Nuova Macroeconomia Keynesiana: una scuola contemporanea Roberto Ricciuti 1. Introduzione Dopo essere stato, nella versione IS-LM, il paradigma dominante nella teoria economica negli anni ’50 e ’60, la macroeconomia keynesiana è stata messa in crisi da un attacco che proveniva da due fronti diversi. Dal punto di vista metodologico, il modello di sintesi keynesiana veniva attaccato per la mancanza di fondazioni microeconomiche del comportamento delle variabili aggregate. Dal punto di vista predittivo, il modello si dimostrava incapace di spiegare alcuni dei fenomeni macroeconomici degli anni ’70, in particolare l’aumento dell’inflazione e la contemporanea diminuzione dell’occupazione, in contrasto con la curva di Phillips, che faceva coerentemente parte di quel sistema interpretativo. L’attacco alla sintesi keynesiana era stato portato dapprima da Friedman, in seguito dalla Nuova Macroeconomia Classica (Lucas, Sargent, Wallace). Diverse sono state le risposte a questa crisi del modello keynesiano: da una parte gli economisti post-keynesiani hanno cercato di reinterpretare Keynes mostrandone l’inconciliabilità con il paradigma neoclassico e quindi la fallacia del modello IS-LM. Dall’altra, la risposta della Nuova Macroeconomia Keynesiana è stata fondamentalmente diversa: essa ha affrontato l’attacco neoclassico sullo stesso terreno su cui esso era stato lanciato, riuscendo a microfondare rigorosamente le proposizioni della macroeconomia keynesiana. L’espressione New Keynesian Theory è stata utilizzata per la prima volta da Parkin (1982), mentre l’espressione New Keynesian Macroeconomics è stata utilizzata per la prima volta in un articolo scientifico da Ball et al. (1988). Nel prosieguo del lavoro verranno utilizzate sia l’espressione Nuovi Keynesiani che Nuova Macroeconomia Keynesiana senza preferenze, pur ritenendo entrambe non completamente soddisfacenti. La prima, infatti enfatizza il collegamento con il pensiero di Keynes e le sue successive interpretazioni, cosa che si mostrerà nel seguito essere non vera, soprattutto nel rapporto con i Post-Keynesiani. La seconda risulta piuttosto enfatica e tale da ingenerare l’idea di una completa ricostruzione dell’edificio teorico keynesiano1. All’interno della Nuova Macroeconomia Keynesiana, è possibile distinguere due correnti di pensiero: una europea ed una americana. Queste si caratterizzano per una diversa enfasi sulle determinanti della lentezza dei prezzi ad adeguarsi agli shock. La scuola europea (che possiamo sintetizzare nei nomi di Blanchard, Nickell e Layard) considera principalmente imprese oligopolistiche sul mercato dei beni che contrattano con i sindacati sul livello di salario reale. Il tema che diventa centrale in questa prospettiva è la divisione del prodotto per lavoratore tra salario che va al lavoratore stesso, profitto percepito dall’impresa ed introiti fiscali ottenuti dal governo, ed il conflitto distributivo che ne deriva. La scuola americana (Romer, Ball e Mankiw) affronta come problema principale quello di trovare una rigorosa motivazione microeconomica all’inerzia 2 nominale, basata in primo luogo sul costo di modificare continuamente i prezzi. Questa differenza sembra fondarsi sulla diversa struttura della contrattazione salariale tra Europa e Stati Uniti: nella prima, infatti, il ruolo del sindacato, sia dal punto di vista del livello di sindacalizzazione, che dal punto di vista di una maggiore centralizzazione della contrattazione, è sensibilmente superiore a quello degli Stati Uniti. Anche l’enfasi sui problemi posti da queste due diverse vie è diversa: gli europei privilegiano l’analisi delle ragioni della disoccupazione (rinvenute principalmente nella concorrenza imperfetta sul mercato del lavoro e dei beni) e della sua persistenza nel medio termine, mentre gli Statunitensi privilegiano lo studio delle ragioni per cui i prezzi nominali si modificano lentamente in risposta a cambiamenti della domanda. Le due analisi si sovrappongono dal punto di vista analitico, ma vengono svolte separatamente e spesso senza un reciproco riconoscimento (Mankiw e Romer, 1991; Carlin e Soskice, 1990). Anche in questo caso, il maggiore interesse degli studiosi europei al problema della disoccupazione è motivato dal fatto che strutturalmente la disoccupazione negli ultimi venti anni è stata superiore in Europa rispetto agli USA. Gli obiettivi di questo lavoro sono i seguenti: in primo luogo ci proponiamo di mostrare come la Nuova Macroeconomia Keynesiana sia una teoria in grado di ricondurre ad unità una serie di analisi parziali sulle imperfezioni dei mercati. In secondo luogo cercheremo di mostrare una sorta di dipendenza funzionale che lega le Nuova Macroeconomia Keynesiana a quella Classica. I primi, infatti, fanno propria la critica di Lucas sintetizzata nella frase che imputa agli agenti dei modelli keynesiani di “lasciare 500 dollari sul marciapiede” cercando di ricreare nel mondo degli agenti ottimizzanti e della concorrenza perfetta dei Nuovi Classici i problemi che Keynes aveva evidenziato nel laissez-faire dominante all’epoca della Grande Depressione. E’ nostra opinione che questo tentativo sia stato accompagnato dal successo, anche se al costo di sensibili differenze rispetto a Keynes ed alle sue successive reinterpretazioni. Infine, vengono considerate le differenze che intercorrono tra i Nuovi Keynesiani europei e quelli statunitensi. Il lavoro è idealmente diviso in due parti: nella prima (parr. 2-5) vengono considerati gli strumenti analitici della Nuova Macroeconomia Keynesiana, nella seconda (parr. 6-8) vengono evidenziate le principali differenze sia con il modello keynesiano e le successive interpretazioni di Keynes, sia con i modelli di Friedman e della Nuova Macroeconomia Classica e ne viene fornita una valutazione generale. 1 E’ appena il caso di ricordare che l’espressione “neo-keynesiani” indica la sintesi neoclassico-keynesiana iniziata da 3 2. Concorrenza imperfetta La concorrenza imperfetta è un ingrediente centrale per ottenere i risultati della Nuova Macroeconomia Keynesiana, per questo motivo ne anticipiamo la discussione rispetto ad altri temi che costituiscono la parte più originale di questa teoria. Dal punto di vista teorico, infatti, in un mercato perfettamente concorrenziale, in cui gli agenti agiscono come price-takers, per definizione non è possibile immaginare difficoltà nell’aggiustare i prezzi. Solo imprese price-setters hanno una certa discrezionalità nel fissare i prezzi. Inoltre la diversa enfasi che gli economisti statunitensi ed europei che pure appartengono a questa Scuola pongono su questo tema rappresenta la principale differenza tra le loro interpretazioni. Per i primi, la concorrenza imperfetta ha un suo ruolo specifico nel determinare alcune implicazioni keynesiane, ma anche un ruolo ausiliario nel rafforzare gli effetti delle rigidità nominali e reali e del fallimento del coordinamento. Per i secondi il ritorno keynesiano è tutto giocato attorno alla questione della concorrenza imperfetta sul mercato dei beni e del lavoro. I modelli più rilevanti in questa letteratura che si concentra sugli effetti aggregati della concorrenza imperfetta sono quelli di Hart (1982) e Blanchard e Kiyotaki (1987). Consideriamo un modello in cui vi sia concorrenza monopolistica sul mercato dei beni e contrattazione tra imprese e lavoratori sul mercato del lavoro e supponiamo, per quanto riguarda il mercato dei beni, che la curva di domanda per ogni impresa sia: y i = d ( p i / p )Q dove pi indica il prezzo praticato da ogni impresa, p è livello generale dei prezzi, e Q la domanda aggregata. Queste ultime sono esogene per le singole imprese. La funzione di produzione è una Cobb-Douglass: Yi = (λLi / K i )α dove λ rappresenta il progresso tecnico incorporato nel lavoro, L è il lavoro, Y la produzione e K il capitale. La nota condizione di primo ordine per la massimizzazione del profitto è data da: p i (1 − 1 / e) / w = Li / Yi Hicks e che ha rappresentato l’ortodossia nella teoria economica negli anni ’50 e ’60. 4 dove e indica l’elasticità della produzione rispetto alla domanda, e quindi il grado di monopolio di quell’impresa sul proprio mercato. Nel mercato del lavoro ogni sindacato j massimizza il salario nominale. In aggregato assumiamo che imprese e sindacati massimizzino la media ponderata tra l’utilità dei sindacati (Uj) ed i profitti delle imprese (πi): Max(Uj – Z)g πi, dove Z è il livello minimo di utilità dei membri del sindacato e i profitti minimi delle imprese sono pari a zero. Il parametro g riflette il potere del sindacato nella contrattazione. Il processo di contrattazione è influenzato dalla possibilità di ottenere un altro lavoro (v(u))2, pagato al salario aggregato w, sul mercato e da quella di diventare disoccupato ottenendo un sussidio (b). Attraverso successive manipolazioni si ottiene la seguente equazione che rappresenta il tasso naturale di disoccupazione, cioè il livello di disoccupazione al quale il salario reale determinato dal wage setting è uguale al salario reale determinato nel mercato del lavoro: f ' (λL / K)λ(1−1/ e)[1+ v(u)(1−b)g + (1−α) / α] = Y / L Il tasso di disoccupazione di equilibrio dipende positivamente dai sussidi, dal potere dei sindacati, dal potere di monopolio delle imprese sul mercato dei beni e dalla proporzione tra i fattori produttivi, ma non dalla tassazione e dalla domanda aggregata. Graficamente, possiamo rappresentare la curva di offerta di lavoro (LS) e quella di domanda di lavoro (LD) che discendono W/P WS LS MC PC LD PS LM 2 LC L La probabilità di trovare un nuovo lavoro dipende negativamente dal livello della disoccupazione (u). 5 dalla massimizzazione di individui ed imprese in mercati perfettamente concorrenziali ed il punto di intersezione tra esse (PC), cui corrisponde la piena occupazione pari a LC. Accanto a queste, spostate entrambe verso sinistra, possiamo rappresentare le curve price setting (PS) e wage setting (WS). L’intersezione tra PS e WS indica l’equilibrio in concorrenza monopolistica (MC), cui corrisponde l’occupazione pari a LM. La differenza tra LM ed LC rappresenta la disoccupazione involontaria presente nell’economia3. Il modello di concorrenza imperfetta della scuola europea (Layard et al., 1991) da una parte costituisce un caso particolare di quello analizzato precedentemente, dall’altro consente di affrontare il tema del conflitto distributivo tra profitti, salari ed introiti fiscali tra imprese, lavoratori e Stato sul prodotto per lavoratore. L’apparato analitico di questo approccio si basa sulla curve del salario reale determinato dal prezzo (PRW) e del salario reale contrattato (BRW). La prima è orizzontale: in concorrenza imperfetta al crescere dell’occupazione il salario reale determinato sul mercato dei beni è costante, mentre la BRW è crescente, perché al crescere dell’occupazione il potere contrattuale del sindacato nei confronti delle imprese aumenta. L’intersezione di queste curve determina il livello di occupazione di equilibrio (EN), e la differenza tra la forza lavoro disponibile (LF) ed il suddetto livello di occupazione rappresenta la disoccupazione di equilibrio. W/P BRW PRW EN LF L Al tasso di disoccupazione di equilibrio le richieste sul prodotto pro-capite sono compatibili, quando è inferiore, queste sono incompatibili e l’inflazione aumenta. Per questo motivo in questo modello il suddetto tasso viene chiamato NAIRU (non-accelerating inflation rate of unemployment). Infatti i lavoratori sono nelle condizioni di chiedere aumenti salariali superiori all’inflazione attesa, imponendo alle imprese di aumentare i propri prezzi più dell’inflazione attesa 3 La concorrenza monopolistica riduce inequivocabilmente la quantità di lavoro occupata, ma non permette di dire nulla sul salario reale, che può essere minore o maggiore (come nella figura) rispetto a quello ottenuto in regime di perfetta concorrenza. 6 per salvaguardare i margini di profitto e determinando così una inflazione crescente4. Il NAIRU non coincide con la piena occupazione delle risorse, vi è quindi disoccupazione involontaria e può essere ridotto con alcuni strumenti di politica economica che discuteremo nel par 5. 3. Aggiustamento nominale incompleto In questo paragrafo vengono analizzate le ragioni di carattere nominale che portano all’aggiustamento nominale incompleto in seguito ad uno shock monetario: menu costs, asincronia contrattuale e rigidità reali. Questi fattori non possono singolarmente presi essere visti come la causa delle fluttuazioni, ma tendono a rafforzarsi a vicenda, ed in particolare ha un ruolo amplificativo la concorrenza imperfetta sui mercati dei beni e del lavoro. 3.1 Rigidità nominale Per rigidità nominale si intende l’inerzia al cambiamento delle variabili nominali di un’economia. La principale ragione che la Nuova Macroeconomia Keynesiana fornisce per questa inerzia risiede nei menu costs, cioè il costo sopportato per cambiare il prezzo nominale di un bene. Sebbene dal nome si è portati ad interpretarli come i costi derivanti dal cambiamento fisico dei listini dei prezzi, è opportuno estenderli al costo-opportunità del tempo e delle risorse impiegate nella ricerca ed elaborazione delle informazioni concernenti la domanda aggregata, il comportamento dei concorrenti ed altri fattori che determinano i costi di produzione. Nel modello di Mankiw (1985) per una impresa monopolistica che fissa i prezzi per il periodo successivo, in conseguenza di una riduzione inattesa della domanda aggregata, il prezzo praticato (po) è superiore a quello che massimizza i profitti (pm), e quindi i profitti dell’impresa saranno più bassi di un valore pari all’area B – A, che è una grandezza positiva per definizione di pm. Il surplus totale è invece ridotto di B + C, quindi la riduzione di benessere dovuta ad una contrazione della domanda aggregata è maggiore della riduzione dei profitti dell’impresa. Supponiamo che l’impresa possa cambiare i prezzi ex-post incorrendo in un costo fisso pari a z, in questo modo riduce il prezzo da po a pm ed ottiene profitti addizionali pari a B – A. Questa decisione verrà adotta solo se B – A > z, mentre dal punto di vista di un pianificatore sociale il cambiamento del prezzo deve avvenire fintanto che B + C > z. Poiché nella seconda relazione il termine di sinistra è più grande di quello della prima relazione, il pianificatore ha un incentivo a cambiare il prezzo maggiore di quello dell’impresa, a parità di costo fisso z. La rigidità dei prezzi verso il basso deriva dal beneficio esterno B + C originato dallo stampare nuovi menu. La misura di questa esternalità è data dal 4 Anche se il tasso di disoccupazione è superiore a quello di equilibrio si determina una situazione di incompatibilità tra le richieste delle imprese e quelle dei sindacati, ma l’inflazione sarà decrescente. 7 rapporto tra il beneficio sociale derivante dall’aggiustamento dei prezzi (C + B) ed il beneficio privato B – A. Poiché l’impresa aggiusta il prezzo fino al livello che massimizza il profitto, pm, piuttosto che al livello di first-best concorrenziale k, l’incremento dei profitti è di secondo ordine mentre l’incremento di benessere è di primo ordine5, 6. p po pm A C B k qo qm q 3.2 Asincronia nei contratti Consideriamo un’impresa in regime di concorrenza monopolistica che fronteggia una domanda data da: −θ P M yi = i , P P dove P è il livello generale dei prezzi (esogeno per ogni impresa), Pi il prezzo di ogni impresa e la domanda aggregata è rappresentata dalla moneta reale. L’impresa massimizza i propri profitti reali e prendendo i logaritmi si ottiene: pi = p + a(m − p) + c 5 Ad esempio, a seguito di una contrazione della domanda aggregata dell’1%, se l’elasticità della domanda rispetto al prezzo è uguale a 10, il suddetto rapporto è pari a 23. 6 Nel modello di Akelorf e Yellen (1985) la spiegazione della rigidità nominale è leggermente diversa: essa non è dovuta al fatto che sia costoso modificare i prezzi, ma che i guadagni derivanti da questo cambiamento siano talmente piccoli tali da rendere quasi-razionale la scelta di non modificarli. 8 dove c è una costante arbitraria e le lettere minuscole indicano i logaritmi delle variabili introdotte precedentemente. Supponiamo che l’economia sia formata da due gruppi di imprese che fissano il loro prezzo per due periodi, per l’esistenza di contratti. I due gruppi sono uguali per tutti gli aspetti tranne che per il fatto che uno fissa i prezzi nei periodi pari e l’altro in quelli dispari (staggering). La circostanza che in questa economia vi sia concorrenza imperfetta è rappresentata dalla prima equazione precedente, in cui la domanda dipende dai prezzi relativi e dalla domanda aggregata. Indicando con p1 e p2 i logaritmi del livello dei prezzi di ogni gruppo, la moneta reale è data da m – (p1 + p2)/2. Se ogni gruppo potesse modificare il proprio prezzo in ogni periodo, i prezzi del primo gruppo sarebbero dati da: p1t = p 2 t + 2 a{E [m t ]− ( p1t + p 2t ) / 2} . Se la domanda aggregata non fosse importante (a = 0), un gruppo seguirebbe l’altro nel cambiare i prezzi: ad esempio, se mt e p2t raddoppiassero, anche p1t farebbe lo stesso7. Supponiamo che mt = 0 fino al tempo T, e che vi sia uno shock per cui mT+ i = 1, per ogni i > 0. L’aumento della moneta al tempo T non è atteso, ma una volta avvenuto gli agenti si aspettano che continui nel tempo. L’influenza dell’incremento della moneta sulla produzione è persistente. Si ha, così, un effetto keynesiano anche se per ragioni completamente diverse. In questo modello, infatti, le aspettative sono razionali e le imprese di un gruppo non possono cambiare i propri prezzi perché quelli dell’altro gruppo sono fissi nel periodo, per ipotesi. Le imprese cambiano il prezzo in maniera graduale portandolo ad un livello non ottimale, e questo determina un effetto di trascinamento dello shock dell’offerta di moneta sul livello di produzione. Se vi fosse aggiustamento completo uno dei due gruppi si troverebbe fuori mercato, lasciando l’intera domanda all’altro8. 3.3 Rigidità reale Secondo Ball e Romer (1990) le rigidità nominali non sono in grado di spiegare l’aggiustamento nominale incompleto se non per valori non realistici dei parametri del modello, ad esempio un’offerta di lavoro fortemente elastica. Allo stesso modo le rigidità reali, cioè la scarsa risposta del salario reale e dei prezzi reali a modificarsi a seguito di cambiamenti dell’attività economica, possono spiegare solo in piccola parte il precedente fenomeno. Se, invece, questi due fattori vengono combinati si può ottenere una plausibile spiegazione dell’aggiustamento nominale 7 Chiaramente, per la determinazione di p2t esiste un’equazione simile. Si noti che se non vi fosse concorrenza imperfetta (b = 0), si verificherebbe che yT+i = 0 per i > 0. Ovvero, la produzione aumenterebbe solo per un periodo, un tempo inferiore alla durata del contratto. 8 9 incompleto. La ragione è la seguente: la rigidità dei prezzi dopo uno shock nominale è un equilibrio di Nash se per una impresa il guadagno derivante dalla variazione del suo prezzo nominale è minore del costo sostenuto per modificare il prezzo stesso, posto che le altre imprese non modifichino i propri prezzi nominali. Se le altre imprese non modificano i loro prezzi, il cambiamento del prezzo nominale da parte di un’impresa rappresenta un cambiamento del prezzo reale da essa praticato. Inoltre, se gli altri prezzi non cambiano, uno shock nominale modifica la domanda aggregata reale. La rigidità nominale è quindi un equilibrio se il guadagno di un’impresa derivante dal modificare il proprio prezzo reale in risposta ad un cambiamento della domanda aggregata reale è minore del costo sopportato per modificare il prezzo. Se l’impresa desidera modificare in maniera limitata il proprio prezzo reale, ovvero vi è un grado elevato di rigidità reale, allora il guadagno per l’impresa derivante da questo cambiamento è limitato. Poiché la rigidità reale riduce il guadagno ottenuto grazie all’aggiustamento del prezzo, essa aumenta l’ampiezza degli shock nominali per i quali non modificare i prezzi rappresenta un equilibrio. In generale l’analisi della Nuova Macroeconomia Keynesiana prescinde dalle singole fonti di rigidità reale avendo come oggetto più i loro effetti che la loro origine. Queste possono essere comunque identificate nel mercato del lavoro, del credito e dei beni, riconducendo così le analisi microeconomiche di quei mercati ad una più complessiva analisi macroeconomica. Sul mercato del lavoro la teoria dei salari di efficienza ha mostrato che le imprese possono essere indotte a pagare ai lavoratori un salario superiore alla loro produttività marginale per scoraggiare il loro comportamento opportunistico (Shapiro e Stiglitz, 1984) o per ridurre i costi di rotazione derivante dal turn-over volontario dei lavoratori (Salop, 1979). In questo modo viene trovata una giustificazione microeconomica all’esistenza di disoccupazione involontaria. Sul mercato del credito, a partire dal contributo di Stiglitz e Weiss (1981), una vasta letteratura ha analizzato i vincoli che impediscono a chiunque ne faccia richiesta di prendere a prestito al tasso di interesse prevalente. Esistono forti asimmetrie informative tra chi presta e chi ottiene denaro sulla qualità del progetto, sullo sforzo impegnato, sui guadagni ottenuti: per questo le banche tendono a cautelarsi facendo credito solo a chi ha solide garanzie reali (razionamento del credito). Gli effetti macroeconomici di questi problemi a livello micro del mercato del credito riguardano principalmente la riduzione della domanda aggregata ed una minore velocità nel meccanismo di trasmissione della politica monetaria. La rigidità sul mercato dei beni non va confusa con la concorrenza imperfetta sul mercato dei beni, in quanto riguarda il comportamento contro-ciclico del mark-up. Tra le possibili spiegazioni di questo fenomeno possiamo citarne due: la possibilità che un elevato livello dell’attività economica riduca l’importanza dei costi di acquisizione e disseminazione delle informazioni (thick-market 10 effect); la possibilità che un elevato livello dell’attività economica incrementa i profitti e rende più difficile il loro comportamento collusivo, riducendo il mark-up. In conclusione, è utile citare l’interpretazione che Blanchard e Kiyotaki (1987) forniscono della rigidità nominale attraverso il concetto di esternalità, che la teoria economica utilizza comunemente per spiegare i fallimenti del mercato. Come nel caso in cui vi siano esternalità il costo (beneficio) individuale è diverso da quello collettivo per cui vi è un’offerta non ottimale di un certo bene, la rigidità nominale provoca una discrasia tra il costo limitato che l’impresa deve sopportare per modificare il proprio prezzo, e l’elevato costo collettivo derivante da una recessione. In questo modo un ormai classico strumento dell’analisi economica delle imperfezioni del mercato viene utilizzato in macroeconomia, attraverso la nozione di “esternalità della domanda aggregata”. Come nell’esempio precedente, supponiamo che la domanda per il prodotto dell’impresa i dipenda dal prezzo relativo praticato dall’impresa e dalla moneta reale: Yi D M Pi = P P −∈ . Se M diminuisce e l’impresa i non modifica il prezzo, la natura di costo di secondo ordine del mancato aggiustamento lascia immodificato il prezzo relativo. La riduzione della moneta nominale e la rigidità di P comportano una riduzione di primo ordine della moneta reale, con la conseguenza di ridurre la domanda aggregata e quindi la domanda per ogni impresa. Ognuna di queste considera trascurabile il costo dell’aggiustamento, ma così facendo determina una riduzione della domanda aggregata con effetti negativi per tutte le imprese. L’esternalità della domanda aggregata deriva dal fatto che ogni impresa è solo una piccola parte dell’economia ed ignora i benefici macroeconomici delle proprie azioni. 4. Fallimenti del coordinamento Una diversa via di ricerca all’interno della Nuova Macroeconomia Keynesiana, è rappresentata dai coordination failures. L’esempio più rilevante è dato dal modello di Cooper e John (1988). In esso vi sono diversi equilibri tra loro Pareto-ordinabili, e le fluttuazioni economiche avvengono come movimenti dell’economia tra questi diversi equilibri. Ogni agente sceglie un certo livello di produzione, prendendo quello degli altri come un dato. Gli agenti sono identici, la funzione di utilità di ognuno è Ui = V(yi,y), dove yi indica la scelta dell’agente i-esimo, y rappresenta la scelta di tutti gli altri, e y*i(y) è la corrispondente funzione di reazione individuale. 11 Nel grafico sottostante questa funzione interseca la retta inclinata a 45°, che rappresenta i punti in cui valori attesi e realizzati coincidono, in tre punti diversi, che corrispondono a tre diversi equilibri. B y* y*i(y) A C 45° y Il punto A è instabile: se gli agenti si aspettano che il livello della produzione sia leggermente superiore a quello ad esso corrispondente, ognuno di loro produrrà più di quanto ognuno aspetti che l’altro produca, e l’economia tende a spostarsi lontano da esso. Gli equilibri B e C, invece, sono stabili. In presenza di equilibri multipli non sono solo i fondamentali dell’economia a determinarne i risultati finali: se gli agenti si aspettano che l’equilibrio dell’economia sia C, essa raggiungerà quell’equilibrio; se invece l’equilibrio atteso è B, questo sarà il punto di arrivo dell’economia. In questo modo, animal spirits, “profezie che si autorealizzano” e sunspots9 hanno effetti sul livello di produzione aggregata. In questi modelli di fallimento del coordinamento l’economia può trovarsi bloccata in un equilibrio di sotto-occupazione, come C, perché tutti pensano che quello debba essere il suo punto di arrivo, e non vi sono forze naturali di mercato in grado di portarla ad un equilibrio Paretosuperiore. In questo modo è possibile per il governo attuare politiche di intervento che modifichino le aspettative degli agenti riportando il sistema ad un equilibrio di piena occupazione (ad esempio, spostando l’economia da C a B). Questa letteratura riveste una posizione piuttosto originale nell’ambito dei modelli della Nuova Macroeconomia Keynesiana. Essa infatti si distanzia dal filone delle rigidità nominali e reali in primo luogo perché assume esplicitamente di non essere una teoria che si basa sull’equilibrio economico generale walrasiano; in secondo luogo perché porta al centro della sua analisi il ruolo delle aspettative che nei modelli di inerzia non vengono considerati. Non deve, però, essere vista in 12 contrapposizione con la teoria esposta precedentemente perché enfatizza quegli aspetti di esternalità e di interrelazione tra i soggetti che fanno già parte delle teorie dell’aggiustamento nominale incompleto. Un aspetto che sembra importante è la possibilità di utilizzare i temi del ruolo delle aspettative e dei loro effetti, nati principalmente nella teoria dei mercati finanziari, per la spiegazione di fenomeni macroeconomici. 5. Implicazioni di politica economica Una delle principali differenze tra Keynesiani e Nuovi Keynesiani è quella che questi ultimi non hanno univoche implicazioni di politica economica, come quella riguardante le politiche di stimolo della domanda aggregata, tipica del keynesismo. Anche in questo caso è possibile rinvenire due diverse ispirazioni, una Statunitense ed una Europea. In generale la prima ha una posizione agnostica, favorevole per alcuni economisti, contraria per altri. Le ragioni che militano a favore di una politica interventista sono state evidenziate nei paragrafi precedenti, e risiedono nella lentezza con cui le variabili economiche si adeguano alla mutata situazione della domanda, bloccando l’economia in una situazione di ridotto benessere collettivo. La principale ragione che milita contro una politica della domanda aggregata è che da una parte il mancato aggiustamento dei prezzi in risposta ad una riduzione della domanda provoca una forte riduzione della produzione e del benessere, dall’altra il mancato aggiustamento in risposta ad un aumento della domanda porta a maggiore produzione e maggiore benessere. Da qui, la desiderabilità di una politica attiva che riducendo le fluttuazioni reali riduca anche quelle del benessere medio è dubbia. Inoltre Ball e Romer (1989) hanno mostrato che gli effetti di primo ordine delle fluttuazioni hanno media zero, e quindi in questo caso l’argomentazione “effetti del primo ordine vs. effetti del secondo ordine” non può essere utilizzata. Infine, l’argomentazione contro le politiche attive del governo per la stabilizzazione delle fluttuazioni, basate sui lag lunghi e variabili con cui le politiche di espansione della domanda hanno effetto, rimangono valide anche nel contesto della Nuova Macroeconomia Keynesiana. Di fatto una efficace politica economica secondo i Nuovi Keynesiani statunitensi dovrebbe essere una politica dell’offerta volta a ridurre le rigidità presenti nell’economia: promozione della concorrenza sul mercato dei beni e riduzione del ruolo del sindacato. E’ evidente come queste prescrizioni di politica economica facciano il paio con quelle della Nuova Macroeconomia Classica. I Nuovi Keynesiani europei, invece, attribuiscono alla politica economica la possibilità di rendere compatibili le richieste delle imprese e dei lavoratori ad un tasso di disoccupazione inferiore al NAIRU, cioè spostando verso il basso la curva BRW e/o verso l’alto la curva PRW. Dal lato 9 Si hanno sunspot equilibria quando alcune variabili che non hanno effetti diretti sull’economia finiscono con l’averne 13 dell’offerta si può intervenire in due modi: riducendo l’imposizione fiscale, cioè la quota di prodotto per lavoratore che va allo stato e aumentando la spesa per la formazione professionale. Nel primo caso le richieste del settore privato (lavoratori ed imprese) sul prodotto pro-capite possono essere compatibili ad un più elevato livello di occupazione, in quanto si riducono le richieste dello stato. Con la spesa in formazione professionale ci si può attendere una diminuzione della disoccupazione di equilibrio per due ragioni: in primo luogo, la maggiore formazione aumenta la produttività e sposta la curva PRW verso l’alto; in secondo luogo, aumenta l’offerta di lavoro effettiva, aumenta il numero di persone in cerca di occupazione, riduce il potere contrattuale della forza lavoro e quindi sposta la curva BRW verso il basso. Un ulteriore modo per spostare verso il basso la curva BRW è quello che il governo concordi con i sindacati una politica dei redditi che spinga il sindacato a non utilizzare al massimo il suo potere contrattuale (quindi a spostare verso l’alto la curva BRW). Nel far questo il governo può concedere in contropartita al sindacato un ruolo maggiore nelle decisioni di politica economica ed impegnarsi esso stesso perché sia attraverso la politica fiscale, sia attraverso le decisioni tariffarie di sua competenza, la rinuncia all’uso del massimo potere di contrattazione determini esiti socialmente compatibili sul prodotto pro-capite. 6. Confronto con Keynes ed i post-keynesiani I modelli presentati in precedenza presentano significative differenze con l’apparato teorico di Keynes e dei suoi successivi interpreti. In particolare riteniamo utile evidenziare le differenze legate al ruolo delle aspettative, della moneta, della disoccupazione e della teoria dell’impresa. Il ruolo della domanda di moneta è uno altro luogo discriminante fra le due teorie. La teoria keynesiana ha uno dei suoi principali capisaldi nella funzione di domanda di moneta, costituita da tre componenti, transattiva, precauzionale e speculativa. La natura estremamente variabile di quest’ultima componente impedisce al tasso di interesse di uguagliare investimenti e risparmi, determinando una continua insufficienza degli investimenti rispetto a quelli necessari per ottenere la massima occupazione. Per i Nuovi Keynesiani tutta questa costruzione sparisce e la mancata uguaglianza tra investimenti e depositi risiede nel razionamento del credito, un fenomeno non legato alle aspettative degli individui ma all’asimmetria informativa tra banche e mutuatari. Uno dei modelli che rende più chiara la differenza tra Keynes e la Nuova Macroeconomia Keynesiana è quello dei contratti asincroni presentato nel par 3.2. La persistenza degli effetti degli shock nel modello keynesiano è data dalle aspettative adattive, cioè dal mutare lentamente le proprie aspettative in base ai dati del passato, mentre in quel modello le aspettative sono razionali perché gli agenti si convincono che sia così, contro le relazioni causali del sistema. 14 per cui gli agenti sanno che lo shock è permanente e quindi mutano correttamente le loro aspettative, ma sono vincolati dalla struttura contrattuale a non poter modificare nel modo corretto i prezzi. Un’altra rilevante differenza è quella riguardante la spiegazione della disoccupazione: per Keynes essa deriva dall’insufficiente livello degli investimenti, un problema che tocca in maniera endemica il capitalismo, per i Nuovi Keynesiani la sua causa è principalmente nella concorrenza imperfetta sul mercato del lavoro e quindi è frutto dell’esistenza di forti sindacati. In questo caso la nuova modellistica non sembra in grado di rendere giustizia a Keynes, pur ottenendo esiti simili. In generale l’opera di Keynes è dedicata a dimostrare la continua instabilità ed incapacità di autoregolarsi del capitalismo. Gli squilibri nei modelli della Nuova Macroeconomia Keynesiana, invece, sono frutto di eventi esterni che hanno effetti su di una struttura che di per se tenderebbe a comportarsi in maniera ottimale. La parte della Nuova Macroeconomia Keynesiana che presenta la maggiore vicinanza con il pensiero keynesiano è quella dei coordination failure. In essi, come abbiamo visto, giocano un ruolo centrale le aspettative degli agenti. Nel modello keynesiano, l’incremento degli investimenti dovuto all’espansione dell’offerta di moneta genera un aumento dei prezzi e quindi profitti straordinari. A loro volta questi aumentano la fiducia degli imprenditori, inducendoli ad aumentare la produzione. L’enfasi keynesiana sulle aspettative è inoltre rintracciabile nella nozione di efficienza marginale del capitale che determina le decisioni di investimento. Questo concetto, lungi dall’essere assimilabile a quello di produttività marginale del capitale, fa dipendere i rendimenti degli investimenti, e quindi il loro livello, sulla base di variabili psicologiche fortemente instabili. Il rapporto tra Nuova Macroeconomia Keynesiana ed economia post-keynesiana, è piuttosto complesso. Da una parte, entrambe sono teorie di equilibrio non-walrasiano, cioè una situazione in cui parte delle risorse non viene utilizzata e non vi sono stimoli che inducano gli agenti a modificare le proprie decisioni. Dall’altra, diverse ipotesi dei rispettivi modelli sono in conflitto. Uno di questi campi è quello della teoria dell’impresa. Sebbene all’interno della Nuova Macroeconomia Keynesiana non vi sia una visione esplicita di questa teoria, sono evidenti le differenze con le teorie post-keynesiane dell’impresa. Il grafico successivo mostra come, a livello di singola impresa, la differenza di primo ordine nel prezzo praticato rispetto a quello ottimale (p° invece di p*) implichi una riduzione di secondo ordine rispetto al profitto ottimale (π° invece di π*). E’ importante notare come questa rappresentazione della funzione di profitto sia basata sul suo essere una funzione continua e liscia e che quindi ammetta un unico punto di massimo dove la derivata prima è nulla e derivata seconda è negativa. L’approccio microeconomico all’impresa, quindi, è tutto svolto all’interno del paradigma neoclassico. Una volta che una di queste ipotesi venisse messa in 15 π π* π° p° p* p discussione, tutta la costruzione ne risulterebbe compromessa. Nelle teorie post-keynesiane dell’impresa, viene abbandonato il principio marginalistico dell’uguaglianza tra costi e ricavi marginali perché le imprese non conoscono con precisione la loro curva di domanda, cosa che non accade nei modelli della Nuova Macroeconomia Keynesiana. L’impresa “post-keynesiana” fissa il prezzo sulla base di qualche principio e vende a quel prezzo qualunque quantità il mercato sia in grado di assorbire (normal pricing). I prezzi tendono quindi ad essere stabili come nei modelli precedentemente analizzati, ma per motivi sostanzialmente diversi. Il problema delle fondazioni microeconomiche della macroeconomia, al quale i Nuovi Keynesiani cercano di dare una risposta, era già stato affrontato all’interno delle reinterpretazioni di Keynes da Clower e Leijonhufvud. Clower (1965) abbandona l’idea che gli scambi avvengano in equilibrio, cioè che la domanda “desiderata” coincida con quella effettiva. Se i prezzi non sono market clearing, gli individui non sono in grado di vendere o comprare le quantità programmate, per cui le domande effettive risultano vincolate dai redditi monetari effettivamente realizzati. Se questi ultimi non sono in grado di consentire l’acquisto delle quantità desiderate, i piani di spesa devono essere rivisti, realizzando così un meccanismo decisionale duale. Inoltre, poiché le transazioni avvengono in moneta, esiste una separazione tra le merci da domandare e quelle da offrire. In questo modo le decisioni degli individui sono sottoposte a due vincoli: uno rappresenta un vincolo di spesa e richiede che gli acquisti siano sostenuti da disponibilità monetarie. Il secondo è un vincolo di reddito che impone che l’accumulo di scorte liquide sia limitato dalla capacità di realizzare un reddito mediante la vendita di beni e servizi. Se questi vincoli non sono contemporaneamente soddisfatti, le imprese non potranno vendere tutte le merci prodotte. In questo modo, un iniziale eccesso di domanda può trasmettersi all’intera economia secondo un meccanismo moltiplicativo simile a quello keynesiano. 16 Leijonhufvud (1968) esclude la presenza del banditore dal modello, e quindi il tempo richiesto per completare le transazioni crea la possibilità che si verifichino scambi in disequilibrio. L’incertezza sul futuro comporta la necessità di guardare al passato per formare le aspettative, e questo implica che salari monetari, livello dei prezzi, livello degli investimenti siano parzialmente rigidi. Tale rigidità fa sì che le transazioni avvengano a prezzi sbagliati e che vi sia disoccupazione duratura. I modelli fix-price non sono stati in grado di fondare la macroeconomia keynesiana su fondamenti microeconomici rigorosi principalmente perché incapaci di tradurre in uno schema analitico le dinamiche del salario, dei prezzi e del tasso di interesse, inoltre il processo di formazione delle aspettative impiegato da Keynes richiedeva un esame più rigoroso. Infine, resisteva il forte limite derivante dall’inconciliabilità di questi risultati con l’assunzione di agenti razionali. Come evidenziato in precedenza, la microfondazione della Nuova Macroeconomia Keynesiana, invece avviene tutta interna al paradigma neoclassico senza il ricorso a squilibri. 7. Confronto con Friedman, Nuova Macroeconomia Classica e Real Business Cycles In questo paragrafo intendiamo mettere in evidenza le similitudini e le differenze tra l’approccio della Nuova Macroeconomia Keynesiana e le sue controparti market clearing. Il tasso di disoccupazione di equilibrio del modello di Friedman (tasso naturale di disoccupazione, NRU) ed il NAIRU presentano similitudini e differenze. In corrispondenza di entrambi l’inflazione è constante, per cui postulano l’esistenza di una curva di Phillips di lungo periodo verticale. Tuttavia, il tasso naturale di disoccupazione di Friedman è un tasso market clearing, al quale vi è equilibrio tra la domanda e l’offerta di tutti i mercati, gli agenti sono atomistici e perfettamente informati. Il NAIRU, invece, è il tasso che rende compatibili le richieste sul prodotto per lavoratore. La nozione di potere di mercato ed il ruolo della disoccupazione come strumento di disciplina delle rivendicazioni salariali sono fondamentali per il concetto di disoccupazione di equilibrio10. L’attacco portato all’edificio keynesiano da Lucas si fondava sul problema dell’ottimizzazione individuale e sul problema della formazione delle aspettative. Tipicamente nel modello keynesiano gli agenti formano le loro previsioni sul valore delle variabili nel futuro, estrapolandole dai dati del passato (aspettative adattive). Questo modo di formare le preferenze è stato criticato dalla Nuova Macroeconomia Classica come irrazionale, in quanto non permette al soggetto di utilizzare tutta l’informazione disponibile ad un dato momento. Come è noto, le aspettative razionali annullano completamente effetti delle manovre di politica economica, perché ogni manovra sistematica è internalizzata dagli agenti economici, perché compresa dal modello che essi adoperano per interpretare la realtà. Essi, quindi, pongono in essere azioni individuali che 17 controbilanciano queste politiche. Solo azioni di politica economica inattese sulla domanda nominale hanno degli effetti nel breve termine. I Nuovi Keynesiani fanno propria questa critica ed assumono nei propri modelli le aspettative razionali sostituendole a quelle adattive. La principale differenza tra i Nuovi Keynesiani ed i Nuovi Classici, dalla quale scaturiscono quelle relative alla politica economica, riguarda l’interpretazione della rigidità dei prezzi. Infatti, sebbene secondo entrambi la dimensione dell’effetto di uno shock reale dipende negativamente dalla variazione della domanda aggregata, il meccanismo di trasmissione è diverso. Nel modello di Lucas (1972) l’aggiustamento nominale incompleto è causato dall’informazione imperfetta che ogni produttore ha riguardo alla natura del cambiamento del proprio prezzo relativo, se questo dipenda da un aumento della domanda per il proprio bene o da un incremento del livello generale dei prezzi. In risposta ad un aumento del prezzo del prodotto, la scelta razionale del produttore è quella di attribuire ad ognuna di queste possibilità una certa probabilità e di quindi incrementare la produzione di una certa misura, con la conseguenza che la curva di offerta aggregata diventa più inclinata. Il modello implica che alti valori inattesi della domanda aggregata portano ad una produzione più elevata ed a prezzi più alti di quanto atteso. In questo senso, quindi, esiste una curva di Phillips anche in questo modello. Tuttavia, se i policy makers decidono di aumentare l’offerta di moneta e questa decisione non è nota al pubblico, esiste un lasso di tempo in cui la crescita di moneta è positiva e la produzione è superiore al normale. Una volta che gli agenti si rendono conto del cambiamento, la crescita della moneta ha di nuovo media zero e quindi la produzione reale media non subisce modifiche. Se l’aumento della crescita di moneta è invece noto, l’aspettativa su di essa aumenta immediatamente e non vi è la fase di produzione più elevata. Un cambiamento della politica economica può modificare il comportamento delle variabili aggregate agendo sulle aspettative degli agenti: è questa la “critica di Lucas” all’uso di relazioni tra le variabili aggregate per fini di politica economica. La critica dei Nuovi Keynesiani a questo approccio è duplice. Da una parte è difficile non attribuire un aumento del prezzo relativo di un bene ad un’accresciuta domanda piuttosto che ad un aumento del livello dei prezzi, perché le informazioni su quest’ultimo indicatore sono frequentemente aggiornate, hanno un’ampia diffusione sui mezzi di informazione così come le decisioni delle Banche Centrali che riguardano i tassi di interesse. D’altra parte, per ottenere sostanziali variazioni dell’occupazione, il modello di Lucas richiede un’elasticità dell’offerta di lavoro molto più elevata di quella che viene correntemente osservata. Una delle conseguenze della controrivoluzione classica in economia è stata quella di negare l’esistenza di disoccupazione involontaria, ed uno dei campi in cui la differenza è stata più marcata 10 Questa visione della disoccupazione recupera quella di Marx di disoccupazione come “esercito di riserva del 18 con la modellistica keynesiana è stato quello sulla natura delle fluttuazioni economiche. Basandosi sulla teoria dell’equilibrio economico generale walrasiano, negli anni ’70 si è sviluppata una corrente interpretativa dei cicli economici, quella dei cosiddetti Real Business Cycles che, come altre teorie di impianto neoclassico, non dà nessun ruolo al lato monetario dell’economia nello spiegare le fluttuazioni. Questa teoria assume che i cicli economici siano causati da movimenti casuali del tasso di cambiamento tecnologico. A questo cambiamento esogeno, gli individui rispondono modificando i loro consumi e la loro offerta di lavoro. Quest’ultimo aspetto, in particolare, presenta i problemi teorici più forti. Gli individui razionali sostituirebbero intertemporalmente lavoro e riposo: quando i salari reali sono più elevati gli individui lavorano di più, mentre quando questi sono bassi, riducono la propria offerta di lavoro. La disoccupazione è quindi completamente volontaria in quanto massimizza il benessere sociale al variare delle condizioni tecnologiche, ed ogni politica del governo che miri a ridurre la disoccupazione è dannosa. Mankiw (1989) ritiene che questa teoria abbia una forte coerenza interna, mentre manchi di quella esterna. Una teoria è internamente coerente se non necessita di eccessive ipotesi ad hoc. Da questo punto di vista le ipotesi dei modelli di Real Business Cycles non sono diverse da quelle comuni dei modelli di equilibrio economico generale. D’altro canto, una teoria è esternamente coerente quando è in grado di spiegare efficacemente gli avvenimenti del mondo reale. Da questo punto di vista i modelli di Real Business Cycles presentano una limitata evidenza empirica. Innanzitutto, per ottenere le fluttuazioni tipiche di un ciclo economico, gli shock tecnologici esogeni dovrebbero essere molto forti, di una dimensione generalmente sconosciuta alle moderne economie. In secondo luogo, non c’è evidenza per l’elevata sostituibilità intertemporale del riposo che viene sostenuta in questi modelli e più in generale non c’è evidenza per la dipendenza dell’offerta di lavoro dal tasso di interesse reale. Infine, sembra abbastanza agevole sostenere che il livello di benessere sociale associato a fasi di crescita sia superiore a quello associato a fasi recessive. 8. Conclusioni Per una valutazione complessiva della Nuova Macroeconomia Keynesiana intendiamo rispondere a tre domande: l’obiettivo di trovare una solida microfondazione all’edificio teorico keynesiano è stato raggiunto? I risultati della teoria sono keynesiani? Esiste una relazione tra la metodologia utilizzata da Keynes e quella dei Nuovi Keynesiani? La risposta alla prima domanda è positiva: il modello costruito è in grado di spiegare perché agenti razionali si possano astenere da un aggiustamento completo dei prezzi, neutralizzando gli effetti di uno shock di domanda, senza ipotesi ad hoc. capitalismo”. 19 Anche la risposta alla seconda domanda è positiva se per risultati keynesiani si intende che i mercati non sono naturalmente in equilibrio di piena utilizzazione delle risorse e che appropriate politiche economiche della domanda aggregata possono portare l’economia in equilibrio. La risposta alla terza domanda è, invece, negativa: il costo pagato dai questi economisti per rispondere alle critiche “neoclassiche” al modello di Keynes ha comportato una forte presa di distanza da quel modello e da quella metodologia. In questo senso la Nuova Macroeconomia Keynesiana si unisce a quel filone di letteratura, che ha trovato la massima espressione nel modello IS-LM, che ha interpretato Keynes cercando di espungerne gli aspetti più originali e più legati al continuo disequilibrio dell’economia capitalistica. A differenza di alcuni commentatori, riteniamo che la circostanza che la Nuova Macroeconomia Keynesiana offra una serie di spiegazioni all’esistenza di fluttuazioni di breve periodo ci sembra essere un punto di forza piuttosto che di debolezza: da una parte, infatti, si richiamano diversi fattori per l’interpretazione di un fenomeno complesso che difficilmente può essere ridotto ad una sola causa. Dall’altra, si compongono le diverse tessere del mosaico in maniera coerente e tale che la capacità esplicativa di ognuna di esse risulti rafforzata dall’esistenza delle altre. L’approccio dell’aggiustamento nominale incompleto, ed in particolare quello dei menu costs non è ovviamente esente da problemi, tra questi considerare quattro argomentazioni critiche sembrano alquanto rilevanti: ♦ Per simmetria, se la rigidità nominale riduce la produzione ad un livello sub-ottimale, la stessa rigidità porterà ad un livello sovra-ottimale in risposta ad un aumento della domanda. Quindi il costo dell’aggiustamento nominale incompleto aumenta la varianza del livello di produzione senza modificare la sua media, comportandosi come un effetto di secondo ordine. A questo punto, il confronto avviene fra due costi di secondo ordine, inficiando il ragionamento costo privato di secondo ordine/costo pubblico di primo ordine. ♦ Il modello è essenzialmente a due periodi e non considera i costi ed i benefici nei periodi successivi: la giusta comparazione dovrebbe essere tra il costo one-shot di cambiare il prezzo, ed il valore attuale del flusso infinito di perdite derivanti dal tenere fissi i prezzi. ♦ Non è fornita nessuna ragione per la variabilità dell’aggiustamento dei prezzi sia tra industre sia nel tempo. In particolare non c’è nessuna spiegazione della circostanza che la velocità di aggiustamento dei prezzi sia aumentata durante la Prima Guerra Mondiale ed invece sia diminuita dopo la Seconda Guerra Mondiale, e che rispetto ai principali paesi industrializzati il Giappone presenti costantemente una maggiore rigidità dei prezzi. 20 ♦ L’aggregazione dalle variabili individuali a quelle aggregate è generalmente realizzata rimuovendo il pedice i dalle equazioni dei singoli agenti. Quello dell’agente rappresentativo è un modo estremamente comune e semplicistico di trattare il problema dell’aggregazione che limita la rilevanza dei problemi di coordinamento, delle esternalità macroeconomiche e delle relazioni produttore/consumatore, che pure vanno parte della teoria. In conclusione, sembra opportuno notare che dopo aver avuto un ruolo centrale nel dibattito macroeconomico negli anni ’80, attualmente si assiste alla virtuale scomparsa dei temi della Nuova Macroeconomia Keynesiana. Questo fenomeno, secondo noi, va letto in una progressiva riduzione dell’interesse della professione verso i temi del breve periodo ed un progressivo spostamento verso quelli del lungo periodo, come la crescita. Diverse possono essere i motivi per questo cambiamento di ottica. Da una parte, dapprima il dibattito sul cosiddetto productivity slowdown, poi la circostanza che gli anni ’80 e ’90 non siano stati caratterizzati un alternarsi di recessioni e riprese, ma rappresentino uno dei più lunghi periodi di espansione dell’economia dei paesi sviluppati. Infine il tumultuoso sviluppo di alcuni paesi detti emergenti, ed il continuare in una situazione di povertà di tanti altri paesi. D’altra parte, molti economisti hanno evidenziato come il dibattito tra monetaristi e keynesiani prima e tra Nuovi Classici e Nuovi Keynesiani dopo, sia stato caratterizzato da un forte connotato ideologico da parte dei diversi contendenti, con la conseguenza di ridurre la qualità del dibattito scientifico. Nell’ambito della modellistica di lungo periodo, invece, si può parlare di un vero e proprio consenso attorno al paradigma neoclassico. Riferimenti bibliografici Akelorf G.A. e Yellen, J.L. (1985). “A Near-Rational Model of the Business Cycles, with Wage and Price Inertia”, Quarterly Journal of Economics, 100, 823-828. Ball, L. e Romer, D (1989). “Are Prices Too Sticky?”, Quarterly Journal of Economics, 104, 507524. Ball, L. e Romer, D. (1990). “Real Rigidities and the Non-Neutrality of Money”, Review of Economic Studies, 57, 183-203. Ball, L., Mankiw, N.G. e Romer, D. (1988). “The New Keynesian Economics and the OutputInflation Trade-off”, Brookings Papers on Economic Activity, 1, 1-65. Blanchard, O.J. e Kiyotaki, N. (1987). “Monopolistic Competition and the Effects of Aggregate Demand”, American Economic Review, 77, 647-666. Carlin, W.J. e Soskice, D.W. (1990). Macroeconomics and the Wage Bargaining, Oxford University Press. Clower, R. 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