Nuova Macroeconomia Keynesiana: una scuola contemporanea

Nuova Macroeconomia Keynesiana: una scuola contemporanea
Roberto Ricciuti
1. Introduzione
Dopo essere stato, nella versione IS-LM, il paradigma dominante nella teoria economica negli
anni ’50 e ’60, la macroeconomia keynesiana è stata messa in crisi da un attacco che proveniva da
due fronti diversi. Dal punto di vista metodologico, il modello di sintesi keynesiana veniva attaccato
per la mancanza di fondazioni microeconomiche del comportamento delle variabili aggregate. Dal
punto di vista predittivo, il modello si dimostrava incapace di spiegare alcuni dei fenomeni
macroeconomici degli anni ’70, in particolare l’aumento dell’inflazione e la contemporanea
diminuzione dell’occupazione, in contrasto con la curva di Phillips, che faceva coerentemente parte
di quel sistema interpretativo. L’attacco alla sintesi keynesiana era stato portato dapprima da
Friedman, in seguito dalla Nuova Macroeconomia Classica (Lucas, Sargent, Wallace).
Diverse sono state le risposte a questa crisi del modello keynesiano: da una parte gli
economisti post-keynesiani hanno cercato di reinterpretare Keynes mostrandone l’inconciliabilità
con il paradigma neoclassico e quindi la fallacia del modello IS-LM. Dall’altra, la risposta della
Nuova Macroeconomia Keynesiana è stata fondamentalmente diversa: essa ha affrontato l’attacco
neoclassico sullo stesso terreno su cui esso era stato lanciato, riuscendo a microfondare
rigorosamente le proposizioni della macroeconomia keynesiana.
L’espressione New Keynesian Theory è stata utilizzata per la prima volta da Parkin (1982),
mentre l’espressione New Keynesian Macroeconomics è stata utilizzata per la prima volta in un
articolo scientifico da Ball et al. (1988). Nel prosieguo del lavoro verranno utilizzate sia
l’espressione Nuovi Keynesiani che Nuova Macroeconomia Keynesiana senza preferenze, pur
ritenendo entrambe non completamente soddisfacenti. La prima, infatti enfatizza il collegamento
con il pensiero di Keynes e le sue successive interpretazioni, cosa che si mostrerà nel seguito essere
non vera, soprattutto nel rapporto con i Post-Keynesiani. La seconda risulta piuttosto enfatica e tale
da ingenerare l’idea di una completa ricostruzione dell’edificio teorico keynesiano1.
All’interno della Nuova Macroeconomia Keynesiana, è possibile distinguere due correnti di
pensiero: una europea ed una americana. Queste si caratterizzano per una diversa enfasi sulle
determinanti della lentezza dei prezzi ad adeguarsi agli shock. La scuola europea (che possiamo
sintetizzare nei nomi di Blanchard, Nickell e Layard) considera principalmente imprese
oligopolistiche sul mercato dei beni che contrattano con i sindacati sul livello di salario reale. Il
tema che diventa centrale in questa prospettiva è la divisione del prodotto per lavoratore tra salario
che va al lavoratore stesso, profitto percepito dall’impresa ed introiti fiscali ottenuti dal governo, ed
il conflitto distributivo che ne deriva. La scuola americana (Romer, Ball e Mankiw) affronta come
problema principale quello di trovare una rigorosa motivazione microeconomica all’inerzia
2
nominale, basata in primo luogo sul costo di modificare continuamente i prezzi. Questa differenza
sembra fondarsi sulla diversa struttura della contrattazione salariale tra Europa e Stati Uniti: nella
prima, infatti, il ruolo del sindacato, sia dal punto di vista del livello di sindacalizzazione, che dal
punto di vista di una maggiore centralizzazione della contrattazione, è sensibilmente superiore a
quello degli Stati Uniti. Anche l’enfasi sui problemi posti da queste due diverse vie è diversa: gli
europei privilegiano l’analisi delle ragioni della disoccupazione (rinvenute principalmente nella
concorrenza imperfetta sul mercato del lavoro e dei beni) e della sua persistenza nel medio termine,
mentre gli Statunitensi privilegiano lo studio delle ragioni per cui i prezzi nominali si modificano
lentamente in risposta a cambiamenti della domanda. Le due analisi si sovrappongono dal punto di
vista analitico, ma vengono svolte separatamente e spesso senza un reciproco riconoscimento
(Mankiw e Romer, 1991; Carlin e Soskice, 1990). Anche in questo caso, il maggiore interesse degli
studiosi europei al problema della disoccupazione è motivato dal fatto che strutturalmente la
disoccupazione negli ultimi venti anni è stata superiore in Europa rispetto agli USA.
Gli obiettivi di questo lavoro sono i seguenti: in primo luogo ci proponiamo di mostrare come
la Nuova Macroeconomia Keynesiana sia una teoria in grado di ricondurre ad unità una serie di
analisi parziali sulle imperfezioni dei mercati. In secondo luogo cercheremo di mostrare una sorta di
dipendenza funzionale che lega le Nuova Macroeconomia Keynesiana a quella Classica. I primi,
infatti, fanno propria la critica di Lucas sintetizzata nella frase che imputa agli agenti dei modelli
keynesiani di “lasciare 500 dollari sul marciapiede” cercando di ricreare nel mondo degli agenti
ottimizzanti e della concorrenza perfetta dei Nuovi Classici i problemi che Keynes aveva
evidenziato nel laissez-faire dominante all’epoca della Grande Depressione. E’ nostra opinione che
questo tentativo sia stato accompagnato dal successo, anche se al costo di sensibili differenze
rispetto a Keynes ed alle sue successive reinterpretazioni. Infine, vengono considerate le differenze
che intercorrono tra i Nuovi Keynesiani europei e quelli statunitensi.
Il lavoro è idealmente diviso in due parti: nella prima (parr. 2-5) vengono considerati gli
strumenti analitici della Nuova Macroeconomia Keynesiana, nella seconda (parr. 6-8) vengono
evidenziate le principali differenze sia con il modello keynesiano e le successive interpretazioni di
Keynes, sia con i modelli di Friedman e della Nuova Macroeconomia Classica e ne viene fornita
una valutazione generale.
1
E’ appena il caso di ricordare che l’espressione “neo-keynesiani” indica la sintesi neoclassico-keynesiana iniziata da
3
2. Concorrenza imperfetta
La concorrenza imperfetta è un ingrediente centrale per ottenere i risultati della Nuova
Macroeconomia Keynesiana, per questo motivo ne anticipiamo la discussione rispetto ad altri temi
che costituiscono la parte più originale di questa teoria. Dal punto di vista teorico, infatti, in un
mercato perfettamente concorrenziale, in cui gli agenti agiscono come price-takers, per definizione
non è possibile immaginare difficoltà nell’aggiustare i prezzi. Solo imprese price-setters hanno una
certa discrezionalità nel fissare i prezzi. Inoltre la diversa enfasi che gli economisti statunitensi ed
europei che pure appartengono a questa Scuola pongono su questo tema rappresenta la principale
differenza tra le loro interpretazioni. Per i primi, la concorrenza imperfetta ha un suo ruolo specifico
nel determinare alcune implicazioni keynesiane, ma anche un ruolo ausiliario nel rafforzare gli
effetti delle rigidità nominali e reali e del fallimento del coordinamento. Per i secondi il ritorno
keynesiano è tutto giocato attorno alla questione della concorrenza imperfetta sul mercato dei beni e
del lavoro.
I modelli più rilevanti in questa letteratura che si concentra sugli effetti aggregati della
concorrenza imperfetta sono quelli di Hart (1982) e Blanchard e Kiyotaki (1987). Consideriamo un
modello in cui vi sia concorrenza monopolistica sul mercato dei beni e contrattazione tra imprese e
lavoratori sul mercato del lavoro e supponiamo, per quanto riguarda il mercato dei beni, che la
curva di domanda per ogni impresa sia:
y i = d ( p i / p )Q
dove pi indica il prezzo praticato da ogni impresa, p è livello generale dei prezzi, e Q la domanda
aggregata. Queste ultime sono esogene per le singole imprese. La funzione di produzione è una
Cobb-Douglass:
Yi = (λLi / K i )α
dove λ rappresenta il progresso tecnico incorporato nel lavoro, L è il lavoro, Y la produzione e K il
capitale. La nota condizione di primo ordine per la massimizzazione del profitto è data da:
p i (1 − 1 / e) / w = Li / Yi
Hicks e che ha rappresentato l’ortodossia nella teoria economica negli anni ’50 e ’60.
4
dove e indica l’elasticità della produzione rispetto alla domanda, e quindi il grado di monopolio di
quell’impresa sul proprio mercato. Nel mercato del lavoro ogni sindacato j massimizza il salario
nominale. In aggregato assumiamo che imprese e sindacati massimizzino la media ponderata tra
l’utilità dei sindacati (Uj) ed i profitti delle imprese (πi):
Max(Uj – Z)g πi,
dove Z è il livello minimo di utilità dei membri del sindacato e i profitti minimi delle imprese sono
pari a zero. Il parametro g riflette il potere del sindacato nella contrattazione. Il processo di
contrattazione è influenzato dalla possibilità di ottenere un altro lavoro (v(u))2, pagato al salario
aggregato w, sul mercato e da quella di diventare disoccupato ottenendo un sussidio (b). Attraverso
successive manipolazioni si ottiene la seguente equazione che rappresenta il tasso naturale di
disoccupazione, cioè il livello di disoccupazione al quale il salario reale determinato dal wage
setting è uguale al salario reale determinato nel mercato del lavoro:
f ' (λL / K)λ(1−1/ e)[1+ v(u)(1−b)g + (1−α) / α] = Y / L
Il tasso di disoccupazione di equilibrio dipende positivamente dai sussidi, dal potere dei
sindacati, dal potere di monopolio delle imprese sul mercato dei beni e dalla proporzione tra i fattori
produttivi, ma non dalla tassazione e dalla domanda aggregata. Graficamente, possiamo
rappresentare la curva di offerta di lavoro (LS) e quella di domanda di lavoro (LD) che discendono
W/P
WS
LS
MC
PC
LD
PS
LM
2
LC
L
La probabilità di trovare un nuovo lavoro dipende negativamente dal livello della disoccupazione (u).
5
dalla massimizzazione di individui ed imprese in mercati perfettamente concorrenziali ed il punto di
intersezione tra esse (PC), cui corrisponde la piena occupazione pari a LC. Accanto a queste,
spostate entrambe verso sinistra, possiamo rappresentare le curve price setting (PS) e wage setting
(WS). L’intersezione tra PS e WS indica l’equilibrio in concorrenza monopolistica (MC), cui
corrisponde l’occupazione pari a LM. La differenza tra LM ed LC rappresenta la disoccupazione
involontaria presente nell’economia3.
Il modello di concorrenza imperfetta della scuola europea (Layard et al., 1991) da una parte
costituisce un caso particolare di quello analizzato precedentemente, dall’altro consente di
affrontare il tema del conflitto distributivo tra profitti, salari ed introiti fiscali tra imprese, lavoratori
e Stato sul prodotto per lavoratore. L’apparato analitico di questo approccio si basa sulla curve del
salario reale determinato dal prezzo (PRW) e del salario reale contrattato (BRW). La prima è
orizzontale: in concorrenza imperfetta al crescere dell’occupazione il salario reale determinato sul
mercato dei beni è costante, mentre la BRW è crescente, perché al crescere dell’occupazione il
potere contrattuale del sindacato nei confronti delle imprese aumenta. L’intersezione di queste
curve determina il livello di occupazione di equilibrio (EN), e la differenza tra la forza lavoro
disponibile (LF) ed il suddetto livello di occupazione rappresenta la disoccupazione di equilibrio.
W/P
BRW
PRW
EN
LF
L
Al tasso di disoccupazione di equilibrio le richieste sul prodotto pro-capite sono compatibili,
quando è inferiore, queste sono incompatibili e l’inflazione aumenta. Per questo motivo in questo
modello il suddetto tasso viene chiamato NAIRU (non-accelerating inflation rate of
unemployment). Infatti i lavoratori sono nelle condizioni di chiedere aumenti salariali superiori
all’inflazione attesa, imponendo alle imprese di aumentare i propri prezzi più dell’inflazione attesa
3
La concorrenza monopolistica riduce inequivocabilmente la quantità di lavoro occupata, ma non permette di dire nulla
sul salario reale, che può essere minore o maggiore (come nella figura) rispetto a quello ottenuto in regime di perfetta
concorrenza.
6
per salvaguardare i margini di profitto e determinando così una inflazione crescente4. Il NAIRU non
coincide con la piena occupazione delle risorse, vi è quindi disoccupazione involontaria e può
essere ridotto con alcuni strumenti di politica economica che discuteremo nel par 5.
3. Aggiustamento nominale incompleto
In questo paragrafo vengono analizzate le ragioni di carattere nominale che portano
all’aggiustamento nominale incompleto in seguito ad uno shock monetario: menu costs, asincronia
contrattuale e rigidità reali. Questi fattori non possono singolarmente presi essere visti come la
causa delle fluttuazioni, ma tendono a rafforzarsi a vicenda, ed in particolare ha un ruolo
amplificativo la concorrenza imperfetta sui mercati dei beni e del lavoro.
3.1 Rigidità nominale
Per rigidità nominale si intende l’inerzia al cambiamento delle variabili nominali di
un’economia. La principale ragione che la Nuova Macroeconomia Keynesiana fornisce per questa
inerzia risiede nei menu costs, cioè il costo sopportato per cambiare il prezzo nominale di un bene.
Sebbene dal nome si è portati ad interpretarli come i costi derivanti dal cambiamento fisico dei
listini dei prezzi, è opportuno estenderli al costo-opportunità del tempo e delle risorse impiegate
nella ricerca ed elaborazione delle informazioni concernenti la domanda aggregata, il
comportamento dei concorrenti ed altri fattori che determinano i costi di produzione. Nel modello di
Mankiw (1985) per una impresa monopolistica che fissa i prezzi per il periodo successivo, in
conseguenza di una riduzione inattesa della domanda aggregata, il prezzo praticato (po) è superiore
a quello che massimizza i profitti (pm), e quindi i profitti dell’impresa saranno più bassi di un valore
pari all’area B – A, che è una grandezza positiva per definizione di pm. Il surplus totale è invece
ridotto di B + C, quindi la riduzione di benessere dovuta ad una contrazione della domanda
aggregata è maggiore della riduzione dei profitti dell’impresa. Supponiamo che l’impresa possa
cambiare i prezzi ex-post incorrendo in un costo fisso pari a z, in questo modo riduce il prezzo da po
a pm ed ottiene profitti addizionali pari a B – A. Questa decisione verrà adotta solo se B – A > z,
mentre dal punto di vista di un pianificatore sociale il cambiamento del prezzo deve avvenire
fintanto che B + C > z. Poiché nella seconda relazione il termine di sinistra è più grande di quello
della prima relazione, il pianificatore ha un incentivo a cambiare il prezzo maggiore di quello
dell’impresa, a parità di costo fisso z. La rigidità dei prezzi verso il basso deriva dal beneficio
esterno B + C originato dallo stampare nuovi menu. La misura di questa esternalità è data dal
4
Anche se il tasso di disoccupazione è superiore a quello di equilibrio si determina una situazione di incompatibilità tra
le richieste delle imprese e quelle dei sindacati, ma l’inflazione sarà decrescente.
7
rapporto tra il beneficio sociale derivante dall’aggiustamento dei prezzi (C + B) ed il beneficio
privato B – A. Poiché l’impresa aggiusta il prezzo fino al livello che massimizza il profitto, pm,
piuttosto che al livello di first-best concorrenziale k, l’incremento dei profitti è di secondo ordine
mentre l’incremento di benessere è di primo ordine5, 6.
p
po
pm
A
C
B
k
qo
qm
q
3.2 Asincronia nei contratti
Consideriamo un’impresa in regime di concorrenza monopolistica che fronteggia una
domanda data da:
−θ
P  M 
yi =  i    ,
P  P
dove P è il livello generale dei prezzi (esogeno per ogni impresa), Pi il prezzo di ogni impresa e la
domanda aggregata è rappresentata dalla moneta reale. L’impresa massimizza i propri profitti reali e
prendendo i logaritmi si ottiene:
pi = p + a(m − p) + c
5
Ad esempio, a seguito di una contrazione della domanda aggregata dell’1%, se l’elasticità della domanda rispetto al
prezzo è uguale a 10, il suddetto rapporto è pari a 23.
6
Nel modello di Akelorf e Yellen (1985) la spiegazione della rigidità nominale è leggermente diversa: essa non è
dovuta al fatto che sia costoso modificare i prezzi, ma che i guadagni derivanti da questo cambiamento siano talmente
piccoli tali da rendere quasi-razionale la scelta di non modificarli.
8
dove c è una costante arbitraria e le lettere minuscole indicano i logaritmi delle variabili introdotte
precedentemente. Supponiamo che l’economia sia formata da due gruppi di imprese che fissano il
loro prezzo per due periodi, per l’esistenza di contratti. I due gruppi sono uguali per tutti gli aspetti
tranne che per il fatto che uno fissa i prezzi nei periodi pari e l’altro in quelli dispari (staggering).
La circostanza che in questa economia vi sia concorrenza imperfetta è rappresentata dalla prima
equazione precedente, in cui la domanda dipende dai prezzi relativi e dalla domanda aggregata.
Indicando con p1 e p2 i logaritmi del livello dei prezzi di ogni gruppo, la moneta reale è data da m –
(p1 + p2)/2. Se ogni gruppo potesse modificare il proprio prezzo in ogni periodo, i prezzi del primo
gruppo sarebbero dati da:
p1t = p 2 t + 2 a{E [m t ]− ( p1t + p 2t ) / 2} .
Se la domanda aggregata non fosse importante (a = 0), un gruppo seguirebbe l’altro nel cambiare i
prezzi: ad esempio, se mt e p2t raddoppiassero, anche p1t farebbe lo stesso7. Supponiamo che mt = 0
fino al tempo T, e che vi sia uno shock per cui mT+ i = 1, per ogni i > 0. L’aumento della moneta al
tempo T non è atteso, ma una volta avvenuto gli agenti si aspettano che continui nel tempo.
L’influenza dell’incremento della moneta sulla produzione è persistente. Si ha, così, un effetto
keynesiano anche se per ragioni completamente diverse. In questo modello, infatti, le aspettative
sono razionali e le imprese di un gruppo non possono cambiare i propri prezzi perché quelli
dell’altro gruppo sono fissi nel periodo, per ipotesi. Le imprese cambiano il prezzo in maniera
graduale portandolo ad un livello non ottimale, e questo determina un effetto di trascinamento dello
shock dell’offerta di moneta sul livello di produzione. Se vi fosse aggiustamento completo uno dei
due gruppi si troverebbe fuori mercato, lasciando l’intera domanda all’altro8.
3.3 Rigidità reale
Secondo Ball e Romer (1990) le rigidità nominali non sono in grado di spiegare
l’aggiustamento nominale incompleto se non per valori non realistici dei parametri del modello, ad
esempio un’offerta di lavoro fortemente elastica. Allo stesso modo le rigidità reali, cioè la scarsa
risposta del salario reale e dei prezzi reali a modificarsi a seguito di cambiamenti dell’attività
economica, possono spiegare solo in piccola parte il precedente fenomeno. Se, invece, questi due
fattori vengono combinati si può ottenere una plausibile spiegazione dell’aggiustamento nominale
7
Chiaramente, per la determinazione di p2t esiste un’equazione simile.
Si noti che se non vi fosse concorrenza imperfetta (b = 0), si verificherebbe che yT+i = 0 per i > 0. Ovvero, la
produzione aumenterebbe solo per un periodo, un tempo inferiore alla durata del contratto.
8
9
incompleto. La ragione è la seguente: la rigidità dei prezzi dopo uno shock nominale è un equilibrio
di Nash se per una impresa il guadagno derivante dalla variazione del suo prezzo nominale è minore
del costo sostenuto per modificare il prezzo stesso, posto che le altre imprese non modifichino i
propri prezzi nominali. Se le altre imprese non modificano i loro prezzi, il cambiamento del prezzo
nominale da parte di un’impresa rappresenta un cambiamento del prezzo reale da essa praticato.
Inoltre, se gli altri prezzi non cambiano, uno shock nominale modifica la domanda aggregata reale.
La rigidità nominale è quindi un equilibrio se il guadagno di un’impresa derivante dal modificare il
proprio prezzo reale in risposta ad un cambiamento della domanda aggregata reale è minore del
costo sopportato per modificare il prezzo. Se l’impresa desidera modificare in maniera limitata il
proprio prezzo reale, ovvero vi è un grado elevato di rigidità reale, allora il guadagno per l’impresa
derivante da questo cambiamento è limitato. Poiché la rigidità reale riduce il guadagno ottenuto
grazie all’aggiustamento del prezzo, essa aumenta l’ampiezza degli shock nominali per i quali non
modificare i prezzi rappresenta un equilibrio.
In generale l’analisi della Nuova Macroeconomia Keynesiana prescinde dalle singole fonti di
rigidità reale avendo come oggetto più i loro effetti che la loro origine. Queste possono essere
comunque identificate nel mercato del lavoro, del credito e dei beni, riconducendo così le analisi
microeconomiche di quei mercati ad una più complessiva analisi macroeconomica. Sul mercato del
lavoro la teoria dei salari di efficienza ha mostrato che le imprese possono essere indotte a pagare ai
lavoratori un salario superiore alla loro produttività marginale per scoraggiare il loro
comportamento opportunistico (Shapiro e Stiglitz, 1984) o per ridurre i costi di rotazione derivante
dal turn-over volontario dei lavoratori (Salop, 1979). In questo modo viene trovata una
giustificazione microeconomica all’esistenza di disoccupazione involontaria.
Sul mercato del credito, a partire dal contributo di Stiglitz e Weiss (1981), una vasta
letteratura ha analizzato i vincoli che impediscono a chiunque ne faccia richiesta di prendere a
prestito al tasso di interesse prevalente. Esistono forti asimmetrie informative tra chi presta e chi
ottiene denaro sulla qualità del progetto, sullo sforzo impegnato, sui guadagni ottenuti: per questo le
banche tendono a cautelarsi facendo credito solo a chi ha solide garanzie reali (razionamento del
credito). Gli effetti macroeconomici di questi problemi a livello micro del mercato del credito
riguardano principalmente la riduzione della domanda aggregata ed una minore velocità nel
meccanismo di trasmissione della politica monetaria.
La rigidità sul mercato dei beni non va confusa con la concorrenza imperfetta sul mercato dei
beni, in quanto riguarda il comportamento contro-ciclico del mark-up. Tra le possibili spiegazioni di
questo fenomeno possiamo citarne due: la possibilità che un elevato livello dell’attività economica
riduca l’importanza dei costi di acquisizione e disseminazione delle informazioni (thick-market
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effect); la possibilità che un elevato livello dell’attività economica incrementa i profitti e rende più
difficile il loro comportamento collusivo, riducendo il mark-up.
In conclusione, è utile citare l’interpretazione che Blanchard e Kiyotaki (1987) forniscono
della rigidità nominale attraverso il concetto di esternalità, che la teoria economica utilizza
comunemente per spiegare i fallimenti del mercato. Come nel caso in cui vi siano esternalità il costo
(beneficio) individuale è diverso da quello collettivo per cui vi è un’offerta non ottimale di un certo
bene, la rigidità nominale provoca una discrasia tra il costo limitato che l’impresa deve sopportare
per modificare il proprio prezzo, e l’elevato costo collettivo derivante da una recessione. In questo
modo un ormai classico strumento dell’analisi economica delle imperfezioni del mercato viene
utilizzato in macroeconomia, attraverso la nozione di “esternalità della domanda aggregata”. Come
nell’esempio precedente, supponiamo che la domanda per il prodotto dell’impresa i dipenda dal
prezzo relativo praticato dall’impresa e dalla moneta reale:
Yi
D
 M   Pi 
=


 P  P 
−∈
.
Se M diminuisce e l’impresa i non modifica il prezzo, la natura di costo di secondo ordine del
mancato aggiustamento lascia immodificato il prezzo relativo. La riduzione della moneta nominale
e la rigidità di P comportano una riduzione di primo ordine della moneta reale, con la conseguenza
di ridurre la domanda aggregata e quindi la domanda per ogni impresa. Ognuna di queste considera
trascurabile il costo dell’aggiustamento, ma così facendo determina una riduzione della domanda
aggregata con effetti negativi per tutte le imprese. L’esternalità della domanda aggregata deriva dal
fatto che ogni impresa è solo una piccola parte dell’economia ed ignora i benefici macroeconomici
delle proprie azioni.
4. Fallimenti del coordinamento
Una diversa via di ricerca all’interno della Nuova Macroeconomia Keynesiana, è
rappresentata dai coordination failures. L’esempio più rilevante è dato dal modello di Cooper e
John (1988). In esso vi sono diversi equilibri tra loro Pareto-ordinabili, e le fluttuazioni economiche
avvengono come movimenti dell’economia tra questi diversi equilibri. Ogni agente sceglie un certo
livello di produzione, prendendo quello degli altri come un dato. Gli agenti sono identici, la
funzione di utilità di ognuno è Ui = V(yi,y), dove yi indica la scelta dell’agente i-esimo, y
rappresenta la scelta di tutti gli altri, e y*i(y) è la corrispondente funzione di reazione individuale.
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Nel grafico sottostante questa funzione interseca la retta inclinata a 45°, che rappresenta i punti in
cui valori attesi e realizzati coincidono, in tre punti diversi, che corrispondono a tre diversi equilibri.
B
y*
y*i(y)
A
C
45°
y
Il punto A è instabile: se gli agenti si aspettano che il livello della produzione sia leggermente
superiore a quello ad esso corrispondente, ognuno di loro produrrà più di quanto ognuno aspetti che
l’altro produca, e l’economia tende a spostarsi lontano da esso. Gli equilibri B e C, invece, sono
stabili. In presenza di equilibri multipli non sono solo i fondamentali dell’economia a determinarne
i risultati finali: se gli agenti si aspettano che l’equilibrio dell’economia sia C, essa raggiungerà
quell’equilibrio; se invece l’equilibrio atteso è B, questo sarà il punto di arrivo dell’economia. In
questo modo, animal spirits, “profezie che si autorealizzano” e sunspots9 hanno effetti sul livello di
produzione aggregata.
In questi modelli di fallimento del coordinamento l’economia può trovarsi bloccata in un
equilibrio di sotto-occupazione, come C, perché tutti pensano che quello debba essere il suo punto
di arrivo, e non vi sono forze naturali di mercato in grado di portarla ad un equilibrio Paretosuperiore. In questo modo è possibile per il governo attuare politiche di intervento che modifichino
le aspettative degli agenti riportando il sistema ad un equilibrio di piena occupazione (ad esempio,
spostando l’economia da C a B).
Questa letteratura riveste una posizione piuttosto originale nell’ambito dei modelli della
Nuova Macroeconomia Keynesiana. Essa infatti si distanzia dal filone delle rigidità nominali e reali
in primo luogo perché assume esplicitamente di non essere una teoria che si basa sull’equilibrio
economico generale walrasiano; in secondo luogo perché porta al centro della sua analisi il ruolo
delle aspettative che nei modelli di inerzia non vengono considerati. Non deve, però, essere vista in
12
contrapposizione con la teoria esposta precedentemente perché enfatizza quegli aspetti di esternalità
e di interrelazione tra i soggetti che fanno già parte delle teorie dell’aggiustamento nominale
incompleto. Un aspetto che sembra importante è la possibilità di utilizzare i temi del ruolo delle
aspettative e dei loro effetti, nati principalmente nella teoria dei mercati finanziari, per la
spiegazione di fenomeni macroeconomici.
5. Implicazioni di politica economica
Una delle principali differenze tra Keynesiani e Nuovi Keynesiani è quella che questi ultimi
non hanno univoche implicazioni di politica economica, come quella riguardante le politiche di
stimolo della domanda aggregata, tipica del keynesismo. Anche in questo caso è possibile rinvenire
due diverse ispirazioni, una Statunitense ed una Europea. In generale la prima ha una posizione
agnostica, favorevole per alcuni economisti, contraria per altri. Le ragioni che militano a favore di
una politica interventista sono state evidenziate nei paragrafi precedenti, e risiedono nella lentezza
con cui le variabili economiche si adeguano alla mutata situazione della domanda, bloccando
l’economia in una situazione di ridotto benessere collettivo. La principale ragione che milita contro
una politica della domanda aggregata è che da una parte il mancato aggiustamento dei prezzi in
risposta ad una riduzione della domanda provoca una forte riduzione della produzione e del
benessere, dall’altra il mancato aggiustamento in risposta ad un aumento della domanda porta a
maggiore produzione e maggiore benessere. Da qui, la desiderabilità di una politica attiva che
riducendo le fluttuazioni reali riduca anche quelle del benessere medio è dubbia. Inoltre Ball e
Romer (1989) hanno mostrato che gli effetti di primo ordine delle fluttuazioni hanno media zero, e
quindi in questo caso l’argomentazione “effetti del primo ordine vs. effetti del secondo ordine” non
può essere utilizzata. Infine, l’argomentazione contro le politiche attive del governo per la
stabilizzazione delle fluttuazioni, basate sui lag lunghi e variabili con cui le politiche di espansione
della domanda hanno effetto, rimangono valide anche nel contesto della Nuova Macroeconomia
Keynesiana.
Di fatto una efficace politica economica secondo i Nuovi Keynesiani statunitensi dovrebbe
essere una politica dell’offerta volta a ridurre le rigidità presenti nell’economia: promozione della
concorrenza sul mercato dei beni e riduzione del ruolo del sindacato. E’ evidente come queste
prescrizioni di politica economica facciano il paio con quelle della Nuova Macroeconomia Classica.
I Nuovi Keynesiani europei, invece, attribuiscono alla politica economica la possibilità di
rendere compatibili le richieste delle imprese e dei lavoratori ad un tasso di disoccupazione inferiore
al NAIRU, cioè spostando verso il basso la curva BRW e/o verso l’alto la curva PRW. Dal lato
9
Si hanno sunspot equilibria quando alcune variabili che non hanno effetti diretti sull’economia finiscono con l’averne
13
dell’offerta si può intervenire in due modi: riducendo l’imposizione fiscale, cioè la quota di
prodotto per lavoratore che va allo stato e aumentando la spesa per la formazione professionale. Nel
primo caso le richieste del settore privato (lavoratori ed imprese) sul prodotto pro-capite possono
essere compatibili ad un più elevato livello di occupazione, in quanto si riducono le richieste dello
stato. Con la spesa in formazione professionale ci si può attendere una diminuzione della
disoccupazione di equilibrio per due ragioni: in primo luogo, la maggiore formazione aumenta la
produttività e sposta la curva PRW verso l’alto; in secondo luogo, aumenta l’offerta di lavoro
effettiva, aumenta il numero di persone in cerca di occupazione, riduce il potere contrattuale della
forza lavoro e quindi sposta la curva BRW verso il basso.
Un ulteriore modo per spostare verso il basso la curva BRW è quello che il governo concordi
con i sindacati una politica dei redditi che spinga il sindacato a non utilizzare al massimo il suo
potere contrattuale (quindi a spostare verso l’alto la curva BRW). Nel far questo il governo può
concedere in contropartita al sindacato un ruolo maggiore nelle decisioni di politica economica ed
impegnarsi esso stesso perché sia attraverso la politica fiscale, sia attraverso le decisioni tariffarie di
sua competenza, la rinuncia all’uso del massimo potere di contrattazione determini esiti socialmente
compatibili sul prodotto pro-capite.
6. Confronto con Keynes ed i post-keynesiani
I modelli presentati in precedenza presentano significative differenze con l’apparato teorico di
Keynes e dei suoi successivi interpreti. In particolare riteniamo utile evidenziare le differenze legate
al ruolo delle aspettative, della moneta, della disoccupazione e della teoria dell’impresa.
Il ruolo della domanda di moneta è uno altro luogo discriminante fra le due teorie. La teoria
keynesiana ha uno dei suoi principali capisaldi nella funzione di domanda di moneta, costituita da
tre componenti, transattiva, precauzionale e speculativa. La natura estremamente variabile di
quest’ultima componente impedisce al tasso di interesse di uguagliare investimenti e risparmi,
determinando una continua insufficienza degli investimenti rispetto a quelli necessari per ottenere la
massima occupazione. Per i Nuovi Keynesiani tutta questa costruzione sparisce e la mancata
uguaglianza tra investimenti e depositi risiede nel razionamento del credito, un fenomeno non
legato alle aspettative degli individui ma all’asimmetria informativa tra banche e mutuatari.
Uno dei modelli che rende più chiara la differenza tra Keynes e la Nuova Macroeconomia
Keynesiana è quello dei contratti asincroni presentato nel par 3.2. La persistenza degli effetti degli
shock nel modello keynesiano è data dalle aspettative adattive, cioè dal mutare lentamente le
proprie aspettative in base ai dati del passato, mentre in quel modello le aspettative sono razionali
perché gli agenti si convincono che sia così, contro le relazioni causali del sistema.
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per cui gli agenti sanno che lo shock è permanente e quindi mutano correttamente le loro
aspettative, ma sono vincolati dalla struttura contrattuale a non poter modificare nel modo corretto i
prezzi.
Un’altra rilevante differenza è quella riguardante la spiegazione della disoccupazione: per
Keynes essa deriva dall’insufficiente livello degli investimenti, un problema che tocca in maniera
endemica il capitalismo, per i Nuovi Keynesiani la sua causa è principalmente nella concorrenza
imperfetta sul mercato del lavoro e quindi è frutto dell’esistenza di forti sindacati. In questo caso la
nuova modellistica non sembra in grado di rendere giustizia a Keynes, pur ottenendo esiti simili. In
generale l’opera di Keynes è dedicata a dimostrare la continua instabilità ed incapacità di
autoregolarsi del capitalismo. Gli squilibri nei modelli della Nuova Macroeconomia Keynesiana,
invece, sono frutto di eventi esterni che hanno effetti su di una struttura che di per se tenderebbe a
comportarsi in maniera ottimale.
La parte della Nuova Macroeconomia Keynesiana che presenta la maggiore vicinanza con il
pensiero keynesiano è quella dei coordination failure. In essi, come abbiamo visto, giocano un
ruolo centrale le aspettative degli agenti. Nel modello keynesiano, l’incremento degli investimenti
dovuto all’espansione dell’offerta di moneta genera un aumento dei prezzi e quindi profitti
straordinari. A loro volta questi aumentano la fiducia degli imprenditori, inducendoli ad aumentare
la produzione. L’enfasi keynesiana sulle aspettative è inoltre rintracciabile nella nozione di
efficienza marginale del capitale che determina le decisioni di investimento. Questo concetto, lungi
dall’essere assimilabile a quello di produttività marginale del capitale, fa dipendere i rendimenti
degli investimenti, e quindi il loro livello, sulla base di variabili psicologiche fortemente instabili.
Il rapporto tra Nuova Macroeconomia Keynesiana ed economia post-keynesiana, è piuttosto
complesso. Da una parte, entrambe sono teorie di equilibrio non-walrasiano, cioè una situazione in
cui parte delle risorse non viene utilizzata e non vi sono stimoli che inducano gli agenti a modificare
le proprie decisioni. Dall’altra, diverse ipotesi dei rispettivi modelli sono in conflitto. Uno di questi
campi è quello della teoria dell’impresa. Sebbene all’interno della Nuova Macroeconomia
Keynesiana non vi sia una visione esplicita di questa teoria, sono evidenti le differenze con le teorie
post-keynesiane dell’impresa. Il grafico successivo mostra come, a livello di singola impresa, la
differenza di primo ordine nel prezzo praticato rispetto a quello ottimale (p° invece di p*) implichi
una riduzione di secondo ordine rispetto al profitto ottimale (π° invece di π*). E’ importante notare
come questa rappresentazione della funzione di profitto sia basata sul suo essere una funzione
continua e liscia e che quindi ammetta un unico punto di massimo dove la derivata prima è nulla e
derivata seconda è negativa. L’approccio microeconomico all’impresa, quindi, è tutto svolto
all’interno del paradigma neoclassico. Una volta che una di queste ipotesi venisse messa in
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π
π*
π°
p°
p*
p
discussione, tutta la costruzione ne risulterebbe compromessa. Nelle teorie post-keynesiane
dell’impresa, viene abbandonato il principio marginalistico dell’uguaglianza tra costi e ricavi
marginali perché le imprese non conoscono con precisione la loro curva di domanda, cosa che non
accade nei modelli della Nuova Macroeconomia Keynesiana. L’impresa “post-keynesiana” fissa il
prezzo sulla base di qualche principio e vende a quel prezzo qualunque quantità il mercato sia in
grado di assorbire (normal pricing). I prezzi tendono quindi ad essere stabili come nei modelli
precedentemente analizzati, ma per motivi sostanzialmente diversi.
Il problema delle fondazioni microeconomiche della macroeconomia, al quale i Nuovi
Keynesiani cercano di dare una risposta, era già stato affrontato all’interno delle reinterpretazioni di
Keynes da Clower e Leijonhufvud. Clower (1965) abbandona l’idea che gli scambi avvengano in
equilibrio, cioè che la domanda “desiderata” coincida con quella effettiva. Se i prezzi non sono
market clearing, gli individui non sono in grado di vendere o comprare le quantità programmate,
per cui le domande effettive risultano vincolate dai redditi monetari effettivamente realizzati. Se
questi ultimi non sono in grado di consentire l’acquisto delle quantità desiderate, i piani di spesa
devono essere rivisti, realizzando così un meccanismo decisionale duale. Inoltre, poiché le
transazioni avvengono in moneta, esiste una separazione tra le merci da domandare e quelle da
offrire. In questo modo le decisioni degli individui sono sottoposte a due vincoli: uno rappresenta
un vincolo di spesa e richiede che gli acquisti siano sostenuti da disponibilità monetarie. Il secondo
è un vincolo di reddito che impone che l’accumulo di scorte liquide sia limitato dalla capacità di
realizzare un reddito mediante la vendita di beni e servizi. Se questi vincoli non sono
contemporaneamente soddisfatti, le imprese non potranno vendere tutte le merci prodotte. In questo
modo, un iniziale eccesso di domanda può trasmettersi all’intera economia secondo un meccanismo
moltiplicativo simile a quello keynesiano.
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Leijonhufvud (1968) esclude la presenza del banditore dal modello, e quindi il tempo
richiesto per completare le transazioni crea la possibilità che si verifichino scambi in disequilibrio.
L’incertezza sul futuro comporta la necessità di guardare al passato per formare le aspettative, e
questo implica che salari monetari, livello dei prezzi, livello degli investimenti siano parzialmente
rigidi. Tale rigidità fa sì che le transazioni avvengano a prezzi sbagliati e che vi sia disoccupazione
duratura. I modelli fix-price non sono stati in grado di fondare la macroeconomia keynesiana su
fondamenti microeconomici rigorosi principalmente perché incapaci di tradurre in uno schema
analitico le dinamiche del salario, dei prezzi e del tasso di interesse, inoltre il processo di
formazione delle aspettative impiegato da Keynes richiedeva un esame più rigoroso. Infine,
resisteva il forte limite derivante dall’inconciliabilità di questi risultati con l’assunzione di agenti
razionali. Come evidenziato in precedenza, la microfondazione della Nuova Macroeconomia
Keynesiana, invece avviene tutta interna al paradigma neoclassico senza il ricorso a squilibri.
7. Confronto con Friedman, Nuova Macroeconomia Classica e Real Business Cycles
In questo paragrafo intendiamo mettere in evidenza le similitudini e le differenze tra
l’approccio della Nuova Macroeconomia Keynesiana e le sue controparti market clearing. Il tasso
di disoccupazione di equilibrio del modello di Friedman (tasso naturale di disoccupazione, NRU) ed
il NAIRU presentano similitudini e differenze. In corrispondenza di entrambi l’inflazione è
constante, per cui postulano l’esistenza di una curva di Phillips di lungo periodo verticale. Tuttavia,
il tasso naturale di disoccupazione di Friedman è un tasso market clearing, al quale vi è equilibrio
tra la domanda e l’offerta di tutti i mercati, gli agenti sono atomistici e perfettamente informati. Il
NAIRU, invece, è il tasso che rende compatibili le richieste sul prodotto per lavoratore. La nozione
di potere di mercato ed il ruolo della disoccupazione come strumento di disciplina delle
rivendicazioni salariali sono fondamentali per il concetto di disoccupazione di equilibrio10.
L’attacco
portato
all’edificio
keynesiano
da
Lucas
si
fondava
sul
problema
dell’ottimizzazione individuale e sul problema della formazione delle aspettative. Tipicamente nel
modello keynesiano gli agenti formano le loro previsioni sul valore delle variabili nel futuro,
estrapolandole dai dati del passato (aspettative adattive). Questo modo di formare le preferenze è
stato criticato dalla Nuova Macroeconomia Classica come irrazionale, in quanto non permette al
soggetto di utilizzare tutta l’informazione disponibile ad un dato momento. Come è noto, le
aspettative razionali annullano completamente effetti delle manovre di politica economica, perché
ogni manovra sistematica è internalizzata dagli agenti economici, perché compresa dal modello che
essi adoperano per interpretare la realtà. Essi, quindi, pongono in essere azioni individuali che
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controbilanciano queste politiche. Solo azioni di politica economica inattese sulla domanda
nominale hanno degli effetti nel breve termine. I Nuovi Keynesiani fanno propria questa critica ed
assumono nei propri modelli le aspettative razionali sostituendole a quelle adattive.
La principale differenza tra i Nuovi Keynesiani ed i Nuovi Classici, dalla quale scaturiscono
quelle relative alla politica economica, riguarda l’interpretazione della rigidità dei prezzi. Infatti,
sebbene secondo entrambi la dimensione dell’effetto di uno shock reale dipende negativamente
dalla variazione della domanda aggregata, il meccanismo di trasmissione è diverso. Nel modello di
Lucas (1972) l’aggiustamento nominale incompleto è causato dall’informazione imperfetta che ogni
produttore ha riguardo alla natura del cambiamento del proprio prezzo relativo, se questo dipenda
da un aumento della domanda per il proprio bene o da un incremento del livello generale dei prezzi.
In risposta ad un aumento del prezzo del prodotto, la scelta razionale del produttore è quella di
attribuire ad ognuna di queste possibilità una certa probabilità e di quindi incrementare la
produzione di una certa misura, con la conseguenza che la curva di offerta aggregata diventa più
inclinata. Il modello implica che alti valori inattesi della domanda aggregata portano ad una
produzione più elevata ed a prezzi più alti di quanto atteso. In questo senso, quindi, esiste una curva
di Phillips anche in questo modello. Tuttavia, se i policy makers decidono di aumentare l’offerta di
moneta e questa decisione non è nota al pubblico, esiste un lasso di tempo in cui la crescita di
moneta è positiva e la produzione è superiore al normale. Una volta che gli agenti si rendono conto
del cambiamento, la crescita della moneta ha di nuovo media zero e quindi la produzione reale
media non subisce modifiche. Se l’aumento della crescita di moneta è invece noto, l’aspettativa su
di essa aumenta immediatamente e non vi è la fase di produzione più elevata. Un cambiamento
della politica economica può modificare il comportamento delle variabili aggregate agendo sulle
aspettative degli agenti: è questa la “critica di Lucas” all’uso di relazioni tra le variabili aggregate
per fini di politica economica.
La critica dei Nuovi Keynesiani a questo approccio è duplice. Da una parte è difficile non
attribuire un aumento del prezzo relativo di un bene ad un’accresciuta domanda piuttosto che ad un
aumento del livello dei prezzi, perché le informazioni su quest’ultimo indicatore sono
frequentemente aggiornate, hanno un’ampia diffusione sui mezzi di informazione così come le
decisioni delle Banche Centrali che riguardano i tassi di interesse. D’altra parte, per ottenere
sostanziali variazioni dell’occupazione, il modello di Lucas richiede un’elasticità dell’offerta di
lavoro molto più elevata di quella che viene correntemente osservata.
Una delle conseguenze della controrivoluzione classica in economia è stata quella di negare
l’esistenza di disoccupazione involontaria, ed uno dei campi in cui la differenza è stata più marcata
10
Questa visione della disoccupazione recupera quella di Marx di disoccupazione come “esercito di riserva del
18
con la modellistica keynesiana è stato quello sulla natura delle fluttuazioni economiche. Basandosi
sulla teoria dell’equilibrio economico generale walrasiano, negli anni ’70 si è sviluppata una
corrente interpretativa dei cicli economici, quella dei cosiddetti Real Business Cycles che, come
altre teorie di impianto neoclassico, non dà nessun ruolo al lato monetario dell’economia nello
spiegare le fluttuazioni. Questa teoria assume che i cicli economici siano causati da movimenti
casuali del tasso di cambiamento tecnologico. A questo cambiamento esogeno, gli individui
rispondono modificando i loro consumi e la loro offerta di lavoro. Quest’ultimo aspetto, in
particolare, presenta i problemi teorici più forti. Gli individui razionali sostituirebbero
intertemporalmente lavoro e riposo: quando i salari reali sono più elevati gli individui lavorano di
più, mentre quando questi sono bassi, riducono la propria offerta di lavoro. La disoccupazione è
quindi completamente volontaria in quanto massimizza il benessere sociale al variare delle
condizioni tecnologiche, ed ogni politica del governo che miri a ridurre la disoccupazione è
dannosa. Mankiw (1989) ritiene che questa teoria abbia una forte coerenza interna, mentre manchi
di quella esterna. Una teoria è internamente coerente se non necessita di eccessive ipotesi ad hoc.
Da questo punto di vista le ipotesi dei modelli di Real Business Cycles non sono diverse da quelle
comuni dei modelli di equilibrio economico generale. D’altro canto, una teoria è esternamente
coerente quando è in grado di spiegare efficacemente gli avvenimenti del mondo reale. Da questo
punto di vista i modelli di Real Business Cycles presentano una limitata evidenza empirica.
Innanzitutto, per ottenere le fluttuazioni tipiche di un ciclo economico, gli shock tecnologici esogeni
dovrebbero essere molto forti, di una dimensione generalmente sconosciuta alle moderne economie.
In secondo luogo, non c’è evidenza per l’elevata sostituibilità intertemporale del riposo che viene
sostenuta in questi modelli e più in generale non c’è evidenza per la dipendenza dell’offerta di
lavoro dal tasso di interesse reale. Infine, sembra abbastanza agevole sostenere che il livello di
benessere sociale associato a fasi di crescita sia superiore a quello associato a fasi recessive.
8. Conclusioni
Per una valutazione complessiva della Nuova Macroeconomia Keynesiana intendiamo
rispondere a tre domande: l’obiettivo di trovare una solida microfondazione all’edificio teorico
keynesiano è stato raggiunto? I risultati della teoria sono keynesiani? Esiste una relazione tra la
metodologia utilizzata da Keynes e quella dei Nuovi Keynesiani?
La risposta alla prima domanda è positiva: il modello costruito è in grado di spiegare perché
agenti razionali si possano astenere da un aggiustamento completo dei prezzi, neutralizzando gli
effetti di uno shock di domanda, senza ipotesi ad hoc.
capitalismo”.
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Anche la risposta alla seconda domanda è positiva se per risultati keynesiani si intende che i
mercati non sono naturalmente in equilibrio di piena utilizzazione delle risorse e che appropriate
politiche economiche della domanda aggregata possono portare l’economia in equilibrio.
La risposta alla terza domanda è, invece, negativa: il costo pagato dai questi economisti per
rispondere alle critiche “neoclassiche” al modello di Keynes ha comportato una forte presa di
distanza da quel modello e da quella metodologia. In questo senso la Nuova Macroeconomia
Keynesiana si unisce a quel filone di letteratura, che ha trovato la massima espressione nel modello
IS-LM, che ha interpretato Keynes cercando di espungerne gli aspetti più originali e più legati al
continuo disequilibrio dell’economia capitalistica.
A differenza di alcuni commentatori, riteniamo che la circostanza che la Nuova
Macroeconomia Keynesiana offra una serie di spiegazioni all’esistenza di fluttuazioni di breve
periodo ci sembra essere un punto di forza piuttosto che di debolezza: da una parte, infatti, si
richiamano diversi fattori per l’interpretazione di un fenomeno complesso che difficilmente può
essere ridotto ad una sola causa. Dall’altra, si compongono le diverse tessere del mosaico in
maniera coerente e tale che la capacità esplicativa di ognuna di esse risulti rafforzata dall’esistenza
delle altre.
L’approccio dell’aggiustamento nominale incompleto, ed in particolare quello dei menu costs
non è ovviamente esente da problemi, tra questi considerare quattro argomentazioni critiche
sembrano alquanto rilevanti:
♦ Per simmetria, se la rigidità nominale riduce la produzione ad un livello sub-ottimale, la stessa
rigidità porterà ad un livello sovra-ottimale in risposta ad un aumento della domanda. Quindi il
costo dell’aggiustamento nominale incompleto aumenta la varianza del livello di produzione
senza modificare la sua media, comportandosi come un effetto di secondo ordine. A questo
punto, il confronto avviene fra due costi di secondo ordine, inficiando il ragionamento costo
privato di secondo ordine/costo pubblico di primo ordine.
♦ Il modello è essenzialmente a due periodi e non considera i costi ed i benefici nei periodi
successivi: la giusta comparazione dovrebbe essere tra il costo one-shot di cambiare il prezzo,
ed il valore attuale del flusso infinito di perdite derivanti dal tenere fissi i prezzi.
♦ Non è fornita nessuna ragione per la variabilità dell’aggiustamento dei prezzi sia tra industre sia
nel tempo. In particolare non c’è nessuna spiegazione della circostanza che la velocità di
aggiustamento dei prezzi sia aumentata durante la Prima Guerra Mondiale ed invece sia
diminuita dopo la Seconda Guerra Mondiale, e che rispetto ai principali paesi industrializzati il
Giappone presenti costantemente una maggiore rigidità dei prezzi.
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♦ L’aggregazione dalle variabili individuali a quelle aggregate è generalmente realizzata
rimuovendo il pedice i dalle equazioni dei singoli agenti. Quello dell’agente rappresentativo è
un modo estremamente comune e semplicistico di trattare il problema dell’aggregazione che
limita la rilevanza dei problemi di coordinamento, delle esternalità macroeconomiche e delle
relazioni produttore/consumatore, che pure vanno parte della teoria.
In conclusione, sembra opportuno notare che dopo aver avuto un ruolo centrale nel dibattito
macroeconomico negli anni ’80, attualmente si assiste alla virtuale scomparsa dei temi della Nuova
Macroeconomia Keynesiana. Questo fenomeno, secondo noi, va letto in una progressiva riduzione
dell’interesse della professione verso i temi del breve periodo ed un progressivo spostamento verso
quelli del lungo periodo, come la crescita. Diverse possono essere i motivi per questo cambiamento
di ottica. Da una parte, dapprima il dibattito sul cosiddetto productivity slowdown, poi la circostanza
che gli anni ’80 e ’90 non siano stati caratterizzati un alternarsi di recessioni e riprese, ma
rappresentino uno dei più lunghi periodi di espansione dell’economia dei paesi sviluppati. Infine il
tumultuoso sviluppo di alcuni paesi detti emergenti, ed il continuare in una situazione di povertà di
tanti altri paesi. D’altra parte, molti economisti hanno evidenziato come il dibattito tra monetaristi e
keynesiani prima e tra Nuovi Classici e Nuovi Keynesiani dopo, sia stato caratterizzato da un forte
connotato ideologico da parte dei diversi contendenti, con la conseguenza di ridurre la qualità del
dibattito scientifico. Nell’ambito della modellistica di lungo periodo, invece, si può parlare di un
vero e proprio consenso attorno al paradigma neoclassico.
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