in forma pressoché identica verrà trasmesso al giudice Santacroce il 23 dicem-
“Sulla vicenda di Ustica io sono certo che noi – ed intendo la Presidenza del
Consiglio, perché solo di questo posso testimoniare – siamo stati tenuti all’oscuro e se
è successo qualcosa, come voi state accertando, questo qualcosa è stato fatto all’oscuro e ci hanno sostanzialmente presi, come suol dirsi, per il bavero. Questo probabilmente anche approfittando del fatto oggettivo che c’erano tali e tante questioni in
campo che da parte nostra non c’è stata una sollecitazione in quella direzione perché
c’erano altre cose di diretto interesse che ci stavano assorbendo. Quindi la situazione
generale è stata probabilmente utilizzata per tenerci all’oscuro di notizie” (resoconto
stenografico della 9la seduta, pagg. 126-127).
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bre) che, nell’attaccare violentemente le “notizie tendenziose, distorte e contrastanti
su presunti eventi che hanno dato corpo con sorprendente superficialità a ipotesi conclusive quanto meno azzardate e premature sulla causa e sulla dinamica dell’incidente” fissa una volta per tutte “la verità” dell’Aeronautica: nessun aereo o nave militare
italiani o alleati si trovava nelle vicinanze del luogo del disastro.
L’autorità politica non assunse di conseguenza alcuna specifica iniziativa: nella
sostanza si limitò a farsi “incidentalmente” tranquillizzare dall’Aeronautica.
Va rilevato in proposito che le informazioni di cui il Governo era in possesso
provenivano tutte dalla stessa ed unica fonte: gli Stati Maggiori della Difesa e
dell’Aeronautica. Né ci fu chi, a livello politico, si preoccupò di procurarsi fonti alternative.
Il ministro della difesa Lagorio non ritenne di dover attivare i Servizi perché li
giudicava “deboli, male organizzati, privi di tecnologia, dispersi in modo incoerente
sul territorio d’azione, senza autorità e senza credibilità negli affari internazionali perché ripetutamente devastati dagli scandali” (ibidem, pag. 16).
Da parte sua, il sottosegretario con delega per i Servizi, senatore Mazzola, fu
telefonicamente informato del disastro il giorno successivo dal prefetto Pelosi, segretario generale del Comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza
(CESIS), il quale gli disse che non si poteva escludere l’attentato anche se nessuno lo
aveva rivendicato. In un secondo contatto telefonico, avvenuto il 29 o il 30 giugno, il
prefetto Pelosi escluse l’attentato perché la rivendicazione NAR-Affatigato si era rivelata fasulla.
Questo fu tutto. Il circuito Servizi-CESIS-Presidenza del Consiglio andò – per
riprendere una espressione utilizzata dal senatore Mazzola nella sua audizione del 15
ottobre 1991 davanti alla Commissione – in black out.
Ha detto Mazzola:
E ancora:
“In questa vicenda non c’è stato nulla che abbia sollevato un minimo sospetto in
chi era destinatario delle notizie che non c’erano. È l’unico vero caso in cui c’è stato
un black out completo” (ibidem, pag. 143).
Quando, in occasione della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto, si ripeté
il tentativo di attribuirne la responsabilità a Marco Affatigato, nessun collegamento fu
ipotizzato con l’analogo depistaggio verificatosi per Ustica.
Ha affermato il senatore Mazzola:
“Mi ricordo di Affatigato in relazione alla strage di Bologna, però non feci una
connessione rispetto ad Ustica in quel momento. Ripeto, dell’incidente di Ustica non
275
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avevo l’idea, né il più vago sospetto che potesse essere stato causato da cosa diversa dal
cedimento strutturale. Al 2 agosto l’incidente di Ustica era stato cancellato, ovvero come
per ogni italiano qualsiasi era rimasta la memoria di un incidente aereo. In quei trentacinque giorni non c’era stato nulla che potesse collegare Ustica a Bologna. Per me Ustica
non era riconducibile a nessun altro episodio, né al terrorismo” (ibidem, pag. 140).
Quando, il 17 dicembre, il Ministro Formica ripropose in Parlamento l’ipotesi
del missile, il senatore Mazzola chiese al prefetto Pelosi di approfondire la questione.
Dopo pochi giorni il prefetto – nelle parole del senatore Mazzola – gli rispose “la tesi
è una tesi fantasiosa, non ci sono elementi che comprovino questo, è un cedimento
strutturale”. A quel punto lì – ha affermato il senatore Mazzola – io, o anche il
Presidente del Consiglio, che cosa potevo fare? Non avevo da parte mia un supplemento di informazioni tali da dire altro: io ho chiesto, mi hanno dato una risposta, non
è che potevo mettermi a dire: no, io non ci credo, ho preso per buono quello che mi
hanno detto» (ibidem, pag. 156).
Riferendosi ai molti altri problemi di ordine pubblico che occuparono i mesi di
dicembre 1980 e gennaio 1981 (assassinio del generale Galvaligi, sequestro D’Urso,
rivolta nel carcere di Trani, richiesta dell’onorevole Craxi di chiudere il carcere
dell’Asinara), il senatore Mazzola ha avanzato, davanti alla Commissione, la seguente
spiegazione:
“Io credo che in una situazione normale questo non sarebbe avvenuto, perché io
credo che chi si è mosso per depistare, coprire, etc., ha avuto il grande vantaggio di
muoversi in una situazione nella quale lui si occupava esclusivamente di questo e i
suoi interlocutori avevano mille altri problemi quotidiani giganteschi, terribili, per cui
non erano in grado di esercitare quella sorveglianza che in una situazione normale
probabilmente ci sarebbe stata; in una situazione normale probabilmente la questione
della discrasia tra le dichiarazioni di Formica e quello che ci veniva detto dai Servizi
sarebbe stata più approfondita; nella situazione dell’epoca, ripeto, calandosi nella
situazione dell’epoca, le dico sinceramente che non facevamo a tempo ad affrontare
un problema che ce n’era un altro più grosso, quindi eravamo travolti dagli avvenimenti” (ibidem, pag. 159).
Dalla fine del 1980 di Ustica nessuno parla più.
Nel corso del 1981 il Governo si interessò alla vicenda solo in due occasioni: per
rispondere – tramite i Ministri dei trasporti, prima Formica e poi Balzamo – ad interrogazioni parlamentari sul “processo verbale di scomparizione in mare” del DC9 e
sulla possibilità di mettere in collegamento il disastro di Ustica con la presenza di
oggetti volanti non identificati.
L’interesse non fu ridestato neppure dalla trasmissione al Parlamento, il 27
marzo 1982, della relazione della commissione Luzzatti che concludeva: “Causa dell’incidente è stata la deflagrazione di un ordigno esplosivo”, collocato a bordo prima
della partenza oppure proveniente dall’esterno dell’aereo.
Secondo l’onorevole Lagorio, quando fu pubblicata questa relazione non ci fu
nel Paese una grande mobilitazione, “come se la capacità reattiva si fosse già esaurita
due anni prima” (resoconto stenografico della 9la seduta, pag. 73).
E, quanto alla mancata iniziativa del Governo, sempre l’onorevole Lagorio ha
affermato:
“Non sarebbe male se il Governo si muovesse sempre su impulso dell’opinione
276
L’onorevole Goria ha ulteriormente precisato:
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“Per quanto riguarda la procedura del Ministero del tesoro [...] quando si tratta di
giudicare il merito di un provvedimento interviene l’autorità politica; quando, invece,
si tratta di giudicare la copertura di un provvedimento, il processo si ferma all’autorità
amministrativa cioè al Ragioniere generale dello Stato. Mi conforta in questa convinzione leggere nella relazione che il diniego di parere favorevole alla proposta fu motivato ‘perché non era indicata la copertura finanziaria’. Mi conforta anche il distinguere la forma dalla sostanza; infatti, posso dedurre dai successivi avvenimenti che quando la questione venne riproposta in termini di sostanza politica, la soluzione venne
trovata [...] nel modo a mio avviso ancora oggi più congruo” (resoconto stenografico
della 94a seduta, pagg. 111-112).
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Un giudizio forse discutibile questo, ma che indubbiamente rispecchia con
agghiacciante verità lo sviluppo nel tempo del caso Ustica.
Insieme all’interesse dell’opinione pubblica, l’inchiesta languì nella pressoché
totale inerzia fino al 1986 quando, nel sesto anniversario della sciagura, il comitato
per la verità su Ustica, presieduto dal senatore Francesco Paolo Bonifacio, si rivolse al
Presidente della Repubblica Cossiga perché intervenisse sul Governo “affinché fosse
posto fine ad un silenzio intollerabile”.
Il presidente Cossiga sollecitò allora il Presidente del Consiglio Craxi perché
venissero posti in essere adeguati interventi; e l’onorevole Craxi incaricò della questione il sottosegretario alla presidenza del consiglio, onorevole Amato.
Ed è soltanto in questo momento che finalmente si sblocca la situazione per
quanto riguarda il progetto di recupero dei relitti del DC9 rimasti in fondo al mare.
Già il 23 novembre 1981 il sostituto procuratore Santacroce aveva segnalato al
Ministro dei trasporti Balzamo l’importanza di tale recupero ai fini delle indagini, sollecitando opportune iniziative da parte del Governo. Circa un anno dopo, il 10 ottobre
1982, il Ministro Balzamo trasmise alla Presidenza del Consiglio e ai Ministeri del
tesoro e del bilancio uno schema di disegno di legge con una proposta di stanziamento
di 10 miliardi di lire.
I due ministeri economici espressero però parere contrario perché nel provvedimento non era indicata la copertura finanziaria. Il Ministro del tesoro dell’epoca, onorevole Goria, ha così rievocato la vicenda di fronte alla Commissione:
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pubblica: sarebbe già un’importante vigilanza democratica” (ibidem, pag. 73).
“Generalmente il Ragioniere dello Stato riceve una bozza di un disegno di legge
da una amministrazione (in questo caso si trattava del Ministero di grazia e giustizia
oppure del Ministero dei trasporti), un pezzo di carta su cui deve esprimere un parere.
Di solito guarda di che cosa si tratta, e poi consulta l’ultimo articolo (c’è questa
distorsione professionale) e se rileva (immagino che sia successo così) che manca
l’articolo di copertura, non si pone neanche il problema di trovare un’altra soluzione”
(ibidem, pagg. 112-1 13).
È evidente che “il problema di trovare un’altra soluzione” era di competenza dell’autorità politica. “Ma – è sempre l’onorevole Goria che parla – desidero ricordare
che ci riferiamo al 20 gennaio 1983. Venni nominato Ministro del tesoro il 2 dicembre
1982, quindi quaranta giorni prima e, come qualche collega si ricorderà, erano stati
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quaranta giorni convulsi: ci trovavamo in una fase di probabile esercizio provvisorio
del bilancio. Inoltre, desidero sottolineare che la vicenda di Ustica (che successivamente ha assunto questi toni drammatici) non presentava alcun elemento di drammaticità, cioè (a prescindere dal centinaio di vittime) non era carica di quella tensione che
oggi registriamo. Quindi, sarei grato ai colleghi se tenessero presente questo aspetto:
lo spirito con cui si trattava la questione a quell’epoca era diverso da quello di oggi.
Molto probabilmente se oggi venisse trasmesso un disegno di legge su Ustica al
Ragioniere generale dello Stato, quest’ultimo si rivolgerebbe subito al Presidente del
Consiglio dei ministri per chiedere cosa fare, considerato il rischio di tensioni e di
polemiche. Non penso che fosse questa la situazione in quell’epoca” (ibidem, pagg.
113-114).
278
Così, non essendovi il rischio di tensioni e polemiche, il disegno di legge si
arenò.
Ad un successivo sollecito del Ministro dei trasporti Casalinuovo, il capo di
Gabinetto della Presidenza del Consiglio del V Governo Fanfani, Torregrossa, rispose
il 16 aprile 1983 comunicando che l’ufficio legislativo della Presidenza aveva espresso l’avviso che la congiuntura economica non consentiva il finanziamento del recupero con nuovi stanziamenti e che i fondi avrebbero dovuto essere reperiti sui capitoli di
bilancio del Ministero dei trasporti distogliendoli da altri impieghi meno urgenti.
Non è difficile immaginare come tale ultima indicazione non abbia avuto seguito
alcuno.
L’aspetto più grave della questione, al di là dei pur gravissimi ritardi, consiste
tuttavia nel fatto che per poter procedere al recupero del relitto non vi era alcun bisogno di uno specifico disegno di legge, con i connessi problemi di copertura finanziaria. Anzi, qualora un simile disegno di legge fosse stato approvato, si sarebbe trattato
di un provvedimento ai limiti della ineseguibilità. Costituendo infatti il relitto dell’aereo corpo di reato, soltanto i periti giudiziari, formalmente nominati dal magistrato,
avrebbero potuto compiere le operazioni di recupero. Inoltre, le relative spese, in
quanto richieste dalle esigenze istruttorie di un procedimento penale, sono per legge
obbligatorie e pertanto la loro anticipazione è posta a carico dello Stato; infine esse
potevano essere disposte dal magistrato procedente senza preventiva autorizzazione
da parte del Ministero, che doveva semplicemente essere informato.
In effetti, al recupero materiale dei relitti, compiuto per conto del collegio peritale Blasi dalla società francese IFREMER, si giunse al termine di una lunga procedura,
avviata dal giudice istruttore Bucarelli nel novembre 1984 con la richiesta rivolta al
collegio Blasi di pronunciarsi sulla opportunità di effettuare il recupero. I successivi
passi furono la risposta positiva del collegio Blasi, gli studi di fattibilità svolti dalla
società TECNOSPAMEC, la scelta della società a cui affidare le operazioni,
I’autorizzazione alla stipula del contratto da parte del giudice e, da ultimo. La stipulazione del contratto stesso tra il collegio peritale e l’IFREMER avvenuta il 15 aprile
1987.
Mentre questa procedura si andava svolgendo – certo in tempi burocratici
alquanto rallentati – vi è l’attivazione del sottosegretario Amato per conto del
Governo. Tale intervento senza dubbio assicurò un opportuno avallo politico ad una
operazione che comunque comportava un rilevante onere finanziario. Rappresenta
però un singolare esempio di scarso coordinamento tra apparati pubblici la circostanza
che, il 9 ottobre 1986, quando il giudice Bucarelli aveva già autorizzato il collegio
peritale ad affidare all’IFREMER le operazioni di recupero, l’ufficio giuridico della
Su tale riunione l’onorevole De Mita, allora Presidente del Consiglio, ha così
riferito alla Commissione:
“Concludemmo per la costituzione della commissione. Ci fu anche l’obiezione
che, in pendenza di un procedimento giudiziario, era inutile dar vita ad una commissione amministrativa di indagine e, d’accordo con il magistrato che indagava, si ritenne che, attraverso la commissione, si potessero acquisire notizie da parte degli stati
esteri, cosa che sarebbe stata più difficile se il magistrato si fosse mosso da solo, autonomamente. Fu costituita questa commissione e credo che la parte più significativa
del tentativo che fu fatto – perché poi il risultato fu nullo da questo punto di vista –
riguardava il coinvolgimento dei Governi stranieri, che si presumeva potessero avere
notizie, dare notizie o essere interessati a questo accertamento” (resoconto stenografico della 95a seduta, pag. 8).
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“Affermai in quella circostanza [...] che il disastro non era stato provocato dalle
Forze armate italiane. Il Consiglio dei ministri approvò la relazione del Ministro della
difesa con comunicato ufficiale ed espresse e confermò la propria fiducia nella lealtà e
nel senso del dovere delle Forze armate. Su mia proposta, accolta dal Presidente del
Consiglio, diede mandato per la formazione di una commissione di indagine che
venne costituita nei giorni seguenti, presieduta dal magistrato Pratis” (resoconto stenografico della 94a seduta, pag. 14-15).
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Presidenza del Consiglio abbia inviato al sottosegretario Amato uno schema di provvedimento che riprendeva nella sostanza quello proposto dal Ministro dei trasporti nel
1982; nell’allegata relazione si affermava che la nuova iniziativa legislativa era stata
assunta “avendo l’autorità giudiziaria rinnovato la richiesta di procedere a tale complessa operazione, chiedendone la copertura al Governo in quanto trattasi di spesa elevata fuori tariffa”.
Bisogna attendere il 1988 perché il Consiglio dei Ministri si occupi specificamente e non più soltanto “incidentalmente” del caso Ustica. A seguito di una richiesta
documentale di ordine generale avanzata il 4 giugno dal giudice Bucarelli al
Presidente del Consiglio De Mita, il ministro della difesa Zanone riferì al Consiglio
dei Ministri, nella riunione del 24 giugno 1988, in merito agli elementi conoscitivi
fino ad allora acquisiti dal Ministero per soddisfare la richiesta del giudice.
Nella sua audizione del 13 novembre 1991, l’onorevole Zanone ha ricordato
come, proprio sulla base della documentazione raccolta, egli si fosse convinto che il
disastro di Ustica non poteva essere stato provocato dalle Forze armate italiane e
come quindi avesse giudicato comprensibile il malessere dell’Aeronautica determinato da un servizio televisivo, andato in onda il 1° novembre 1988, che adombrava l’ipotesi del missile e che aveva determinato un vasto clamore. Il 9 novembre 1988, il
Ministro Zanone svolse una seconda relazione al Consiglio dei ministri:
E ancora:
“L’istituzione della commissione di inchiesta fu un atto di governo, adottato non
in dissenso dalle autorità militari, ma prescindendo da una loro reazione. Poiché l’opinione espressa e ripetuta era che non vi era stata alcuna responsabilità e che l’aereo
era caduto per colpa di nessuno, avviare un accertamento in proposito non poteva
significare accettare tale versione. Personalmente non ho mai pensato che con la ria279
pertura delle indagini si potesse individuare come responsabile l’autorità militare di
allora” (ibidem, pag. 19).
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La commissione Pratis presentò la sua relazione il 10 maggio 1989. Tale documento non venne discusso dal Consiglio dei ministri perché il Governo era già entrato in
crisi. Il Presidente del Consiglio De Mita ha espresso il seguente giudizio di fronte alla
Commissione:
“Sui giornali ho letto vari giudizi sui risultati di quella commissione, quasi tutti
negativi. Io fui colpito, leggendo la relazione, dalla conclusione. Si dice che tali commissioni possono svolgere una funzione utile solo nel tempo necessario all’accertamento. Dopo tanti anni, il loro compito è solo quello di mettere insieme i documenti, non di
acquisire elementi di giudizio tali da poter orientare” (ibidem, pag. 9).
In altre parole:
“La conclusione è stata nel senso che la raccolta di documenti non consentiva
l’approfondimento dei problemi e quindi, pur non rendendo il lavoro della commissione del tutto inutile, certamente lasciava capire che sarebbe stato molto meglio svolgere quella indagine otto anni prima” (ibidem, pag. 31).
Immediatamente dopo il deposito della perizia Blasi ed alla luce delle sue conclusioni, il Ministro Zanone incaricò il capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica,
generale Pisano, di svolgere un’indagine amministrativa intesa a verificare se “in tutti
gli enti e comandi delle Forze armate si fossero pienamente rispettate le norme e le
procedure con rigore e la necessaria diligenza”; le risultanze dell’indagine condotta
dal generale Pisano non mancavano di evidenziare all’interno dell’operato
dell’Aeronautica militare inadempienze, negligenze e casi di mancato rispetto delle
procedure, ma soprattutto emergeva la preoccupazione – estranea all’incarico conferito dal Ministro – di confutare le tesi sostenute nella perizia Blasi, sulla base di argomentazioni e dichiarazioni raccolte rivelatesi poi in parte infondate e calunniose.
Nonostante tutto ciò il ministro Zanone – deponendo dinanzi alla Commissione
il 13 novembre 1991 – si è dichiarato convinto che Ustica rimanga non un segreto ma
un mistero, cioè una di quelle “cose che non si possono dire perché non si sanno”
(resoconto stenografico della 94a seduta, pag. 22). Ha proseguito in quella sede il
Ministro:
“Un conto è occultare la verità, un altro è l’incapacità di conoscere. Sono pienamente convinto che ci siamo trovati di fronte ad una situazione della seconda specie»
(ibidem, pag. 24).
E ancora:
“Superficialità, negligenza e lacune sono state accertate, in nessun momento però
ho avuto l’impressione che attorno a me ci fosse chi sapeva e non voleva dire” (ibidem, pag. 32).
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Le conclusioni stanno tutte nei fatti fin qui esposti, nel modo in cui la tragedia
delle 81 vittime e dei loro familiari si è trasformata in una tragedia della coscienza
collettiva della nazione.
La vicenda di Ustica e quella del Mig 23 libico non potevano essere affrontate in
modo peggiore.
Alcuni comportamenti assunti a vari livelli di responsabilità, che abbiamo
descritto e denunciato, si sono rivoltati contro i loro autori con forza dirompente e con
effetti devastanti; ma ancora più devastante è stato il loro impatto sulla possibilità di
chiarire le cose.
Anche l’innocenza avrebbe avuto difficoltà ad emergere dal groviglio di menzogne, leggerezze, arroganza e disprezzo che ha avviluppato sin dall’inizio l’accertamento dei fatti.
Ma innocenza non c’è stata.
Ora si tratta di trarre le conclusioni.
Innanzi tutto il Parlamento deve rifondare le regole che vanno seguite quando
accadono incidenti della rilevanza di quelli qui indagati.
Occorre che sia garantita agli inquirenti, nel modo più assoluto e senza margini
di discrezionalità, ogni possibilità di immediata acquisizione di tutti gli elementi probatori ritenuti utili. Per questo è necessario che non vi sia il frazionamento delle
responsabilità e la moltiplicazione dei centri decisionali, che la regia dell’inchiesta sia
chiaramente assegnata e, soprattutto, che non vi possa essere commistione tra l’interesse generale e quello delle parti coinvolte.
E certamente sono parti in causa tutti gli organi della pubblica amministrazione
ai quali facciano capo i settori investigati. Le “inchieste interne” sono una cosa, e ogni
ministero ha il diritto di promuoverle, gli accertamenti giudiziari sono però altra cosa.
Ad essi va assicurata la più assoluta neutralità. Per questo deve essere la legge a stabilire i criteri e le norme per la composizione delle commissioni tecniche e degli organi
peritali, fissando le compatibilità e le incompatibilità e riducendo al minimo gli spazi
discrezionali.
Il progresso tecnologico e l’affinamento delle tecniche di ricerca oggi hanno drasticamente ridotto il divario tra i tempi della domanda e quelli della risposta. Non è
più concepibile che per recuperare le parti di un aereo si impieghino sette anni e per
avere la risposta di perizie o altri accertamenti tecnici si facciano passare mesi.
Il nostro paese ha grandi risorse scientifiche, in tutti i campi, e competenze di
assoluta affidabilità. Non è concepibile che per avere la risposta sulle cause e sulla
data del decesso del pilota del Mig 23 ci si sia affidati a due medici di dubbia competenza specifica e di indubbia leggerezza professionale che hanno creato le condizioni
di incertezza e di perplessità che tuttora gravano sull’episodio.
Non è concepibile infine che solo alcune delle salme recuperate nel mare di
Ustica siano state sottoposte ad autopsia, rinunciando così a priori ad una completezza
di analisi che avrebbe potuto produrre ulteriori elementi di conoscenza.
Si tratta in sostanza di fissare norme e procedure che regolamentino rigorosamente tutto quello che deve essere fatto al verificarsi di un sinistro, chi lo deve fare,
come lo si deve fare e in che tempi.
Certo, anche in assenza di queste norme, certe cose non andavano fatte. I vertici
dell’Aeronautica hanno sempre saputo che l’inchiesta giudiziaria su Ustica è rimasta
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CONCLUSIONI
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aperta dal giorno della sciagura ad oggi, e che pertanto permaneva il dovere di preservare tutti gli elementi di prova e di documentazione, dovunque essi fossero depositati,
a disposizione di tutte le eventuali esigenze del magistrato.
La massiccia distruzione di prove di ogni tipo, giustificata con il fatto che regolamenti interni, passato un certo lasso di tempo, la prevedevano come normale consuetudine burocratica, ha costituito da parte dell’Aeronautica un comportamento inammissibile, al limite della censura penale.
Questo porta al problema dei poteri di vigilanza e di controllo del Parlamento e
delle responsabilità del Governo.
Sulla tragedia di Ustica e sulla vicenda del Mig 23 vi sono state, nel corso dei
dodici anni trascorsi, decine e decine di interrogazioni parlamentari. Le risposte che
ad esse ha dato il Governo (quando sono state date), non forniscono la più piccola
chiave di lettura degli avvenimenti e non soddisfano in alcun modo i quesiti e i dubbi
prospettati da numerosi parlamentari. Lette nel loro insieme, le risposte del Governo
sono un documento impressionante. È triste che il Parlamento le abbia accettate e non
si sia valso dei suoi poteri di controllo per ottenere qualcosa di più soddisfacente e di
più serio. Gli stessi elementi forniti sin dal 1980 dal ministro Formica sono andati
dispersi nelle nebbie calate sulla vicenda.
Quando il Parlamento, con la nomina di questa Commissione, ha preteso le
risposte dovute, ecco che la magistratura si è riattivata, le inchieste sono ripartite, gli
approfondimenti tecnici sono stati fatti e sono venute meno le protezioni e le impunità
fino ad allora garantite.
Nel corso dell’inchiesta condotta dalla Commissione molte sono state le amarezze e le incomprensioni. Quando si sollevano certi sassi non si sa mai cosa si trova
sotto. Si è cercato persino di far credere che fosse in corso una sistematica opera di
denigrazione delle nostre istituzioni militari e dell’ Aeronautica in particolare. Del
patriottismo, a questi fini, è stato fatto un uso scorretto.
Molte sono anche state, però, le soddisfazioni. Prima di tutte, quella di esserci
sentiti vicini e partecipi con le nostre tensioni all’ansia dei familiari delle vittime che
per tanti anni, da soli, hanno mantenuto viva la richiesta di verità.
Il Parlamento ha ora il modo di offrire al Paese la prova che, accanto ai rappresentanti dei morti di Ustica, vi sono anche le istituzioni del Paese.
COMMISSIONE
PARLAMENTARE
DI INCHIESTA SULLA
ATTUAZIONE DEGLI
INTERVENTI PER LA
RICOSTRUZIONE E LO
SVILUPPO DEI TERRITORI
E DELLA
DAI
TERREMOTI DEL NOVEMBRE
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Dopo i disastrosi terremoti che nella notte tra il 23 e il 24 novembre
1980 provocarono 2735 morti, oltre 8850 feriti e la distruzione di numerosi
centri abitati e il danneggiamento di molti altri, nelle province di Avellino,
Salerno e Potenza, vennero adottati dal Governo e dal Parlamento
numerosi provvedimenti di urgenza tra cui la disponibilità di fondi e la
nomina di un “commissario straordinario”.
Gli interventi e le risorse ad essi finalizzate erano disposti
logicamente verso l’emergenza, la ricostruzione, lo sviluppo delle zone
colpite.
Nel corso del tempo intervennero molte polemiche, sia in sede
parlamentare sia sugli organi di informazione, circa i modi di impiego
delle ingenti risorse finanziarie; polemiche che divennero sempre più
pressanti alla fine del 1988. Si giunse così alla decisione di costituire
una Commissione parlamentare di inchiesta con la legge 7 aprile 1989,
n. 128, poi prorogata, la quale terminò i suoi lavori con l’approvazione
all’unanimità della relazione, che fu presentata alle Presidenze delle
Camere il 5 febbraio 1991.
La Commissione era composta da venti deputati e venti senatori,
in misura proporzionale e comunque con la presenza di almeno un
componente di tutti i gruppi parlamentari presenti nelle due Camere. Il
presidente, deputato Oscar Luigi Scàlfaro, fu nominato di intesa tra loro
dai Presidenti delle due Camere al di fuori della Commissione.
Della relazione (relatore Scàlfaro) pubblichiamo qui uno stralcio
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1980 E FEBBRAIO 1981
(X LEGISLATURA)
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DELLA BASILICATA
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della deliberazione conclusiva in cui la Commissione si rivolge – oltre
che alle Camere – a tutti i potenziali destinatari del risultato dei suoi
lavori, nonché uno stralcio relativo ai soggetti coinvolti nella
ricostruzione, limitatamente agli organi centrali, alle regioni ed ai
comuni, anche in ordine alle connessioni con i tecnici amministratori e
le imprese.
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(...)
La Commissione fa presente ai Presidenti delle Camere l’esigenza che il
Parlamento possa essere messo in grado di adempiere al suo compito di controllo in
modo valido ed efficace predisponendo, sulla base del regolamento, gli opportuni
strumenti parlamentari.
Le competenze dei diversi poteri dello Stato si integrano per il fine comune dell’accertamento della verità.
Infatti questa relazione viene doverosamente comunicata alle Camere dalle quali
deriva l’incarico di inchiesta e di proposizione; ma viene contemporaneamente inviata
al presidente della Corte dei conti e alle procure generali delle corti d’appello competenti per territorio: Napoli, Salerno e Potenza. E ciò sia per eventuali responsabilità
contabili-amministrative, che per eventuali responsabilità di ordine penale.
La relazione viene altresì trasmessa per quanto di sua competenza alla
Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e alle altre associazioni criminali similari, altresì al Ministro delle Finanze – anche per gli interventi
operativi della Guardia di Finanza – in rapporto alle implicazioni fiscali relative all’attività delle imprese, dei funzionari, dei consulenti tecnici, amministrativi e dei componenti delle varie commissioni consultive.
Così, dunque si articolano le competenze ben chiare e distinte: al Parlamento le
valutazioni politiche; alla Magistratura ordinaria l’indagine su eventuali illeciti penali;
alla Magistratura di controllo l’accertamento di responsabilità contabili-amministrative; al Governo, all’Esecutivo l’esame amministrativo particolareggiato e completo.
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Stralcio della deliberazione con la quale la
Commissione ha approvato la relazione
(relatore Scàlfaro)
(pagg. 8; 205-229))
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[...]
PARTE VII
I SOGGETTI COINVOLTI
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Negli interventi di ricostruzione fin qui considerati sono stati coinvolti, con vari
compiti e livelli di responsabilità, organi centrali e periferici come le regioni ed i
comuni. Rilievo hanno però anche soggetti privati, oltre ai numerosissimi beneficiari:
i tecnici come i progettisti, direttori dei lavori e collaudatori, ai quali del resto la normativa attribuiva importanti funzioni di interesse pubblico, e in alcuni casi le stesse
imprese di costruzione.
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1. GLI ORGANI CENTRALI ED IN PARTICOLARE LE STRUTTURE
DI COORDINAMENTO E DI CONTROLLO
L’impalcatura definita dopo le scosse sismiche del 23 novembre 1980 assumeva
una distinzione netta tra interventi di emergenza e interventi di ricostruzione e sviluppo, ma affidava al gruppo istituito presso il Ministero del bilancio (CRED) compiti di
controllo dell’operato in ambedue i campi. Dall’esame delle relazioni presentate dai
responsabili degli interventi e dal CRED si desume che quest’interazione vi fu e
garantì un grado sufficiente di controllo delle operazioni in essere fino al 1983. Il
CRED fu del resto sciolto nel 1984.
Già con la legge n. 187 del 1982, art. 9, tuttavia, il Parlamento aveva istituito con
compiti di coordinamento dell’intervento di ricostruzione e sviluppo, un ufficio speciale alle dipendenze del Ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno,
all’epoca l’on. Signorile. L’ufficio subì varie revisioni nel 1982 e nel 1989-90. La
struttura di coordinamento così realizzata ha predisposto le Relazioni presentate al
Parlamento il 31 gennaio 1982, il 30 settembre 1984, il 15 dicembre 1988, il 30 giugno 1989, il 30 giugno 1990 ed il 31 ottobre 1990. Un’attività di informazione non
troppo puntuale, visto che il comma 5° dell’art. 9 della legge 187/1982 prevedeva
relazioni trimestrali.
Nello svolgimento della propria attività la Commissione ha potuto constatare
che la principale attività svolta dall’ufficio speciale si è estrinsecata nella raccolta, con
cadenze semestrali, dei dati relativi alle domande di contributo ed alle opere di competenza dei comuni. Su queste basi l’ufficio provvedeva altresì a formulare le proposte di riparto dei fondi stanziati, da sottoporre al CIPE. Tuttavia, i dati raccolti ed elaborati dall’ufficio non permettono: (a) la certezza sul numero di domande presentate e
sugli importi ad esse corrispondenti e quindi la valutazione attendibile del fabbisogno
per l’edilizia privata; (b) la corretta suddivisione tra edilizia abitativa ed opere pubbliche e quindi la verifica del rispetto delle quote massime di spesa da destinarsi ad
opere pubbliche; (c) la valutazione preventiva dei costi unitari da sostenere per gli
interventi di ricostruzione-riparazione. D’altra parte, le elaborazioni non consentono
di accertare né i tempi medi di ricostruzione-riparazione, né le cause della forte percentuale di lavori non iniziati. La “banca dati” presso l’ufficio speciale non appare
perciò una base adeguata per l’azione di coordinamento.
La Relazione presentata, al novembre 1990, dal Ministro Marongiu, infatti, indica quali norme contenute nel Testo Unico configurino nodi legislativi da sciogliere se
si vuole porre le basi di un completamento della ricostruzione: (a) il prevalere dell’opinione del Consiglio di stato quanto al non sussistere di un termine di decadenza sia
2. LE REGIONI
Le regioni, in base all’art. 7 della legge 219 (dalla significativa intitolazione
“Compiti regionali”), avrebbero dovuto assicurare:
– il coordinamento dei piani di assetto territoriale e l’emanazione degli indirizzi
per i piani comunali;
– l’assistenza tecnica per l’opera di ricostruzione;
– il coordinamento dei programmi costruttivi aventi carattere unitario (art.16);
– la promozione di accordi tra gli enti locali;
– la predisposizione dei programmi annuali per gli interventi di consolidamento
e difesa del suolo;
– il coordinamento generale degli strumenti di pianificazione e programmazione.
Nel caso della regione Basilicata uno sforzo per rispondere a queste aspettative
del legislatore è stato realizzato: a Potenza fu istituita una Struttura speciale di ausilio
ai comuni. Non altrettanto si può dire della Campania.
Si deve attribuire anche alla scarsa iniziativa della regione Campania se la distribuzione degli interventi premia le aree verso cui la popolazione tende a spostarsi perché più accessibili ai centri principali e se si registrano molteplici spinte alla demoli-
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per la presentazione degli elaborati da allegare alla domanda di contributo nel caso il
beneficiario abbia delegato il comune a provvedere, sia per gli interventi previsti nei
piani di recupero dei comuni disastrati e gravemente danneggiati; (b) l’indeterminatezza della disciplina riguardante gli interventi inclusi nei piani di recupero, relativa
all’avvio della loro attuazione e non solo al loro completamento, ma anche all’aderenza dello strumento urbanistico ai problemi in essere; (c) la disciplina particolare riservata agli immobili vincolati o simili; (d) le innovazioni introdotte dalla legge n. 12 del
1988 a favore di soggetti che già erano beneficiari dei contributi, seppure con un loro
minore dimensionamento; (e) i rischi di “commercio dei contributi” insiti nell’estensione dei medesimi agli acquirenti di immobili danneggiati o distrutti; (f) le modalità
di utilizzo degli interessi maturati sui conti bancari; (g) la riserva di stanziamento per
opere pubbliche non riproposta dal Testo Unico.
È del resto esplicitamente ammesso dagli estensori del Testo Unico che l’interpretazione da esso adottata, nella complessa e spesso ambigua legislazione in essere, è
generalmente stata – anche sulla base dei giudizi formulati dal Consiglio di Stato improntata ad una interpretazione estensiva e non restrittiva delle modalità del “completamento degli interventi”. La citata Relazione Marongiu identifica, nei punti richiamati, gli aspetti che ne rendono verosimilmente le conseguenze più significative sotto
il profilo del dimensionamento finanziario e dell’estensione temporale degli interventi.
La mancanza di un’azione di coordinamento è confermata dalle Relazioni presentate, che – salvo, per certi aspetti, l’ultima – contengono alcuni dati aggregati e
nessuna indicazione sullo “stato di attuazione” della ricostruzione, non mettono in
luce i casi anomali, non segnalano comportamenti devianti, ecc. ecc.
Anche per i compiti attribuiti per delega al governo centrale, si ebbero difficoltà
e ritardi. In particolare, il Ministro del tesoro emanò con ritardo - e dopo le modifiche
intervenute con nuovi provvedimenti legislativi - le norme riguardanti le modalità
delle anticipazioni di fondi (art. 15, legge 219) (v. Parte IV, par. 2) ed il Ministro dei
lavori pubblici emanò con ritardo il decreto di cui al comma 4 dell’art. 10 della legge
219, la cui definizione era tanto più importante in quanto la legge 219 autorizzava, per
la ricostruzione, i comuni a derogare dalle norme recate dalla legge n. 64 del 1974.
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zione dei centri storici semidistrutti o danneggiati.
Si segnala che la regione Campania ha avviato solo nel 1989 le operazioni di
risanamento idrogeologico che fin dal 1983 si era attribuita per molti comuni disastrati e danneggiati, contribuendo a determinare: l’affastellarsi di nuovi strumenti urbanistici sostitutivi di altri già adottati, l’insorgere comunque di incertezze quanto ai caratteri dell’opera di ricostruzione, l’accumularsi dei ritardi.
Gli Uffici tecnici regionali non furono in grado di permettere che la deroga alla
legge n. 64/1974 avvenisse nelle condizioni previste dal testo della legge 219 (v. Parte
III , par. 5) né di controllare che le opere realizzate entro l’ordinanza 80 e successive
del Commissario Zamberletti, fossero aderenti alle normative antisismiche. La regione Campania ha emanato solo nel 1983 (legge regionale n. 9 del 7 gennaio) le Norme
per l’esercizio delle funzioni regionali in materia di difesa del suolo.
Per ambedue le regioni, comunque, non vi sono elementi che consentano di attribuire loro un’azione di qualche rilievo per indirizzare e coordinare le politiche urbanistiche dei comuni.
3. I COMUNI
Si è già detto che le responsabilità cruciali dell’intervento di ricostruzione furono
assunte dai comuni, in parte per dispositivo di legge ed in parte per insufficienza delle
istituzioni con compiti di coordinamento o controllo.
Date le dimensioni rilevanti degli stanziamenti ricevuti, soprattutto nel caso dei
comuni disastrati e gravemente danneggiati, le amministrazioni locali si trovarono a
disporre di fondi molto più rilevanti di quelli che ad esse solitamente affluivano per i
canali ordinari, e di maggiori poteri decisionali. Amministratori e consigli comunali
potevano disporre dell’attribuzione dei fondi stanziati con sostanziali gradi di libertà. Il
governo centrale impartiva direttive (come per la priorità alla ricostruzione nelle aree
rurali) finalizzate ad accelerare l’impiego dei fondi. Le norme definite dalla legge 219
avrebbero dovuto garantire attraverso la successione dei programmi comunali riferiti ad
un arco triennale, un processo di pianificazione-attuazione-verifica-gestione suscettibile
di interruzioni in corso d’opera e tale da evitare completamente i residui passivi.
In realtà, lo svolgimento delle operazioni si rivelò ben presto complesso – com’è
già stato ricordato – sì da favorire interpretazioni non omogenee delle norme e delle
direttive in essere. Le indagini della Commissione non hanno potuto coprire l’universo dei 687 comuni coinvolti. Per gli ambiti che sono state in grado di coprire, hanno
rivelato incongruenze e distorsioni significative. Esse non implicano ovviamente che
tutte le amministrazioni locali abbiano operato in modo difforme da quanto avrebbe
imposto la priorità assegnata alla ricostruzione: il numero dei casi in cui queste anomalie si registrano, sembra essere sufficientemente contenuto.
Per quanto concerne gli interventi dei comuni, gli elementi di maggiore spicco
che meritano ulteriori considerazioni sono quelli attinenti le politiche urbanistiche, il
ruolo degli amministratori, le variazioni degli organici, il ricorso alla concessione.
3.1. GLI STRUMENTI URBANISTICI
È stato spesso ripetuto che una delle cause del ritardo nell’andamento della ricostruzione era nelle difficoltà che i comuni, soprattutto i disastrati, incontrarono nel
procedere alla definizione degli strumenti urbanistici richiesti dalla legge n. 219.
La normativa prevista dalla legge 219, quanto agli strumenti urbanistici, corri-
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spondeva all’obiettivo di garantire che la ricostruzione dei comuni disastrati (artt. 2733) avvenisse in un quadro urbanistico coerente e di propiziare non solo il mantenimento della residenza nei comuni, ma anche la ricomposizione del modello preesistente della convivenza. All’art. 27 si dice, infatti, che “la ricostruzione avviene, di
massima, nell’ambito degli insediamenti esistenti ... o nel territorio comunale” e che
essa “salvaguarda le preesistenti caratteristiche etnico-sociali e culturali”.
I comuni disastrati dovevano adottare entro un anno (ma la scadenza è stata
molte volte prorogata, fino al 31 marzo 1989 ed il piano è diventato il piano regolatore) il piano di ricostruzione di cui alla legge n. 1431 del 1962. Nel frattempo dovevano adottare o confermare il piano di zona 167 per gli edifici distrutti e non ricostruibili
in sito, il PIP ed il piano di recupero. Per i comuni gravemente danneggiati e per quelli danneggiati dichiarati sismici (art. 55) si prevedeva che essi potessero adottare o
confermare i piani di zona, i PIP ed i piani di recupero. Non c’era scadenza e l’approvazione da parte della regione doveva aver luogo entro tre mesi.
Nel 1982 (Rapporto CRED) erano in preparazione 369 studi geologici, 55 piani
di fabbricazione, 376 piani regolatori, 486 piani di recupero, 356 PEEP. Risultavano
adottati 209 studi geologici, 178 piani di fabbricazione, 165 piani regolatori, 338 piani
di recupero, 449 PEEP. Risultavano approvati dalla regione 65 studi geologici, 323
piani di fabbricazione, 53 piani regolatori, 70 piani di recupero, 292 PEEP. L’attività
di predisposizione degli strumenti urbanistici non era dunque insignificante.
Ad oggi la grande parte dei comuni dispone degli strumenti urbanistici previsti
(all. l4/C). Ma le vicende intercorse comprese quelle relative all’individuazione degli
aventi diritto al contributo in caso di redazione dei piani di recupero, hanno alimentato
la continua revisione di questi strumenti di piano. Alla confusione e contraddittorietà
dell’attività di pianificazione hanno contribuito diversi elementi, tra i quali la scarsa
chiarezza circa i connotati dei piani di recupero (introdotti dalla legge n. 457 del
1978), sicchè lo strumento – viste anche le peculiari agevolazioni che sono state ad
esso associate – ha perso una propria identità fino al punto da poter essere utilizzato
anche per aree non edificate: aree rurali o aree interessate da interventi integrali di
demolizione delle costruzioni esistenti.
Le modificazioni introdotte successivamente prevedevano (art. 34 del Testo
Unico) che sia i comuni disastrati che quelli gravemente danneggiati (legge 80/84)
adottassero un piano regolatore generale o lo adeguassero alle esigenze provocate dal
sisma e si dotassero degli altri strumenti di piano già menzionati, nonchè l’utilizzo
della legge 167 del 1962 per il recupero del patrimonio danneggiato dei comuni disastrati (L. 80/84). Queste disposizioni sono però contraddette da un successivo comma
che consente di sostituire al PRG la relazione generale di presentazione dei piani esecutivi. Per l’approvazione dei piani da parte della regione è prevista la procedura del
silenzio-assenso (L. 12/88).
Gli obiettivi inizialmente definiti dalla legge 219 non erano necessariamente in
eontraddizione con gli altri contemporaneamente affermati di consentire un elevamento del tenore di vita per l’aspetto abitativo della popolazione – compresa quella emigrata (dal 1988) – e di favorire un’attività edilizia a vasto raggio considerato il dimensionamento dell’area colpita, ma tali dovettero apparire anche in aree non contraddistinte da problemi di “tensione abitativa” (non si fa qui riferimento a Napoli ed alla
sua area metropolitana, di cui si discute in altra parte della relazione). Pur non considerando il Titolo VIII ed i comuni ad esso interessati, molti comuni hanno potuto con
i fondi ricevuti dar corso o consentire che si desse corso ad interventi edilizi e ad
opere che mal si inseriscono, in molti casi, in un quadro di pianificazione urbanistica
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coerente con il rispetto dell’ambiente e l’ordinato sviluppo del territorio (v. Relazione
citata del Ministero dell’ambiente).
Analogamente, i piani di recupero (anche a prescindere da quanto già precedentemente ricordato) hanno finito in molti casi con il rivelarsi inadatti ad affrontare i
problemi, così come venivano a configurarsi dopo gli interventi di demolizione e/o
sbancamento. In compenso, la legislazione dando crescente potere ai sindaci e incentivando pur contraddittoriamente tutti i proprietari, ha alimentato il ricorso alle varianti
o alla riformulazione dei piani, contribuendo a ritardare l’opera di ricostruzione che in
principio si proclamava di voler accelerare.
S. Mango sul Calore aveva un piano di recupero definito nel 1981 e vi ha apportato numerose varianti, l’ultima del dicembre 1987. Il piano di zona del 1982 è stato
rivisto molte volte fino al 1988. Analoga è la situazione di Santomenna, dove indagini
della Magistratura sono a questo proposito in corso. Ed analoga è la situazione di altri
comuni come Laviano e Palomonte.
3.2. I TECNICI AMMINISTRATORI
La figura che al sindaco è attribuita dalla legislazione post-terremoto ha giustificato varie interpretazioni. Resta comunque evidente che, non essendo l’azione dei sindaci sottoposta ad alcun controllo di merito, essi hanno acquisito con gli interventi di
ricostruzione-riparazione un potere che è stato esercitato – quando lo si è voluto – con
il massimo di arbitrio.
Questa situazione ha prodotto gli effetti più negativi quando sindaci o altri
amministratori comunali, essendo tecnici abilitati, hanno predisposto perizie ed hanno
svolto incarichi di progettazione, direzione lavori e collaudo. Anche per le
Commissioni tecniche previste dalla legge n. 219 del 1981 e successive modificazioni
e integrazioni per l’esame delle domande di contributo (art. 14), i due tecnici che si
stabilì dovervi essere inseriti, finirono spesso con il coincidere con gli amministratoritecnici. Si stabilirono così circuiti peculiari per cui l’amministratore-tecnico predisponeva la perizia giurata da allegare alla domanda di cui alla legge n. 80 del 1984, partecipava in quanto membro della Commissione tecnica ad approvare la domanda, redigeva il progetto e partecipava alla sua approvazione, ed infine fungeva da direttore
lavori o collaudatore per la sua realizzazione. Ma anche quando i sindaci o gli amministratori non erano dei tecnici si registrano relazioni tra questi ed i tecnici e/o le
imprese coinvolte nelle operazioni di demolizione/ricostruzione. Queste relazioni possono essere formali od informali, possono coincidere con rapporti di parentela o con
rapporti di mera colleganza o con intrecci societari.
In provincia di Avellino, complessivamente, sono 91 gli amministratori coinvolti
in 54 su 119 comuni. In provincia di Salerno, per i sette comuni per cui si hanno notizie, 27 amministratori risultano coinvolti e a due sono affidati incarichi pubblici: degli
amministratori di Laviano e Santomenna si è, del resto, già detto (v. Parte VI ). In provincia di Potenza si hanno notizie per 32 comuni e 51 amministratori (di cui tre risultano incaricati per opere pubbliche). In quella di Matera sono 19 gli amministratori
coinvolti in 10 comuni. In provincia di Foggia sono 25 gli amministratori coinvolti
come tecnici o impresari in 10 comuni. In provincia di Benevento si tratta di 58
amministratori in 34 comuni. Per le provincie di Napoli e Caserta non si hanno dati.
Il numero elevato di sindaci e amministratori professionisti nel settore delle
opere civili, conferma i rischi insiti nella concezione dell’intervento adottata dalla
legge e non corretta da idonee contromisure cautelative. Sono in effetti numerose le
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segnalazioni di sindaci, ma anche di altri amministratori che contemporaneamente
hanno operato ed operano come professionisti nell’ambito della ricostruzione o riparazione di immobili privati, e financo di opere pubbliche seppure in diverso comune
(allegato 15/c). Ad esempio, in provincia di Avellino, hanno operato negli anni come
progettisti (opere private) un assessore di Ariano Irpino (286 progetti), un sindaco di
Bonito (209), un assessore di Cervinara (332), un sindaco di Conza (118), un assessore di Fontanarosa (53), uno di Taurasi (62), due di Grottaminarda (68 e 64), un sindaco (135) e due assessori di Guardia dei Lombardi (210 e 360), un assessore di Lapio
(108), uno di Lauro (55), un sindaco (69) e vari assessori di Lioni (tra cui due con 96
e 41 progetti), due assessori di Montella (103 e 195), un assessore di Nusco (62), uno
di S.Mango (98), un sindaco (205) e un assessore di Solofra (72), un assessore di
Sturno (99), un assessore di Torella (71), un sindaco di Torrioni (66), un sindaco di
Zungoli (120) per non citare che i casi più rilevanti dal punto di vista quantitativo. Un
caso a sé è poi rappresentato da Castelbaronia, dove il sindaco ha redatto 141 progetti
per opere private, 44 li ha redatti un ex-sindaco/assessore, 12 un altro assessore e 58
un terzo. Quest’ultimo in società con un altro assessore nella snc Alfa Studi ha redatto
altri 82 progetti per opere private e 2 per opere pubbliche.
Analogamente, in provincia di Potenza, a Marsicovetere, il vicesindaco in carica
si sarebbe accaparrato nel periodo 1980-1988 90 progetti per 755 milioni di parcelle,
nonché vari altri incarichi. Il sindaco di Brienza (Pz) nel periodo 1980-1990 avrebbe
garantito una mole ingente di lavori ad un professionista della provincia di Salerno a
cui risulta collegato. In provincia di Benevento, un amministratore ha avuto incarichi
pubblici ed altri 39 hanno avuto circa 2 mila incarichi da privati. Insomma, i fatti registrati per la provincia di Avellino non sono isolati, anche se per questa provincia si
sono avute informazioni più esaurienti.
In molti comuni che rappresentano esempi negativi quanto alle modalità dell’intervento di ricostruzione, i sindaci sono progettisti o operano in stretta intesa con progettisti o consentono ai tecnici comunali di fungere da progettisti o di stringere legami
con progettisti. Il comune che rappresenta un caso-limite, Laviano, ha – come si è
visto – un sindaco (sindaco dal 1980) – che con un gruppo di progettisti cui risulta
variamente collegato, ha monopolizzato circa il 90% delle progettazioni di abitazioni
e di opere pubbliche nello stesso comune. In alcuni casi, gli intrecci degli amministratori-progettisti si estendono su vari comuni fino a coprire volumi molto estesi di incarichi professionali.
Seppure nessuna norma vieti agli amministratori di lavorare come professionisti
nel campo delle opere finanziate dallo Stato, ove non si tratti di opere pubbliche, l’intreccio tra i ruoli assunti dagli amministratori-tecnici non corrisponde al concetto
comune di corretto esercizio di funzioni pubbliche.
Questi dati sembrano in contrasto con l’esistenza di una norma che consente di
collocare in aspettativa un amministratore almeno per tutti i comuni disastrati e gravemente danneggiati. L’art. 70 della legge n. 219 proroga le aspettative autorizzate dal
Commissario straordinario Zamberletti; le norme successive estendono questa facoltà
come appena ricapitolato; il Testo Unico proroga le aspettative fino al 30 giugno
1990. Dopo quella scadenza esse sono state ulteriormente prorogate da un decreto
decaduto due volte. Dalle comunicazioni dei prefetti risulta che nell’autunno 1990
non vi erano amministratori in aspettativa per la ricostruzione.
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3.3. GLI ORGANICI
La legge n. 80 del 1984 prevedeva, per i comuni disastrati o gravemente danneggiati, l’istituzione di un ufficio tecnico o il suo adeguamento in base a criteri prefissati. La norma è riportata anche dal Testo Unico (art. 59). Dalle comunicazioni dei prefetti si evince, tuttavia, che questa norma non ha trovato attuazione diffusa ed ha
avuto conseguenze quantitativamente modeste (all.17/C).
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3.4. IL RICORSO ALLA CONCESSIONE
All’art. 16 la legge 219 prevedeva che gli interventi di ricostruzione, “realizzati
in modo unitario, con programmi costruttivi organici”, potessero essere affidati in
concessione (comprese la progettazione e l’acquisizione dei suoli). La concessione era
altresì prevista per l’esecuzione di interventi di edilizia economica e popolare o di
recupero di abitazioni malsane e degradate e per la realizzazione delle opere pubbliche di competenza comunale.
Di tale facoltà si sono avvalsi vari comuni, basandosi anche sulla delega a provvedere alla ricostruzione dell’edilizia privata. Tra i casi in cui i comuni hanno utilizzato la concessione per organizzare, in tutto o in parte, l’opera di ricostruzione, alcuni
sono emersi come esempi inquietanti del fallimento dell’opera di ricostruzione. Ad
esempio, della concessione si sono avvalsi – tra i comuni che la Commissione ha in
particolare analizzato, e che risultano non aver ottemperato correttamente ai compiti
loro affidati dalla legge e dai privati – Conza della Campania e Santomenna (all.
12/C). Ma tra i comuni che hanno utilizzato la concessione per la ricostruzione degli
abitati ve ne sono anche che non registrano particolari ritardi negli interventi (es.
Atripalda, Valva, Polla).
Alla realizzazione in regime di concessione di singole opere hanno fatto ricorso
vari comuni, come S. Angelo dei Lombardi in provincia di Avellino, Palomonte in
provincia di Salerno o Ruvo del Monte in provincia di Potenza. Le opere comunali
realizzate tramite concessione registrano frequentemente quelle spinte alla modifica
delle caratteristiche delle opere (molto al di sopra delle esigenze che saranno chiamate
a soddisfare) e alla lievitazione dei costi che si ritrovano per le opere infrastrutturali
ricadenti entro gli interventi di cui all’art. 32 o di cui al Titolo VIII della stessa legge
219.
Si sono avvalsi della concessione i comuni di Atripalda, Conza della Campania, S.
Angelo dei Lombardi, S. Paolina in provincia di Avellino; Casoria, Gragnano, Portici, S.
Anastasia, Torre del Greco, Vico Equense, Castellamare di Stabia e S. Agnello in provincia di Napoli; Angri, Colliano, Mercato S. Severino, Polla, Ricigliano, S. Gregorio
Magno e Valva in provincia di Salerno; Brienza, Castelmezzano, Ruvo del Monte e Muro
Lucano in provincia di Potenza. Alcuni in base all’art. 16 della legge 219, altri per singole opere.
Le differenze che la Commissione ha colto quanto agli esiti del ricorso alla concessione, testimoniano che, più che l’istituto in sé, è l’applicazione che ne è stata operata che ha influito negativamente sull’andamento delle realizzazioni, sulla loro qualità e sulla lievitazione dei costi.
4. I TECNICI
Il ruolo dei tecnici (anche al di là della confusione tra tecnici e amministratori)
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nella ricostruzione risulta particolarmente enfatizzato dalla legge n. 80 del 1984, che è
ritenuta il provvedimento che favorì il decollo della ricostruzione. Dopo questa legge,
gli interventi (presentazione delle domande e delle perizie giurate, predisposizione dei
progetti) sono spesso promossi per iniziativa di tecnici o di gruppi di tecnici, delegati
a provvedere dai danneggiati, e ciò rappresenta un meccanismo che alimenta la crescita delle domande ed i successivi ampliamenti della platea dei beneficiari.
Molte corrispondenze della stampa mai smentite successivamente, hanno messo
ampiamente in luce il ruolo così rivestito dai tecnici: tecnici dei comuni e liberi professionisti o ambedue le cose insieme. Non stupisce perciò ritrovare nelle casistiche
dei comuni che sono stati analizzati in modo più diretto, intrecci complessi tra sindaci-tecnici o amministratori-tecnici, tecnici comunali e professionisti esterni al comune. Queste fattispecie appaiono anzi molto diffuse.
Generalmente i professionisti di cui trattasi sono locali, ma compaiono anche
nomi, ricorrenti, di professionisti esterni. In alcuni casi si è avuto un ricorso a professionisti esterni che avessero già esperienze di ricostruzione post-sismica (Friuli), forse
anche per risolvere problemi di incertezza interpretativa nell’utilizzo delle norme
vigenti. E sembra significativo che questo riguardi piuttosto la Basilicata che la
Campania (allegato 18/C).
Il ruolo dei professionisti locali è stato comunque di gran lunga più incisivo fino
a rappresentare un riferimento di rilievo per la produzione legislativa di iniziativa
governativa visto che alcune proroghe di scadenze sono state giustificate con l’esigenza (come recitano le relazioni di presentazione al Parlamento) di consentire ai professionisti locali lo smaltimento dell’ingente lavoro cumulato nell’ambito della ricostruzione.
Attenzione è stata poi dedicata anche alle società di studi e progetti ed in particolare a quelle il cui intervento è stato reso obbligatorio dalla stessa legge n. 80/1984
(“Relazione sulla stabilità delle aree anche ai fini del rischio sismico e dei calcoli statici”). Anche in questo caso il grosso delle commesse è stato acquisito da un numero
ridotto di società oltre che da alcuni singoli professionisti.
Deve infine essere segnalato che il numero elevato delle opere che non risultano
ultimate pur essendo da tempo in corso o in uso, è imputabile almeno in parte alla
resistenza dei tecnici ad emettere fattura per le somme loro spettanti (sono queste fatture quelle che occorre presentare per percepire l’ultima quota di contributo, attualmente pari al 5%).
Anche sui compensi riconosciuti ai tecnici, la Commissione ha potuto constatare
che essi sono oscillati, secondo le dichiarazioni dei sindaci, dal 15-16% dell’importo
dei lavori sino al 20-30% ed in taluni casi anche oltre, dato che non si è ritenuto –
come è invece avvenuto in altri casi (v. Titolo VIII) – di tener conto di discipline più
rigorose come quella adottata dall’intervento straordinario nel Mezzogiorno.
La legge prescrive che queste parcelle siano corredate del motivato parere dell’ordine o del collegio professionale competente. Questi organismi, interpellati dalla
Commissione, hanno dichiarato che:
– i criteri seguiti sono stati ispirati alle vigenti tariffe professionali (leggi 2
marzo 1949, nn. 143 e 144) ed alle successive circolari ministeriali emanate in merito;
– l’incidenza percentuale dei compensi professionali è variabile in funzione del
tipo di opera, dell’importo dei lavori e delle prestazioni richieste;
– su tale incidenza ha influito la verifica del limite di convenienza della riparazione rispetto alla ricostruzione, che richiede prestazioni aggiuntive.
A titolo esemplificativo, si registrano i seguenti casi quanto all’incidenza delle
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spese tecniche sull’importo dei lavori:
(A) lavori di riparazione o ricostruzione di edifici di civile abitazione con struttura portante in muratura e in parte in cemento armato (artt. 13 e 14 della Tariffa degli
ingegneri e degli architetti): si va dal 20% al 9, 57% con andamento decrescente a
seconda degli importi, da 100 milioni a un miliardo);
(B) lavori di ricostruzione di edifici di civile abitazione in zone classificate
.sismiche con struttura portante in cemento armato (idem): si oscilla attorno al 14%.
I criteri considerati confermano che, per arrivare a incidenze del 30% ed oltre,
occorre che siano intervenute oltre al limite di convenienza molte altre modalità di
maggiorazione.
In Basilicata la Regione ha stipulato, nel 1981, un’intesa con l’Ordine degli ingegneri della provincia di Potenza per la riduzione al minimo delle competenze professionali, anticipando le disposizioni contenute nelle leggi n. 187/1982 e n. 12/1988.
5. LE IMPRESE
Le imprese sono emerse dall’analisi condotta dalla Commissione soprattutto con
riferimento al ricorso alla concessione da parte dei comuni. In questa fattispecie ricorrono, infatti, imprese nazionali o regionali di una certa consistenza, mentre nelle opere
di ricostruzione singole si hanno soprattutto imprese locali.
Tra le imprese nazionali e regionali che risultano concessionarie di interventi
edilizi e/o di opere pubbliche, vi sono imprese che sono state coinvolte anche in altri
capitoli dell’intervento di ricostruzione (Titolo VIII, artt. 21 e 32, ecc.). In molti casi,
queste imprese non hanno svolto adeguatamente il loro compito ed hanno spesso contribuito all’accumularsi di ritardi perché colpite da congiunture sfavorevoli. Non
poche sono tra queste le imprese che risultano fallite, interrompendo così l’opera
avviata: dalla Maggiò concessionaria delle opere di reinsediamento a Conza all’Ars et
Labor coinvolta nella ricostruzione a Santomenna.
6. LE INFILTRAZIONI CAMORRISTE NELL’EMERGENZA E NELLA RICOSTRUZIONE
Anche nel caso dell’emergenza e della ricostruzione sono state denunciate infiltrazioni camorriste negli appalti. Anzi i capitoli dell’emergenza e della ricostruzione
registrano, più rapidamente di altri capltoli dell’intervento post-terremoto, i segnali di
queste infiltrazioni. Così è per l’uccisione del sindaco di Pagani, Marcello Torre, il 16
dicembre 1980. La camorra si insinua nella rimozione delle macerie, poi passa alle
opere di urbanizzazione per l’installazione dei prefabbricati e containers. Vicende
come queste sono registrate da varie sentenze istruttorie, che menzionano anche i fitti
rapporti tra questi imprenditori-camorristi, da un lato, e dall’altro, gli amministratori
locali, le imprese destinatarie di altri appalti (che poi assicureranno al camorrista i
subappalti), i grandi boss.
Un caso noto è quello degli appalti per i prefabbricati pesanti di Avellino, in cui
risultano coinvolti Roberto Cutolo, figlio di Raffaele, Francesco Pazienza e Alvaro
Giardili. Il processo ha avuto un decorso travagliato, è stato suddiviso in vari procedimenti ed alla fine tutti gli imputati sono stati assolti con formula piena.
In Irpinia, a Fontanarosa, l’installazione dei prefabbricati è affidata all’impresa
Iprec, di cui è socio al 50% Stanislao Sibilia. A dirigere i lavori è chiamato Fausto
Ercolino, per il quale il giudice Gagliardi, vittima poco dopo di un attentato, ha chiesto il confino definendolo camorrista della NCO. Tra i camorristi di cui lo stesso giu-
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dice ha chiesto il confino – sono trentadue – figura anche Sergio Marinelli (coinvolto
nelle indagini sul caso Cirillo), contitolare della ditta Palma che ha fornito i prefabbricati destinati a stalle.
Marinelli era anche il proprietario della Beton Calcestruzzi (successivamente
denominata in altro modo) che ha avuto un ruolo sostanziale nelle forniture per la
ricostruzione nell’area avellinese. A Marinelli si ricollega l’affare Eurocem.
L’Eurocem fa capo in Italia a Pasquale Raucci di S. Martino Valle Caudina (AV), e su
di essa ha fornito ampia documentazione l’Alto Commissario, dr. Domenico Sica. Si
può ricordare che l’affare Eurocem è identificato dalla Guardia di finanza di Napoli
durante un blitz nella masseria dei fratelli Russo a Nola, in cui era in corso un summit
della camorra. L’Eurocem forniva il cemento anche al gruppo Romano-Agizza, proprietario della Bitum Beton e da metà anni’80 in poi capo-fila di tutta l’industria
napoletana del calcestruzzo.
La presenza della camorra nelle aree interne è ancora testimoniata da altri eventi
(l’affare delle estorsioni alla Silar nei cantieri per la tangenziale di Avellino, l’assassinio del vicesindaco delegato alla ricostruzione a S.Agata dei Goti dove nel luglio
1990 fu incendiato il municipio e bruciò tutta la documentazione sulla ricostruzione,
ecc.). Naturalmente, essa è preponderante nelle aree dell’entroterra napoletano, vesuviane, del casertano, dell’agro sarnese-nocerino, in cui il suo insediamento già era in
partenza più rilevante. I settori privilegiati sono oltre alle forniture di cemento e calcestruzzo, le demolizioni, gli scavi, i movimenti terra, le cave. Lo conferma anche l’elenco delle imprese note per essere legate ai clan, inviato alla Commissione dalla Cgil
(all. 19/c).
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BIBLIOGRAFIA
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Per un migliore approfondimento
della materia è utile consultare anche
opere di carattere storico e giuridico
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Antologia, Firenze 1869, XI, pagg. 822854;
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parlamentari dell’Ottocento”, in
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politico italiano, Milano 1975;
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parlamentare nell’ordinamento italiano,
Milano 1974;
C. CHIMENTI, “Le Commissioni di
inchiesta come organi bicamerali”, in
AA. VV., Le inchieste delle Assemblee
parlamentari, Rimini 1985, pagg. 103114;
G. F. CIAURRO, “Problemi e prassi
del procedimento di inchiesta
parlamentare”, in AA. VV., Le inchieste
delle Assemblee parlamentari, cit., pagg.
115-140;
L. CIAURRO, “Presidente della
Repubblica: I. Il messaggio del
Presidente della Repubblica Cossiga sulle
inchieste parlamentari”, in Quaderni
costituzionali, 2, 1992;
P. COSTANZO, Il Parlamento
inquisitore: aggiornamenti sulla più
recente prassi parlamentare”, in Quaderni
costituzionali, 2, 1991;
P. COSTANZO - F. SORRENTINO,
“Inchiesta parlamentare e conflitto tra
poteri”, in Studi parlamentari, 1977, n.
35, pagg. 17 ss.;
G. CUOMO, “Appunti
sull’inchiesta politica delle Camere”, in
Studi in onore di F. Crosa, I, Milano
1960, pagg. 659 ss.;
U. DE LEONE, “Le libertà
fondamentali dell’uomo alla luce
del’ordinamento penalistico e
parapenalistico italiano nell’impegno
dell’avvocatura”, in Congresso nazionale
giuridico forense, Messina-Taormina 1621 settembre 1983, Milano 1983;
G. DE VERGOTTINI, “Limitazioni
alla tutela giuridizionale dei diritti e
inchiesta parlamentare”, in Studi in onore
di P. Biscaretti di Ruffia, I, Milano 1987;
M. DOGLIANI, “Commissione
antimafia e segreto ‘funzionale’: i
documenti li leggeranno solo gli storici”,
in Giurisprudenza costituzionale, 1975,
pagg. 3216 ss.;
F. FENUCCI, I limiti dell’inchiesta
parlamentare, II ed., Milano 1989;
G. FERRARI, “L’inchiesta
parlamentare”, in Annuario
dell’Università degli studi di Parma,
1958-1959, Parma 1959;
G. GRASSO, “Inchieste
parlamentari e audizione di testimoni”, in
Quaderni Giustizia, 61, 1986;
G. LONG, “La pubblicità delle
inchieste parlamentari”, in Bollettino di
informazioni costituzionali e
parlamentari, Camera dei deputati, 3,
1984, pagg.137 ss.;
L. MANNELLI, “Segreto
funzionale e Commissioni parlamentari
di inchiesta”, in Quaderni costituzionali,
6, 1992;
G. MAROTTA, Inchieste
parlamentari in ricerca criminologica e
politica criminale, Roma, Euroma, pagg.
215 ss.;
F. MASTROPAOLO, “La disciplina
dei segreti di Stato e di ufficio e i suoi
riflessi nel processo e nell’inchiesta
parlamentare”, in Rivista Italiana di
Scienze Giuridiche, 1971, pagg. 199 ss.;
R. MORETTI, “Inchiesta
parlamentare”, in Novissimo Digesto
Italiano, Appendice IV, Torino 1983,
pagg. 130 ss.;
R. MORETTI, “Appunti sulla
sindacabilità degli atti delle Commissioni
di inchiesta”, in Le inchieste delle
Assemblee parlamentari, cit., pagg. 177189;
C. MORTATI, V. CRISAFULLI, F.
DELITALA, C. ESPOSITO, M.S.
GIANNINI, G. VASSALLI, “Dibattito
sulle inchieste parlamentari”, in
Giurisprudenza costituzionale, 1959;
A. PACE, Il potere di inchiesta
delle Assemblee legislative. Saggi,
Milano 1973;
A. PACE, “Art. 82”, in
Commentario alla Costituzione, a cura di
G. BRANCA, Bologna-Roma 1979, 303
ss.;
A. PACE, “Atti coattivi ‘esterni’
delle Commissioni parlamentari
d’inchiesta e sindacato giuridizionale”, in
Giurisprudenza costituzionale, 1984, I,
pagg. 660 ss.;
M. PACELLI, “L’inchiesta
parlamentare come strumento di
controllo politico”, in Nuova Rassegna,
1965, 23, pagg. 17 ss.;
B. PAGANUZZI, “Il segreto nelle
Commissioni di inchiesta”, in Il
Parlamento della Repubblica. Organi,
Procedure, Apparati, I, 1987;
C. PAPPAGALLO, “Note sulla
sindacabilità giurisdizionale degli atti
delle Commissioni parlamentari di
inchiesta”, in AA.VV., Le inchieste delle
Assemblee parlamentari, cit., pagg. 167176;
F. PERGOLESI, “In tema di
inchieste parlamentari di pubblico
interesse”, in Studi in onore di F. Crosa,
II, Milano 1969, pagg. 1339 ss.;
F. PIERANDREI, “Inchiesta
parlamentare”, in Novissimo Digesto
Italiano, VIII, Torino 1962, pagg. 513
ss.;
M. PISANI, “Appunti sul segreto
delle Commissioni parlamentari di
inchiesta”, in Giurisprudenza
costituzionale, 1976, pagg. 251 ss.;
F. POSTERARO, “Note sui poteri e
su taluni profili procedurali dell’attività
delle Commissioni parlamentari di
inchiesta”, in AA. VV., Le inchieste delle
Assemblee parlamentari, cit., pagg. 141165;
G. RECCHIA, L’informazione nelle
Assemblee rappresentative. Le inchieste,
Napoli 1979;
G. RECCHIA, “Le inchieste
parlamentari e le garanzie fondamentali
del cittadino”, in AA. VV., Le inchieste
delle Assemblee parlamentari, Rimini
1985, pagg. 17-44;
G. SAMMARCO, “Se ai fini
dell’articolo 368 c.p. le Commissioni
parlamentari d’inchiesta sono autorità
aventi l’obbligo di riferire all’autorità
giudiziaria”, in Giustizia penale, 1966,
II, pagg. 988 ss.;
301
G. SEVERINI, “Commissione
parlamentare d’inchiesta e Tribunale
della libertà”, in Cassazione penale,
Massimario annotato, 1985, pag. 34;
G. SILVESTRI, “Considerazioni sui
poteri e i limiti delle Commissioni
parlamentari di inchiesta”, in Il Politico,
1970, 3, pag. 358 ss.;
A. TESAURO, “Il potere di
inchiesta delle Camere del Parlamento”,
in Rassegna di diritto pubblico, 1958, I,
pagg. 511 ss.;
C. A. TESTI, “Ancora sui rapporti
tra autorità giudiziaria ordinaria e
Commissione parlamentare di inchiesta”,
in Giustizia penale, 1977, I, pagg. 206
ss.;
G. TROCCOLI, “Le Commissioni
parlamentari di inchiesta nell’esperienza
repubblicana”, in AA. VV., Le inchieste
delle Assemblee parlamentari, cit., pagg.
45-102;
302
P. VIRGA, “Dibattito sulle inchieste
parlamentari”, in Giurisprudenza
costituzionale, 1959;
P. VIRGA, “Inchieste parlamentari
e inchieste governative”, in Rassegna di
Diritto Pubblico, 1950, II, pagg. 916 ss.;
P. VIRGA, “Le inchieste
parlamentari”, in Annali del Seminario
giuridico dell’Università di Catania,
1949-1950, IV, pagg. 252 ss.
Giurisprudenza
CORTE COSTITUZIONALE:
sentenza n. 13 del 21 gennaio 1975;
sentenza n. 231 del 22 ottobre 1975;
ordinanze nn. 228 e 229 del 17 maggio
1975.
CORTE DI CASSAZIONE, Sezioni
Unite penali, sentenza 12 marzo 1983, in
Foro Italiano.
INDICE
Presentazione
Franco Cazzola – Regione Toscana
Prefazione
Franco Cambi
FONDAMENTI
3
11
NORMATIVI
E PRASSI DELL’INCHIESTA
PARLAMENTARE
17
1. Carattere parlamentare
dell’ordinamento istituzionale
italiano
18
2. Il controllo del Parlamento
19
3. Potere di inchiesta del Parlamento:
fondamento giuridico
19
4. Modalità della istituzione
delle Commissioni di inchiesta
21
5. Poteri delle Commissioni
di inchiesta
22
6. Autonomia in rapporto al fine
della Commissione di inchiesta
24
7. Classificazione delle inchieste
parlamentari
26
8. Procedimento per la deliberazione
delle inchieste parlamentari
9. Composizione delle
Commissioni di inchiesta
10. Disciplina dell’attività delle
Commissioni di inchiesta
11.Regime archivistico dei
documenti
LE
27
28
29
29
INCHIESTE DEL
PERIODO REPUBBLICANO
31
ANTOLOGIA
PERCORSI
DI LETTURA
43
COMMISSIONI
PARLAMENTARI DI
INCHIESTA SULLA MAFIA
53
Dalla relazione conclusiva della
Commissione della XI legislatura
(relatore Violante)
57
303
COMMISSIONE
Dai documenti allegati
235
PARLAMENTARE DI
INCHIESTA SUGLI EVENTI
DI GIUGNO-LUGLIO
1964
COMMISSIONE
(SIFAR)
81
Dalla relazione (relatore Alessi)
Dalla relazione di minoranza
(relatore Terracini)
85
PARLAMENTARE DI
INCHIESTA SUL TERRORISMO
E SULLE CAUSE DELLA
MANCATA INDIVIDUAZIONE
DEI RESPONSABILI
101
DELLE STRAGI
Dai documenti
Dalla relazione sulla tragedia
di Ustica
COMMISSIONE
PARLAMENTARE DI
INCHIESTA SUI FENOMENI
247
251
265
DI CRIMINALITÀ IN
SARDEGNA
113
Dalla relazione (relatore Medici)
Dalla relazione di minoranza
(relatore Pazzaglia)
117
COMMISSIONE
PARLAMENTARE DI
INCHIESTA SULLA
ATTUAZIONE DEGLI
129
INTERVENTI PER LA
RICOSTRUZIONE E LO
SVILUPPO DEI TERRITORI
COMMISSIONE
DELLA
PARLAMENTARE DI
DELLA
INCHIESTA SULLA STRAGE
DAI TERREMOTI
DI
VIA FANI,
SUL
ALDO MORO
141
ITALIA
Dagli allegati alla relazione.
Resoconti stenografici delle sedute
della Commissione:
– audizione di Eleonora Moro
– audizione di Alfredo Carlo Moro
– audizione di Valerio Morucci
145
162
167
COMMISSIONE
PARLAMENTARE DI
INCHIESTA SUL CASO
SINDONA
E SULLE
RESPONSABILITÀ POLITICHE
ED AMMINISTRATIVE AD
ESSO EVENTUALMENTE
181
CONNESSE
Dalla relazione conclusiva
(relatore Azzaro)
Dalla relazione di minoranza
(relatore G. D’Alema)
185
195
COMMISSIONE
PARLAMENTARE DI
INCHIESTA SULLA LOGGIA
MASSONICA
P2
Dalla relazione (relatore Anselmi)
304
E FEBBRAIO
283
E SUL
TERRORISMO
IN
1980
1981
DEL NOVEMBRE
SEQUESTRO E L’ASSASSINIO
DI
BASILICATA E
CAMPANIA COLPITI
217
221
Stralcio della deliberazione con
la quale la Commissione
ha approvato la relazione
(relatore Scàlfaro)
287
BIBLIOGRAFIA
299
305
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
306
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
307
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
308
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
309
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
310
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
311
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
312
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
313
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
314
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
315
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
316
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
317
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
318
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
319
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
320
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
321
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
322
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
323
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
324
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
325
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
326
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
di un decennio.
Presentazione
Franco Cazzola – Regione Toscana
Prefazione
Franco Cambi
11
NORMATIVI
LE
INCHIESTE DEL PERIODO REPUBBLICANO
ANTOLOGIA
PERCORSI
43
DI LETTURA
COMMISSIONI
PARLAMENTARI
DI INCHIESTA SULLA MAFIA
53
Dalla relazione conclusiva della Commissione
della XI legislatura (relatore Violante): Il lavoro della Commissione
57
COMMISSIONE
PARLAMENTARE DI INCHIESTA
SUGLI EVENTI DI GIUGNO-LUGLIO
(V
1964 (SIFAR),
81
LEGISLATURA)
Dalla relazione (relatore Alessi): Le fasi di elaborazione del “Piano Solo”
Dalla relazione di minoranza (relatore Terracini): I fascicoli del Sifar
COMMISSIONE
SARDEGNA
113
LEGISLATURA)
Dalla relazione (relatore Medici): Genesi e caratteristiche della criminalità
Dalla relazione di minoranza (relatore Pazzaglia): Le origini del fenomeno
COMMISSIONE
85
101
PARLAMENTARE DI INCHIESTA
SUI FENOMENI DI CRIMINALITÀ IN
(V
Mafia
18
19
19
21
22
24
26
27
28
29
29
31
Criminalità SIFAR
Sardegna
1. Carattere parlamentare dell’ordinamento istituzionale italiano
2. Il controllo del Parlamento
3. Potere di inchiesta del Parlamento: fondamento giuridico
4. Modalità della istituzione delle Commissioni di inchiesta
5. Poteri delle Commissioni di inchiesta
6. Autonomia in rapporto al fine della Commissione di inchiesta
7. Classificazione delle inchieste parlamentari
8. Procedimento per la deliberazione delle inchieste parlamentari
9. Composizione delle Commissioni di inchiesta
10. Disciplina dell’attività delle Commissioni di inchiesta
11. Regime archivistico dei documenti
17
Moro
PARLAMENTARE
Sindona
E PRASSI DELL’INCHIESTA
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
FONDAMENTI
3
117
129
PARLAMENTARE DI INCHIESTA
SULLA STRAGE DI
E L’ASSASSINIO DI
VIA FANI, SUL
ALDO MORO
SEQUESTRO
327
328
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
329
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
(22) Si tratta dei massoni che non partecipano più ai lavori della loggia e che non pagano le quote
associative.
330
331
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
332
Terremoto Terrorismo P2
Basilicata
Campania
Sindona
Moro
Criminalità SIFAR
Sardegna
Mafia
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