Centro di Ricerca CRIBe.Cu.M.

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A04
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CATANIA
Centro di Ricerca C.R.I.Be.Cu.M.
L’approccio multidisciplinare
allo studio e alla valorizzazione
dei Beni Culturali
Atti del workshop
Siracusa, 28–29 ottobre 2005
a cura del C.RI.BE.CU.M.
Copyright © MMVI
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, 133 a/b
00173 Roma
(06) 93781065
ISBN
88–548–0917–9
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: dicembre 2006
CRIBeCuM (Centro di Ricerche sulle cause di degrado
per il recupero dei Beni Culturali e Monumentali) Direzione c/o Università di Catania - Dipartimento di Scienze Geologiche
Corso Italia 57, 95129 Catania - Tel. +39 095 7195746 – Fax. +39 095 7195760
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Comitato Scientifico
A. Pezzino (Direttore CRIBeCuM)
L. Andreozzi (Dipartimento Architettura e Urbanistica)
S. Cascone (Dipartimento Architettura e Urbanistica)
E. Ciliberto (Dipartimento Scienze Chimiche)
A. Failla (Dipartimento Ingegneria Agraria)
I. Fragalà (Dipartimento Scienze Chimiche)
G. Giaccone (Dipartimento Botanica)
A. Guglielmo (Dipartimento Botanica)
P. Mazzoleni (Dipartimento Scienze Geologiche)
P. Militello (Dipartimento Studi Archeologici, Filologici e Storici)
E. Poli (Dipartimento Scienze Agronomiche Agrochimiche Prod. Animali)
R. Rizzo (Dipartimento Economia e Metodi Quantitativi)
F. Tomasello (Dipartimento Studi Archeologici, Filologici e Storici)
S.O. Troja (Dipartimento Fisica e Astronomia)
Comitato Organizzatore
C. Altavilla (Dip. Scienze Chimiche)
L. Barnobi (Dip. Architettura e Urbanistica)
A. Giuffrida (Dip. Architettura e Urbanistica)
A. Gueli (Dip. Fisica e Astronomia)
A. Manera (Dip. Fisica e Astronomia)
A. Mignosa (Dip. Economia e Metodi Quantitativi)
A. Pezzino (Dip. Botanica)
S. Porto (Dip. Ingegneria Agraria)
R. A. Punturo (Dip. Scienze Geologiche)
F. Trapani (Dip. Studi Archeologici, Filologici e Storici)
A. Zuccarello (Dip. Fisica e Astronomia)
Comitato Editoriale
Anna Gueli, Rosalda Punturo
INDICE
Premessa ...................................................................................................................... 13
Altavilla C., Ciliberto E., Trigilia M.
La Protezione delle Superfici Vetrose ........................................................................ 15
Altieri A., Guidetti V., Malagodi M., Nugari M.P., La Russa M.F.
Formulati idrorepellenti e antivegetativi miscelabili a malte in uso nel restauro:
valutazione dell’efficacia su provini............................................................................ 24
Andreozzi L.
I modelli digitali nella rappresentazione per i Beni Culturali.
La scientificità del rilevamento e del rilievo .............................................................. 27
Azzaro E., Montana G., Pisciotta G.T., Cau Ontiveros M.A., Portillo Ramirez M.
Studio petrografico di macine protostoriche
dai siti di Alorda Park e di Barranc de Gafols (Spagna)............................................ 33
Bahain J.J., Burrafato G., Dolo J.M. , Falguères C., Gueli A.M., Lahaye C.,
Leonardi R., Occhipinti A., Placenti G., Stella G., Troja S.O., Zuccarello A.R.
L’apporto della Risonanza Paramagnetica Elettronica (EPR)
nello studio dei Beni Culturali: caso delle calciti ...................................................... 52
Barca D., Crisci G.M., De Francesco A.M.
Caratterizzazione archeometrica delle ossidiane
del Monte Arci tramite ICP-MS-LA .......................................................................... 63
Barnobi L., Colaiacovo L., Di Gregorio G., Galizia M.,
Giuffrida A., Grasso S., Liuzzo M., Santagati C.
Rilievo geometrico ed architettonico
della Chiesa di San Nicolò L’Arena, Catania* .......................................................... 72
Barone G., Belfiore C.M., Lo Giudice A., Mazzoleni P.,
Pezzino A., Spagnolo G., Ingoglia C., Tigano G., Albanese R.M
Localizzazione dei centri di produzione anforica nell’occidente greco:
dati archeometrici su anfore “corinzie B”, “ionico-massaliote”,
“pseudo-chiote” e “greco-italiche” rinvenute in Sicilia ............................................ 83
7
8
Indice
Barone G., Crisci G.M., La Russa M.F., Malagodi M., Ruffolo S.
Studio preliminare dei parametri termoigrometrici e delle loro variazioni
all’interno della Chiesa di S. Adriano in S. Demetrio Corone (CS) ........................ 93
Bellezza S., Volpini M., Bruno L., Albertano P.
Effetto di luci monocromatiche sulla composizione in specie,
morfologia e pigmenti di biofilm a cianobatteri in ipogei romani ............................ 100
Bultrini G. Fragalà I., Ingo G.M., De Caro T.
Microchemical and micromorphological investigation
of lustre painted ceramic from Sicily and Sardinia (Italy) ........................................ 103
Bultrini G., Fragalà I., Ingo G.M., Lanza G.
Caratterizzazione minero-petrografica, microchimica e microstrutturale
di malte storiche usate a Catania durante il XVII secolo .......................................... 106
Burrafato G., De Vincolis R., Greco V., Gueli A.M.,
Lahaye C., Occhipinti A., Stella G., Troja S.O., Zuccarello A.R
Colorimetria con tecniche spettrofotometriche
e radiometriche sui dipinti del Minniti ...................................................................... 118
Burrafato G., Gueli A.M., Lahaye C., Manera A., Stella G., Troja S.O., Zuccarello A.R.
Datazione di strutture architettoniche mediante TermoLuminescenza:
La Chiesa di San Nicolò La Rena e la Cuba di Fontane Bianche* .......................... 129
Buscemi F., Tomasello F., Trapani F.
Un ninfeo romano a Leptis Magna. Sinergie multidisciplinari ................................ 140
Campolo D.
Progetto di valorizzazione di un centro storico: il caso Pentedattilo ........................ 150
Caneva G., Pacini A., Nugari M.P., Pietrini A.M.
Il biodeterioramento della cripta del Peccato Originale nella gravina di Matera
e la sua analisi ecologica per il biomonitoraggio dei parametri ambientali.............. 160
Caponetto R., Chisari W., Gulisano G., Lo Faro A.,
Margani G., Moschella A., Napoleone A., Sanfilippo G., Sapienza V.
L’apparecchiatura tecnico-costruttiva della chiesa di San Nicolò l’Arena (CT)* .... 169
Cascone S. M., Porto S. M. C.
Repertorio delle tecniche costruttive
negli edifici rurali tradizionali nel comprensorio etneo ............................................ 170
Indice
9
Catra M., Giaccone G., Pezzino A.
Individuazione dei decadimenti causati dai biodeteriogeni algali
nell’involucro esterno della Chiesa di S. Nicolò L’Arena
(Catania, Monastero Benedettini)* ............................................................................ 171
Chisari W., Lo Faro A., Moschella A., Napoleone A., Sanfilippo G.
Analisi multidisciplinare per l’individuazione dei degradi
presenti nella chiesa di San Nicolò l’Arena* ............................................................ 180
Cicala Campagna F.
Spunti Caravaggeschi nella pittura siciliana del Seicento.......................................... 181
Cirrincione R., Crisci G.M, De Vuono E,
Lo Giudice A, Miriello D., Pezzino A., Punturo R.
Caratterizzazione e Provenienza dei materiali litoidi impiegati
nella costruzione delle colonne dell’Emiciclo Teatro
del Parco del Cavallo di Sibari (Calabria) .................................................................. 183
Corrao M., Licitra M.
Il terremoto di Santa Venerina del 29 ottobre 2002:aspetti sismologici
e applicazioni diagnostiche propedeutiche ai sistemi di intervento .......................... 185
Crisci G. M., Gattuso C., Macchione M., Miriello D.
Analisi dei meccanismi di degrado dei materiali calcarenitici
dovuti all’azione dei licheni ........................................................................................ 187
Failla A., Cascone G., Porto S. M. C.
Valutazione della suscettività al riuso per fini agrituristici
dei fabbricati rurali tradizionali. Confronto tra due casi studio ................................ 198
Finocchiaro Castro M., Rizzo I.
Misurazione della performance e tutela dei beni culturali: il caso della Sicilia ...... 211
Greco V.
Il prezioso ruolo della ricerca nei Beni Culturali ......................................................2231
Guglielmo A, Pavone P., Spampinato G., Tomaselli V.
Analisi della flora e della vegetazione delle aree archeologiche della Sicilia
orientale finalizzata alla tutela e valorizzazione dei manufatti architettonici .......... 226
Guglielmo A., Pavone P., Salmeri C.
Su alcuni giardini storici della Sicilia Orientale ........................................................ 229
10
Indice
Imposa S., Gresta S.
Stima della risposta di sito ed indagini Georadar:
un caso studio applicato alla Chiesa dei “Minoritelli” (Catania) .............................. 245
Incatasciato S.
Il museo del mare di Pozzallo: uno studio preliminare.............................................. 254
La Rosa V.
Il valore di un’esperienza multidisciplinare: il caso di Festòs (Creta) ...................... 256
La Russa M.F., Barone G., Mazzoleni P., Pezzino A.,
Crisci G. M., Malagodi M., Areddia G., Vindigni A.
Il Duomo di S. Giorgio a Ragusa Ibla: individuazione dei materiali litici
utilizzati, implicazioni architettoniche ed analisi delle forme di degrado ................ 267
Lamagna R.
La ricostruzione settecentesca del monastero di San Benedetto
in via dei Crociferi a Catania. Fabbriche e libri di spesa .......................................... 275
Martini M.
Datazione con Termoluminescenza: recenti sviluppi e nuove prospettive ................ 281
Matteini M.
L’approccio multidisciplinare alla conoscenza scientifica delle opere d’arte .......... 289
Mazzoleni P., Punturo R., Russo L.G., Censi P., Lo Giudice A., Pezzino A.
La geoarcheometria applicata alla Conoscenza e alla Conservazione dei Beni Culturali.
Un caso di studio: la facciata della Chiesa di S. Nicolò L’Arena di Catania*................ 296
Mignosa A.
Devoluzione e beni culturali: il caso della Sicilia e della Scozia .............................. 305
Montana G, Triscari M.
Campionari in “marmi” e pietre dure del barocco siciliano:
un esempio a Siracusa. ................................................................................................ 316
Mottana A., Massacci G.A.M.
Conoscenza, progetto e tutela del complesso edilizio fortificato
“Castello di Pitino” sito nel comune di San Severino Marche (MC)........................ 319
Poli Marchese E., Grillo M., Stagno F.
Biodeteriogeni vegetali della Chiesa di S. Nicolo’ L’Arena (Catania)* .................... 332
Indice
11
Poli Marchese E., Grillo M., Stagno F.
Colonizzazione vegetale in monumenti
e siti archeologici della Sicilia orientale .................................................................... 344
Punturo R., Russo L. G., Lo Giudice A., Mazzoleni P.,
Pezzino A., Trovato C., Vinciguerra S.
I materiali lapidei utilizzati nei monumenti d’epoca tardo barocca
del centro storico di Catania: caratterizzazione e stato di degrado .......................... 347
Romano M.
Disegno e pittura nella fisiognomica del Seicento in Sicilia:
Mario Minniti e Filippo Paladini ................................................................................ 357
Russo M.
I musei nella Provincia di Catania .............................................................................. 360
Salemi A.
L’approccio multidisciplinare come atto preliminare
per la salvaguardia dei Beni Culturali: la chiesa di San Nicolò l’Arena* ................ 371
Sgariglia S.
L’Athenaion di Siracusa e il suo duomo, una storia di pietra.
Metodologie verso la conoscenza. .............................................................................. 373
Spagnolo D.
Mario Minniti tra maniera e naturalismo caravaggeschi in Sicilia............................ 376
Urzì C., De Leo F.
Utilizzo di tecniche di campionamento non distruttive
per lo studio di microrganismi biodeteriogeni
da superfici di interesse storico-artistico .................................................................... 378
* Lavoro realizzato nell’ambito del progetto “Il recupero e la valorizzazione del
patrimonio architettonico della Sicilia orientale: l’emergenza architettonica urbana e
l’edilizia rurale. Conoscenza, interventi e formazione” (T3 CLUSTER C 29), finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica
PREFAZIONE
Le discipline scientifiche si stanno affermando sempre più come
strumento di indagine insostituibile nella ricerca, nella conoscenza,
nella protezione e conservazione, nella valorizzazione dei Beni
Culturali. Se da un canto è oggetto di sempre maggiore attenzione l’individuazione delle metodologie di indagine, innovative e necessarie per
una corretta conoscenza del Bene, dall’altro appare comunque vincente, un nuovo modo di affrontare ogni problematica caratterizzato da un
approccio che veda l’opera sinergica di ricercatori di varia estrazione
disciplinare che interferiscano costruttivamente nel pieno rispetto delle
competenze specialistiche possedute.
Con la consapevolezza dell’importanza del Bene Culturale in quanto preziosa eredità del passato e risorsa per lo sviluppo futuro, nonché
della rilevanza dell’approccio multidisciplinare nella diagnostica e conservazione del Bene stesso, si è tenuto a Siracusa, nei giorni 28 e 29
ottobre 2005, il Workshop dal titolo “L’approccio multidisciplinare allo
studio ed alla valorizzazione dei Beni Culturali”. Tale iniziativa è stata
organizzata dal CRIBeCuM (Centro di Ricerche sulle cause di degrado
per il Recupero dei Beni Culturali e Monumentali) in collaborazione
con il Corso di Laurea in Tecnologie applicate alla conservazione ed al
restauro dei Beni Culturali della Facoltà di Scienze Matematiche,
Fisiche e Naturali dell’Università di Catania.
Il Workshop, del quale il presente volume raccoglie gli Atti, è stato
articolato, nelle due giornate, in altrettante sessioni: la prima incentrata sullo stato dell’arte; la seconda sugli interventi di tutela e valorizzazione.
Ha fatto parte integrante del Workshop il seminario satellite relativo
all’esperienza di collaborazione portata avanti dal Museo di Palazzo
Bellomo e dal Corso di Laurea in Tecnologie Applicate alla Conservazione e Restauro dei Beni Culturali che ha avuto come occasione di
13
14
Prefazione
incontro l’opera del Minniti e della sua Bottega durante una recente
mostra.
È infine da sottolineare che, a testimonianza della validità dell’approccio multidisciplinare nel campo dei Beni Culturali, diverse relazioni presentate hanno riguardato i risultati ottenuti nell’ambito del progetto “Il recupero e la valorizzazione del patrimonio architettonico della
Sicilia orientale: l’emergenza architettonica urbana e l’edilizia rurale.
Conoscenza, interventi e formazione” (T3 CLUSTER C 29), finanziato
dal Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica che ha visto la
collaborazione fattiva di gruppi di ricercatori di varia estrazione.
Relazioni ad invito e comunicazioni su tutte le tematiche affrontate,
si sono rivelate una preziosa occasione di confronto e di dibattito per
gli addetti ai lavori e per quanti interessati a nuove prospettive di studio
sui Beni Culturali.
15
LA PROTEZIONE DELLE SUPERFICI VETROSE
ALTAVILLA C., CILIBERTO E., TRIGILIA M.
Dipartimento di Scienze Chimiche dell’Università di Catania, viale A. Doria 65125 Catania,
tel 0039 095 7385054, fax 0039 095 580138, e-mail [email protected]
1. Introduzione
I vetri sono materiali solidi amorfi generalmente silicatici. Nel caso dei
vetri antichi, l’azione delle piogge acide e basiche ha innescato nel tempo
forti processi degradativi della matrice vetrosa attraverso meccanismi di
lisciviazione e di corrosione che hanno colpito gravemente molte opere in
vetro esposte all’azione degli agenti atmosferici [1].
≅Si -O- Na + H2O ¨ ≅Si- OH + Na + + OH Aggressione in ambiente neutro-acido
≅Si -OH + - Si - O ≅Si- O- Si≅
≅ + OH-¨
≅Si- O + H2O ¨ ≅Si- OH + OH Aggressione in ambiente alcalino
Lo scopo di questo lavoro è stato quello di mettere a punto, utilizzando la tecnica Self Assembled Monolayer, la deposizione di film protettivi, dello spessore di pochi angstrom costituiti da molecole organosilaniche bifunzionalizzate, in grado di modificare l’angolo di contatto acquavetro e di garantire al contempo grande resistenza chimica, così da rendere idrorepellente la superficie vetrosa, limitando l’attacco del vetro da
parte degli agenti atmosferici.
Il termine self-assembly indica la spontanea tendenza alla formazione, in
determinate condizioni, di complesse strutture da blocchi predeterminati che
coinvolgono diverse scale di energia e diversi gradi di libertà. In altre parole,
i self-assembled monolayers (SAM) sono aggregati molecolari ordinati, nati
spontaneamente a seguito dell’adsorbimento di opportune catene organiche,
16
Altavilla, Ciliberto, Trigilia
la cui testa presenta una particolare affinità con il substrato su cui deve essere eseguita la deposizione.
Le molecole comunemente depositate sono molecole organiche lunghe
mediamente una decina di atomi di carbonio e tra le più usate citiamo le catene tioliche e ditioliche e gli idrossimercaptani, per substrati di oro e alchiltriclorosilani e gli alchiltrimetossisilani per substrati a base di silicio ossido o vetro,
sistemi questi ultimi di cui ci siamo occupati in modo specifico.
Le molecole indicate sono tra le più usate con la tecnica SAM in quanto
sono capaci di generare monostrati altamente impaccati ed ordinati grazie
alla loro struttura costituita da uno scheletro molecolare alchilico di lunghezza variabile (backbone), recante o meno gruppi funzionali che conferiscono
specificità al film, da un gruppo terminale (endgroup) e da un gruppo di testa
(headgroup), responsabile del legame chimico con la superficie (v. Fig.1).
In particolare, l’ancoraggio delle molecole di alchilsilani al substrato di
vetro è dovuto alla condensazione tra la testa del precursore ed i gruppi funzionali (silanoli) emergenti dal substrato stesso, mentre il corretto allineamento, che dispone le molecole in modo quasi parallelo, è reso possibile
dalle interazioni idrofobiche tra le catene alifatiche [2].
La tecnica Self Assembled Monolayer permette quindi, senza alterare
l’estetica del manufatto, di creare film nanostrutturati trasparenti, in grado, se
scelto un opportuno precursore, di invertire le proprietà di bagnabilità di una
superficie; si può rendere così idrofobo lo strato trattato del vetro, limitando,
per un periodo pari alla durata del coating, l’interazione tra l’acqua e la superficie stessa.
Fig. 1. Rappresentazione schematica della struttura di un SAM
La protezione delle superfici vetrose
17
Nel nostro lavoro abbiamo scelto molecole che potessero offrire un’ottima adesione chimica alle superfici vetrose nonché una buona resistenza
all’attacco di specie aggressive. In particolare l’attenzione è stata posta sulle
molecole di octadeciltriclorosilano (OTS) e su alcune molecole fluorurate
della famiglia degli alchilfluorosilani (FAS). [3, 4, 5].
Lo studio della resistenza chimica di tali film è stato, per i nostri scopi,
eseguito ideando cicli di invecchiamento che simulassero le possibili
aggressioni causate dalle piogge, dall’irraggiamento solare e dagli stress
termici cui andrebbero soggetti i vetri protetti da FAS negli anni, se esposti in ambienti esterni.
È noto che, in assenza di agenti inquinanti, le piogge sono leggermente
acide per la presenza di anidride carbonica nell’atmosfera (pH=5.6); la formazione, in regioni particolarmente industrializzate, di vapori di SOx ed NOx
induce invece la caduta di piogge acide (pH=4), responsabili negli ultimi anni
di forti processi degradativi di una serie di manufatti artistici diversi, dai vetri
ai bronzi. Studi recenti, infine, hanno dimostrato, in diverse regioni d’Europa
(Spagna, Turchia, Grecia, Francia e Italia ), l’esistenza, accanto a precipitazioni acide, di piogge basiche (pH 8) [6, 7, 8]. Le piogge rosse o basiche sono
associate a masse di aria provenienti dalle regioni aride del Nord d’Africa,
contenenti una quantità superiore al 30% di calcite (CaCO3): la presenza del
particolato di carbonato di calcio nell’atmosfera incrementa significativamente il pH [9].
A partire da questi dati, sono stati pensati opportuni cicli settimanali di
invecchiamento ed un protocollo che potesse tenere conto delle varie tipologie di stress ambientale. Il protocollo messo a punto ha previsto un invecchiamento complessivo di quattro settimane con controllo dei parametri di degrado realizzato ogni settimana.
Le condizioni scelte per stimare la resistenza dei film sono state particolarmente drastiche in quanto il ciclo acido è stato eseguito a pH=2, mentre il
valore più basso di pH registrato in condizioni reali è di appena 4. Inoltre,
essendo stato eseguito ciascun ciclo per immersione del campione in soluzione, si è simulato un degrado di tipo statico, in cui la soluzione rimane per un
certo tempo in contatto con la superficie del manufatto, procurando danni
superiori a quelli registrabili in un degrado di tipo dinamico, più frequente nei
casi reali, in cui le gocce di acqua scivolano continuamente, allontanandosi
dalla superficie. È stato infatti dimostrato che il degrado dinamico favorisce
processi di lisciviazione, mentre il degrado statico innesca processi ben più
gravi di corrosione [10].
18
Altavilla, Ciliberto, Trigilia
Risulta evidente, per quanto detto, che stimare l’efficacia o meno del
metodo conservativo proposto equivale, in qualche modo, a stimare sia
l’idrorepellenza del film, sia la capacità di mantenere inalterate le proprietà
idrofobe anche a seguito dei cicli di invecchiamento. Per verificare la bontà
del metodo e studiare i sistemi ottenuti, è sembrato opportuno avvalersi, in
particolare, della tecnica di misura dell’angolo di contatto, per indagare sulle
proprietà di bagnabilità della superficie vetrosa, modificata ed invecchiata, e
della spettroscopia XPS (X ray Photoelectron Spectroscopy), per conoscere
lo stato chimico della superficie.
In particolare, le indagini XPS sono state effettuate sia allo scopo di caratterizzare il vetro scelto come substrato di deposizione sia per valutare di volta in
volta la bontà ed il grado di ricopertura ottenuto sui vetrini, a seguito della deposizione e dei trattamenti di invecchiamento sia per verificare eventuali relazioni
tra le proprietà di superficie e la bagnabilità dei campioni.
2. Aspetti Sperimentali
Pulitura dei vetrini modello. I campioni di vetro utilizzati per la deposizione sono stati normali vetrini portaoggetto, delle dimensioni di
18mm18mm, prodotti dalla Carlo Erba. Ogni vetrino è stato tagliato con
una punta diamantata in due parti, ciascuna avente dimensioni pari a
18mm9mm.
Prima di ogni deposizione è stato necessario sottoporre a processi di pulitura il campione, allo scopo di sgrassarlo totalmente, garantendo così condizioni ottimali per la formazione del film sulla superficie vetrosa.
I vetrini sono stati sottoposti a processi sequenziali di pulitura, della
durata di 15 minuti ciascuno, utilizzando tre diversi solventi con polarità
crescente, toluene anidro, acetone al 99.99% (prodotti dalla Aldrich) ed
acqua bidistillata.
Il campione successivamente è stato trattato, per trenta minuti a temperatura ambiente, con una soluzione “piranha”, costituita da acido solforico al
98% ed acqua ossigenata al 30%, in rapporto volumetrico 3:1.
Infine il substrato è stato sciacquato con acqua bidistillata, asciugato in
corrente di azoto e conservato in provette con gel di silice.
Deposizione di Alchilsilani e Fluoroalchilsilani su vetro. Le molecole
organiche bifunzionalizzate usate in questo lavoro allo scopo di creare film
idrorepellenti sulla superficie vetrosa sono state: l’octadeciltriclorosilano
La protezione delle superfici vetrose
19
(OTS), e l’eptadecafluorodeciltrimetossisilano (HFTS), prodotto e commercializzato dalla ABCR.
I ricoprimenti sono stati realizzati utilizzando una apparecchiatura progettata in modo da assicurare, per l’intero ciclo di deposizione, una atmosfera
inerte di azoto, risolvendo così il problema legato all’umidità dell’aria; si è
deciso inoltre, prima di ciascuna deposizione, di sottoporre la vetreria ad
essiccamento in stufa per 14 ore alla temperatura di 70° C, allo scopo di
allontanare l’acqua adsorbita sulle pareti; il solvente di deposizione è stato
anidrificato, così come il prelievo della molecola da depositare è stato eseguito in atmosfera inerte, in box di azoto. I vetrini con SAM depositato, sono stati
conservati in provette di vetro, con gel di silice, e posti in essiccatore.
Indagini XPS. Le misure di spettroscopia di fotoelettroni di raggi X
sono state effettuate mediante l’uso di uno spettrometro di fotoelettroni
PE-PHI ESCA/SAM 5600 Monocromator System, operante in condizioni
di vuoto base di 510-10 torr all’interno della camera di misura. È stata
usata una sorgente Al Kα monocromatica. Lo spettrometro è stato calibrato facendo riferimento alla regione di emissione 3d dell’argento. La scala
di energie (B.E.) è stata tarata ponendo il picco relativo alla ionizzazione
dell’orbitale C 1s corrispondente al carbonio avventizio di contaminazione superficiale a 285,0 eV.
I curve fitting sono stati ricavati mediante programmi a minimi quadrati
non lineari facenti uso di combinazioni lineari di funzioni GaussianeLorenziane.
Determinazione del valore di angolo di contatto. Le misure di angolo
di contatto sono state eseguite utilizzando come strumento di misura un
Contact Angle System OCA. Ciascuna misura è stata effettuata con metodo statico (sessile drop) ed a temperatura ambiente; su ognuno dei vetrini
la stima del valore dell’angolo di contatto è stata calcolata depositando,
con una velocità di cinque microlitri al secondo, gocce di acqua distillata
del volume ciascuna di due microlitri.
Su ognuno dei campioni, le misure sono state eseguite in tre punti diversi
della superficie, utilizzando tre gocce e la media statistica è stata fatta utilizzando i valori di angolo di contatto, ottenuti per i tre punti della superficie,
considerando il lato destro e sinistro del profilo di ciascuna goccia. Le misure di angolo di contatto sono state effettuate lasciando il campione in contatto con l’aria, ne segue che le tre fasi coinvolte nella determinazione del valore dell’angolo sono state il substrato vetroso ricoperto come fase solida, l’aria
come fase vapore e l’acqua distillata quale fase liquida.
20
Altavilla, Ciliberto, Trigilia
Cicli di invecchiamento. L’ invecchiamento è durato quattro settimane.
Di seguito vengono riportati i cicli settimanali realizzati:
1. trattamento acido a pH 2 - da lunedì a lunedì (misura dell’angolo di
contatto ogni lunedì)
2. trattamento basico a pH 8 - da lunedì a lunedì (misura dell’angolo di
contatto ogni lunedì)
3. trattamento acido a pH 2 + irraggiamento UV (350 nm) - da lunedì
a venerdì trattamento acido, sabato e domenica irraggiamento UV
(misura dell’angolo di contatto ogni lunedì)
4. trattamento basico a pH 8 + irraggiamento UV (350 nm) - da lunedì a venerdì trattamento basico, sabato e domenica irraggiamentoUV
(misura dell’angolo di contatto ogni lunedì)
5. trattamento di una settimana con luce UV (350 nm) - da lunedì a
lunedì (misura dell’angolo di contatto ogni lunedì)
6. trattamento termico a 50 °C + irraggiamento UV (350 nm) - da
lunedì a venerdì trattamento termico, sabato e domenica irraggiamento
UV (misura dell’angolo di contatto ogni lunedì)
7. shock termico 50 °C – 4 °C + irraggiamento UV (350 nm) - da lunedì a
venerdì trattamento termico (di giorno caldo e di notte freddo), sabato e
domenica irraggiamento UV (misura dell’angolo di contatto ogni lunedì)
3. Discussione dei risultati
I campioni di vetro sono stati puliti, con successo, in ultrasonicatore, utilizzando toluene, acetone e acqua bidistillata e successivamente immersi in
soluzione “piranha” per mezz’ora a temperatura ambiente, così da ottenere
un buon etching del substrato. Infatti, la caratterizzazione attraverso misure
di angolo di contatto (q≤10°) [13] e le indagini XPS (assenza di segnali relativi ad agenti inquinanti, elevato segnale delle O1s e Si2p, basso segnale del
carbonio avventizio) hanno confermato questo dato. L’ottimizzazione del
metodo di pulitura (v. Fig.2) e l’adeguata scelta del sistema di deposizione
hanno permesso di creare film self-assembled di OTS e FAS. Inoltre, la caratterizzazione dei SAM di alchilsilani e di fluoroalchilsilani, attraverso misure
di angolo di contatto, ha dimostrato adeguata la scelta delle molecole ai fini
di generare le volute proprietà di idrorepellenza (v. Fig.3).
La caratterizzazione XPS dei campioni in esame ha indicato un potere
coprente maggiore per la molecola del fluoroalchilsilano, rispetto alla mole-
La protezione delle superfici vetrose
21
cola di alchilsilano, come dimostra l’alta percentuale di fluoro in superficie,
il basso valore del segnale di O1s e la totale assenza dei segnali di boro,
sodio e potassio, caratterizzanti la matrice vetrosa.
La diversa capacità di ricopertura è stata giustificata in base alla tendenza della molecola di FAS, a differenza della molecola di OTS, a formare,
durante la deposizione, doppi e tripli strati, capaci di garantire una più densa
e compatta ricopertura superficiale. Inoltre la lunga molecola di HFTS presenta una conformazione elicoidale, rispetto alla conformazione transplanare della molecola di OTS, che giustifica la sua capacità di ricoprire aree più
vaste, una volta ancorata al substrato.
L’approccio sperimentale eseguito ha permesso anche di dimostrare la
capacità delle molecole di OTS e di HFTS di resistere ad attacchi acidi,
blandamente acidi e basici fino a pH 8 essendo variato l’angolo di contatto
nel peggiore dei casi di appena il 6%. Nessun effetto hanno invece avuto gli
stress termici e i cicli di irraggiamento UV.
A
B
Fig.2. Profili di gocce di acqua su vetro. A) vetro non sgrassato; B) vetro pulito con metodo proposto.
Fig.3. Profili delle gocce di acqua su vetro trattato: C) HFTS, D) OTS.
22
Altavilla, Ciliberto, Trigilia
Riferendosi a casi reali e considerando una esposizione del campione
trattato a 100 ore di pioggia ogni anno [6,8] è stata stimata una durata minima del ricoprimento dei vetrini di circa dieci anni. Durante tale periodo, i
coatings sono in grado di esplicare la loro azione protettiva, impedendo ogni
contatto tra il vetro e l’acqua.
In realtà i campioni in laboratorio se esposti a cicli di invecchiamento
della durata superiore ad un mese potrebbero rivelare la capacità di mantenere per tempi più lunghi le loro proprietà idrofobe, garantendo una durata
superiore a dieci anni.
In tal caso il metodo di conservazione proposto per la protezione dei
manufatti in vetro contro il degrado atmosferico potrebbe richiedere cicli di
manutenzione meno frequenti e costi di applicazione inferiori. Studi successivi in tale direzione si dovranno effettuare per stimare con più precisione la
durata di rivestimenti SAM.
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24
FORMULATI IDROREPELLENTI E ANTIVEGETATIVI
MISCELABILI A MALTE IN USO NEL RESTAURO:
VALUTAZIONE DELL’EFFICACIA SU PROVINI
ALTIERI A. (1), GUIDETTI V. (2), MALAGODI M. (1),
NUGARI M.P. (1), LA RUSSA M.F. (2)
(1)
Istituto Centrale per il Restauro; (2) Syremont SpA
Nella conservazione in situ di strutture murarie antiche, spesso è necessario effettuare interventi conservativi al fine di rallentare l’azione dei fattori ambientali e quindi il naturale processo di degrado del manufatto.
Diverse sono le tipologie di intervento, delle quali alcune vedono il ricorso a consolidanti e protettivi per creare una barriera alla infiltrazione dell’acqua nei materiali costitutivi, soprattutto sulle creste murarie. L’industria ha reso disponibili sistemi di protezione dei manufatti edilizi, tecnologicamente sempre più avanzati e studiati per sopperire anche alle problematiche conservative nelle aree archeologiche e monumentali.
Con tale ricerca si è voluta valutare, su provini artificiali, l’efficacia di
malte miscelate a formulati con proprietà idrorepellenti e antivegetative,
da impiegare su beni culturali. In particolare, è stato utilizzato il “formulato 16” (Syremont SpA)1, nato nell’ambito del Progetto “Sviluppo e
messa a punto di sistemi avanzati di conservazione e di protezione dei
manufatti edilizi delle aree archeologiche e monumentali” finanziato dal
MIUR e che ha visto coinvolte le società Syremont, Sipcam e C.S.T.
insieme alle Università del Molise della Calabria e alla Soprintendenza di
Pompei. Tale formulato è stato miscelato a calce e sabbia, in quantitativi
tali da ottenere due differenti concentrazioni. Il protocollo sperimentale ha
inoltre previsto la realizzazione di differenti tipologie e serie di provini
con malta tal quale (come testimone) e malta addizionata con i singoli
composti del formulato (erbicidi: triazine e composti dell’urea; idrorepellenti: polimeri fluorurati), alle stesse concentrazioni. Ulteriori provini
sono stati allestiti miscelando alla malta due biocidi (un microbicida e un
erbicida), diversi rispetto a quelli presenti nel “formulato 16”.
Formulati antirepellenti e idrovegetativi a malte in uso nel restauro
25
L’efficacia di tali materiali è stata testata nei confronti di alcune piante
ruderali e infestanti e nella prevenzione di colonizzazioni da parte di biodeteriogeni, eterotrofi e autotrofi, esponendo le diverse serie di provini in
condizioni controllate di laboratorio e in situ - in un ambiente della Domus
Aurea (Roma) caratterizzato da condizioni microclimatiche favorevoli
allo sviluppo dei microrganismi biodeteriogeni.
In particolare, si è potuta verificare l’efficacia antivegetativa in laboratorio seminando sui differenti provini di malta, realizzati con canali
superficiali, semi di Parietaria diffusa, Antirrhinum majus e Setaria viridis; contemporaneamente, come ulteriore testimone, i semi sono stati
seminati in terra.
La sperimentazione sui provini in laboratorio ha avuto una durata
complessiva di 23 giorni durante i quali si è potuto osservare e quantificare tempi e percentuale di germinazione, sviluppo e appassimento delle
piante seminate sui provini e in terra. Dalle prime elaborazioni dei dati si
può mettere in evidenza la maggiore efficacia del “formulato 16”, miscelato alla più alta concentrazione (4 %), soprattutto nei confronti di P. diffusa e di A. majus, rispetto a quella del formulato a concentrazione più
bassa (1,5%), al testimone e agli altri principi attivi usati singolarmente.
Ulteriori approfondimenti si stanno elaborando per interpretare i dati
ottenuti in tale sistema sperimentale in relazione alla modalità di azione dei diversi principi attivi, ad attività biocida, nei confronti delle specie vegetali e delle caratteristiche fisiche della malta a cui sono stati
miscelati.
L’efficacia antimicrobica è stata invece sperimentata attraverso l’esposizione in situ di alcuni supporti, preparati con il “formulato 16” e i prodotti antivegetativi e biocidi, prevedendo una serie di controlli ad intervalli regolari per il monitoraggio di eventuali colonizzazioni.
La valutazione dell’efficacia antimicrobica è stata effettuata per 120
giorni, durante i quali sono state condotte indagini microclimatiche (temperatura e umidità relativa). Il sito è stato scelto in base alle condizioni
termo-igrometriche favorevoli allo sviluppo dei microrganismi biodeteriogeni, in particolare funghi eterotrofi, cianobatteri e alghe. L’intera area è
infatti interessata da estese colonizzazioni microbiche per l’elevata umidità; la presenza di un impianto di illuminazione acceso continuativamente
ha inoltre favorito lo sviluppo, sia su pareti tal quali (laterizi) che policrome (affreschi), di muschi e microrganismi fotosintetici, quali alghe filamentose e cianobatteri.
26
Altieri , Guidetti, Malagodi, Nugari, La Russa
I risultati della sperimentazione dell’efficacia antimicrobica hanno
mostrato un principio di colonizzazione da cianobatteri e la crescita di
protonemi di muschio sulla superficie di alcuni dei provini esposti; il formulato, ad entrambe le concentrazioni, ha evidenziato una migliore efficacia inibente sia rispetto ai singoli principi attivi utilizzati da soli che
rispetto ai nuovi prodotti impiegati nella sperimentazione.
27
I MODELLI DIGITALI NELLA RAPPRESENTAZIONE
PER I BENI CULTURALI.
LA SCIENTIFICITÀ DEL RILEVAMENTO E DEL RILIEVO
ANDREOZZI L.
Dipartimento di Architettura e Urbanistica Università di Catania
Viale A. Doria, 6 – 95126 Catania, Tel. 095 7382525, Fax. 095 330309, [email protected]
1. La rappresentazione per modelli: una svolta epocale
Nei convegni come questo organizzato dal C.R.I.Be.Cu.M. con l’obiettivo dell’approccio multidisciplinare, come sollecita lo stesso Ministero dei
Beni Culturali, è opportuno mobilitare tutte le competenze e le energie per
favorire la più capillare diffusione di una solida e critica cultura tecnicoscientifica; per stimolare l’apertura di efficaci canali di comunicazione e di
scambio tra l’universo della società civile da un lato, e l’articolato complesso del Sistema Ricerca (Università, Enti di ricerca pubblici e privati, Musei,
Aziende, Associazioni, ecc.) dall’altro.
Nell’ambito del coacervo di discipline utili per la salvaguardia dei Beni
Culturali risulta fondamentale la Rappresentazione, il Segno, il Disegno:
disciplina che da sempre ha consentito di documentare, conoscere, analizzare, comunicare.
L’assunto è sempre valido, tanto che la disciplina viene proposta come
dottrina tra le scienze della comunicazione, fidando nella capacità dell’uomo di immagazzinare più facilmente un segno, una figura, un’immagine,
più che un testo, una tabella o altro.
Da sempre si è documentato attraverso il segno, l’immagine grafica, la
fotografia; la lettura di questa permette di conoscere l’oggetto, con la considerazione che, se le immagini sono diverse ma riferite alla stesso oggetto, la conoscenza risulta più approfondita, tanto che lo si può analizzare e
studiare in modo differente di quanto proposto tradizionalmente; ne consegue che l’immagine grafica, intesa come sintesi rappresentativa, o quella fotografica risulta il supporto necessario per le indagini che si possono
28
Andreozzi
eseguire sull’oggetto stesso; soprattutto quando l’interesse è rivolto ai
Beni Culturali sia essi architettonici, archeologici o anche a quelli mobili.
Con le tecnologie informatiche in questi ultimi si è assistito ad una trasformazione epocale, esse hanno modificato il modo di operare nell’ambito della documentazione, nonché della rappresentazione e di conseguenza
nella conoscenza in genere.
Questa evoluzione ha consentito uno sviluppo delle tecniche di rilevamento che consente una maggiore precisione nella misurazione da un lato
e dall’altro di graficizzazione, permettendo una documentazione più
ampia, esaustiva e realistica, rispetto alle tecniche tradizionali (piante,
prospetti e sezioni) e quindi una più facile lettura di quanto analizzato: un
cambiamento radicale nel concetto e nelle modalità di documentare e di
rappresentare la realtà esistente. In questo ambito l’Università assume il
ruolo di informare e formare quanti operano nel settore del rilievo dai rappresentanti delle istituzioni nazionali, regionali e locali, ai liberi professionisti e quanti sono chiamati a prestare la loro opera, a qualsiasi titolo, nell’ambito della salvaguardia e della conservazione del nostro patrimonio,
per poter poi eseguire il progetto d’intervento.
In accordo con la comunità scientifica, si ritiene che il rilievo debba avere
la caratterizzazione di scientificità, connotando con questo termine l’ipotesi
galileana, in cui la ripetizione di un esperimento deve produrre gli stessi risultati; questo implica che il rilevamento deve essere prodotto in modo oggettivamente esatto da un punto di vista metrico, scevro da implicazioni personali ottenute da interpretazioni diverse di uno stesso fenomeno. In quest’ottica
anche l’altro aspetto, quello della rappresentazione, derivando dal primo,
deve avere la precisione richiesta e quindi una rappresentazione metricamente esatta, così come oggi viene richiesta da più parti.
La ricerca tecnologica, che mette a disposizione strumentazioni che
risolvono il problema del rilevamento scientifico con alta precisione metrica e le possibilità di elaborazioni informatiche che riescono a gestire una
notevole quantità di dati, consentono oggi di costruire modelli tridimensionali di oggetti. Applicando tutto ciò ad oggetti architettonici e/o a quelli archeologici, oggi è possibile utilizzare lo spazio del monitor di un computer, ove hardwares e softwares rendono possibile la costruzione di
modelli tridimensionali, che vanno sotto il nome di “simulazioni virtuali”,
analizzabili da punti di vista differenti è facile trarre misure, quantificarne
e qualificarne alcune superfici sia piane che curve, cosa che la rappresentazione piana di tipo tradizionale non consente.
I modelli digitali nella rappresentazione per i Beni Culturali
29
Oggi si rappresenta attraverso modelli tridimensionali; per la loro
costruzione è necessario conoscere una sempre più crescente quantità di
punti, la cui definizione rende sempre più aderente alla realtà la cosa rilevata, creando il presupposto per definire il risultato scientificamente esatto; una risposta a queste esigenze la fornisce la tecnologia del laser scanner 3D.
2. Il rilievo scientifico con Laser Scanner 3D
Negli anni scorsi il modello si costruiva attraverso una serie di punti,
che venivano rilevati e collegati gli uni agli altri attraverso ipotesi geometriche che modellavano parti di superfici agli elementi architettonici o
archeologici. L’attendibilità dell’esattezza del modello, della sua rispondenza con la realtà, derivava dalla quantità di punti e dalla intuizione geometrica di porzioni di superfici, che venivano tra di loro assemblate.
Oggi attraverso l’applicazione dello scanner laser 3D è possibile rilevare per ogni scansione una notevole quantità di punti, definita “nuvola di
punti”, che raffrontati con il numero di punti rilevati con altri sistemi codificati risulta nettamente a favore di questa ultima metodica, dipendendo
questo dalla piccola distanza tra un punto ed il limitrofo (pochi millimetri), con il risultato che l’insieme dei punti: la nuvola di punti, da sola è
atta a descrivere la porzione di superficie rilevata.
La precisione che il raggio laser consente nel calcolo della distanza tra
il centro dello strumento ed il punto collimato, ottenuto attraverso la misurazione del così detto “tempo di volo”, consente di ottenere le coordinate
cartesiane di ogni singolo punto rispetto ad un sistema di riferimento fissato nel centro dello strumento.
Le caratteristiche dello strumento influenzano il modo di operare. Nel
caso in cui lo strumento non è dotato di motorizzazione la scansione avviene
tramite il movimento in senso verticale ed orizzontale del pennello di raggio
laser. Per scansionare un’intera superficie è necessario procedere a più scansioni, posizionando lo strumento in punti differenti, il numero delle quali
dipende dalle caratteristiche angolari del movimento del pennello. In questo
caso si deve procedere all’assemblaggio delle diverse scansioni, le singole
immagini composte, aggregate nella sequenza in cui sono state eseguite e, in
fase di progetto, si devono prevedere le sovrapposizione necessarie per il
montaggio. Tutte le scansioni, pulite dai punti sovrabbondanti, e assemblate
30
Andreozzi
rendono percepibile un modello nella tridimensionalità formale e nella sua
complessità spaziale, un modello virtuale, molto aderente alla realtà, quasi
tangibile nella sua definita forma geometrica.
Se lo strumento è dotato di motorizzazione il pennello di luce polarizzata può muoversi in senso verticale con un’apertura angolare, che lascia
scoperta solo la zona della propria base, e in senso orizzontale di un angolo giro. Una attrezzatura di questo tipo permette di rilevare, con un solo
punto stazione, tutta la superficie interna di un singolo ambiente o una
vasta zona di quella esterna; la nuvola di punti senza altra elaborazione
consente di creare uno pseudo modello.
Questa metodica è stata utilizzata nelle riprese per il rilevamento della
Cappella Bonaiuto [8], della volta della Torre Pisana al Castello di
Lombardia di Enna [8], o nel rilievo delle volte del Refettorio Piccolo [10]
o del Vestibolo del Sacrario dei Caduti [8,9] presso il Monastero dei
Benedettini a Catania.
Le operazioni richieste risultano numerose, la complessità di aggregazione tra modelli diversi si deve avvalere di metodologie integrate, i singoli spazi devono essere definiti geometricamente e documentabili tramite interventi di modifica abbastanza celeri. L’aggregazione di più modelli
si ottiene attraverso poligonazioni o per sovrapposizioni di punti omologhi
che consentono la creazione di un unico modello dell’intera struttura.
Questa metodica è stata utilizzata per il rilevamento della facciata e dell’interno della Badia di Sant’Agata a Catania; l’assemblaggio è stato realizzato con la sovrapposizione delle diverse scansioni attraverso il riscontro di punti comuni all’una con l’altra.
Una fase di elaborazione con algoritmi di filtraggio ed ottimizzazione
delle informazioni rilevate consente, attraverso mesh o nurbs, un collegamento dei singoli punti trasformando la serie di punti in una superficie
continua che può considerarsi, per forma, identica alla superficie reale. Lo
scarto dipende dall’intervallo tra punto e punto, più questo tanto la superficie può essere assimilata a quella reale, e quindi considerata come involucro dell’oggetto di cui ne è garantita la metricità.
La critica più corrente che viene posta in essere a questa metodica è
quella che il rilevamento avviene per superfici, limitate solo all’aspetto
esteriore, epidermico, e nulla o poco si può ipotizzare sulla struttura che
sottende l’oggetto. Premesso che in ogni operazione di rilevamento si
opera solo documentando la parte visibile e che eventuali ricerche sulla
tipologia strutturale, ove non si intervenga con analisi di altro tipo, si ottie-
I modelli digitali nella rappresentazione per i Beni Culturali
31
ne per assemblaggio di parti diverse, allo stesso modo si opera nel caso del
rilevamento tramite laser. Così l’assemblaggio di più scansioni quelle che
delimitano lo spazio interno dell’oggetto e quelle che ne documentano la
superficie esterna collegandole, con le menzionate poligonali, ad un unico
sistema di riferimento, consentono di evidenziare attraverso sezioni la
struttura sottesa tra le due superfici estreme e ricavare sezioni e profili da
cui ottenere grafici di tipo tradizionale.
Il lavoro di rilevamento della struttura archeologica delle Terme
dell’Indirizzo [11, 12] eseguita dal nostro gruppo di lavoro ne è un esempio; l’avere associato il modello esterno con quello interno ha consentito
di sezionare con una grande quantità di piani verticali l’oggetto e dato la
possibilità di ricavare tutte le sezioni necessarie a comprendere la struttura dell’edificio termale.
Quanto fin qui esposto è sufficiente per definire la forma dell’oggetto,
poco o quasi nulla può essere determinato dal punto di vista materico e
colorimetrico, e per l’individuazione delle parti degradate, o delle parti
soggette a patologie.
Questa incertezza può essere superata con un rendering fotografico;
infatti l’immagine fotografica offre una definizione superiore a quella
offerta dall’immagine ricavata dalla scansione. Nel nostro laboratorio ci
siamo posti l’obiettivo di spalmare la foto sulle superfici ricavate considerando queste come schermi su cui proiettare l’immagine fotografica, dopo
aver relazionato punti omologhi sia sulla scansione che sulla foto.
Attraverso l’interpretazione dell’immagine ottenuta, immagine metricamente esatta, si riesce a definire ed individuare lo stato fessurativo o di
degrado il cui si trovano le varie parti e quindi perfettamente definibile per
la valutazione di alcune opere d’intervento. Questi sono i criteri con cui in
questi anni prendono avvio le nostre esperienze con l’applicazione della
metodologia del laser scanner 3D.
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33
STUDIO PETROGRAFICO DI MACINE PROTOSTORICHE
DAI SITI DI ALORDA PARK E DI BARRANC DE GAFOLS (SPAGNA)
AZZARO E.(1), MONTANA G.(1), PISCIOTTA G.M.(1),
CAU ONTIVEROS M.A.(2), PORTILLO RAMIREZ M.(3)
(1) Dipartimento di Chimica e Fisica della Terra ed applicazioni alle georisorse
e ai rischi naturali, Università degli Studi di Palermo, via Archirafi, 36 – 90123 Palermo,
tel. 091 6161516, fax 091 6168376, [email protected], [email protected];
(2) ICREA/ERAUB, Departament de Prehistòria, Història Antiga i Arqueologia,
Universitat de Barcelona, Fac. Geografia i Història, Baldiri i Reixac s/n, 08028 Barcelona;
(3) Departament de Prehistòria, Història Antiga i Arqueologia, Universitat de Barcelona,
Fac. Geografia i Història, Baldiri i Reixac s/n, 08028 Barcelona
1. Introduzione
Questo studio, che rientra in un progetto di ricerca condotto in collaborazione con l’Equipe di Ricerca Archeometrica dell’Università di
Barcellona (ERAUB), attività presso il Dipartimento di Preistoria, Storia
Antica e Archeologica dell’Università di Barcellona (Spagna), ha come
oggetto la caratterizzazione mineralogico-petrografica e la determinazione
di provenienza di macine protostoriche ritrovate in due importanti parchi
archeologici della Catalogna.
L’interesse archeometrico per questo genere di manufatti scaturisce da
alcune semplici considerazioni:
– la produzione di macine implica l’acquisizione di nozioni tecnologiche
(come la scelta dei parametri morfologici, la ricerca dei materiali più
adatti, etc.) che si evolvono nel tempo in funzione delle varie esigenze
delle comunità antiche;
– le macine sono diffuse in vari contesti del Mediterraneo occidentale e
dunque possono permettere interessanti correlazioni crono-spazio-temporali.
Dallo studio delle macine è possibile ottenere:
– una caratterizzazione morfologica in funzione dell’uso specifico, dell’età e delle differenti aree geografiche di ritrovamento;
34
Azzaro, Montana, Pisciotta, Cau Ontiveros, Portillo Ramirez
– una caratterizzazione composizionale che consenta la definizione accurata del tipo litologico e, pertanto, favorisca il confronto con oggetti analoghi da altri siti ed, eventualmente, l’individuazione dell’area di provenienza del materiale litoide.
Questo contributo rappresenta un primo apporto preliminare ad una
ricerca archeologica più ampia, avente l’obiettivo di ricostruire la dinamica d’approvvigionamento e di esportazione delle risorse naturali, connessa allo scambio di macine, relativamente alla popolazione del sud della
Catalogna in un intervallo cronologico compreso tra il VI e il III secolo
a.C. In questo ambito generale lo studio archeometrico si propone di fornire una corretta caratterizzazione delle materie prime e di ipotizzare per
le singole macine una possibile area di provenienza. I due aspetti sono fondamentali per il conseguimento degli obiettivi archeologici e la metodologia analitica è stata già accreditata sufficientemente in archeologia [1 - 6].
In questa fase si propongono la caratterizzazione composizionale delle
rocce utilizzate ed una prima ipotesi di provenienza che sarà successivamente meglio verificata con l’acquisizione di ulteriori dati sulla geologia
regionale.
2. Ubicazione dei siti e cenni storico-archeologici
I campioni di macine provengono dai parchi archeologici di Alorda
Park (Calafell, Baix Penedès) e di Barranc de Gàfols (Ginestar, Ribera
d’Ebre), nella provincia di Tarragona al sud della Catalogna nel nord-est
della Spagna, in prossimità del foce del fiume Ebro. Il complesso di materiale studiato è formato da mulini che sono stati recuperati durante le
diverse fasi di un intervento archeologico realizzate nel giacimento fino
all’anno 2002 (v. Figg. 1 e 2).
Tra i vari tipi di mulini e mortai possono identificarsi tre grandi gruppi
tipologici: mulini di vaivè (dondolamento), mulini rotativi (di tipo passivo
o attivo) e mortai (Fig. 2).
I 17 campioni studiati (11 da Alorda Park e 6 da Barranc de Gafols)
sono frammenti prelevati da mulini di vaivè (V) e da mulini rotativi (R) di
tipo passivo e attivo.
Il giacimento di Barranc de Gàfols (Ginestar) si trova situato in una pianura delimitata dal torrente Gàfols nel punto in cui questo si immette nella
piana alluvionale del fiume Ebro. Gli scavi archeologici hanno messo in evi-
Studio petrografico di macine protostoriche
35
denza la presenza di strutture databili alla fine dell’Età del Bronzo ovvero alla
prima dell’età del Ferro. La fase meglio documentata è quella da primo terzo
del VI secolo a.C. (Fase 2). In questa fase la struttura generale dell’insediamento è quella d’un piccolo villaggio protourbano configurato da 13 recinti
rettangolari che formano almeno quattro gruppi di costruzioni [7]. Tutte le
macine prelevate a Gafols (6 campioni) hanno la medesima cronologia
(primo terzo del VI secolo a.C.).
Alorda Park (Calafell, Baix Penedès), si trova in una piccola altura a 15
metri sopra il livello del mare alla sinistra della foce del torrente Cobertera.
Si tratta di un piccolo insediamento di circa 3000 m2, che è stato scavato
sistematicamente dal 1983. Almeno 6 fasi differenti sono state individuate
nel giacimento, che vanno dal periodo iberico antico con una cronologia da
metà del VI secolo a.C. a metà del V secolo a.C., fino alla fase 5, che corrisponde a una occupazione della cittadella iberica distrutta dai romani nella
seconda metà o alla fine del I a.C. [8]. Le cronologie delle macine prelevate
ad Alorda Park sono riportate in Tabella 1; invece in Tabella 2 vengono riportate le cronologie delle macine prelevate a Barranc de Gafols.
3. Metodologie d’indagine
Per la caratterizzazione e la classificazione dei campioni sono state eseguite indagini mineralogiche, petrografiche e chimiche utilizzando il
microscopio polarizzatore, il diffrattometro a R.X. e lo spettrometro per
Fig. 1 - Mappa con ubicazione dei parchi
Fig. 2 - Tipologia di mulini
Azzaro, Montana, Pisciotta, Cau Ontiveros, Portillo Ramirez
36
sigla
campione
rif.
scavo
US
tipo
ALP 1
51
10408
ALP 2
52
10408
R2-A3-32°R2-A212e
ALP 3
53
10408
ALP 4
13
ALP 5
parte
cronologia
attiva
500-400 a.C.
attiva
500-400 a.C.
V-P1
passiva
500-400 a.C.
7113
V-P2
passiva
300-200 a.C.
20
1030
R1-P3-1
passiva
425-400 a.C.
ALP 6
37
210
R2-A3-31c
attiva
250-200 a.C.
ALP 7
23
7088
R2-P3-2
passiva
300-200 a.C.
ALP 8
12
7113
V-P1
passiva
300-200 a.C.
ALP 9
15
7088
V-P/A
a/p
300-200 a.C.
ALP 10
6
8608
V-P/A
a/p
fine IV a.C.
ALP 11
7
8608
V-P/A
a/p
fine IV a.C.
Tab. 1. Macine prelevate ad Alorda Park e relativa cronologia.
sigla
campione
rif. scavo
US
tipo
parte
cronologia
SPG 1
29
422
V
indet.
VI a.C.
SPG 2
10
81
V-P/A
a/p
VI a.C.
SPG 3
1
13
V-P1
passiva
VI a.C.
SPG 4
26
280
V-P/A
a/p
VI a.C.
SPG 5
14
268
V-P1
passiva
VI a.C.
SPG 6
4
43
V-P/A
a/p
VI a.C.
Tab. 2. Macine prelevate a Barranc de Gafols e relativa cronologia.
Studio petrografico di macine protostoriche
37
fluorescenza a R.X. Per l’analisi modale delle rocce intrusive è stato usato
il point-counter Swift model F.
4. Risultati e discussione
L’osservazione delle sezioni sottili al microscopio petrografico e le analisi chimiche mediante XRF hanno consentito di identificare la natura
petrografica delle macine oggetto di studio: i campioni provenienti da
Alorda Park (Tab. 3) sono costituiti prevalentemente da rocce sedimentarie e, subordinatamente, da rocce magmatiche; i campioni prelevati a
Barranc de Gafols, (Tab. 4) invece, sono per lo più di natura magmatica.
Di seguito vengono riportate le caratteristiche mineralogiche e petrografiche dei campioni osservati in sezione sottile al microscopio ottico e
confermate tramite diffrattometria a raggi X.
Campione ALP 1
Roccia sedimentaria con tessitura isotropa e struttura granulare pavimentosa. E’ una roccia concrezionata, costituita da calcite, caratterizzata da forme
fossili probabilmente riconducibili a spugne, oppure ad alghe. Sono talora
presenti anche cavità da impronta di forma pseudo-circolare riempite da sedimenti arenacei. Tra i minerali accessori individuati quarzo monocristallino e
plagioclasio. Si tratta di una Biomicrite [9], ovvero Boundstone [10].
Campione ALP 2
Roccia sedimentaria, costituita da calcite. Il cemento è costituito da micrite parzialmente ricristallizzata in microsparite con dimensione generalmente
entro i 5 micron. I frammenti bioclastici prevalenti sono rappresentati da
peloidi di forma prevalentemente irregolare, senza traccia di struttura interna, con dimensioni ricadenti nella classe della sabbia media-grossolana.
Subordinatamente sono stati individuati molluschi, resti di gusci di bivalvi,
briozoi ramificati con cavità riempite da cemento spatico. Tra i minerali
accessori vi sono cristalli di plagioclasio e quarzo. La roccia è classificabile
come biomicrite sparsa [9], ovvero come wackestone [10].
Campione ALP 3
Roccia sedimentaria a grana molto fine, con una scarsa presenza di
allochimici, fango-sostenuta. La compagine è costituita da cristalli di
dolomite, frequentemente con habitus romboedrico regolare e talora con
38
Azzaro, Montana, Pisciotta, Cau Ontiveros, Portillo Ramirez
ALP 1
Roccia carbonatica – Biomicrite/Boundstone
ALP 2
Roccia carbonatica – Biomicrite sparsa/Wackestone
ALP 3
Roccia carbonatica – Micrite/Mudstone
ALP 4
Roccia magmatica effusiva – Basalto
ALP 5
Roccia silicoclatica – Arenite litica feldspatica
ALP 6
Roccia silicoclatica – Arenite litica feldspatica
ALP 7
Roccia silicoclatica – Arenite litica
ALP 8
Roccia silicoclatica – Arenite litica
ALP 9
Roccia magmatica intrusiva – Granodiorite-Tonalite
ALP 10
Roccia magmatica intrusiva – Granodiorite
ALP 11
Roccia magmatica intrusiva – Granito
Tab. 3. Classificazione petrografica dei campioni da ALORDA PARK
SPG 1
Roccia magmatica ipoabissale – Porfido
SPG 2
Roccia silicoclastica – Subarenite litica
feldspatica
SPG 3
Roccia magmatica intrusiva – Tonalitegranodiorite
SPG 4
Roccia magmatica intrusiva –
Granodiorite
SPG 5
Roccia magmatica intrusiva –
Granodiorite
SPG 6
Roccia magmatica intrusiva –
Granito
Tab. 4. Classificazione petrografica dei campioni provenienti da BARRANC DE
GÀFOLS.
Studio petrografico di macine protostoriche
39
evidenti zonature. Sono presenti delle strutture fossili di forma allungata,
probabilmente riconducibili a dei frammenti di guscio di lamellibranchi.
Sporadicamente presenti anche foraminiferi e peloidi. La roccia viene
classificata come micrite [9] o mudstone [10].
Campione ALP 5
Roccia sedimentaria a grana molto grossolana il cui costituente più
abbondante è il quarzo sia nella forma monocristallina che policristallina,
con cristalli subarrotondati; è presente anche calcedonio. Individuate
anche notevoli quantità di K feldspato per lo più fortemente alterato e
frammenti litici areniti quarzose, calcari compatti a grana fine, biocalcareniti, micascisti quarzo, quarzosiltiti, frammenti con quarzo a struttura mirmekitica. Da comuni a sporadici o rari granuli di selce, glauconite, muscovite e plagioclasio. Il fango terrigeno che costituisce la matrice a grana
fine è di natura prevalentemente carbonatica, sindeposizionale, talora con
segregazioni di ossidi di ferro ai bordi di contatto matrice-granulo. Il
cemento non particolarmente abbondante è di natura carbonatica e, in
misura subordinata, è costituito anche da quarzo microstallino. La roccia
può essere classificata come arenite litica feldspatica [9].
Campione ALP 6
Arenaria a grana molto grossolana con composizione mineralogica costituita da abbondante quarzo, con cristalli subarrotondati, che si presenta
come monocristallino, policristallino ed anche microcristallino. Sono presenti K-feldspato, pertitizzato ed alterato, selce, raro plagioclasio, e numerosi frammenti litici (areniti quarzose, calcari compatti a grana fine, micascisti quarzosi, quarzosiltiti, biocalcareniti, frammenti con quarzo a struttura mirmekitica). Il fango terrigeno che costituisce la matrice a grana fine è
di natura prevalentemente carbonatica sindeposizionale e con presenza ai
bordi del contatto matrice-granulo di ossidi di ferro. Il cemento è di natura
carbonatica e in misura subordinata è costituito anche da quarzo microcristallino. La roccia è classificabile come arenite litica feldspatica [9].
Campione ALP 7
Roccia sedimentaria con grana da grossolana a media caratterizzato da
abbondanti cristalli di quarzo monocristallino, policristallino e microcristallino. Sono presenti K-feldspato (pertitizzato ed alterato), glauconite, frammenti litici di varia natura (quarzosiltiti, calcareniti, calcari compatti a grana
40
Azzaro, Montana, Pisciotta, Cau Ontiveros, Portillo Ramirez
fine, metamorfiti acide, frammenti con quarzo mirmekitico), abbondanti
resti di microfossili, selce, raro plagioclasio e muscovite. Il fango terrigeno
che costituisce la matrice a grana fine è di natura calcarea. Il cemento è formato prevalentemente da calcite spatica e subordinatamente da quarzo
microcristallino. La roccia è classificabile come arenite litica [9].
Campione ALP 8
Roccia sedimentaria con grana da grossolana a media con abbondanti
cristalli di quarzo monocristallino, policristallino e microcristallino. Sono
presenti anche frammenti litici silicoclastici, K-feldspato pertitizzato ed
alterato, muscovite, sporadica selce e plagioclasio. Il fango terrigeno che
costituisce la matrice a grana fine è di natura prevalentemente carbonatico-argillosa. Il cemento è costituito quasi totalmente da quarzo microcristallino. La roccia può essere classificata come arenite litica [9].
Campione SPG 2
Arenaria con grana da grossolana a media costituita da abbondante quarzo monocristallino, policristallino e microcristallino. Sono presenti frammenti litici per lo più di natura silicatica, selce, glauconite, muscovite e Kfeldspato pertitizzato ed alterato. Il cemento non particolarmente abbondante è di natura silicatica e, in misura minore, anche di tipo carbonatico. La
roccia è classificabile come subarenite litica feldspatica [9] (v. Fig. 3).
Fig. 3 - Diagramma classificativo per le arenitit non carbonatiche. [9]
Studio petrografico di macine protostoriche
41
Campione ALP 4
Roccia magmatica effusiva con struttura porfirica olocristallina intersertale. La pasta di fondo è costituita da microfenocristalli di plagioclasio
idiomorfo (disposti a feltro), clinopirosseno, olivina e magnetite. Tra i
fenocristalli abbiamo: olivina fratturata, plagioclasio spesso zonato di
composizione labradorite-bytownite, clinopirosseno diopsitico-augitico
fortemente fratturato, talora zonato e magnetite. La roccia può essere classificata come basalto.
Campione SPG 1
Roccia magmatica effusiva felsica con tessitura granofirica e struttura
porfirica caratterizzata da fenocristalli abbastanza sviluppati immersi in
una pasta di fondo olocristallina. Si riconoscono cristalli di plagioclasio
(geminati e spesso zonati ed alterati), quarzo (che presenta spesso lobi di
riassorbimento), K-Feldspato alterato e pertitizzato. Sono presenti altresì
epidoto (spesso associato a plagioclasio e a clorite), biotite, muscovite,
ematite, apatite e anfibolo (subordinato, presente in pasta di fondo). La
roccia può essere classificata come un porfido.
Campione ALP 9
Roccia magmatica intrusiva felsica con tessitura isotropa e struttura olocristallina ipidiomorfa granulare. La roccia appare, complessivamente, fortemente alterata e i cristalli si presentano spesso fratturati. Abbondante è il
plagioclasio di composizione oligoclasio-andesina, talora zonato e alterato.
Sono presenti anche quarzo, K-feldspato (fortemente alterato e pertitizzato), biotite (cloritizzata con inclusioni di magnetite) e, come accessori,
apatite ed epidoto. La roccia è classificabile come granodiorite-tonalite.
Campione ALP 10
Roccia magmatica intrusiva fortemente alterata con cristalli spesso
fratturati. Sono presenti plagioclasio (abbondante, talora zonato e spesso
alterato), quarzo, K-feldspato (fortemente alterato e pertitizzato), biotite
(spesso fortemente ossidata e cloritizzata, con inclusioni di magnetite e
zircone). Come accessori si rinvengono apatite, epidoto e magnetite. La
roccia può essere classificata come granodiorite.
Campione ALP 11
Roccia magmatica intrusiva fortemente alterata con cristalli spesso
42
Azzaro, Montana, Pisciotta, Cau Ontiveros, Portillo Ramirez
fratturati. Il minerale più abbondante è il quarzo seguito da minori quantità di plagioclasio (di composizione oligoclasio-andesina, talora zonato e
alterato) e K-feldspato (alterato e pertitizzato). E’ presente anche biotite
(ossidata e cloritizzata, con inclusioni di magnetite e zircone). Tra i costituenti accessori abbiamo apatite, epidoto, zircone e magnetite. La roccia
può essere classificata come granito.
Campione SPG 3
Roccia magmatica intrusiva fortemente alterata caratterizzata da cristalli spesso fratturati. Il minerale più abbondante è il plagioclasio di composizione oligoclasio-andesina (talora zonato e alterato). Seguono quarzo
e K-feldspato (fortemente alterato e pertitizzato). Presente anche biotite
spesso fortemente ossidata e cloritizzata, con inclusioni di magnetite e zircone. Tra i minerali accessori sono stati individuati zircone, magnetite ed
ematite. La roccia può essere classificata come tonalite-granodiorite.
Campione SPG 4
Roccia magmatica intrusiva nell’insieme alterata e contraddistinta da
cristalli spesso fratturati. Il minerale più abbondante è il plagioclasio con
composizione oligoclasio-andesina, talvolta zonato e alterato. Seguono,
con abbondanze leggermente minori ma pur sempre elevate, quarzo e Kfeldspato (estesamente alterato e pertitizzato). Individuata anche biotite
(ossidata e cloritizzata, con inclusioni di magnetite e zircone). Come
minerali accessori si segnalano apatite, epidoto, magnetite ed ematite. La
roccia è classificabile come granodiorite.
Campione SPG 5
Roccia magmatica intrusiva alterata e con cristalli molto fratturati. Il
minerale più abbondante è il plagioclasio caratterizzato da una composizione di tipo oligoclasio-andesina, alle volte zonato e alterato. Seguono il
quarzo ed il K-feldspato, quest’ultimo fortemente alterato e pertitizzato. È
presente anche la biotite per lo più alterata, con inclusioni di magnetite e
zircone. Tra i costituenti accessori si segnalano apatite, epidoto, magnetite ed ematite. La roccia può essere classificata come granodiorite.
Campione SPG 6
Roccia magmatica intrusiva fortemente alterata e con cristalli spesso
fratturati. Plagioclasio (con composizione oligoclasio-andesina, talora
Studio petrografico di macine protostoriche
43
zonato e alterato), quarzo e K-feldspato (alterato e pertitizzato) sono presenti in quantità pressoché uguali, insieme a minori quantità di biotite
(ossidata e cloritizzata, con inclusioni di magnetite). Tra i minerali accessori abbiamo zircone, magnetite ed ematite. La roccia è classificabile
come granito (v. Fig. 4, Foto 1, 2, 3, 4).
Fig. 4. Classificazione modale delle rocce plutoniche [11]
Foto 1. Microfotografia del campione
ALP 1 Nicol incrociati; barra dimensionale=0.4mm
Foto 2. Microfotografia del campione
ALP 5 Nicol incrociati; barra dimensionale=0.4mm
44
Azzaro, Montana, Pisciotta, Cau Ontiveros, Portillo Ramirez
Foto 3. Microfotografia del campione
SPG 1 Nicol incrociati; barra dimensionale=0.4mm
Foto 4. Microfotografia del campione
SPG 3 Nicol incrociati; barra dimensionale=0.4mm
5. Chimismo
Le analisi chimiche degli elementi maggiori minori ed in tracce, eseguite tramite spettrometria di fluorescenza X (XRF), riportate in tabella 4
e 5, si accordano ragionevolmente con le paragenesi rilevate mediante
microscopia ottica e XRD. Al fine di una classificazione geochimica dei
campioni ALP4 (basalto) e SPG1 (porfido) sono stati utilizzati alcuni tra i
principali diagrammi classificativi (v. Fig. 5, 6 e 7).
In tabella 6 sono riportate le analisi normative per i campioni a composizione granitica-granodioritica e la relativa classificazione è rappresentata in Fig 8.
Fig. 5. Diagramma T.A.S. [12] [13]
Studio petrografico di macine protostoriche
45
Camp.
SiO2
TiO2
Al2O3
P2O5
Fe2O3
MgO
MnO
CaO
Na2O
K2O
LOI
ALP 1
7.53
0.11
2.07
0.09
1.03
1.84
0.11
47.07
0.26
0.65
39.24
ALP 2
1.21
0.03
0.21
0.19
0.17
0.41
0.10
54.79
0.01
0.08
42.79
ALP 3
1.26
0.03
0.41
0.64
0.22
19.44
0.07
32.57
0.06
0.11
45.19
ALP 4 45.27
2.55
15.58
0.50
11.58
6.52
0.18
12.32
3.77
0.96
0.77
ALP 5 69.73
0.11
8.46
0.06
1.55
0.45
0.07
8.58
0.19
2.63
8.17
ALP 6 61.35
0.14
10.11
0.09
1.81
0.43
0.08
13.02
0.09
3.09
9.79
ALP 7 62.14
0.16
10.08
0.09
1.35
0.73
0.08
12.16
0.35
3.42
9.44
ALP 8 86.07
0.12
5.46
0.02
0.42
0.41
0.05
1.32
0.64
3.26
2.22
ALP 9 66.71
0.54
14.00
0.22
4.09
2.48
0.10
4.30
3.45
2.76
1.35
ALP10 65.77
0.52
14.68
0.18
3.80
2.53
0.10
4.32
3.65
2.61
1.83
ALP11 73.35
0.25
12.47
0.07
2.32
0.97
0.09
2.32
3.82
3.62
0.73
SPG 1
63.28
0.62
14.28
0.12
4.88
3.15
0.11
3.12
1.97
5.27
3.21
SPG 2
93.92
0.11
2.11
0.04
0.49
0.39
0.05
0.87
0.06
0.97
0.98
SPG 3
64.68
0.74
14.30
0.17
5.10
3.30
0.11
3.57
2.69
4.06
1.48
SPG 4
66.11
0.57
14.22
0.13
4.07
2.49
0.09
3.48
2.88
3.87
2.09
SPG 5
66.41
0.65
14.21
0.16
4.69
1.96
0.08
2.82
2.17
4.49
2.36
SPG 6
73.89
0.11
14.03
0.03
1.29
0.27
0.02
1.41
2.92
4.78
1.25
Tab. 4. Concentrazione degli elementi maggiori e perdita per calcinazione (% in peso).
Fig. 6. Diagramma di SiO2 vs Nb/Y [14]
Azzaro, Montana, Pisciotta, Cau Ontiveros, Portillo Ramirez
46
Camp.
Rb
Sr
Y
Nb
Zr
Cr
Ni
Ba
La
Ce
V
ALP 1
17
1032
6
n.d.
n.d.
19
29
594
9
n.d.
20
ALP 2
n.d.
55
3
n.d.
5
10
24
64
6
n.d.
5
ALP 3
n.d.
n.d.
5
n.d.
40
17
3
48
6
n.d.
9
ALP 4
15
514
23
33
106
193
84
628
43
82
295
ALP 5
97
173
17
n.d.
39
19
17
371
16
32
28
ALP 6
122
210
22
n.d.
36
19
17
487
16
18
35
ALP 7
127
277
20
n.d.
36
22
16
519
13
28
28
ALP 8
116
122
16
n.d.
4
15
8
4710
13
n.d.
20
ALP 9
99
277
35
8
121
20
16
827
47
72
76
ALP10
94
358
33
9
116
19
12
700
32
53
70
ALP11
125
142
30
6
94
20
11
636
29
41
26
SPG 1
110
206
27
6
129
22
17
786
52
87
86
SPG 2
37
34
9
n.d.
38
27
10
128
41
37
20
SPG 3
153
222
35
12
152
37
17
769
53
84
80
SPG 4
135
212
35
8
136
29
14
713
49
72
68
SPG 6
218
110
55
n.d.
232
11
29
974
46
100
41
Tab. 5. Concentrazione degli elementi in traccia (ppm); n.d. = al di sotto del limite di
rivelabilità strumentale.
Fig. 7. Diagramma T.A.S. [12] [13]
Studio petrografico di macine protostoriche
ALP 9
ALP 10
ALP 11
SPG 3
SPG 4
47
SPG 5
SPG 6
AP
0.42
AP
0.34
AP
0.14
AP
0.33
AP
0.25
AP
0.37
AP
0.08
IL
0.89
IL
0.86
IL
0.41
IL
1.23
IL
0.95
IL
1.23
IL
0.21
OR
15.43
OR
14.7
OR
15.17
OR
22.9
OR
21.96
OR
26.56
OR
28.22
AB
29.32
AB
31.24
AB
32.19
AB
23.07
AB
24.83
AB
18.34
AB
24.7
AN
13.78
AN
15.22
AN
8.61
AN
14.28
AN
13.87
AN
12.97
AN
6.77
MT
0.76
MT
0.79
MT
0.57
MT
0.95
MT
0.85
MT
1.6
MT
0.37
CPX
5.18
CPX
4.2
CPX
1.81
CPX
1.67
CPX
1.87
CPX
10.09
CPX
2.21
QZ
25.12
QZ
23.41
QZ
37.31
QZ
21.15
QZ
24.84
QZ
25.71
QZ
34.61
Tab. 6. Norme CIPW
Fig. 8. Classificazione geochimica per le rocce intrusive in base a valori normativi di AnAb-Or
48
Azzaro, Montana, Pisciotta, Cau Ontiveros, Portillo Ramirez
6. Ipotesi di provenienza dei materiali litoidi individuati
In questa fase preliminare, a causa dell’oggettiva difficoltà riscontrata
nel reperire dati chimici utili per un confronto, le ipotesi di provenienza
sono state formulate ricorrendo, per lo più, alla consultazione della letteratura geologica relativa al territorio in esame [15] [16].
Su questa base, pur tenendo conto dei sopraccitati limiti e basandosi per lo
più sui dati derivanti dalle osservazioni microscopiche, le macine realizzate con
rocce sedimentarie possono essere considerate, con grande probabilità, tutte di
manifattura locale. Infatti, per quanto riguarda le macine di natura carbonatica,
ritrovate esclusivamente nel sito di Alorda Park, un materiale litologicamente
conforme è presente nelle Formazioni Culm (Siluriano-Devoniano) ed Imon
(facies Keuper del Trias superiore) estesamente affioranti nel territorio limitrofo. Considerazioni analoghe possono essere fatte per le macine di natura silicoclastica, rinvenute in entrambi i siti; in questo caso il materiale usato è presente nell’associazione di Facies del Buntsandstein (Trias) e nei conglomerati fluviali depositati dall’Ebro pliocenico affioranti nel territorio circostante il sito di
Barranc de Gafols.
Difficoltà maggiori sono state incontrate nel tentativo di individuare una
probabile provenienza per i litotipi utilizzati nella manifattura delle macine realizzate con rocce magmatiche. Infatti, anche se nella zona immediatamente circostante i due siti archeologici oggetto di studio sono presenti limitati affioramenti di tonaliti e granodioriti (area Tarragona), questi litotipi locali, in base ai
dati riportati in letteratura [15], si differenziano da quelli con cui sono state realizzate le macine, sia dal punto di vista mineralogico (per la presenza di abbondante orneblenda, assente nelle macine oggetto di studio) che dal punto di vista
del chimismo (diversi contenuti in Al2O3 e MgO) (v. Fig. 9). Pertanto, per queste macine può essere considerata al momento puramente attendibile l’ipotesi
di importazione dalla zona costiera a nord-est di Barcellona (area di Gerona)
[17] dove affiorano estesamente graniti e granodioriti di serie calc-alcalina,
che, tuttavia, non sono stati ancora confrontati composizionalmente con i nostri
reperti.
Altrettanto complessa risulta la definizione di ipotesi di provenienza
ammissibili per i reperti di natura vulcanica (basalto e porfido). Per ciò che
riguarda la macina in basalto alcalino siglato ALP4 il confronto più logico e
diretto può essere fatto con gli affioramenti di vulcaniti basaltiche di serie
alcalina di età neogenico-quaternaria affioranti nel nord-est della Catalogna
(area di Gerona) [17], anche se, almeno a priori, non possono essere escluse
Studio petrografico di macine protostoriche
49
altre provenienze in area mediterranea [18]. Per ciò che concerne la macina
composta da porfido il confronto con i materiali assimilabili, rappresentati
molto sporadicamente solo nell’area di Tarragona, può essere fatto, al
momento, in modo puramente qualitativo e limitatamente alla composizione
mineralogica, che, peraltro, mette in luce alcune differenze (presenza di orneblenda come fenocristalli nella pasta di fondo).
a
b
Fig. 9. Diagramma di Harker. Correlazione degli elementi maggiori (Al2O3 e MgO vs
SiO2) riportante i campioni da noi studiati e il campione di riferimento presente in
bibliografia.
50
Azzaro, Montana, Pisciotta, Cau Ontiveros, Portillo Ramirez
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Studio petrografico di macine protostoriche
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52
L’APPORTO DELLA RISONANZA PARAMAGNETICA ELETTRONICA
(EPR) NELLO STUDIO DEI BENI CULTURALI:
CASO DELLE CALCITI
BAHAIN J.J. (1), BURRAFATO G. (2), DOLO J.M. (3), FALGUÈRES C. (1),
GUELI A.M. (2), Lahaye C. (2), Leonardi R. (4), Occhipinti A. (2),
Placenti G. (2), Stella G. (2), Troja S.O. (2), Zuccarello A.R. (2)
Département de Préhistoire, Muséum National d’Histoire Naturelle,
UMR 5198 du CNRS, 1 rue René Panhard, 75013 Paris, France
(2) LDL&BBCC, Laboratorio di Datazione tramite Luminescenza e
di Metodologie Fisiche applicate ai Beni Culturali del Dipartimento di Fisica e Astronomia,
Centro Siciliano di Fisica Nucleare e di Struttura della Materia, Università di Catania & INFN
Sezione di Catania, via Santa Sofia 64, I - 95123 Catania
(3) Laboratoire National Henri Becquerel, CEA - Saclay, 91191 Gif sur Yvette Cedex, France
(4) Dipartimento di Scienze Geologiche, Università di Catania, Corso Italia, 57, I - 95129 Catania
(1)
1. Introduzione
La Risonanza Paramagnetica Elettronica (EPR) è una tecnica spettroscopica nata per la caratterizzazione dei materiali. Dalla scoperta di Zavoisky,
nel 1945, tale tecnica è stata adoperata in vari campi della fisica, della chimica, della biologia. Negli ultimi decenni, in seguito alla proposta di Zeller nel
1967, e alla prima applicazione pratica avvenuta con la datazione di una stalagmite (Ikeya, 1975), la metodologia ha mostrato tutte le sue potenzialità in
ambito dosimetrico, geocronologico ed archeometrico. Da qualche anno, tale
linea di ricerca è stata anche inserita tra le attività del Laboratorio di
Datazione tramite Luminescenza e di Metodologie Fisiche applicate ai Beni
Culturali (LDL&BBCC) del Dipartimento di Fisica e Astronomia
dell’Università di Catania, grazie alle competenze acquisite da parte dei
ricercatori afferenti al laboratorio e all’acquisto della strumentazione necessaria. Disporre di tale metodologia al laboratorio LDL, leader nel campo della
datazione tramite luminescenza stimolata, rappresenta sicuramente una crescita. L’interesse è duplice. Come si sa, infatti, ogni metodologia di datazione è peculiare di determinati tipi di materiali. La metodologia EPR viene
L’apporto della Risonanza Paramagnetica Elettronica (EPR)
nello Studio dei Beni Culturali: caso delle calciti
53
dunque a colmare la lacuna relativa alla datazione di depositi carbonatici,
denti, materiali organici. Tali tipologie di materiali infatti sono spesso presenti nei siti di interesse ma non sono databili tramite le tecniche di luminescenza stimolata o, meglio, la datazione mediante queste metodologie pone dei
problemi. D’altra parte l’EPR, se applicata su cristalli di quarzo, permette di
ottenere dei risultati indipendenti, da mediare con i risultati forniti dalle
metodologie TL e/o OSL applicate sugli stessi campioni. Di fondamentale
importanza, infatti, per risolvere problemi legati alla origine e provenienza
dei campioni ma anche per rispondere a quesiti di tipo cronologico, è il poter
disporre di dati ottenuti dall’applicazione di più metodologie tra loro indipendenti: poter incrociare i risultati rappresenta un indubbio guadagno per la precisione del dato di interesse.
Allo scopo di voler testare le potenzialità della spettroscopia EPR per
la caratterizzazione e per la datazione di materiale carbonatico, sono state
effettuate delle misure su cristalli di calcite estratti da una stalagmite proveniente dalla grotta Zinzulusa (Le). In questo lavoro ne vengono presentati i risultati preliminari che mostrano le potenzialità della metodologia
nello studio di questo tipo di materiali di interesse geologico/ambientale.
2. Analisi EPR
L’analisi tramite risonanza paramagnetica elettronica assume, per molti
materiali organici ed inorganici e per i cristalli in particolare, la funzione di
caratterizzazione microscopica strutturale, permettendo l’individuazione di
difetti paramagnetici la cui presenza ed il cui comportamento possono essere messi in relazione a caratteristiche riguardanti il cristallo stesso. La caratterizzazione non è un’operazione semplice da effettuare nel caso di un cristallo naturale, il quale, dal momento della sua formazione, può essere stato
interessato da fenomeni a volte non controllabili e/o ricostruibili.
In alcuni casi e per alcuni particolari stati, a questa possibilità si associa
quella di poter utilizzare il segnale EPR e la sua ampiezza per ottenere informazioni sulla età di formazione degli stessi campioni o di eventi da essi subiti.
La prima applicazione è correlabile alla esistenza di elettroni spaiati in
numero tale da fornire segnali EPR sufficientemente intensi. La seconda
è invece strettamente correlata alla presenza di tali elettroni disaccoppiati
esclusivamente a causa di un fenomeno dipendente dal tempo e con una
legge sperimentalmente ricostruibile.
54
Bahain, Burrafato, Dolo, Falguères, Gueli,
Lahaye, Leonardi, Occhipinti, Placenti, Stella, Troja, Zuccarello
Per una dettagliata descrizione dei principi fisici alla base della metodologia si rimanda alla bibliografia esistente (Marfunin, 1979; Abragam
and Bleaney, 1970).
2.1. Datazione EPR
Il principio di datazione tramite risonanza paramagnetica elettronica si
basa sull’accumulo di elettroni non accoppiati, per effetto della radioattività naturale, in difetti paramagnetici presenti nei cristalli naturali in
esame. Nel momento in cui si forma il minerale, tutti gli elettroni si trovano nello stato fondamentale di energia. In seguito, a causa della radiazione naturale, costituita principalmente da particelle α, β, radiazione γ e
raggi cosmici, gli elettroni possono essere trasferiti al livello energetico
più alto (Fig.1). Dopo un breve periodo di propagazione, questi elettroni
eccitati possono essere intrappolati in stati metastabili realizzando così un
processo di formazione di elettroni spaiati il cui numero è in continua crescita nel cristallo.
La risonanza paramagnetica elettronica permette di ottenere una informazione quantitativa proporzionale alla concentrazione di elettroni spaiati così realizzatasi e, se la rate di riempimento, legata alla quantità di energia assorbita e quindi alla intensità di irraggiamento, si è mantenuta
costante nel tempo, tale informazione può essere messa in relazione al
tempo durante il quale è avvenuto il fenomeno di riempimento.
Fig.1. Principio di cattura degli elettroni nei difetti del reticolo cristallino per azione
della radiazione (adattato da Falguères and Bahain, 2002). Ea rappresenta l’energia di
attivazione.
L’apporto della Risonanza Paramagnetica Elettronica (EPR)
nello Studio dei Beni Culturali: caso delle calciti
55
In teoria la metodologia di datazione tramite risonanza paramagnetica
elettronica può essere applicata a tutti i minerali che contengono difetti
paramagnetici indotti da radiazione. In pratica, però, un segnale EPR può
essere utilizzato a scopi cronologici solo se soddisfa determinate caratteristiche (Falguères and Bahain, 2002). In particolare:
– l’intensità del segnale deve aumentare con la dose d’irradiazione
secondo una legge descritta da una espressione analitica (lineare, esponenziale o polinomiale);
– l’intensità del segnale deve essere nulla all’istante “zero” corrispondente all’istante da datare. Tale istante può corrispondere con la formazione del minerale studiato, o con il momento in cui le trappole sono state
svuotate completamente. Questo svuotamento può esser stato provocato da un riscaldamento ad alte temperature (pietre da focolare, ossa
cotte, sedimenti arsi da lava…), da una forte pressione (materiale tra
faglie), o ancora dall’azione del sole (il cosiddetto “bleaching” ottico);
– il segnale deve essere termicamente stabile, e la sua vita media superiore all’età stimata del campione da datare;
– il segnale deve essere ben risolto e non disturbato da altri segnali. La
sua intensità deve essere sufficiente da permettere studi quantitativi.
Nella datazione EPR, il campione in esame funge da dosimetro, assorbendo l’energia ceduta dalle particelle α e β, e dalla radiazione γ provenienti da
fonti radioattive naturali; un contributo non trascurabile proviene inoltre dai
raggi cosmici. L’età EPR viene dunque determinata dalla relazione:
Paleodose
Età = –––––––––––––
Dose annua
in cui la paleodose, misurata in Gy, è la dose totale di radiazione che il
campione ha accumulato dalla sua formazione o dal suo ultimo evento di
“azzeramento”, mentre la dose annua è la quantità media di energia di origine radioattiva, assorbita per unità di massa annualmente dal campione, e si
misura in Gy/a.
Per il calcolo della paleodose è indispensabile ricostruire la legge con
cui la concentrazione di elettroni spaiati aumenta in funzione della dose
assorbita. Ciò si effettua a partire da misure quantitative dell’intensità del
segnale EPR relativa ad un dato difetto paramagnetico. Il metodo più frequentemente adottato per la valutazione della dose totale assorbita dal
56
Bahain, Burrafato, Dolo, Falguères, Gueli,
Lahaye, Leonardi, Occhipinti, Placenti, Stella, Troja, Zuccarello
campione è quello della dose aggiunta o metodo “added dose” (Ikeya,
1993). L’estrapolazione della curva dell’intensità del segnale scelto in funzione della dose aggiunta, a intensità nulla (corrispondente all’istante da
datare), permette di determinare il valore di paleodose. In effetti, poiché
l’irradiazione in laboratorio non è identica all’irradiazione naturale, la
dose così ottenuta non corrisponde esattamente alla paleodose. Si preferisce così utilizzare il termine dose equivalente “DE”.
3. Studio di una stalagmite
La stalagmite analizzata è stata rinvenuta spezzata nelle acque della grotta Zinzulusa (Le). Di essa dunque non si conosce né l’esatta ubicazione di
provenienza né l’istante in cui ha avuto termine il processo di cristallizzazione e di crescita. L’osservazione della sezione longitudinale ha permesso di
evidenziare tre diverse fasi di accrescimento, caratterizzate da due livelli di
discontinuità nella deposizione calcitica, e uno spostamento dell’asse di
deposizione probabilmente dovuto ad un basculamento del piano di appoggio o ad uno spostamento del punto di stillicidio situato sulla volta, alla base
della stalagmite (Leonardi, 1997).
La metodologia di analisi tramite risonanza paramagnetica elettronica è
stata in questa occasione applicata, come già detto, per testare le potenzialità
della EPR nello studio dei carbonati. Sono state effettuate misure con lo scopo
di ottenere dati che confermino o meno la diversità delle fasi di accrescimento, e che diano indicazioni sulla età di formazione della stalagmite. È però
importante sottolineare che già la sola assenza di dati relativi al ristretto intorno in cui la stalagmite si è accresciuta lascia molti margini di incertezza sulla
collocazione cronologica assoluta essendo non valutabile la componente di
dose gamma ambientale indispensabile per un corretto calcolo della dose
annua. La misura, in questa direzione, assume quindi più la caratteristica di
test per la determinazione della paleodose che di effettiva determinazione cronologica, fornendo piuttosto una indicazione di massima sulla età.
3.1. Caratterizzazione della stalagmite
Le misure sono state effettuate su campioni prelevati a quote diverse lungo
l’asse verticale della stalagmite, per ognuna delle tre probabili fasi evidenziate. In figura 2 è possibile notare le regioni meglio evidenziate dalla immagi-
L’apporto della Risonanza Paramagnetica Elettronica (EPR)
nello Studio dei Beni Culturali: caso delle calciti
57
ne di una sezione sottile della stalagmite. In essa vengono esattamente riportati i punti di campionamento con la relativa denominazione del campione
analizzato.
Le misure sono state effettuate utilizzando uno spettrometro EPR in banda X.
Le figure 3,4,5 riportano gli spettri EPR acquisiti, regione per regione, per
alcuni dei diversi punti in cui è stato effettuato il campionamento. Nelle rispettive legende vengono indicati i parametri di misura utilizzati. Gli spettri hanno
Fig. 2. Sezione della stalagmite proveniente dalla grotta Zinzulusa (Le).
Fig. 3. Segnali EPR acquisiti su aliquote di campione della zona 3. Condizioni di misura: frequenza=9.45GHz, P=3mW, Modulation Width=1mT, Amplitude=200, Time constant=0.03 sec, Sweep time=2min.
58
Bahain, Burrafato, Dolo, Falguères, Gueli,
Lahaye, Leonardi, Occhipinti, Placenti, Stella, Troja, Zuccarello
messo in evidenza la presenza dei contributi tipici provenienti dalla presenza
di Mn2+, la sua caratteristica struttura iperfine a sei picchi (Ikeya, 1993), ma
con comportamenti complessivi dello spettro differenti anche nell’ambito
Fig. 4. Segnali EPR acquisiti su aliquote di campione della zona 2. Condizioni di misura: frequenza=9.45GHz, P=3mW, Modulation Width=1mT, Amplitude=200, Time constant=0.03 sec, Sweep time=2min.
Fig. 5. Segnali EPR acquisiti su aliquote di campione della zona 1. Condizioni di misura: frequenza=9.45GHz, P=3mW, Modulation Width=1mT, Amplitude=200, Time constant=0.03 sec, Sweep time=2min.
L’apporto della Risonanza Paramagnetica Elettronica (EPR)
nello Studio dei Beni Culturali: caso delle calciti
59
della stessa regione. La ampiezza del segnale del Mn2+, presente nei campioni analizzati, non è utilizzabile per la datazione. La sua intensità risulta infatti indipendente dalla dose ricevuta dal campione anche per irraggiamenti artificiali intensi ed ha quindi la caratteristica di interferire, coprendoli, con eventuali deboli segnali naturali riportati in letteratura come utili alla datazione.
I segnali utilizzabili per scopi cronologici sono infatti rivelabili in una
regione di campo magnetico più ristretta rispetto a quella utilizzata negli
spettri precedenti; in particolare la loro posizione è al centro dei sei picchi
del manganese.
Per due dei campioni analizzati, denominati S2 e S3 in quanto provenienti rispettivamente dalla zona 2 e dalla zona 3, è stato estratto materiale appena sufficiente alla realizzazione, oltre che della caratterizzazione, anche
delle aliquote necessarie per la applicazione della metodologia di datazione
EPR. Le dimensioni della stalagmite, infatti, non hanno permesso lo stesso
su tutte le altre aliquote analizzate. Su questi campioni sono stati registrati
gli spettri (v. Fig. 6 e 7) sul campione naturale (Dnat, non irraggiato artificialmente in laboratorio) e su quello irraggiato a 1500 Gy (D10). Le intensità dei segnali naturali sono basse per entrambi i campioni: è per questo che
Fig. 6. Segnali EPR del campione S2, naturale (Dnat) e irraggiato a 1500 Gy (D10), ottenuti con le seguenti condizioni di misura: frequenza=9.85GHz, P=5mW, Modulation
Width=0.05mT, Time constant=0.01 sec, Sweep time=84 sec. Lo spettro relativo al campione naturale è stato ottenuto con 30 accumulazioni.
60
Bahain, Burrafato, Dolo, Falguères, Gueli,
Lahaye, Leonardi, Occhipinti, Placenti, Stella, Troja, Zuccarello
gli spettri naturali sono il risultato di acquisizioni accumulate. A partire dalle
aliquote irraggiate è stato possibile riconoscere segnali tipici delle calciti e
rispondenti ai criteri di databilità. In particolare sono stati messi in evidenza i segnali h3 (g = 2.0007, Yokoyama et al., 1981, 1985) e BL (g = 2.0040,
Apers et al., 1981). Il campione S2 mostra inoltre la presenza del picco h1
(g = 2.0057, Yokoyama et al., 1981, 1985) che si sovrappone al segnale BL
ed al complesso A (Barabas et al., 1992).
3.2. Determinazione della paleodose
Per la determinazione della paleodose, utilizzando la tecnica added
dose, le misure sono state effettuate presso il Départment de Préhistoire
du Muséum National d’Histoire Naturelle di Parigi. Nel caso in esame i
campioni S2 e S3 furono separati in 10 aliquote alle quali furono aggiunte dosi crescenti da 63 a 1500 Gray. I campioni, come già detto, presentano un debolissimo segnale EPR che ha comunque permesso di utilizzare
il picco h3 a g = 2.0007 per il campione S2 ed il picco BL a g = 2.0040 per
il campione S3.
Fig. 7. Segnali EPR del campione S3, naturale (Dnat) e irraggiato a 1500 Gy (D10), ottenuti con le seguenti condizioni di misura: frequenza=9.85GHz, P=0.1mW, Modulation
Width=0.5mT, Time constant=0.01 sec, Sweep time=84 sec. Lo spettro relativo al campione naturale è stato ottenuto con 30 accumulazioni.
L’apporto della Risonanza Paramagnetica Elettronica (EPR)
nello Studio dei Beni Culturali: caso delle calciti
61
L’assenza di qualunque indicazione utile sulla età assoluta della calcite ha
condotto alla utilizzazione di irraggiamenti artificiali standard ai fini della
determinazione della dose equivalente. Malgrado gli elevati valori di dose
aggiunta, la regolare crescita delle risposte alla added dose permette di ottenere, dal fit necessario alla determinazione della legge di crescita, valori di
dose equivalente molto bassi rispetto alle dosi artificiali utilizzate ma comunque con buona correlazione. I dati estratti dalle intercette per le due regioni,
indistinguibili quando considerati con il loro errore sperimentale, danno un
risultato pari a (9.81 ± 0.81) Gy per il campione S2 mentre per S3 il valore è
(10.15 ± 0.93) Gy (Figg. 8-9 rispettivamente). Tali valori di paleodose, assieme alla valutazione dei valori di dose interna ottenuti tramite ICP-MS e in
assenza dei necessari contributi di dose ambiente, indicano un’età che
dovrebbe essere compresa fra poche migliaia e qualche decina di migliaia di
anni, età comunque molto recente.
4. Conclusioni
Malgrado le condizioni di ritrovamento, le dimensioni della stalagmite e i
relativi prelievi effettuati non abbiano consentito di avere tutti i dati utili alla
ottimizzazione della metodologia EPR per la caratterizzazione e per la datazione delle diverse campionature effettuate sulla calcite, alcune indicazioni importanti sono state ottenute. Esse mettono in evidenza le potenzialità della metodologia EPR, quando applicata nelle condizioni richieste, per la datazione di
carbonati anche nel caso di età recenti. Per quanto riguarda la caratterizzazione sarebbe interessante correlare i dati con quelli ottenuti tramite analisi chimico-fisiche più strettamente connesse alle caratteristiche “ambientali” della grotta. Il lavoro presentato ha quindi caratteristiche di studio preliminare, ma certamente induce a riformulare il progetto di ricerca su campionamento di stalagmiti e stalattiti che fornisca quantità di materiale più adeguato.
62
Bahain, Burrafato, Dolo, Falguères, Gueli,
Lahaye, Leonardi, Occhipinti, Placenti, Stella, Troja, Zuccarello
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63
CARATTERIZZAZIONE ARCHEOMETRICA DELLE OSSIDIANE
DEL MONTE ARCI TRAMITE ICP-MS LA
BARCA D., CRISCI G.M., DE FRANCESCO A.M.
Dipartimento di Scienze della Terra Università Della Calabria Ponte P. Bucci, 87036 Arcavacata
di Rende (Cs) Tel. 0984 493571, Fax. 0984 493577, [email protected]
Riassunto:
Nel presente lavoro vengono illustrati i risultati di uno studio geochimico effettuato su campioni
geologici di ossidiana, utilizzando uno spettrometro di massa abbinato ad un’ablazione laser (ICPMS LA). Tale metodologia analitica si è rivelata particolarmente indicata per studi di carattere
archeometrico, difatti la minima distruttività e la possibilità di ottenere analisi estremamente precise (in ppm) di elementi in tracce e terre rare, la rendono particolarmente efficace per la caratterizzazione delle ossidiane al fine di individuarne le aree di provenienza.
La metodologia è stata testata su campioni geologici di ossidiana provenienti dal Monte Arci in
Sardegna già descritti e distinti chimicamente con metodi differenti da altri autori.
Il buon accordo tra i risultati ottenuti nel presente lavoro e i dati bibliografici ha confermato la
validità della metodologia utilizzata.
1. Introduzione
L’importanza dell’ossidiana nella storia dell’uomo è testimoniata in
tutti i continenti da reperti archeologici che ci documentano come culture
e civiltà di diverse epoche storiche, prima della scoperta della metallurgia,
estraevano e lavoravano l’ossidiana per ottenere lame, rasoi, coltelli, armi
ed anche preziosi monili.
L’individuazione delle aree di provenienza delle ossidiane archeologiche ha
consentito di tracciare le linee di diffusione di questo materiale nel periodo
preistorico; riuscire a collegare il sito di provenienza rispetto al luogo di ritrovamento archeologico ha permesso di ricostruire le vie di trasporto e quindi la
diffusione, i collegamenti, ed indirettamente, le consuetudini socio – economiche delle popolazioni preistoriche. Tale motivo ha indotto numerosi studiosi a
proporre varie metodologie analitiche in grado di caratterizzare e distinguere
chimicamente i vari affioramenti di ossidiana.
Tra i siti di provenienza nell’area Mediterranea l’ossidiana del Monte
Arci è stata particolarmente apprezzata e commerciata, nella preistoria
64
Barca, Crisci, De Francesco
rappresentava uno degli insediamenti estrattivi piu’ importanti del
Mediterraneo; attorno ad esso sorsero centri di raccolta della roccia ed
officine di lavorazione con numerosi insediamenti.
Hallam et al. [1] e Mackey & Warren [2] hanno riconosciuto nel
complesso vulcanico del Monte Arci, quattro possibili fonti di ossidiana, caratterizzate da composizioni diverse: Conca Cannas (SA), Santa
Maria Zuarbara (SB), Perdas Urias (SC) e Sonnixeddu (SD). Thorpe et
al. [3] hanno ritrovato solo i primi tre gruppi: SA, SB, SC. Tykot [4] e
De Francesco et al. [5, 6, 7], con metodologie differenti, hanno distinto
geochimicamente da quattro a cinque gruppi nelle ossidiane del Monte
Arci.
La tecnica analitica utilizzata nel presente lavoro risulta estremamente
vantaggiosa in quanto abbina la minima distruttività alla possibilità di
determinare la maggior parte degli elementi chimici, Terre Rare comprese, con elevata precisione (ppm).
2. Metodologia Analitica
Le analisi sono state eseguite presso il Dipartimento di Scienze della
Terra dell’Università degli Studi della Calabria utilizzando uno spettrometro di massa (ICP-MS) della Perkin Elmer /SCIEX modello Elan DRCe
abbinato ad una sorgente laser (LA) della New-Wave Research.
Un sistema ICP-MS-LA consente di analizzare campioni solidi, di
dimensione centimetrica, senza che su di essi venga eseguito alcun processo di polverizzazione e successiva digestione. L’ablazione del campione avviene in un’apposita cella attraverso un raggio laser che ha una lunghezza d’onda di 213 nm ed ha una risoluzione spaziale (spot) che può
variare da 4 a 100 micron; una volta avvenuta l’ablazione il materiale
viene trasportato da un flusso continuo di Argon ed Elio allo spettrometro dove viene atomizzato e ionizzato per la quantificazione.
Un ICP-MS-LA consente di analizzare un grande numero di elementi
in tracce in un tempo relativamente breve, l’unica limitazione è rappresentata dalle dimensioni del campione che devono essere compatibili con
quelle della cella di ablazione.
Tali peculiarità rendono la metodologia estremamente interessante per
la caratterizzazione e la determinazione della provenienza dei frammenti
di ossidiana archeologici che necessitano di tecniche analitiche non
Caratterizzazione archeometrica delle ossidiane del Monte Arci
65
distruttive. L’ossidiana inoltre, essendo un vetro vulcanico afirico, si presenta chimicamente omogenea e ben si presta ad analisi puntuali.
Per ogni campione studiato sono state effettuate circa 8 analisi puntuali al fine di minimizzare eventuali errori correlabili ad eterogeneità o presenza di microliti. Le sequenze analitiche sono state effettuate su una o
due schegge di ossidiana per volta, con spot variabili da 50 a 80 micron;
all’inizio di ciascuna sequenza è stata effettuata la Calibrazione dello strumento utilizzando come materiale standard il vetro NIST612-50ppm [8]
mentre all’interno della sequenza è stato analizzato come campione incognito il vetro standard BCR2 per valutare l’attendibilità del dato e per calcolare la percentuale di errore confrontando le concentrazioni ottenute con
quelle riportate in letteratura [9].
La rielaborazione degli spettri analitici forniti in uscita dall’ICP-MSLA è stata effettuata con il programma “Glitter” e come standard interno
è stata utilizzata la concentrazione del Ca ottenuta da dati di fluorescenza
X [10].
3. Risultati
Le analisi sono state eseguite su 12 campioni di ossidiana (v. Tab.1).
Su ciascun campione sono state effettuate da 6 a 10 analisi puntuali
relative a 15 elementi in tracce e 14 terre rare, con precisione dell’ordine
dei ppm. In tabella 1. sono riportate per ciascun campione due analisi rappresentative.
I dati sono stati plottati sui diagrammi binari riportati in fig.1; in ciascun diagramma lo stesso simbolo si riferisce ad uno stesso campione
mentre ogni punto corrisponde ad una sola analisi puntuale.
In tutti i diagrammi appare evidente la netta distinzione in quattro gruppi composizionali, riconducibile ai gruppi SA SB1, SB2, SC già distinti
con altre metodologie [1,4, 6, 7, 11, 12].
Esistono differenze significative tra le concentrazioni degli elementi in
tracce nei diversi gruppi; gli elementi maggiormente discriminanti sono:
Zr, Sr, Ba, Nb, Y, Ta, (Fig 1a, 1b, 1c). In particolare le ossidiane del gruppo SA mostrano bassi contenuti in Zr, Sr, Ba e alti contenuti in Nb, Y, Ta,
al contrario delle ossidiane del gruppo SC che mostrano contenuti elevati
di Zr, Sr, Ba e bassi contenuti in Nb, Y, Ta; infine valori intermedi ma sufficientemente distintivi, mostrano le ossidiane dei gruppi SB1 e SB2.
Barca, Crisci, De Francesco
66
Anche alcune Terre Rare: Ce, Sm, Pr, Ho, Lu (Fig. 1d, 1e, 1f) , seppur in
maniera meno netta, consentono di differenziare i quattro gruppi .
4. Conclusioni
Attraverso il confronto tra le caratteristiche geochimiche dell’ossidiana
dei manufatti con quelle delle possibili fonti di questa materia prima, è
possibile identificarne la provenienza e tracciarne le linee di diffusione nel
periodo preistorico.
L’utilizzo di un sistema ICP-MS-LA, è risultato estremamente vantaggioso sia per la minima distruttività sia perché ha consentito di determinare la maggior parte degli elementi chimici, Terre Rare comprese, e di effettuare analisi di alta precisione e sensibilità (ppm) in tempi relativamente
brevi, su un numero rappresentativo di campioni geologici di ossidiana
provenienti dal M.te Arci in Sardegna.
I risultati ottenuti confermano la distinzione delle ossidiane del Monte
Arci nei quattro gruppi SA, SB1, SB2 e SC già evidenziati con altre metodologie analitiche [1,4, 6, 7, 11, 12], nonché l’affidabilità della tecnica
analitica utilizzata che risulta particolarmente versatile per la determinazione della provenienza delle ossidiane archeologiche.
Caratterizzazione archeometrica delle ossidiane del Monte Arci
Gruppo
Campioni
67
SA
Ox425
Ox426
Sc25
Sc8
Sc
5.67
5.23
4.17
4.86
4.60
4.20
4.72
5.21
V
0.78
0.87
0.92
0.94
0.60
0.93
0.73
1.36
Zn
88.51
83.42
81.00
78.20
80.86
87.95
57.40
73.95
Rb
321.12
284.15
308.73
291.13
255.97
263.93
214.74
251.01
Sr
23.35
22.54
30.58
32.48
19.44
19.61
20.09
22.62
Y
38.66
35.55
38.08
37.22
31.24
31.23
28.24
30.69
Zr
87.65
79.05
87.27
81.87
73.81
72.93
64.79
71.61
Nb
56.71
48.93
54.77
49.19
48.06
50.09
41.64
49.64
Cs
5.00
5.09
6.00
5.68
4.17
4.37
3.59
4.40
Ba
121.50
121.79
172.08
189.19
92.47
103.02
96.26
116.41
La
25.07
30.06
29.80
29.48
19.92
21.17
18.36
19.97
Ce
59.35
73.15
72.87
70.11
48.09
51.72
43.82
48.42
Pr
7.32
8.58
8.89
8.50
5.79
6.09
5.23
5.74
Nd
27.82
32.59
32.86
31.51
21.86
24.29
19.77
21.72
Sm
7.87
9.25
7.31
8.88
6.67
6.66
5.54
6.71
Eu
0.30
0.34
0.44
0.47
0.24
0.22
0.17
0.29
Gd
6.50
8.26
7.38
8.07
5.75
5.54
4.72
6.09
Tb
1.16
1.28
1.38
1.36
0.98
1.01
0.82
0.89
Dy
8.10
7.88
8.13
8.86
6.41
6.52
6.15
6.56
Ho
1.46
1.38
1.48
1.59
1.09
1.12
1.01
1.13
Er
3.75
3.89
4.16
4.39
3.12
3.62
2.85
2.78
Tm
0.52
0.48
0.51
0.60
0.43
0.43
0.44
0.46
Yb
3.05
4.09
4.60
4.07
2.67
2.75
2.72
3.08
Lu
0.39
0.43
0.50
0.54
0.38
0.36
0.30
0.34
Hf
3.51
4.10
4.46
4.98
2.82
3.43
2.91
4.22
Ta
5.21
4.82
5.09
4.91
4.13
4.27
3.49
3.59
Pb
44.60
39.02
45.05
43.95
30.42
34.37
28.62
33.67
Th
19.88
21.65
22.18
22.84
16.17
17.19
15.32
14.82
U
7.00
6.70
7.90
7.59
5.76
6.20
5.23
5.51
Tab. 1a. Analisi rappresentative espresse in ppm.
Barca, Crisci, De Francesco
68
Gruppo
Campioni
Sc
SB1
Mar7
3.98
Pau15
3.72
4.42
Ox423
4.15
4.42
Ox424
3.95
4.24
3.79
V
1.71
1.59
1.10
1.15
1.32
1.41
2.08
2.24
Zn
40.08
39.27
47.45
41.85
46.04
38.80
33.57
30.65
Rb
228.04
236.85
282.43
248.45
286.51
273.74
223.91
220.06
Sr
36.52
37.22
35.85
27.5
25.49
31.18
43.22
43.90
Y
18.02
17.84
19.50
19.58
21.64
20.93
18.6
18.3
Zr
94.76
98.92
92.08
94.70
104.42
101.35
105.02
103.85
Nb
24.77
25.95
30.52
26.12
30.36
29.18
24.96
24.17
Cs
6.69
6.95
8.60
7.42
7.95
7.93
6.40
6.25
Ba
212.41
219.54
228.34
135.78
147.37
157.59
265.33
268.76
La
29.18
28.70
26.71
26.98
29.43
28.44
33.10
33.65
Ce
62.22
63.51
66.23
58.72
64.92
61.72
68.58
69.28
Pr
6.90
6.73
6.83
6.46
7.25
7.00
7.55
7.66
Nd
24.89
25.43
24.5
24.01
27.31
25.15
26.96
27.61
Sm
5.20
5.50
5.59
5.26
6.15
5.79
6.32
6.53
Eu
0.44
0.41
0.40
0.39
0.34
0.41
0.59
0.53
Gd
4.25
4.02
4.29
4.49
4.87
4.06
4.77
4.03
Tb
0.68
0.72
0.65
0.67
0.75
0.70
0.73
0.71
Dy
3.99
3.88
3.89
4.11
4.43
4.19
3.95
3.66
Ho
0.71
0.66
0.69
0.75
0.85
0.69
0.70
0.75
Er
1.73
1.81
1.73
1.99
2.06
2.15
2.32
2.04
Tm
0.22
0.22
0.29
0.27
0.31
0.27
0.23
0.29
Yb
1.39
1.72
1.61
1.62
1.93
2.00
1.29
1.89
Lu
0.21
0.19
0.20
0.22
0.25
0.22
0.24
0.24
Hf
3.55
3.65
3.23
3.55
3.63
3.98
4.08
3.62
Ta
2.31
2.53
2.69
2.63
2.88
2.89
2.47
2.42
Pb
26.20
26.59
33.12
27.56
30.90
29.53
28.74
29.60
Th
18.01
17.31
17.38
18.13
19.65
18.35
21.42
20.15
U
5.26
5.59
6.77
5.84
6.56
6.33
5.60
5.25
Tab. 1b. Analisi rappresentative espresse in ppm.
Caratterizzazione archeometrica delle ossidiane del Monte Arci
Gruppo
Campioni
SB2
Ox421
69
SC
Ox422
Ox419
Ox420
Sc
5.87
4.86
4.33
4.15
4.88
4.37
4.07
4.34
V
5.00
4.83
4.52
4.27
12.93
12.86
12.78
12.93
Zn
79.06
66.05
65.7
56.24
70.29
68.95
71.5
57.36
Rb
259.88
260.46
240.55
238.32
199.91
183.95
178.46
177.45
Sr
78.26
80.25
74.39
72.57
132.76
120.5
117.91
113.26
Y
24.45
25.79
22.45
21.21
24.79
24.21
22.33
21.8
Zr
155.36
160.92
141.39
135.63
230.67
229.99
223.96
226.92
Nb
34.18
35.22
32.16
32.25
31.54
28.21
27.55
26.49
Cs
4.07
4.24
3.84
3.61
2.61
2.17
2.12
1.97
Ba
492.26
502.37
456.37
450.39 1121.36
912.11
942.23
898.49
La
42.84
43.25
37.84
36.31
74.99
63.37
60.68
58.89
Ce
87.94
90.38
81.64
80.58
159.09
130.29
125.61
117.74
Pr
10.32
10.7
9.16
9.29
17.77
14.89
14.26
13.89
Nd
39.64
40.25
34.70
33.98
67.01
55.88
54.1
53.01
Sm
8.49
9.09
7.63
7.10
11.64
10.23
9.74
9.72
Eu
0.76
0.87
0.73
0.57
1.37
1.06
1.11
0.90
Gd
6.63
6.40
5.47
5.67
9.34
6.82
6.79
6.55
Tb
0.91
0.97
0.79
0.86
1.11
0.99
0.86
0.81
Dy
5.44
5.74
4.67
4.43
6.17
5.12
4.82
4.26
Ho
0.87
0.91
0.78
0.85
1.03
0.89
0.78
0.86
Er
2.94
2.78
2.13
1.84
2.77
2.29
2.27
2.14
Tm
0.27
0.33
0.28
0.28
0.37
0.32
0.26
0.25
Yb
2.05
2.77
2.02
1.73
2.6
1.86
1.78
1.84
Lu
0.34
0.32
0.23
0.28
0.35
0.28
0.24
0.24
Hf
5.00
4.99
4.70
4.20
7.53
6.16
5.86
5.88
Ta
2.92
2.79
2.63
2.62
2.77
2.17
2.01
1.80
Pb
37.36
38.15
32.93
32.38
43.43
35.10
34.71
32.51
Th
25.44
24.78
21.94
20.83
32.72
26.88
25.43
24.44
U
5.40
5.56
5.08
4.64
4.76
3.62
3.41
2.95
Tab. 1c. Analisi rappresentative espresse in ppm.
Barca, Crisci, De Francesco
70
Fig. 1. Diagrammi binari discriminanti i quattro gruppi di ossidiana del Monte Arci.
Gruppo SA:
Ox425,
Ox426,
Sc8,
Gruppo SB1:
Ox423,
Ox424,
Pau15,
Gruppo SB2:
Ox421,
Ox422.
Gruppo SC:
Ox419,
Ox420
Sc25.
Mar7.
Caratterizzazione archeometrica delle ossidiane del Monte Arci
71
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72
RILIEVO GEOMETRICO E ARCHITETTONICO
DELLA CHIESA DI S. NICOLÒ L’ARENA, CATANIA*
BARNOBI L., COLAIACOVO L., DI GREGORIO G., GALIZIA M., GIUFFRIDA A.,
GRASSO S., LIUZZO M., SANTAGATI C.**
Dipartimento di Architettura e Urbanistica, Università degli Studi di Catania, Viale Andrea
Doria, 6 – 95125 Catania, Tel. 095 7382525, Fax. 095 330309, [email protected]
1. Il rilievo integrato della chiesa di San Nicolò L’Arena, Catania
Le metodiche di rilevamento subiscono nel tempo innovazioni, sia per
l’utilizzo di nuovi sistemi operativi sia per l’evoluzione delle strumentazioni,
che permettono di eseguire misurazioni e rappresentazioni sempre più aderenti alla realtà. La ricerca condotta in campo nazionale dalla comunità scientifica e le accelerazioni tecnologiche impongono a coloro che operano nel
settore di divenire specialisti puntuali, in modo da presidiare le capacità di
connettere conoscenze e competenze diversificate, per sostenere quanto
ormai è diventato di dominio di tutti gli operatori del settore.
In queste note vengono descritti sinteticamente i risultati relativi al rilevamento della chiesa di San Nicolò l’Arena e alla rappresentazione grafica non
solo degli aspetti iconico-formali dell’organismo architettonico ma anche
degli esiti delle indagini effettuate dalle altre aree disciplinari.
Quanto attuato, dal rilievo alla rappresentazione, è stato realizzato dal gruppo che opera presso il Laboratorio di Fotogrammetria Architettonico e Rilievo del Dipartimento di Architettura ed Urbanistica, che ha partecipato
* Lavoro realizzato nell’ambito del progetto «Il recupero e la valorizzazione del patrimonio
architettonico della Sicilia orientale: l’emergenza architettonica urbana e l’edilizia rurale. Conoscenza, interventi e formazione» (T3 CLUSTER C 29), finanziato dal Ministero dell’Università
e della Ricerca Scientifica
** La responsabilità redazionale dell’articolo risulta così suddivisa: G. DI GREGORIO: par. 1.
Il rilievo integrato della chiesa di San Nicolò L’Arena, Catania; L. BARNOBI, A. GIUFFRIDA: par 2.
Il rilievo della facciata; M. GALIZIA, M. LIUZZO: par 3. Il rilievo per una lettura interpretativa dei
prospetti laterali; S. GRASSO: par 4. Il rilievo della pavimentazione; L. COLAIACOVO, C. SANTAGATI:
par 5. La rappresentazione grafica come momento di sintesi per le indagini multidisciplinari
Rilievo geometrico ed architettonico
della Chiesa di San Nicolò L’Arena (Ct)
73
come attività 2 del workpackage 1 prevista nel progetto iniziale del Cluster
29 dal titolo «Il recupero e la valorizzazione del patrimonio architettonico
della Sicilia orientale: l’emergenza architettonica urbana e l’edilizia rurale.
Conoscenza, interventi e formazione».
La suddivisione del lavoro, affidato ad operatori diversi, ha reso possibile operare in maniera coordinata, consentendo durante le varie elaborazioni il confronto e l’interscambio dei risultati che ogni gruppo ha realizzato utilizzando metodiche integrate.
Strumento indispensabile per la conoscenza approfondita dell’edificio
è stato il rilevamento integrato, che avendo come base semplici operazioni mensorie, affronta numerose modalità di indagine, ottenendo graficizzazioni prettamente geometriche, architettoniche, costruttive, tecniche e
tematiche. Questi elaborati sono serviti a proporre successivamente informazioni diverse ed aggiuntive ottenute da analisi e studi scientifici particolari appartenenti ad altre attività.
2. Il rilievo della facciata
Il rilevamento della facciata della Chiesa di San Nicola è stato eseguito
al fine di realizzare elaborati grafici diversi che costituiscono il supporto per
successive elaborazioni, per documentare le tecniche costruttive e le patologie edilizie presenti allo stato attuale sull’oggetto.
Il rilevamento, documentazione che mette in evidenza gli aspetti geometrico formali, propedeutica agli studi ed approfondimenti specialistici
dei diversi settori disciplinari, è stato affrontato con l’ausilio delle tecniche di rilievo diretto, topografico e fotogrammetrico, al fine di ottenere
una elevata precisione metrica e raccogliere un gran numero di informazioni riguardanti sia l’aspetto architettonico e decorativo, che le caratteristiche cromatiche, delle patologie e dello stato di degrado (v. Fig. 1).
Seguendo la logica sequenziale per una documentazione completa,
sono stati prodotti i seguenti elaborati grafici:
– una tavola di rilievo geometrico, la quale rappresenta i volumi e le
superfici determinanti la conformazione spaziale dell’oggetto, ovvero
sia gli elementi auotoportanti di facciata, che l’apparecchiatura lapidea
decorativa;
– una tavola di rilievo architettonico, nella quale si è sovrapposta la rappresentazione della pezzatura dei conci, della disposizione dei fori
74
Barnobi, Colaiacovo, Di Gregorio,
Galizia, Giuffrida, Grasso, Liuzzo, Santagati
all’interno dei quali, durante la costruzione erano alloggiate le testate
delle travi dei ponteggi, con l’aggiunta della sezione ribaltata delle
colonne disposte lateralmente al portale principale;
– tre tavole tematiche, redatte in collaborazione con altri settori disciplinari specialistici, sulle quali, mediante raddrizzamento da singola immagine, sono state individuati e rappresentati sulla facciata i danni
dovuti ai dissesti ed all’umidità, nonché le croste nere e le infestazioni
vegetali, generate dalle interazioni dei materiali da costruzione con
l’ambiente esterno.
In questa disamina si vogliono sottolineare, mediante osservazioni critiche, alcune peculiarità dimensionali dell’oggetto che il rilievo ha evidenziato e che trovano riscontro nelle complesse fasi progettuali e realizzative della facciata, documentate dal materiale d’archivio e dalle notizie storiche consultate.
È stata individuata la perfetta simmetria dell’intero prospetto, nelle dimensioni e nella disposizione dei partiti e delle aperture.
Si è osservato che i basamenti su cui poggiano le colonne aggettano
notevolmente rispetto al piano principale; ciò probabilmente consegue al
fatto che essi risalgano al progetto originario per San Nicola, redatto nel
1702 da Antonino Amato, in base al quale furono realizzati degli enormi
“zoccoloni” in pietra lavica su cui far poggiare le colonne, successivamente rivestiti in pietra calcarea.
Fig.1. Facciata della chiesa di San Nicola.
Rilievo geometrico ed architettonico
della Chiesa di San Nicolò L’Arena (Ct)
75
L’interasse tra le colonne binate disposte al lato del portale principale è
maggiore, rispetto a quello delle colonne laterali al prospetto, di circa 22
cm, misura che, date le maestose dimensioni dell’oggetto, non può ritenersi significativa; tuttavia tale difformità non si può attribuire ad un errore in
fase di realizzazione in quanto si presenta simmetricamente su entrambi i
lati. “Ciò potrebbe addebitarsi a vincoli di misure preesistenti oppure
potrebbe attribuirsi ad una particolare cura prestata agli effetti di percezione visiva” [1].
L’analisi del rivestimento lapideo, interamente in calcarenite di Melilli,
mostra omogeneità di gradazione cromatica e di trattamento superficiale
ed una pezzatura di dimensioni variabili in larghezza, ma uniformi in
altezza, per consentire regolarità nei ricorsi.
In effetti, nonostante le travagliate vicende che hanno caratterizzato la
costruzione della Chiesa, le notizie d’archivio documentano che il rivestimento in pietra bianca, sovrapposto alla muratura rustica già completa nel
1775, fu realizzato in unica fase, iniziata nel 1795 e interrotta definitivamente nel 1801, a causa della mancanza dei fondi, rimanendo nella stessa
configurazione in cui si trova oggi (v. Fig. 1 e 2).
Fig. 2. Tavola di rilievo geometrico.
Fig. 3. Tavola di rilievo architettonico:
dettaglio della facciata.
76
Barnobi, Colaiacovo, Di Gregorio,
Galizia, Giuffrida, Grasso, Liuzzo, Santagati
3. Il rilievo per una lettura interpretativa dei prospetti laterali
Lo studio dettagliato dell’organizzazione formale dei prospetti laterali
della Chiesa di San Nicolò l’Arena, affrontato per mezzo di un rilievo integrato, topografico e fotogrammetrico da immagini singole, ha consentito di confrontare in termini qualitativi e quantitativi i due fronti, mettendo in luce peculiarità, analogie e differenze non evidenziate dalla semplice analisi visiva.
L’apparente diversità delle due facciate, meridionale e settentrionale, è
smentita dal confronto metrico: la sovrapposizione speculare delle restituzioni grafiche, a meno di piccoli scostamenti dimensionali, attribuibili ad
errori costruttivi e/o a difficoltà operative nel rilevamento, ha evidenziato
come la simmetria dell’impianto chiesastico interno trovi coerente conferma negli esterni, anche nella zona absidale e del transetto.
A conclusione della fase grafico-interpretativa, l’esame delle fonti
archivistico-iconografiche, memorie di eventi accaduti che hanno determinato e trasformato nel tempo l’aspetto formale e l’impianto costruttivo
della fabbrica, ha consentito un riscontro delle logiche progettuali e delle
incongruenze rilevate.
I due prospetti presentano un’analoga architettura dalle semplici superfici
piane, movimentate dall’innesto dei volumi delle cappelle che concludono le
navate laterali. Unici elementi architettonico-decorativi sono le ampie finestre rettangolari ad arco fortemente ribassato che, con chiare cornici in pietra
calcarea, disegnano i muri perimetrali delle navate e delle cappelle.
Le lesene binate su alti piedistalli poste ad angolo con il prospetto principale, coerenti conclusioni della incompleta facciata semplicemente accostata a posteriori ai paramenti murari, sebbene ripropongano l’uso della
pietra bianca, restano elementi estranei alla conformazione dei fronti che
delimitano.
È nel mutuo rapporto con il vicino organismo architettonico del complesso dei Benedettini che, invece, nascono le diversità. La fabbrica della Chiesa,
in gran parte isolata rispetto al monastero, si addossa, infatti, con le strutture
murarie meridionali al corpo di fabbrica del chiostro orientale (v. Fig. 4, 5, 6).
Il raccordo tra il sobrio prospetto sud del tempio e la ricca facciata est
di accesso al monastero è irrisolto in termini sia formali sia volumetrici,
quasi che le due fabbriche, sebbene ideate in un unico grandioso progetto,
procedendo quasi coeve ma autonomamente, si siano casualmente incontrate in corrispondenza di un punto intermedio del corpo aggettante del
campanile, creando anche una serie di spazi interni di risulta.
Rilievo geometrico ed architettonico
della Chiesa di San Nicolò L’Arena (Ct)
77
Nella sua intera maestosità si mostra, invece, il lato settentrionale della
Chiesa, con le possenti mura e corpi di fabbrica rimasti a vista per l’incompiuta realizzazione dei due chiostri settentrionali che, secondo il progetto originario, dovevano completare l’impianto monastico disponendosi simmetricamente rispetto all’asse longitudinale di San Nicolò (v. Fig. 7).
La presenza isolata di due possenti muri in pietrame lavico, addossati
ortogonalmente al transetto nord, denuncia accadimenti costruttivi che hanno
trovato risposta dalla lettura delle fonti archivistiche. Dai registri contabili dei
Fig. 4. Veduta del complesso monastico dei Benedettini in Catania.
Fig. 5. Prospetto sud
della chiesa di San Nicolò l’Arena
Fig. 6. Prospetto nord
della Chiesa di San Nicolò l’Arena.
78
Barnobi, Colaiacovo, Di Gregorio,
Galizia, Giuffrida, Grasso, Liuzzo, Santagati
Benedettini, relativi ai lavori di edificazione della Fabrica Nova [2], risulta
che nel 1755 il cedimento di un’estesa porzione della parete settentrionale
della Chiesa, tra l’abside ed il transetto, comportò il rifacimento della parte
crollata con l’aggiunta di rinforzi in fondazione e dei due muri “a delfino”
con funzione di contrafforti, ancora oggi visibili all’esterno del transetto. Tale
struttura, secondo Librando [3], avrebbe dovuto anticipare parte delle fabbriche settentrionali del monastero, mai realizzate, anche se fortemente volute
dai Benedettini, come si evince dalle numerose viste settecentesche ed ottocentesche che propongono idealmente l’impianto simmetrico completato.
Oggi, il complesso monastico appare, come afferma Dato, “più una
sommatoria di unità tipologiche, raccordate tra loro da soluzioni architettoniche non sempre felici, che un’opera unitariamente concepita e coerentemente risolta” [4].
In quest’ambito, il rilievo si pone quale insostituibile strumento di “dialogo” con l’architettura, per carpirne l’unitarietà di progetto, le matrici sottese,
le salienti fasi realizzative, gli eventi che nel tempo ne hanno determinato le
trasformazioni, i significati intrinseci e le inesplorate potenzialità attuali, elementi di conoscenza imprescindibili per un attento progetto di salvaguardia e
valorizzazione del Patrimonio Culturale.
Fig. 7. Il monastero ed il tempio dei Benedettini nell’incisione di A. Vacca (1780).
Rilievo geometrico ed architettonico
della Chiesa di San Nicolò L’Arena (Ct)
79
4. Il rilievo della pavimentazione
La pavimentazione della Chiesa è realizzata in marmi policromi, con disegni geometrici che segnano le singole campate, ciascuna delle quali è delimitata da quattro pilastri, che lungo il perimetro della fabbrica sono in parte
inglobati nella muratura e formano nicchie con relativi altari (v. Fig. 8 e 9).
Il disegno della pavimentazione della navata centrale ha come matrice il cerchio, presente su tre campate e ripreso anche nei quattro nodi in corrispondenza degli altari laterali di fronte le absidi (una centrale e due ai capi del transetto). Viceversa lungo le campate delle navate laterali la matrice geometrica è
data da un rettangolo con un rombo iscritto, la stessa matrice si ripete su una
cappella della navata centrale, ma con il disegno ruotato di 90° e deformato per
adattarsi al diverso spazio. Infine altri tre decori sono riportati nelle sei cappelle ai lati degli altari (centrale e laterali).
Il rilievo è stato realizzato tramite il raddrizzamento digitale di singoli
fotogrammi, con i quali sono stati realizzati dei fotomosaici sui cui si è disegnata la pavimentazione. Questa tecnica oltre che darci la possibilità di realizzare un fotomosaico dell’intera pavimentazione della Chiesa, ha consentito un rilievo preciso e puntuale sul quale sono stati realizzati studi relativi alla
geometria che sottende il disegno della pavimentazione stessa.
Fig 8. Immagine di una parte della pavimentazione della cappella a sinistra dell’abside.
Fig 9. Restituzione grafica su fotogramma
raddrizzato
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Barnobi, Colaiacovo, Di Gregorio,
Galizia, Giuffrida, Grasso, Liuzzo, Santagati
5. La rappresentazione grafica come momento di sintesi per le indagini multidisciplinari
Dalle tecniche fotorealistiche di simulazione all’utilizzo fotogrammetrico per
il rilievo dell’esistente, l’immagine occupa oggi un ruolo irrinunciabile per la
rappresentazione sia nell’ambito architettonico che in tutti gli aspetti conoscitivi ad esso correlati.Un importante momento della ricerca dell’attività 2 ha compreso l’obiettivo di comunicare visivamente in maniera intelligibile i risultati
delle indagini condotte dagli altri laboratori sulla base degli elaborati grafici di
rilievo al fine di ottenere delle rappresentazioni al tempo stesso di sintesi e di
immediata comprensione che consentissero una lettura sincronica dei decadimenti riscontrati nella fabbrica e di cogliere le correlazioni tra degradi, difetti
costruttivi e interazioni manufatto ambiente circostante.
Sollecitati dall’entusiasmo del Prof. L. Andreozzi, responsabile del laboratorio di fotogrammetria architettonica e rilievo del DAU di Catania, l’Ing. Luca
Colaiacovo e l’Ing. Cettina Santagati hanno realizzato un’integrazione di tecniche grafiche fotorealistiche, comunicazione, computer grafica, disegno e rilievo
tradizionale per la rappresentazione visiva al tempo stesso qualitativa e quantitativa delle indagini diagnostiche preliminari concernenti aspetti di degrado,
manifestazioni organiche vegetali sia microscopiche che macroscopiche, caratteristiche petrografiche e chimico-fisiche condotte sulla facciata della Chiesa di
S. Nicola l’Arena, evidenziate dalle attività 3, 5, 9, 10, 11(v. Fig. 10 e 11).
Per effettuare dette elaborazioni si è interagito a stretto contatto con i ricercatori afferenti all’attività 3 – osservatorio delle patologie edilizie – resp. Prof. A.
Salemi, attività 5 - Laboratorio di mineralogia, petrografia e geochimica - resp.
Prof. A. Lo Giudice, attività 9 – Laboratorio di Biologia e di Ecologia vegetale
– resp. prof. E. Poli Marchese, attività 10 – Laboratorio di algologia, resp. Prof.
G. Giaccone e all’attività 11 – Laboratorio analisi non distruttive – resp. Prof. G.
Pappalardo. La tecnica grafica ha permesso, tramite opportuna collocazione di
dati vettoriali e raster insieme a grafici numerici e tabelle riassuntive, di riassumere le analisi graficamente in tavole metriche e simboliche al tempo stesso,
arricchendo il tutto di tabelle riassuntive e legende esplicative atte a rendere la
ricerca comprensibile e leggibile in maniera più efficace anche da parte di un
pubblico di non addetti ai lavori.
Le immagini, manipolate con tecniche fotogrammetriche, insieme a rese a
falsi colori o ad applicazioni di tipo “pattern”, sono state utilizzate per una campitura continua metrica e/o simbolica delle superfici analizzate rendendo la
descrizione al tempo stesso universale e dettagliata (v. Fig. 12 e 13).
Rilievo geometrico ed architettonico
della Chiesa di San Nicolò L’Arena (Ct)
81
Fig. 10 e 11. Le immagini si riferiscono alle tavole grafiche realizzate dall’Ing. Luca Colaiacovo nell’ambito dell’Attività 2 del Laboratorio di Fotogrammetria architettonica e rilievo, resp. Prof. L. Andreozzi: a sinistra, studi condotti dall’Attività 5 del Laboratorio di mineralogia, petrografia e geochimica, resp. Prof. A. Lo Giudice; a destra, studi condotti dall’Attività
10 del Laboratorio di algologia, resp. Prof. G. Giaccone.
Fig. 12 e 13. Le immagini si riferiscono alle tavole grafiche realizzate dall’Ing. Cettina
Santagati nell’ambito dell ’Attività 2 del Laboratorio di Fotogrammetria architettonica e rilievo, resp. Prof. L. Andreozzi:a sinistra, studi condotti dall’Attività 9, Laboratorio di Biologia ed
Ecologia vegetale, resp. Prof. E. Poli Marchese; a destra, studi condotti dall’Attività 11,
Laboratorio Analisi non Distruttive (LANDIS), resp. Prof. G. Pappalardo.
82
Barnobi, Colaiacovo, Di Gregorio,
Galizia, Giuffrida, Grasso, Liuzzo, Santagati
Sono così stati prodotti degli elaborati grafici informatizzati finalizzati
alla stampa ed all’esposizione, rappresentazioni di sintesi dei risultati
delle indagini condotte, in grado di essere letti ed utilizzati anche dalle
altre aree disciplinari.
Attraverso l’adozione di un linguaggio iconico comune, quello della rappresentazione grafica mutuato dalle tecniche di grafica computerizzata, si è
cercato di sopperire a quel gap che spesso si viene a creare nella trasmissione di informazioni tra addetti ai lavori dovuto all’adozione di linguaggi e
metodiche molto diversificati tra di loro, in genere comprensibili solo agli
afferenti ad una determinata area disciplinare.
Tutto ciò nella consapevolezza di avere aggiunto un tassello in più in
quel complesso processo di conoscenza integrata del bene che si avvale di
competenze multi-disciplinari e che è alla base di qualunque intervento
rivolto allo studio e alla valorizzazione dei Beni Culturali.
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83
LOCALIZZAZIONE DEI CENTRI DI PRODUZIONE ANFORICA
NELL’OCCIDENTE GRECO: DATI ARCHEOMETRICI SU ANFORE
“CORINZIE B”,“IONICO-MASSALIOTE”, “PSEUDO-CHIOTE”
E “GRECO-ITALICHE” RINVENUTE IN SICILIA
BARONE G.(1), BELFIORE C.M. (1), LO GIUDICE A.(1),
MAZZOLENI P.(1), PEZZINO A.(1), SPAGNOLO G.(2), INGOGLIA C. (3),
TIGANO G. (3), ALBANESE R.M. (4)
(1) Dipartimento di Scienze Geologiche, Università di Catania,
Corso Italia 57, 95129 Catania, Tel. 095 7195755, Fax. 095 7195760, [email protected]
(2) Dipartimento di Scienze dell’Antichità, Università di Messina,
Polo Universitario dell’Annunziata, 98168 Messina
(3) Soprintendenza Beni Culturali ed Ambientali di Messina,
Sezione Archeologica, Viale Boccetta, Messina
(4) Dipartimento di Studi Archeologici, Filologici e Storici, Università di Catania,
P.zza Dante 32, 95100 Catania
1. Introduzione
Nel presente lavoro vengono affrontate alcune problematiche relative all’individuazione dei centri di produzione di anfore commerciali nell’Occidente greco, attraverso le analisi archeometriche di campioni provenienti da vari siti archeologici della Sicilia. Le anfore erano contenitori
destinati al trasporto di derrate alimentari – come l’olio, il vino, ecc. – e
pertanto erano molto diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo. Oggi esse
sono ritenute dagli studiosi i più importanti indicatori della vita economica delle città antiche ed occupano un ruolo di primo piano negli studi sui
traffici commerciali. Tuttavia, specialmente per i periodi più antichi, le
conoscenze sulle anfore da trasporto presentano ancora molte lacune, poiché di molti tipi non sono noti né l’origine né il luogo di produzione.
L’individuazione delle fabbriche è fondamentale ai fini di una corretta
ricostruzione storica dei contatti e degli scambi tra le comunità antiche. In
tal senso, recentemente, alla classificazione tradizionale, basata sui dati
morfo-tipologici, si è affiancato un approccio multidisciplinare che prevede l’apporto delle analisi archeometriche.
84
Barone, Belfiore, Lo Giudice, Mazzoleni, Pezzino, Spagnolo,
Ingoglia, Tigano, Albanese
2. Materiali analizzati e obiettivi
Sono stati presi in esame 90 reperti anforici, databili in un arco di
tempo compreso tra l’età arcaica e quella ellenistica (dal VI al III sec. a.C.)
e provenienti dagli scavi di alcune tra le più importanti colonie greche di
Sicilia, come Messina (Messana), Milazzo (Mylai), Agrigento (Akragas),
Gela e Selinunte, nonché da Ramacca, sito indigeno dell’entroterra catanese.
I manufatti analizzati appartengono alle seguenti tipologie:
1. anfore ”corinzie B” o di “forma corinzia B” (VI-V secolo a.C.), rinvenute a Messina, Gela e Ramacca;
2. anfore “ionico-massaliote” (VI-V secolo a.C.), rinvenute a Messina,
Agrigento, Gela, Selinunte e Ramacca;
3. anfore”pseudo-chiote” (V secolo a.C.), rinvenute a Messina,
Agrigento, Gela, Selinunte e Ramacca;
4. anfore “corinzio-corciresi” (V secolo a.C.), rinvenute a Gela;
5. anfore “greco-italiche” (IV-III secolo a.C.), rinvenute a Milazzo.
Si tratta di tipologie diverse e tuttavia in qualche modo connesse tra
loro da rapporti di filiazione. Le definizioni sono espresse tra virgolette in
quanto corrispondono alle denominazioni convenzionali con cui questi
tipi vengono indicati nella letteratura archeologica non essendo state ancora localizzate con precisione le fabbriche.
Gli obiettivi dello studio sono stati i seguenti:
– individuare i centri di produzione delle tipologie anforiche investigate;
– individuare un eventuale rapporto tra i centri di produzione delle forme
più antiche e quelli delle forme più recenti;
– fornire dati agli archeologi al fine di ricostruire le dinamiche di circolazione.
3. Considerazioni storico-archeologiche
Le tipologie anforiche prese in esame sono legate, come si è detto, da rapporti, ora più ora meno certi, di filiazione. Secondo gli studi più recenti [15;
16], le anfore dette “corinzie B”, databili a partire almeno dalla metà del VI
sec. a.C., possono essere ritenute per così dire le capostipiti delle produzioni
greco-occidentali. Per imitazione di queste, infatti, nella seconda metà del VI
sec. a.C. venne elaborata la forma “ionico-massaliota”, da cui, a sua volta, nel
Localizzazione dei centri di produzione anforica
nell’occidente greco: dati archeometrici
85
corso del V sec. a.C., si sviluppò la forma “pseudo-chiota”. Parallelamente,
sempre dalla forma “corinzia B” arcaica, nel secondo quarto del V sec. a.C.
ebbe origine la forma detta “corinzio-corcirese” e, probabilmente, per imitazione di quest’ultima, più tardi, nel IV sec. a.C., furono elaborate le prime
“greco-italiche”.
Di tutte queste “famiglie” di anfore non si conoscono con precisione le
fabbriche, tranne nei pochi fortunati casi in cui sono state rinvenute tracce degli impianti produttivi (come per esempio nel caso delle anfore “ionico-massaliote” e “pseudo-chiote” di Locri).
Nella sua classificazione delle anfore corinzie, Koehler [8] denominò
“tipo corinzio B” sia la forma di età arcaica, che tuttora chiamiamo “corinzia
B” (oppure “ionio-corinzia”), sia la forma di età classica, che oggi viene indicata preferibilmente come “corinzio-corcirese”. La Koehler attribuì entrambe le forme alla città di Corinto, ma accennò anche alla possibilità di altre
fabbriche: per la variante arcaica, avanzò l’ipotesi di una eventuale fabbrica
greco-occidentale [8; 9], mentre per la variante classica suggerì la presenza
di una fabbrica a Corfù (antica Corcyra), sulla base dei risultati di alcune analisi archeometriche [Jones-Simopoulos-Kostikas, appendice in 8]. Altre indagini di laboratorio, però, condotte su anfore del medesimo tipo e su ceramica di Corinto e di Corfù, evidenziarono la difficoltà di distinguere chimicamente i due centri di produzione, a causa delle affinità composizionali delle
argille [6; 17 pp. 264-268]. Whitbread, per di più, basandosi sia su indagini
petrografiche sia su considerazioni di carattere storico-archeologico, mise
convincentemente in dubbio l’attribuzione del tipo a Corinto, pur senza avanzare vere e proprie ipotesi alternative.
Nel frattempo, fu scoperta a Corfù un’officina ceramica in cui si producevano anfore della variante di età classica: ciò fornì la conferma definitiva dell’esistenza di una fabbrica corcirese di tale variante, che fu pertanto definita “corinzio-corcirese”, ma non sciolse tuttavia i dubbi sulla
paternità della variante più antica e sull’eventualità di una produzione
parallela a Corinto o altrove [16 e bibliografia ivi citata].
Più recentemente il dibattito archeologico si è riacceso in riferimento
alla forma arcaica ed è stata ribadita l’ipotesi di un centro di produzione
greco-occidentale [15; 16]. La fondatezza di tale ipotesi è stata finalmente rivelata dai risultati delle analisi mineralogico-petrografiche e chimicofisiche condotte su alcuni campioni provenienti dagli scavi di ZancleMessana e di Gela [2; 3]. Tali analisi hanno permesso infatti di riconoscere un’area di produzione nell’ambito dell’Arco Calabro-Peloritano ed
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Barone, Belfiore, Lo Giudice, Mazzoleni, Pezzino, Spagnolo,
Ingoglia, Tigano, Albanese
hanno consentito di distinguere da questa un’altra area di produzione più
propriamente greca, con caratteristiche del tutto simili a quelle già note in
letteratura ed attribuite a Corinto o a Corfù.
Quindi, per le anfore “corinzie B” e “corinzio-corciresi” oggi si ipotizzano due ambiti di provenienza, uno greco (forse Corfù) e l’altro localizzabile
nell’ambito dell’Arco Calabro-Peloritano, verosimilmente nella fascia ionica
della Calabria. Qui, il sito maggiormente indiziato come centro creatore della
forma anforica più antica, è senz’altro Sibari. Questa città, infatti, era ben
nota nell’antichità per la sua straordinaria prosperità economica, legata ad
una fiorente agricoltura e, in particolare, ad una abbondante produzione di
vino, destinata anche all’esportazione [16].
Passando alle altre produzioni anforiche oggetto di questo studio, le “ionico-massaliote” costituiscono un gruppo ben nutrito. Nell’insieme, la forma è
assai simile a quella delle anfore “corinzie B”, da cui probabilmente essa ha
avuto origine. Nella letteratura archeologica recente sono state segnalate
diverse fabbriche di anfore “ionicomassaliote” localizzabili nell’Occidente
greco, ma l’attribuzione di provenienza è raramente supportata da dati di
laboratorio. Fanno eccezione gli accurati studi condotti sulle produzioni di
Marsiglia [14] e di Locri [5; 12]. Secondo ricerche archeometriche recenti
[4], la più antica e florida fabbrica potrebbe riferibile proprio a Locri, dove
peraltro è stata rinvenuta una fornace arcaica [10]; tuttavia, numerosi altri siti
dell’Italia meridionale e della Sicilia hanno prodotto sicuramente contenitori
di forma molto simile [16].
Nella prima metà del V secolo a.C., la forma “ionico-massaliota”, che
era stata ormai adottata da un gran numero di centri dell’Occidente greco,
si evolve in quella detta “pseudo-chiota”, caratterizzata dal collo rigonfio,
forse per imitazione delle coeve anfore chiote, diffuse in tutto il Mediterraneo ma assai diverse petrograficamente [17]. Anche della forma
“pseudo-chiota” si ipotizza l’esistenza di diverse fabbriche nell’Italia meridionale e nella Sicilia [16].
Per quanto riguarda infine le anfore “greco-italiche”, importanti indicatori dell’economia nell’Italia meridionale e nella Sicilia tra il IV e il II
secolo a.C., i pochi dati archeometrici di laboratorio esistenti non consentono di determinarne le aree di origine sino ad ora ipotizzate solo su base
tipologica ed epigrafica [13 e bibliografia ivi citata]. Sulla base di studi
archeologici, alcuni autori suggeriscono una prima manifattura greca ed
una successiva riproduzione nelle officine dell’Italia meridionale, prevalentemente nelle aree campana e siciliana [13].
Localizzazione dei centri di produzione anforica
nell’occidente greco: dati archeometrici
87
4. Metodi d’indagine
Al fine di ottenere informazioni inerenti ai centri di produzione dei
reperti anforici in esame, su ciascuno dei campioni sono state effettuate
indagini di tipo:
– petrografico, mediante microscopia ottica su sezioni sottili (OM);
– mineralogico, attraverso diffrattometria (XRD);
– geochimico, mediante fluorescenza X (XRF), spettrometria di massa
(ICP-MS) e/o spettroscopia di emissione ottica (ICP-OES).
Lo studio mineralogico-petrografico e geochimico dei reperti è stato
naturalmente affiancato da analisi tipologico-stilistiche e da considerazioni storico-archeologiche che hanno contribuito in maniera sostanziale alla
individuazione di alcune delle fabbriche anforiche coloniali.
5. Risultati e discussione
Per quanto riguarda le anfore “corinzie B” e “corinzio-corciresi”, le
indagini petrografiche hanno messo in evidenza due differenti tipologie
d’impasto: l’impasto I (campioni di Messina, Gela e Ramacca), caratterizzato dalla presenza di inclusi di selce di forma da sub-arrotondata a spigolosa, insieme a quarzo, feldspati e plagioclasi; l’impasto II (campioni di
Messina e Gela), con impronte di microfossili e inclusi dati da frammenti
di metamorfiti, insieme a quarzo, plagioclasio, raro feldspato e muscovite,
compatibili con una provenienza dall’area Calabro-Peloritana.
In termini chimici, i campioni relativi all’impasto 1 presentano contenuti più alti in MgO (5-6%) e più bassi in Al2O3 (10-12%) rispetto a quelli dell’ impasto II (MgO=2.5-4.5% e Al2O3=14-17%). Inoltre, dall’osservazione del diagramma Ni vs. Cr, si può notare come i primi ricadano nell’area ad alti tenori in Ni in cui sono riportati campioni di confronto di
certa produzione corinzia [6; 2], mentre i secondi, caratterizzati da bassi
tenori in Ni, ricadono nel campo composizionale delle ceramiche di produzione sibarita [7; 11] (v. Fig. 1).
Anche per quanto concerne le anfore “ionico-massaliote” e “pseudo-chiote” sono stati distinti petrograficamente 2 gruppi principali: il gruppo A (comprendente tutti i campioni di Messina e alcuni di Ramacca) è caratterizzato da
pasta di fondo micacea, impronte di microfossili ed inclusi metamorfici compatibili con una provenienza dall’area Calabro-Peloritana; il gruppo B (comprendente anfore di Agrigento, Gela, Selinunte e Ramacca), invece, con inclu-
88
Barone, Belfiore, Lo Giudice, Mazzoleni, Pezzino, Spagnolo,
Ingoglia, Tigano, Albanese
si quarzosi a grana molto fine e rare impronte di microfossili, non mostra caratteri petrografici che consentano di discriminare le differenti produzioni.
Dal punto di vista chimico, i campioni del gruppo A sono caratterizzati da tenori più alti in K2O (2.4-3%) e più bassi in CaO (5-13%) rispetto
al gruppo B (K2O= 1.3-2.4% e CaO=13-25%). I contenuti in TiO2, MgO
e Al2O3 sono variabili. All’interno dello stesso gruppo, sulla base dei tenori in Ni e Cr (v. Fig. 2), si possono inoltre distinguere manufatti che ricadono nell’area individuata da campioni di confronto di sicura produzione
locrese e altri che ricadono nell’area delle ceramiche di confronto di produzione sibarita o messinese. I campioni del gruppo B ricadono invece nel
campo delle ceramiche di produzione dei siti di Gela, Agrigento e Selinunte [3; 1 in corso di stampa], anche se il campo si sovrappone in parte
a quello di Messina. Si può inoltre osservare come sia possibile distinguere tra loro le tre produzioni principalmente sulla base del diverso tenore in
Ni e Cr, oltre che del diverso contenuto in Al2O3 e TiO2 (v. Fig. 2).
Infine, relativamente alle anfore “greco-italiche” sono stati individuati tre
impasti differenti: impasto I, a prevalenti quarzo e frammenti di metamorfiti;
impasto II, a prevalenti inclusi quarzosi e metamorfici e rari inclusi vulcanici; impasto III, a prevalenti inclusi di natura vulcanica.
Fig. 1. Fig.
Diagramma
Ni vs.
CrCr(in
relativo
alle
anfore
“corinzie”.A). Dati determina1. Diagramma
Ni vs.
(inppm)
ppm) relativo
alle
anfore
“corinzie”.
ti in ICP-MS; B) dati determinati in ICP-OES.
Localizzazione dei centri di produzione anforica
nell’occidente greco: dati archeometrici
89
Dal punto di vista chimico, è stato possibile distinguere due gruppi
soprattutto sulla base del diverso contenuto in CaO e SiO2 (v. Fig. 3). In
particolare, i campioni appartenenti all’impasto III mostrano alti contenuti in CaO e bassi in SiO2; viceversa, le anfore con inclusi di natura preva-
Fig. 2. Diagramma Ni vs. Cr (in ppm) relativo alle anfore “ionico-massaliote” e “pseudo-
Fig. 2.chiote”.
Diagramma Ni vs. Cr (in ppm) relativo alle anfore “ionico-massaliote” e “pseudo-chiote”.
Fig. 3. Diagramma SiO2 vs. CaO (in %) relativo alle anfore “greco-italiche”.
90
Barone, Belfiore, Lo Giudice, Mazzoleni, Pezzino, Spagnolo,
Ingoglia, Tigano, Albanese
lentemente metamorfica (impasti I e II) sono caratterizzate da bassi contenuti in CaO (> 6%) e alti in SiO2.
6. Conclusioni
L’integrazione dei dati mineralogico-petrografici e geochimici ha confermato la presenza di molti centri produttori di anfore nell’Italia meridionale e nella Sicilia, relativamente alle tipologie prese in esame. Soltanto
per alcune delle anfore “corinzie B” e “corinzio-corciresi” (impasto I) è
stata individuata una provenienza diversa, probabilmente localizzabile in
Grecia (Corfù?/Corinto?).
Le anfore più antiche, vale a dire le “corinzie B” riferibili all’impasto
II, mostrano evidenze di una provenienza dall’attuale Calabria ionica, probabilmente dall’area dell’antica Sibari, dato questo che ha forti implicazioni da un punto di vista storico-archeologico.
Per quanto concerne i campioni relativi alle tipologie “ionico-massaliota e “pseudo-chiota”, si ipotizzano numerosi centri di produzione nell’Italia meridionale e nella Sicilia. In particolare, si possono distinguere una
produzione nell’area dello Stretto di Messina (Messina e Locri), caratterizzata dalla presenza di inerte metamorfico, ed una produzione nella
Sicilia meridionale (Agrigento, Gela e Selinunte), con prevalente inerte
quarzoso. Locri rappresenterebbe il primo centro produttore delle anfore
“ionico-massaliote” [16].
Infine, per quanto riguarda le anfore “greco-italiche”, sulla base dei pochi
dati di confronto a disposizione allo stato attuale [13], possiamo escludere
una provenienza dall’area campana (sia da Napoli che da Ischia) per i campioni caratterizzati dalla presenza di inclusi vulcanici: non è stata infatti
riscontrata la stessa associazione mineralogica. Si tratta di stabilire se la provenienza è associata a Lipari [18] o all’area etnea [4]. Per i campioni con
inclusi metamorfici si ipotizza invece una provenienza dall’area peloritana.
In generale, quindi, dai dati ottenuti emerge un quadro abbastanza complesso della produzione anforica nel Mediterraneo, a testimonianza della vitalità
dei contatti e degli scambi commerciali. Da un punto di vista quantitativo appare netta la predominanza delle produzioni occidentali rispetto a quelle egee.
La ricerca avviata richiede comunque uno studio più dettagliato comprendente un maggior numero di siti archeologici e di campioni da investigare.
Localizzazione dei centri di produzione anforica
nell’occidente greco: dati archeometrici
91
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93
STUDIO PRELIMINARE DEI PARAMETRI TERMOIGROMETRICI
E DELLE LORO VARIAZIONI ALL’INTERNO DELLA CHIESA
DI S. ADRIANO IN S. DEMETRIO CORONE (CS)
BARONE G.(1), CRISCI G.M. (2), LA RUSSA M.F.(3),
MALAGODI M.(4), RUFFOLO S. A.(4)
(1)
Università di Messina, Dip. Scienza della Terra; (2) Università della Calabria, Dip. Scienza
della Terra; (3) Università di Catania, Dip. Studi Geologici; (4) Syremont SpA
1. Introduzione
Lo studio dei parametri di temperatura e umidità relativa in ambienti
indoor è fondamentale per comprendere i fenomeni principali di degrado
delle opere d’arte, in particolare nei dipinti murali, quali ad esempio condensa sulle superfici o incrementi di risalita capillare con possibili depositi salini, sia come efflorescenze che subflorescenze. In quest’ottica diventa importante l’analisi dei singoli parametri rilevati in punti significativi
dello spazio analizzato che consentono di misurare le variazioni termoigrometriche sia nell’arco delle 24 ore che stagionali, con un confronto tra
i periodi più freddi e quelli più caldi. È così possibile evidenziare le principali cause di alterazione dei parametri microclimatici, come ad esempio
una maggior esposizione di un’area dell’ambiente alla luce solare, in particolare alla componente U.V., o l’analisi dei flussi di aria calda o fredda
attraverso lo spazio.
Obiettivo di questo lavoro è l’analisi dei parametri microclimatici
all’interno della chiesa Bizantina di S. Adriano a S. Demetrio Corone, sito
di grande interesse storico e architettonico della Calabria e significativo da
un punto di vista conservativo, sia per i materiali costitutivi che per la sua
esposizione a forti variazioni di temperatura in inverno e in estate, allo
scopo di estrapolare una metodologia analitica (v. Fig. 1 e 2).
La chiesa fu edificata intorno al 955 per opera di S.Nilo da Rossano,
prestigiosa figura del monachesimo basiliano. All’edificio è annesso
l’omonimo monastero, che dal 1794 fu convertito in Collegio. Dal 980 al
94
Barone, Crisci, La Russa,
Malagodi, Ruffolo
1088, chiesa e monastero passarono alle dipendenze dell’abbazia benedettina della SS Trinità di Cava dei Tirreni (SA): questo periodo ebbe una
eccezionale importanza nella storia edilizia della chiesa, che allora assunse le caratteristiche romane-normanne sull’impianto convenzionale bizantino. In seguito la chiesa ritornò alle dipendenze dei monaci basiliani, i
quali la abbellirono con mosaici e affreschi in stile bizantino. In seguito
alla caduta dell’impero bizantino intorno alla metà del quindicesimo secolo, il governo del monastero cadde nelle mani degli abati commendatari.
In questo periodo la chiesa subì profondi e dannosi rifacimenti che ne alterarono le caratteristiche originarie [1] (v. Fig. 3).
Fig. 1. Chiesa di S. Adriano (S. Demetrio
Corone, CS)
Fig. 2. Mosaico.
Fig. 3. Affresco.
Studio preliminare dei parametri termoigrometrici
della Chiesa di S. Adriano in S. Demetrio Corone (CS)
95
2. Obiettivi
Il tradizionale studio delle condizioni microclimatiche si rivolge alla
misurazione di temperatura e umidità relativa in un punto specifico dell’ambiente come rilevazione rappresentativa della situazione microclimatica. Gli obiettivi specifici di questa analisi microclimatica sono stati quelli di determinare gli andamenti di temperatura e umidità relativa all’interno della chiese di S. Adriano. Le differenze dei parametri misurati nel
corso del tempo dovrebbero consentire successivamente di misurare le
variazione tra l’ambiente e i manufatti, considerando che questi gradienti
sono la principale causa di degrado delle opere d’arte, con conseguente
formazione di flussi di calore e di vapore tra manufatto e ambiente esterno [2]. Le modalità operative, in genere, consistono nell’effettuare campagne di misura significative per ogni stagione, tenendo conto che i dati
vanno poi messi in correlazione ai periodi di rilevamento e, nelle 24h, in
relazione all’ora in cui si effettua la misura. In questo studio si è preso in
considerazione il periodo invernale, con rilevazioni che iniziano nel mese
di novembre e che si concludono nel mese gennaio. Il range temporale qui
riportato è di circa trenta giorni, considerando che i dati saranno poi integrati con le misure ancora in fieri nei siti in esame. Dai dati rilevati è stato
possibile seguire gli andamenti dei parametri di temperatura e umidità
relativa sia nell’arco delle 24h (come misure puntuali e come medie delle
misure su tutto il periodo in esame) che in tutto il periodo di rilevazione,
con le medie calcolate giorno per giorno. In base all’elaborazione di queste misure, è stato possibile elaborare dei tracciati su sezione orizzontale
delle chiese che visualizzano l’andamento dei parametri in esame.
3. Metodologia
Le misure sono state effettuate utilizzando due tipologie di strumenti. Per
misure prolungate nel tempo sono state utilizzate le sonde Rotronic Hydroclip
(Rotronic, Svizzera), dotate di memoria interna, ed è stato impostato il valore
di un’ora come intervallo di campionamento. Esse sono dotate di termoresistori al platino (Pt100) per la misura della temperatura e sensore capacitivo
Hygromer per la misura dell’umidità. Le misure puntuali sono state effettuate
utilizzando lo psicrometro interfacciato allo strumento Babuc M (LSI, Italia).
Lo psicrometro è dotato di due Pt100, uno a bulbo secco che misura l’effettiva
96
Barone, Crisci, La Russa,
Malagodi, Ruffolo
temperatura dell’aria e l’altro a bulbo umido, che misura una temperatura più
bassa rispetto al primo. La temperatura di bulbo umido e la temperatura di
bulbo secco, determinate contemporaneamente affiancando due termometri,
permettono di determinare il punto di rugiada e l’umidità relativa. Gli errori di
misura sono ± 0,1 °C per la temperatura e ± 1 % per l’umidità relativa. Le
sonde sono state programmate con un intervallo di campionamento di un’ora.
Ad intervalli di tempo regolare, i dati misurati dalle sonde sono scaricati ed elaborati attraverso la costruzione di mappe in sezione orizzontale in grado di
visualizzare gli andamenti di temperatura e umidità relativa, sia nelle 24 ore che
nel confronto con periodi stagionali differenti (v. Fig. 4).
4. Risultati.
La chiesa di S. Adriano non è dotata di impianto di riscaldamento e non
dispone di un sistema di illuminazione interno; inoltre è anche scarso l’afflusso di fedeli e visitatori: queste condizioni pur non essendo particolarmente
positive per quanto riguarda la fruibilità del bene artistico, risultano essere
delle buone condizioni per quanto riguarda la sua conservazione. Le uniche
forzanti in grado di provocare delle “perturbazioni” al normale equilibrio termoigrometrico sono quelle esterne come la radiazione solare, che penetra
attraverso le vetrate, oppure i flussi di aria provenienti dalle due porte di accesso alla chiesa. Di tutta l’indagine, peraltro ancora in fieri, sono solo riportati i
risultati relativi al periodo di campionamento invernale. In figura 5 è riportata
una rappresentazione delle differenze di T ed UR% in accordo con le norme
UNI 10829 ed UNI 10969 [3, 4]. Tali norme considerano le escursioni giornaliere di T ed UR % tollerabili dal punto di vista conservativo solo se ricadono in determinati intervalli che nel caso della norma UNI 10829 sono 0-1,5
°C per la temperatura e 0-4 % per l’umidità, mentre per la UNI 10969 vi è una
più ampia tolleranza di 0-3,2 °C e 0-7 %. Le escursioni termoigrometriche nel
Fig. 4. Posizione delle sonde.
Studio preliminare dei parametri termoigrometrici
della Chiesa di S. Adriano in S. Demetrio Corone (CS)
97
breve periodo rappresentano un potenziale fattore di degrado in quanto possono dare origine a cicli di adsorbimento e desorbimento sulle superfici interne:
infatti i fenomeni di condensazione ed evaporazione di vapore acqueo in materiali porosi si verificano anche a temperature lontane dal punto di rugiada [5].
Tali valori sono strettamente dipendenti dalla caratteristiche fisiche del materiale (la porosità in primo luogo). In base a queste considerazioni, sono in
corso diverse analisi per la caratterizzazione dei materiali dal punto di vista
fisico e petrografico: tale lavoro, insieme all’elaborazione dei dati microclimatici ancora in fieri dovranno essere integrati con i dati qui presentati. La quasi
totalità dei punti ricade nell’intervallo di tolleranza più restrittiva dettata dalla
norma UNI 10829, denotando una buona condizione microclimatica per la
conservazione nel periodo invernale (v. Fig. 5, 6 ).
Un’altra informazione fondamentale ai fini della valutazione del microclima è la valutazione dei gradienti termici ed igrometrici all’interno dell’ambiente indoor: a tal fine sono state elaborate delle mappe di temperatura, umidità relative e umidità specifica in cui vengono messe in rilievo
le differenze di tali grandezze esistenti tra i vari punti. Sono stati scelti due
giorni campione significativi da un punto di vista dei dati registrati ed è
Fig. 5. Escursioni di T ed UR%. Il riquadro
tratteggiato rappresenta l’intervallo di tolleranza secondo la UNI 10969, mentre la
linea continua rappresenta il medesimo
intervallo secondo la UNI 10829.
Fig. 6. Mappe di temperatura, umidità
relativa ed umidità specifica, registrate il
26 novembre alle ore 12.
98
Barone, Crisci, La Russa,
Malagodi, Ruffolo
stata “fotografata” la situazione alle ore 12:00. In figura 6 sono riportate
le mappe termoigrometriche relative al giorno 26 novembre. Nella mappa
relativa alla temperatura si nota che la zona delle porte di entrata alla chiesa risulta essere più fredda rispetto alla zona absidale: questo si verifica in
quanto la temperatura esterna è minore di quella interna. Si apprezza inoltre un gradiente termico in direzione Nord-Sud anche se di minore entità
dovuto probabilmente all’esposizione: l’area esposta a sud presenta una
temperatura più alta. La mappa dell’umidità relativa mostra un più alto
grado di saturazione igrometrica proprio nelle zone a più bassa temperatura, mentre la mappa di umidità specifica ci mostra che la zona a più alta
umidità relativa è accompagnata anche da una maggiore presenza di acqua
nello stato gassoso: questo potrebbe essere causato da fenomeni di evaporazione o, più verosimilmente, dall’apporto di umidità dall’esterno. In
figura 7 è mostrata la situazione microclimatica registrata nel giorno più
caldo, cioè l’otto di dicembre, ed in questo caso la situazione è opposta.
La zona absidale questa volta è a più alta temperatura in quanto la temperatura esterna è maggiore di quella interna: tale differenza è sottolineata in
Fig. 7. Mappe di temperatura, umidità
relativa ed umidità specifica, registrate
l’8 dicembre alle ore 12.
Fig. 8. Mappe di temperatura registrate nei
giorni 26/11/2004 e 8/12/2004 entrambi alle
ore 12:00.
Studio preliminare dei parametri termoigrometrici
della Chiesa di S. Adriano in S. Demetrio Corone (CS)
99
figura 8 in cui si rappresentano le due dinamiche attraverso una rappresentazione tridimensionale. Anche gli andamenti di UR ed US riscontrati mostrano un comportamento opposto rispetto al 26 novembre, con una più
bassa umidità sia relativa che specifica nella zona delle entrate, che per le
stesse ragioni esposte precedentemente sono imputate all’ingresso di aria,
questa volta più calda e secca.
5. Conclusioni
Da questa prima analisi, che ovviamente andrà integrata in modo da
ottenere un quadro generale, si può affermare che le condizioni di conservazione a livello microclimatico si presentano in modo soddisfacente, in
particolare si presentano molto contenute le escursioni giornaliere di temperatura ed umidità relativa. I gradienti termici risultano invece essere
significativi, in quanto l’ingresso di aria con diversa umidità e temperatura perturba la stabilità termoigrometrica all’interno della chiesa: questa
instabilità, seppur non eccessivamente marcata, provoca dei flussi di aria
la cui dinamica dovrà essere oggetto di ulteriori studi.
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EFFETTO DI LUCI MONOCROMATICHE SULLA COMPOSIZIONE
IN SPECIE, MORFOLOGIA E PIGMENTI DI BIOFILM A CIANOBATTERI
IN IPOGEI ROMANI*
BELLEZZA S., VOLPINI M., BRUNO L., ALBERTANO P.
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, Dipartimento di Biologia,
Via della Ricerca Scientifica 1, 00133 Roma
Le comunità fototrofe biodeteriogene che si sviluppano nelle catacombe cristiane di Roma sono dominate da cianobatteri sciafili che, insieme a
batteri, diatomee, alghe verdi e muschi formano biofilm su substrati lapidei quali tufo, mattoni, malta, intonaco e affreschi in prossimità di una
fonte luminosa [1]. Negli ipogei la luce bianca fornita dalle lampade, utilizzate per consentire le visite turistiche, è il fattore limitante la crescita
dei fototrofi, essendo l’irradianza in media molto bassa, tuttavia i cianobatteri sono in grado di usare la poca radiazione emessa in modo estremamente efficiente grazie al loro corredo pigmentario [2]. Per limitare, allora, lo sviluppo dei biofilm fototrofi sono state avviate ricerche sul possibile uso di sorgenti luminose alternative [3, 4], nel cui ambito il presente studio ha previsto l’applicazione di metodi per monitorare lo sviluppo in situ
e in laboratorio di biofilm esposti a luci monocromatiche. A tal fine, piastrine di intonaco provenienti dalle stesse catacombe venivano utilizzate,
previa sterilizzazione, per inoculare frammenti di biofilm e collocate in
parte in due siti di origine e in parte in laboratorio, sottoposte a condizioni controllate di umidità e temperatura, a illuminazione blu, verde e arancione, provvista da lampade le cui caratteristiche di emissione nel visibile
erano determinate mediante spettroradiometria portatile [5, 6].
Osservazioni in microscopia ottica ed elettronica dei biofilms cresciuti per
18 mesi in situ con luce bianca mostravano una maggiore colonizzazione
* Questo lavoro è stato svolto con il contributo della Unione Europea, nell’ambito
del Programma EESD, Progetto “Cyanobacteria attack rocks-CATS” contratto n°EVK4CT-2000-00028, e del MIUR, PRIN 2003.
Effetto di luci monocromatiche in ipogei romani
101
delle piastrine lasciate in un cubicolo aperto al pubblico rispetto a quelle collocate in un cubicolo chiuso al passaggio di visitatori. Infatti, nel primo caso
erano presenti sia cianobatteri coccali e filamentosi, calcificanti e non, sia
diatomee e protonemi di muschi, mentre nel secondo si osservavano solo
pochi filamenti di una specie di Stigonematales. Osservazioni in microscopia
ottica accoppiata ad analisi dei pigmenti mostravano che, in laboratorio, le
piastrine esposte per 10 mesi a illuminazione monocromatica arancione
erano interessate da una crescita evidente di Leptolyngbya sp., che appariva
ridotta in luce verde e assente in luce blu. Modificazioni nella organizzazione e nella morfologia dei filamenti e nella proporzione dei pigmenti fotosintetici erano inoltre apprezzabili sia in luce verde dove le cellule apparivano
più allungate rispetto ai campioni sottoposti a illuminazione bianca, sia in
luce blu dove le cellule apparivano depigmentate e ricche di inclusi citoplasmatici. Tali osservazioni qualitative erano confermate dall’analisi della biomassa, espressa come variazione del contenuto in clorofilla a dei biofilm, che
evidenziava, dopo 90 giorni dall’inoculo, una riduzione di circa il 53% nei
campioni in luce blu e 5% in luce verde rispetto a quelli cresciuti in luce arancione. L’insieme dei dati così ottenuti consentiva di installare in via sperimentale una lampada blu all’interno del Cubicolo di Oceano nelle Catacombe di
S. Callisto per verificare in situ il grado di efficacia di tale tipo di illuminazione nel contrastare la crescita dei biofilm e saggiarne l’accettabilità da parte
dei visitatori. Dopo 10 mesi di sperimentazione condotta con lo stesso
approccio metodologico, le osservazioni in microscopia ottica su un terzo set
di piastrine calcaree non evidenziava la presenza di filamenti di cianobatteri.
Gli studi sull’effetto di luci monocromatiche permettono di delineare
nuove strategie di controllo e monitoraggio per la prevenzione del danno
a superfici lapidee di interesse [6]. Questo tipo di approccio è stato anche
ben accolto dal pubblico dei visitatori che si sono dichiarati disponibili a
una visione monocromatica delle catacombe pur di conservare i dipinti in
esse contenuti [7].
102
Bellezza, Volpini, Bruno, Albertano
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103
MICROCHEMICAL AND MICROMORPHOLOGICAL INVESTIGATION
OF LUSTRE PAINTED CERAMIC FROM SICILY AND SARDINIA (ITALY)
BULTRINI G. (1), FRAGALÀ I. (1), INGO G.M. (2), DE CARO T. (2)
(1)
Dipartimento Scienze Chimiche, Università di Catania, v.le Doria 6, 95125 Catania, Italy
(2) Istituto per lo Studio dei Materiali Nanostrutturati del CNR, CP 10,
Monterotondo Stazione, 00016 Rome, Italy
Hispano-Moresque lustre-painted pottery, manufactured from thirteen
to fifteenth century, has been found during archaeological excavations at
Siracusa (southern Italy) and at Fenughedu (Cagliari, Sardinia). By means
of scanning electron microscopy (SEM+EDS), optical microscopy (OM)
and X-ray diffraction (XRD), the ceramic body, the glaze and the surface
decoration layer of these materials have been studied. The results have
been also compared and discussed with the results obtained from HispanoMoresque and Deruta materials found at Formello (Central Italy).
In particular, each analysis provides information about provenance and
technological aspects of the manufacturing processes:
– the mineralogical data of the ceramic bodies, obtained via XRD,
emphasize that the majority Hispano-Moresque samples found in Sicily,
Sardinia and Central Italy are very similar and they may be well grouped
in a restrict area thus suggesting the same production centre (likely the
Valencia district, Spain). Furthermore, the same data indicate that several
Hispano-Moresque samples found in Sicily show three different groupings
with peculiar mineralogical features indicating at least other three not
defined production sites (Islamic world ?). Finally, the mineralogical
results of Deruta samples, found at Siracusa and Formello (Rome), indicate a well defined area clearly distinct with respect the HispanoMoresque pottery emphasizing that the analysis and the elaboration of
XRD data allow to identify the provenance of the different lustre-painted
ceramics.
– the microchemical and microstructural investigation of the glaze
coatings and the relative data processing, using an empirical formula (setting-up by Lengersdorf) to determine the firing and maturing temperatures
104
Bultrini, Fragalà, Ingo, De Caro
reached during the second firing, reveal a very good skill of the ancient
craftsmen in the control of the manufacturing process parameters to tune
firing temperatures with the required “maturing” values.
– the data of the microchemical characterisation of the decorative layer
indicate on the outermost layer of the gold-like lustre-painted surfaces, the
presence of a complex microchemical structure constituted by small
rounded particles of silver metal mixed with silver oxide, whose size
ranges from 0,1 mm to 0,7 mm. These nano-particles are responsible for
the specular and diffuse reflection of the light even though they are not
uniformly distributed on the surface of the lead silicate coating where cassiterite (SnO2) and quartz crystals are also present. Furthermore, the
results obtained from the reddish copper lustre, show the occurrence of the
above described structure with the presence also of copper and Cu (I)
oxide particles. The comparison between Hispano-Moresque and Central
Italy decoration layers discloses some difference about the size and the
composition of the nano-particles responsible of the lustre denoting the
adoption of different recipes and manufacturing processes.
Microchemical and micromorphological investigation
of lustre painted ceramic from Sicily and Sardinia (Italy)
105
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106
CARATTERIZZAZIONE MINERO-PETROGRAFICA, MICROCHIMICA
E MICROSTRUTTURALE DI MALTE STORICHE
USATE A
CATANIA DURANTE IL XVII SECOLO
BULTRINI G.(1), FRAGALÀ I.(1), INGO G.M.(2), LANZA G.(3)
(1) Dipartimento
di Scienze Chimiche, Università di Catania, v.le Doria 6 - 95125 Catania,
Tel. 095 7385053, Fax. 095 580138, [email protected]
(2) Istituto per lo Studio dei Materiali Nanostrutturati, CNR,
Via Salaria km. 29,100 Monterotondo Stazione, 00016 Roma, [email protected]
(3) Dipartimento di Chimica, Università degli Studi di Potenza,
Via Nazario Sauro 85, 85100 Potenza, [email protected]
1. Introduzione
Verso la fine del XVII secolo, la città di Catania (Sicilia Orientale) fu
interessata da diversi devastanti fenomeni naturali. Nel 1669 varie colate
laviche, eruttate dall’Etna, attraversarono la città coprendo e distruggendo
vaste zone edificate del centro urbano. Tale evento rappresenta sicuramente il più imponente e disastroso fenomeno vulcanico della storia di
Catania.
Soltanto pochi anni dopo, nel 1693, un devastante terremoto investì
Catania e distrusse sia gran parte di quelle strutture risparmiate dalle colate laviche della precedente eruzione sia quelle nel frattempo ricostruite.
Rappresentativa di questo tragico periodo è l’evoluzione costruttiva del
Monastero dei Benedettini, dal XVI secolo uno dei più maestosi edifici di
Catania [1-3]. La sua edificazione cominciò nel 1558 e già verso la metà
del Seicento era annoverato tra i più imponenti e distintivi monumenti di
Catania. Nel 1669 l’eruzione dell’Etna non risparmiò l’area da esso occupata distruggendo la Chiesa di S. Nicola, una struttura annessa al
Monastero. I monaci benedettini, tuttavia, non si scoraggiarono e prontamente iniziarono la ricostruzione apportando anche sostanziali modifiche
edili ed allargamenti del monastero. Sfortunatamente, solo ventiquattro
anni dopo, il disastroso terremoto del 1693 distrusse nuovamente il monastero ma anche questa volta, nel 1703, la ricostruzione ripartì e fu portata
a compimento, ad esclusione di alcune strutture lasciate incomplete, nei
Caratterizzazione di malte storiche usate a Catania durante il XVII secolo
107
successivi vent’anni. Nel corso di quest’ultima ricostruzione il monastero
fu arricchito di fantastiche varietà di sculture Barocche.
In questo scenario diviene fondamentale un approccio di tipo archeometrico per la pianificazione di qualsiasi intervento di restauro riguardante il monastero. Infatti, è essenziale prima d’ogni intervento avere una dettagliata conoscenza dei materiali adottati nelle varie fasi costruttive susseguitesi nel tempo e delle diverse tecniche di produzione e messa in opera
impiegate.
In questo lavoro sono riportati i risultati preliminari della caratterizzazione di varie malte ed intonaci distintivi dei diversi stadi costruttivi del
monastero dei Benedettini e dell’annessa Chiesa di S. Nicola. In particolare, per questo studio sono state usate differenti tecniche analitiche: diffrattometria dei raggi X (XRD), microscopia ottica a luce polarizzata
(MO) e microscopia elettronica a scansione abbinata a microanalisi EDS
(SEM+EDS).
L’obiettivo dell’insieme di tutte queste ricerche, oltre le considerazioni
di tipo archeometrico, riguarda gli aspetti tecnologici associati alla produzione delle malte poiché tali materiali sono compositi essendo costituiti da
una componente inerte e da un legante. Tuttavia, le differenti interazioni
che possono verificarsi tra loro possono dare origine a malte puramente
aeree o a malte con vari gradi di idraulicità (attitudine a far presa ed indurirsi anche in presenza di acqua). Nelle malte antiche, le principali differenze dipendono soprattutto dalla natura della componente inerte e dalla
sua reattività con il legante che determina in esse differenti proprietà fisico-meccaniche. In particolare, tali proprietà influenzano la durata in esercizio delle malte e la loro “idraulicità”.
2. Metodologie analitiche
Campioni rappresentativi delle differenti malte ed intonaci appartenenti a strutture architettoniche, edificate nel corso delle varie fasi costruttive
del Monastero dei Benedettini e dell’annessa Chiesa di S. Nicola, sono
stati prelevati con l’ausilio di micro-attrezzi d’acciaio e di bisturi chirurgici sterili e non contaminati.
Le operazioni di campionamento sono state condotte dopo un’accurata
indagine preliminare al fine di evitare il prelievo in aree particolarmente degradate o restaurate. In particolare, i campioni siglati con la lettera F provengono
108
Bultrini, Fragalà, Ingo, Lanza
da strutture presenti nelle fondamenta del monastero mentre le altre malte sono
state prelevate da alcune strutture architettoniche della Chiesa di S. Nicola, che
rappresenta l’ultima fase costruttiva dell’intero apparato monumentale.
Al fine di individuare le diverse fasi cristalline presenti nelle malte e
negli intonaci, su piccole porzioni di campione finemente polverizzati
sono state eseguite analisi diffrattometriche usando un diffrattometro
Bruker D5005. L’identificazione delle fasi è stata condotta mediante il
software dedicato Diffrac Plus Evaluation Program (EVA).
Le sezioni sottili delle malte sono state esaminate mediante un microscopio ottico a luce polarizzata Leitz al fine di ottenere la caratterizzazione mineralogico-petrografica degli inerti e del legante. La preparazione
delle sezioni sottili è stata condotta partendo dal prelievo di macro-frammenti di campioni e dal loro inglobamento in una resina epossidica.
Mediante taglio con lama diamantata, sono state ricavate dai macro-frammenti inglobati lamine piane e sottili il cui spessore è stato ulteriormente
ridotto e le cui superfici sono state finite. Le lamine sono state quindi
applicate su vetrino da microscopio mediante balsamo del Canada. I campioni così ottenuti sono stati ridotti di spessore tramite lama diamantata
cercando il più possibile di ottenere una superficie parallela al vetrino.
Successivamente, tale faccia è stata lappata prima utilizzando fogli di
carta abrasiva con grana da 20-30 µm e poi paste diamantate fino al 1/4 di
micron fino ad ottenere una lamina di spessore pari a circa 50 µm. Infine,
i campioni sono stati ridotti ulteriormente di spessore mediante una lappatura manuale su lastra di vetro con paste diamantate molto fini per ottenere uno spessore finale di circa 30 µm.
La caratterizzazione microchimica e microstrutturale è stata condotta
mediante un microscopio elettronico a scansione Leo Iridium 1450 dotato
di uno spettrometro a dispersione di energia IXRF SYSTEM.
Al fine di ottenere le sezioni lucide per microscopia elettronica, dai
campioni sono stati prelevati, mediante bisturi e mini frese in acciaio, dei
piccoli frammenti che successivamente sono stati inglobati in una resina
epossidica e dopo 24 ore di consolidamento tagliati per ricavarne superfici lisce. I campioni così ottenuti sono stati lucidati metallograficamente,
usando carte abrasive al carborundum e paste diamantate fino a ? di
micron. I campioni sono stati quindi ricoperti da un sottile (30 nm) strato
di grafite mediante un sistema sputtering Emitech K450 al fine di rendere
conduttrici le superfici dei campioni ed evitare la presenza di cariche elettrostatiche durante le analisi SEM-EDS.
Caratterizzazione di malte storiche usate a Catania durante il XVII secolo
109
Tabella 1. Analisi diffrattometrica delle malte.
3. Risultati e discussione
In figura 1 viene mostrata una veduta del Monastero dei Benedettini di
Catania da cui è possibile notare come tra tutti gli stili presenti, legati alle
varie vicissitudini sofferte dal complesso monumentale, lo stile Barocco
sia quello largamente predominante.
I risultati dell’analisi diffrattometrica, riportati in Tab.1, mostrano come
la calcite (CaCO3 ) è in generale la fase cristallina più abbondante nelle
malte campionate.
Fig. 1. Il Monastero dei Benedettini e la retrostante cupola della Chiesa di S. Nicola.
110
Bultrini, Fragalà, Ingo, Lanza
I plagioclasi (soluzioni solide in diverse proporzioni dei due termini
estremi albite ed anortite) sono sempre presenti ed associati a minori
quantità di augite e in alcuni casi a silicati idrati di calcio ed allumo-silicati idrati di calcio (fasi idrauliche), quarzo ed ematite. Solo nel caso dell’intonaco di rifinitura L1C sono stati rilevati anche gesso (CaSO4), halite
(NaCl) e sylvite (KCl).
Lo studio al microscopio ottico delle sezioni sottili conferma i risultati
XRD poiché tutti i materiali esaminati sono costituiti da una matrice composta da calcite microcristallina evidenziando, quindi, l’uso di calce aerea come
legante.
Inoltre, i risultati delle indagini micro-chimiche e micro-strutturali
mostrano, immersi nella matrice, abbondanti granuli sub-arrotondati di litici
vulcanici di tipo basaltico con più o meno evidenti fenocristalli di plagioclasio ed augite, frequenti calcinelli, sporadici litici carbonatici e, in alcuni campioni, la presenza di piccoli frammenti di materiali ceramici (chamotte),
molto probabilmente, aggiunti per conferire proprietà idrauliche alle malte.
Soltanto nel caso del campione L1C, che rappresenta un intonaco di rifinitura, l’analisi al microscopio ottico ha rivelato una componente inerte costituita da abbondanti litici carbonatici di tipo micritico.
La presenza ubiquitaria di calcinelli indica che, almeno in alcune zone del
forno usato per la calcinazione delle rocce carbonatiche, è stata raggiunta una
temperatura superiore al necessario che ha sinterizzato parte del materiale,
rendendolo più compatto ed addensato.
La sinterizzazione della calce, infatti, negli antichi forni poteva anche non
interessare tutto il prodotto e presentarsi solo in zone ove si verificavano surriscaldamenti locali. Accadeva così che nella successiva fase di spegnimento
della cosiddetta calce viva queste particelle sinterizzate non riuscissero a reagire con l’acqua, facendo così rimanere nella massa della calce idrata granuli di CaO. Al momento dell’impiego, poi, tali granuli sinterizzati reagivano
molto lentamente con l’acqua d’impasto, cosicché la loro idratazione avveniva quando oramai la restante parte era già indurita provocando, dato l’incremento di volume che avviene in questa fase, la formazione di fessurazioni,
sollevamenti e distacchi di parti d’intonaco nei manufatti [4, 5].
D’altronde, la non ottimale efficienza degli antichi forni usati a Catania
per la cottura delle rocce carbonatiche è anche avallata dalla presenza, rilevata mediante microscopia ottica, di litici carbonatici solo parzialmente
decomposti che, in alcuni casi, mantengono ancora le caratteristiche petrografiche originali testimoniando, quindi, che in alcune zone del forno era
Caratterizzazione di malte storiche usate a Catania durante il XVII secolo
111
raggiunta una temperatura inferiore a quella necessaria per la calcinazione. A parziale giustificazione degli antichi “calcaroli” catanesi si deve
tenere presente che la calcinazione dei calcari in passato raramente era
completa sia perché i forni utilizzati erano poco funzionali per l’irregolare distribuzione della temperatura nei vari punti del forno sia perché,
soprattutto se i frammenti di calcare erano di grosse dimensioni, le zone
centrali si calcinavano con maggiore difficoltà rispetto alle zone esterne.
L’operazione, inoltre, era resa ancora più difficile dalla tendenza alla ricarbonatazione delle parti più esterne che, venendosi a trovare esposte ai gas
di combustione – ricchi di CO2 –, tendevano a formare nuovamente
CaCO3 a temperature inferiori a quelle di decomposizione [4, 5].
Inoltre, le osservazioni microscopiche hanno evidenziato alcune diversità composizionali della frazione inerte tra i campioni prelevati in strutture delle prime fasi costruttive e quelli facenti parte di strutture architettoniche relative alle ultime fasi della ricostruzione. In particolare, gli inerti dei campioni più antichi mostrano litici vulcanici con un’uniforme colorazione scura, costituiti, probabilmente, da sabbie e ceneri vulcaniche che,
già dal seicento nell’ambiente edile catanese erano conosciute col termine
“azolo” (v. Fig. 2a).
Questo materiale, già in natura delle dimensioni delle sabbie, rappresenta il principale prodotto dell’attività parossistica dell’Etna. Di contro,
le malte delle ultime fasi costruttive presenti nella Chiesa di S. Nicola,
oltre a presentare campioni con “azolo”, mostrano frequentemente malte
con inerti costituiti da litici vulcanici con prevalente colorazione rossastra,
tipici della cosiddetta “ghiara” (v. Fig. 2b).
a
b
Fig. 2. Fotografie al microscopio polarizzatore di malte relative a due diverse fasi
costruttive del Monastero dei Benedettini. a) Tipica struttura di una malta ad “azolo”
della prima fase costruttiva. b) Microstruttura di una malta a base di “ghiara” dell’ultima fase costruttiva. Si possono notare evidenti aloni intorno ai clasti. N//.100X.
112
Bultrini, Fragalà, Ingo, Lanza
Essa rappresenta il prodotto della cottura d’alcune tipologie di suoli da
parte delle colate laviche che nel 1669 investirono Catania. Questo trattamento termico (metamorfismo di contatto) ha portato all’ossidazione del
ferro presente nei suoli impartendogli la tipica colorazione rossa del Fe3+.
Le differenze composizionali riscontrate nei campioni relativi alle ultime fasi della ricostruzione del Monastero dei Benedettini indicano l’uso
di questo nuovo materiale come inerte per il confezionamento delle malte.
E’ da notare che, molto probabilmente, l’aspetto fisico della “ghiara” ha
giocato un ruolo importante per la sua introduzione nelle ricette delle
malte. Infatti, questo materiale, apparendo macroscopicamente molto
simile al “cocciopesto” e in minor misura alla pozzolana, deve aver indotto gli antichi costruttori ad attribuirgli proprietà idrauliche.
In questo contesto, allo scopo di localizzare le cave d’approvvigionamento della “ghiara” usata nel Monastero dei Benedettini, sono state condotte indagini geologiche nel centro storico di Catania. E’ stato così possibile individuare diverse cave di “ghiara” fra cui la più importante ed
estesa ad appena 50 metri dal monastero. In tutte le cave, lo spessore dello
strato di suolo interessato dal calore appare molto variabile, da pochi centimetri al metro, presentando spesso anche colorazioni diverse legate a differenti condizioni termo-chimiche. La “ghiara” si presenta sottoforma di
materiale poco coerente o sciolto a differente granulometria. In alcuni casi
all’interno dello strato è possibile rinvenire frammenti ceramici anche di
grosse dimensioni.
Le analisi minero-petrografiche della “ghiara” condotte mediante diffrazione X e microscopio polarizzatore hanno evidenziato una pressoché
esclusiva presenza di minerali di natura vulcanica (plagioclasio ed augite)
e subordinato quarzo, probabilmente legato alla presenza di materiali ceramici. La caratterizzazione con microscopia ottica della “ghiara” ha, inoltre, evidenziato in numerosi casi la presenza di un sottile alone rosso intorno ai granuli, probabilmente causato dal “trattamento termico” della lava,
del tutto simile a quello presente nelle fasi idrauliche legate all’interazione tra materiali ceramici e legante, che induce la formazione di fasi idrate
di silicati di calcio e allumo-silicati di calcio [6, 7, 8].
Tali osservazioni indicano chiaramente la difficoltà nel distinguere le
fasi idrauliche nelle malte a base di “ghiara” con il solo ausilio della
microscopia ottica.
Allo scopo di ottenere informazioni più dettagliate è stata utilizzata la
microscopia elettronica a scansione abbinata a microanalisi EDS.
Caratterizzazione di malte storiche usate a Catania durante il XVII secolo
113
In figura 3 è riportata una immagine SEM ottenuta mediante elettroni
retrodiffusi di una tipica malta a base di “ghiara”. E’ evidente che in questa tipologia di malte è presente una matrice carbonatica entro cui sono
immerse fasi riconducibili a litici vulcanici, plagioclasi e componenti
idrauliche. I risultati dell’analisi EDS (Fig. 3) confermano tali indicazioni
poiché sono in buon accordo con le informazioni stechiometrie delle
sopraccitate fasi inorganiche.
Fig. 3. Micrografia SEM con elettroni retrodiffusi e relativi spettri EDS delle fasi presenti in
una malta a base di “ghiara”. In particolare, lo spettro A rivela una matrice ricca in calcio.
Lo spettro B conferma la presenza di quarzo. L’EDS C mostra silice, magnesio, calcio e ferro
denotando la presenza d’augite. Lo spettro D rivela una fase composta da silicio, alluminio,
calcio e ferro confermando la presenza di frammenti ceramici. Lo spettro E indica una stechiometria attribuibile al plagioclasio ed, infine, lo spettro F evidenzia una matrice composta da Si, Ca, Al e Fe confermando la presenza di fasi idrauliche.
114
Bultrini, Fragalà, Ingo, Lanza
Risultati del tutto analoghi sono stati rilevati dalla caratterizzazione in
microscopia elettronica a scansione di una malta ad “azolo”, cui un’immagine con elettroni secondari è riportata in figura 4. In questo caso è stato
possibile identificare, mediante microanalisi EDS, diverse tipologie di
leganti evidenziando la presenza nello stesso campione di leganti a base di
calcio e, nelle vicinanze dei litici vulcanici, di leganti ricchi in silicio, calcio, alluminio e ferro, caratteristici delle fasi idrauliche [9].
Fig. 4. Micrografia SEM e relativi spettri EDS di una malta a base di “azolo”. Gli spettri EDS relativi alle varie fasi presenti nel campione indicano la presenza di litici vulcanici (spettri C e D), di un legante ricco in calcio (B) e di un legante composto da un silicato di calcio, alluminio e ferro (A) riconducibile ad una fase idraulica.
Caratterizzazione di malte storiche usate a Catania durante il XVII secolo
115
Questo risultato conferma la formazione di zone ove l’interazione tra
legante carbonatico e fase vetrosa degli inerti vulcanici si è stabilita, conferendo proprietà idrauliche alla malta. Nello stesso campione, inoltre, tramite microscopia elettronica a scansione, è stato anche possibile rilevare
differenze da un punto di vista microstrutturale tra legante a base di calcite microcristallina ed il legante composto da fasi idrauliche (Fig. 5).
Fig. 5. Micrografie SEM mostranti le differenti microstrutture tra un legante di tipo aereo
(B) ed un legante con proprietà idrauliche (A) di una malta a base di “azolo”, relativa
alle prime fasi costruttive del Monastero dei Benedettini.
Bultrini, Fragalà, Ingo, Lanza
116
Tradizionalmente è riportato che tali proprietà idrauliche furono empiricamente scoperte dai Fenici. Infatti, essi furono i primi ad usare composti silicatici come: pozzolane, mattoni macinati e frammenti ceramici
miscelati con calce per indurre la formazione di fasi idrauliche ed impartire migliori caratteristiche fisiche e meccaniche alle malte [4, 5, 10].
4. Conclusioni
I dati minero-petrografici, microchimici e microstrutturali ricavati dalla
caratterizzazione mediante XRD, MO e SEM+EDS, delle malte usate nel
corso delle diverse fasi costruttive del Monastero dei Benedettini e della
Chiesa di S. Nicola hanno evidenziato la presenza d’alcune fasi silicoalluminatiche che conferiscono alle malte modeste proprietà idrauliche.
I risultati hanno anche mostrato un consistente impiego di “azolo” nel
corso delle prime fasi costruttive, mentre, le strutture architettoniche relative alla ricostruzione condotta dopo il violento terremoto del 1693 hanno
rivelato l’adozione di un nuovo materiale: la “ghiara” come inerte.
È importante notare che quest’ultimo rappresenta un co-prodotto dell’impressionante eruzione vulcanica dell’Etna che nel 1669 ha coperto di
lava quasi completamente la città di Catania.
Una serie di prospezioni geologiche, condotte per individuare le più
importanti cave storiche di “ghiara”, ha permesso di localizzare a circa 50
metri dal monastero una delle più estese cave di tale materiale, verosimilmente quella da cui è stato estratto il materiale per la produzione delle
malte della Chiesa di S. Nicola.
Infine, sono state evidenziati i diversi processi di produzione delle
malte, legati ai materiali utilizzati come inerti ed alle diverse miscele di
materiali vulcanici e, in minor misura, ai frammenti ceramici usati. Tali
indicazioni denotano un alto livello di competenza nella gestione dei processi tecnologici di produzione degli antichi costruttori di Catania.
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118
COLORIMETRIA CON TECNICHE SPETTROFOTOMETRICHE E RADIOMETRICHE SUI DIPINTI DEL MINNITI
BURRAFATO G. (1), DE VINCOLIS R. (1), GRECO V. (2), GUELI A.M. (1), LAHAYE
C. (1), OCCHIPINTI A.(1), STELLA G. (1), TROJA S.O. (1), ZUCCARELLO A.R (1)
(1) LDL&BBCC
(Laboratorio di Datazione tramite Luminescenza
e di Metodologie Fisiche applicate ai Beni Culturali) del Dipartimento
di Fisica e Astronomia dell’Università di Catania, INFN Sezione
di Catania & CSFNSM (Centro Siciliano di Fisica Nucleare
e Struttura della Materia), Via Santa Sofia 64 – 95123 Catania; (2) Galleria Regionale di Palazzo
Bellomo, Via Capodieci 16 - 96100 Siracusa
1. Introduzione
Mario Minniti, nato a Siracusa nel 1577, rappresenta una figura di rilievo nel panorama artistico del primo Seicento Siciliano. Il suo nome è spesso legato a quello del Caravaggio al quale era unito da una profonda amicizia e la cui influenza è presente nella produzione artistica. Ma se ciò ha
contribuito, da un lato, a dargli notorietà, indipendentemente dal valore
effettivo della sua produzione, dall’altro ne ha schiacciato la figura contro
quella ben più importante del Maestro determinando la nascita di giudizi
tesi a sottolineare le nette differenze di valore fra i due. È d’altra parte vero
che sono sopravvissute soprattutto le sue opere della maturità e dell’ultimo periodo della sua attività nelle quali si ritrovano molteplici influenze a
rigore alternative a quelle del Caravaggio [1].
Da qualche anno si assiste però ad una rivalutazione del pittore e della
sua arte che si evidenzia soprattutto con l’organizzazione di eventi nei
quali i dipinti del Minniti e della sua Bottega sono oggetto di ammirazione ma anche di studio. I risultati presentati in questo lavoro sono relativi
ad un programma di ricerca realizzato in collaborazione tra il gruppo del
Laboratorio di Datazione mediante Luminescenza e di Metodologie
Fisiche applicate ai Beni Culturali del Dipartimento di Fisica e
Astronomia dell’Università di Catania e la Galleria di Palazzo Bellomo di
Siracusa in occasione di una mostra realizzata presso la Chiesa del
Colorimetria sui dipinti del Minniti
119
Collegio dei Gesuiti nei quali sono stati esposti dipinti facenti parte di collezioni private o abitualmente esposte in pinacoteche italiane e straniere.
Sono state in particolare realizzate misure di colore per la caratterizzazione cromatica della tavolozza adoperata dal Minniti e dai suoi allievi nelle
opere più importanti della cosiddetta “scuola caravaggesca” di Siracusa.
Il programma di ricerca, dopo uno studio sulle tecniche pittoriche del
Minniti, ha riguardato la realizzazione di misure spettrofotometriche e
radiometriche per caratterizzare le tele sottoposte ad analisi dal punto di
vista cromatico. La determinazione delle grandezze colorimetriche può, di
fatto, evidenziare o concorrere ad identificare, attraverso lo studio degli
andamenti dei diagrammi spettrali, le peculiarità esistenti nelle diverse
risposte cromatiche. Uno stesso pigmento può infatti offrire, nell’espressione cromatica, curve spettrali diverse, non solo in relazione alla diversa
composizione materica ma anche alla natura del legante, alla presenza di
resine artificiali e sintetiche etc.
La determinazione delle componenti cromatiche è inoltre importante
nei programmi di conservazione nei quali permette di evidenziare eventuali fenomeni di degrado, dipendenti soprattutto da variazioni dei parametri microclimatici (in particolare dell’illuminamento) e nella diagnostica pre- e post- restauro per la valutazione degli interventi da pianificare o
già realizzati.
2. Metodologie sperimentali
La lettura delle coordinate cromatiche e delle curve di riflettanza spettrale permette di osservare oggettivamente, senza le deformazioni e le
limitazioni della percezione visiva, le variazioni assolute e/o relative esistenti fra due o più punti di rilevamento su una qualunque superficie policroma [2].
Le misure presentate in questa occasione sono state realizzate sulla
maggior parte dei dipinti esposti alla mostra utilizzando tecniche spettrofotometriche e radiometriche in corrispondenza di stesure pittoriche realizzate con le tinte maggiormente caratterizzanti la tavolozza del Minniti
e degli allievi della sua scuola, seguendo il protocollo messo a punto dai
ricercatori dell’LDL&BBCC [3]. Tale protocollo, come illustrato nella
figura 1 con il dipinto “Flagellazione” del Minniti, prevede la realizzazione, per ogni zona selezionata sul dipinto in esame (v. Fig. 1a), di opportu-
120
Burrafato, De Vincolis, Greco, Gueli, Lahaye,
Occhipinti, Stella, Troja, Zuccarello
ne maschere sulle quali vengono individuati i punti in corrispondenza dei
quali realizzare le analisi (v. Fig. 1b).
Su ognuno dei punti individuati sono state realizzate sia le misure spettrofotometriche che quelle radiometriche. Le differenze sostanziali tra i
due tipi di misure riguardano la caratteristica dell’informazione cromatica
da esse ottenibile: le misure spettrofotometriche, realizzate a contatto,
riguardano la risposta del campione alla sorgente integrata nello strumento stesso, indipendentemente dalle condizioni di luce ambientale; le misure radiometriche, realizzate a distanza, sono fortemente dipendenti dalla
sorgente luminosa utilizzata per l’illuminamento del dipinto in esame e da
eventuali interferenze di sorgenti esterne. La determinazione oggettiva del
colore ottenuta attraverso le misure a contatto permette la caratterizzazione cromatica delle stesure pittoriche di interesse mentre le misure a distanza consentono di misurare il colore alle stesse condizioni in cui esso viene
percepito dall’osservatore negli spazi espositivi.
a
b
Fig. 1. “Flagellazione” di Mario Minniti: realizzazione delle maschere previste dal protocollo di misura utilizzato per le misure colorimetriche [3].
Colorimetria sui dipinti del Minniti
121
Un’analisi preliminare su tutti i dipinti della mostra, realizzata con gli
organizzatori e curatori della stessa, ha consentito di individuare su ognuno
di essi le serie di punti su cui realizzare le indagini. Sono stati in particolare
selezionati i punti di rilevamento sui quali effettuare le analisi spettrofotometriche e radiometriche allo scopo di evidenziare eventuali differenze cromatiche tra le stesure realizzate con le stesse tinte sui quadri attribuiti al Minniti
e quelli attribuiti alla sua Bottega. In questa occasione vengono illustrati e
presentati i risultati ottenuti sui dipinti ritenuti maggiormente significativi.
Con lo spettrofotometro portatile CM2600d sono stati ottenuti sui punti
selezionati su ogni dipinto le coordinate colorimetriche e le curve di riflettanza spettrale [4]. Tali misure spettrofotometriche, nelle quali viene sempre rispettata la disposizione geometrica tra rivelatore – campione – illuminante (standard CIE), assicurano una buona ripetibilità dei dati [5].
Le misure radiometriche, realizzate con lo spettroradiometro
CS1000A, oltre a consentire la determinazione delle coordinate cromatiche e la registrazione dell’andamento delle curve di riflettanza, permettono la determinazione della temperatura di colore e della curva di emissione dell’illuminante utilizzato. Il posizionamento relativo dell’illuminante,
del punto di analisi e dello strumento rivelatore è in questo caso una fase
delicata. In particolare, nel corso dello studio qui presentato, le sorgenti
luminose sono quelle utilizzate dai curatori della mostra per l’allestimento degli spazi espositivi e non illuminanti standard.
Entrambi gli strumenti vengono utilizzati in modalità remota realizzando,
per tutte le operazioni di misura e di analisi dei parametri di interesse, dei software dedicati. Per entrambe le metodologie vengono acquisite le coordinate
colorimetriche nello spazio L*a*b* e le curve di riflettanza % in funzione
della lunghezza d’onda nell’intervallo 360 ÷740 nm. Per la rivelazione dei dati
spettrofotometrici, ottenuti tramite il supporto del software SpectraMagic, è
stato selezionato come illuminante primario il D65. Le misure radiometriche,
realizzate utilizzando il software CS-S1w, hanno riguardato anche lo spettro
di emissione della luce presente nell’ambiente espositivo.
3. Misure realizzate
Lo stile caravaggesco dei personaggi protagonisti delle opere del
Minniti e un utilizzo dominante del rosso nelle vesti di tali personaggi ed
in molti particolari dei dipinti, ha determinato la scelta della prima serie
122
Burrafato, De Vincolis, Greco, Gueli, Lahaye,
Occhipinti, Stella, Troja, Zuccarello
di misure del colore volte alla caratterizzazione colorimetrica delle stesure di tale tonalità sui dipinti del Maestro. Tali misure sono state realizzate
su tutti i dipinti della mostra, vengono di seguito mostrati però i risultati
relativi al quadro sul quale si è maggiormente concentrato l’interesse sia
per il grande valore artistico ma soprattutto per i nostri scopi, in ragione
della distribuzione cromatica dei rossi utilizzati: il Miracolo della vedova
di Naim (v. Fig. 2), un olio su tela di dimensioni pari a 245x320 cm2, proveniente dal Museo Regionale di Messina.
Sul Miracolo della vedova di Naim sono state sottoposte a misure alcune
zone caratterizzate dalla predominanza della tinta rossa: rosso della veste
della donna (zona 1), arancione della veste della stessa donna (zona 2), rosso
del pantalone del bambino (zona 3), rosso della veste (zona 4) e carnato del
piede (zona 5) del Cristo. Per ognuna delle zone, allo scopo di ottenere una
buona statistica, sono state realizzate varie misure. La figura seguente (Fig.3)
riporta le curve rappresentative di ognuna delle zone esaminate in termini di
riflettanza % in funzione della lunghezza d’onda tra 400 e 700 nm.
Le curve di riflettanza % in funzione della lunghezza d’onda, ottenute
sulle zone selezionate in corrispondenza della tinta di interesse (Fig.3), evi-
Fig. 2. “Miracolo della vedova di Naim” di Mario Minniti (dimensioni 245x320 cm2), olio su tela
abitualmente esposto presso il Museo Regionale di Messina con l’indicazione delle selezionate per
le misure (v. testo).
Colorimetria sui dipinti del Minniti
123
denziano che i punti corrispondenti al rosso della veste della donna ed il rosso
della veste del Cristo hanno lo stesso andamento seppure con valori assoluti
differenti. Questo risultato potrebbe provenire dal fatto che, per la stesura di
tali zone, l’artista ha utilizzato lo stesso pigmento. L’andamento relativo
all’arancione della veste della donna, al carnato del piede del Cristo e il rosso
del pantalone del bambino (Fig.3) mostra, al contrario, delle differenze che
potrebbero essere imputate all’uso di miscele di pigmenti.
La seconda serie di misure è stata invece realizzata allo scopo di evidenziare eventuali differenze tra la tavolozza del Maestro e quella della sua
Bottega, scegliendo sempre come tinta il rosso che caratterizza la maggior
parte dei dipinti del Minniti. A questo scopo sono state selezionate zone con
stesure di pari tinta su dipinti attribuiti al Minniti ed altri attribuiti ad i suoi
allievi. A titolo di esempio, vengono mostrati i risultati ottenuti confrontando
le curve di riflettanza relative ad alcuni punti selezionati sul dipinto Andata
al Calvario della Bottega ed i punti delle stesure rosse del Miracolo della
vedova di Naim già mostrati in precedenza (v. Fig. 4).
Le curve sperimentali ottenute in questo caso (Fig. 4b) mostrano che in
entrambi i casi, sia per le stesure rosse del dipinto della Bottega (Fig. 4a)
che per quelle del dipinto del Minniti (Fig. 4c), il rosso delle relative
tavolozze era ottenuto utilizzando lo stesso pigmento. Tale risultato pro-
Fig. 3. “Miracolo della vedova di Naim”: andamento della riflettanza % in funzione della
lunghezza d’onda per i particolari selezionati nelle varie stesure di rosso (v. Fig. 2).
Burrafato, De Vincolis, Greco, Gueli, Lahaye,
Occhipinti, Stella, Troja, Zuccarello
124
pone la metodologia spettrofotometrica come strumento di indagine,
ancor di più se incrociata con altre tecniche, per l’autentica dei dipinti nel
caso di dubbia attribuzione.
La terza serie di dati presentata illustra la realizzazione delle misure
radiometriche con le quali sono state ottenute le curve di riflettanza e le
coordinate L*a*b* allo scopo di confrontarle con i risultati colorimetrici.
La figura seguente riporta la curva di riflettanza ottenuta con il radiometro
(v. Fig. 5b) ed il confronto tra la distribuzione nello spazio colorimetrico
dei rossi e arancioni misurati nel quadro Miracolo della vedova di Naim
(ottenuti con lo spettrofotometro) e la misura radiometrica effettuata sul
rosso della veste del Cristo del dipinto “Andata al Calvario” attribuito alla
Bottega (v. Fig. 5c).
a
b
c
Fig. 4. Confronto tra le curve di riflettanza % in funzione della lunghezza d’onda ottenute sulle stesure rosse del dipinto “Andata al Calvario” della Bottega (a sinistra) e del
dipinto “Miracolo della vedova di Naim” di Mario Minniti (a destra)
a
b
c
Fig. 5. “Andata al Calvario” della Bottega del Minniti: curve di riflettanza in funzione della
lunghezza d’onda e coordinate colorimetriche ottenute attraverso misure radiometriche.
Colorimetria sui dipinti del Minniti
125
La rappresentazione dei punti di misura nello spazio di colore L*a*b*
evidenzia come il dato radiometrico, informazione fortemente legata alla
visione del colore in stretta relazione al contesto ambientale, si discosti
fortemente da quello spettrofotometrico che invece rappresenta una informazione relativa alle caratteristiche colorimetriche intrinsiche delle
stesure pittoriche indipendente dalle condizioni ambientali. Allo stesso
modo però, la curva di riflettanza spettrale ottenuta con il radiometro (v.
Fig. 5b), mostra come la diversa percezione del colore non implichi necessariamente una perdita delle caratteristiche fisiche del pigmento in questione in termini di riflettanza alla radiazione visibile. L’andamento della
riflettanza % ha infatti la stessa forma (v. Fig. 5b) di quelle ottenute con le
misure spettrofotometriche (v. Fig. 4).
Allo scopo di evidenziare eventuali influenze di zone in cui predomini
una determinata tinta sulla visione di un dipinto, sono state sottoposte a
misura stesure realizzate con tinte verde e blu in un dipinto caratterizzato
dalla presenza di estese zone rosse. La figura seguente mostra il confronto tra i risultati ottenuti attraverso misure radiometriche e spettrofotometriche in corrispondenza delle stesure realizzate con tinte verdi e blu nel
paesaggio del dipinto Madonna col Bambino e i Santi Cosma e Damiano
attribuito agli allievi della Bottega del Minniti, abitualmente esposto a
Modica, nella Chiesa di Santa Maria di Betlem (v. Fig. 6).
Fig. 6. “Madonna col Bambino e i Santi Cosma e Damiano” della Bottega del Minniti:
confronto tra le coordinate colorimetriche ottenute attraverso misure spettrofotometriche
(spettrofotometro) e radiometriche (radiometro).
Burrafato, De Vincolis, Greco, Gueli, Lahaye,
Occhipinti, Stella, Troja, Zuccarello
126
Anche in questo caso le coordinate cromatiche ottenute attraverso le
misure radiometriche si discostano da quelle ottenute con le misure spettrofotometriche ad ulteriore conferma del fatto come attraverso le prime,
misure a distanza fortemente influenzate dalla luce esterna e dalla distribuzione delle tinte su una superficie pittorica, si possa valutare la
percezione del colore del fruitore di un’opera. Le misure a contatto, al
contrario, permettendo di ottenere un dato spettrofotometrico oggettivo,
non mostrano variazioni nello spazio cromatico che dipendono dalle tinte
delle stesure delle zone limitrofe.
La distribuzione sul piano cromatico delle stesure delle varie tinte costituenti la tavolozza del Minniti, determinate sia con misure a contatto
(Fig. 7a) che con misure a distanza (Fig. 7b), viene riportata nella figura
seguente per stesure realizzate con tinte arancione, rosso, verde e azzurro.
In questo caso si evince come valori di L*a*b*, ottenuti misurando
punti di tinte rossa e arancione con lo spettrofotometro, si raggruppino in
una regione abbastanza ristretta mostrando un andamento crescente degli
a* proporzionale ai b*, indice di un utilizzo di base di un pigmento che
satura nei suoi toni (Fig. 7a). I verdi e i blu, invece, mantenendo sempre
una certa proporzionalità tra a* e b*, seguono un’altra direzione nel piano
cromatico, verso valori di a* negativi e b* positivi.
a
b
Fig. 7. Confronto tra le coordinate colorimetriche a* e b* ottenute attraverso misure
spettrofotometriche (spettrofotometro) e radiometriche (radiometro) per punti corrispondenti a stesure verde, arancione, rosso e blu per tutti i dipinti analizzati.
Colorimetria sui dipinti del Minniti
127
Per quanto riguarda la distribuzione dei risultati delle misure radiometriche, i rossi, pur mantenendo l’andamento sopra descritto, mostrano una
maggiore dispersione rispetto alle misure precedenti (Fig.7b). I dati
ottenuti dalle misure sui punti di tinte verdi e blu mostrano un andamento
simile a quello dei rossi e arancioni evidenziando come un ambiente caratterizzato da toni dominanti di rosso influenzi fortemente la visione delle
altre tinte.
4. Conclusioni
Scopo principale del presente lavoro è stato quello di evidenziare le
potenzialità delle indagini colorimetriche e radiometriche per la caratterizzazione delle stesure pittoriche e delle corrispondenti tavolozze cromatiche utilizzate dall’artista. A titolo di esempio è stata mostrata l’applicazione di tale metodologia sulle stesure delle tinte maggiormente caratterizzanti le opere del Minniti e della sua Bottega.
I risultati ottenuti, rappresentativi di varie serie di misure, hanno mostrato le potenzialità delle misure di tipo spettrofotometrico e radiometrico. In
particolare le prime, realizzate a contatto, rappresentano un metodo affidabile per la determinazione oggettiva della risposta di stesure policrome a
radiazione visibile, sia in termini di riflettanza % che di coordinate colorimetriche. Esse assumono quindi un ruolo fondamentale nell’ambito di programmi di conservazione in quanto, attraverso misure ripetute nel tempo e
nelle condizioni opportune, possono permettere l’individuazione di eventuali modificazioni cromatiche subite dalle stesure pittoriche.
Le misure a distanza realizzate con il radiometro, ed il loro confronto
con i corrispondenti dati spettrofotometrici, hanno invece mostrato la
potenzialità di tale metodologia di indagine per la determinazione della
risposta cromatica di stesure pittoriche in dipendenza dalle condizioni di
illuminamento ambientale. La corrispondente visione dei colori è di fondamentale importanza per la fruizione delle opere stesse, rendendo la
radiometria un metodo utile per la determinazione delle condizioni di
esposizione di opere policrome.
128
Burrafato, De Vincolis, Greco, Gueli, Lahaye,
Occhipinti, Stella, Troja, Zuccarello
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129
DATAZIONE DI STRUTTURE ARCHITETTONICHE
MEDIANTE TERMOLUMINESCENZA: LA CHIESA DI SAN NICOLÒ
LA RENA E LA CUBA DI FONTANE BIANCHE*
BURRAFATO G., GUELI A.M., LAHAYE C., MANERA A.,
STELLA G., TROJA S.O., ZUCCARELLO A.R.
LDL&BBCC, Laboratorio di Datazione tramite Luminescenza e di Metodologie Fisiche applicate ai
Beni Culturali del Dipartimento di Fisica e Astronomia, Centro Siciliano di Fisica Nucleare e Struttura
della Materia, Università di Catania & INFN Sezione di Catania, via Santa Sofia 64, I-95123 Catania
1. Introduzione
Il fenomeno fisico della TermoLuminescenza (TL), emissione di radiazione luminosa per effetto del riscaldamento, è alla base di una metodologia di datazione che viene applicata con successo per determinazioni cronologiche riguardanti reperti fittili quali ceramica e terracotta.
La metodologia può essere considerata di routine per le determinazioni cronologiche riguardanti le ceramiche da scavo, mentre nel caso dell’applicazione ad elementi e strutture architettoniche, la sua applicabilità
è fortemente condizionata dalle caratteristiche della fabbrica. Ricostruire
la storia di una struttura architettonica presenta infatti dei punti critici connessi all’essere stata oggetto di interventi di ricostruzione e restauro successivi all’epoca della costruzione ed alla pratica, comune nel passato, di
adoperare materiale di riutilizzo.
In tale contesto alcune fasi dell’applicazione della metodologia diventano
addirittura fondamentali, prima fra tutte il prelevamento dei campioni.
Un’importante fase della metodologia di datazione usata è lo studio delle
condizioni del sito di ritrovamento dei campioni in esame. Se in alcuni casi il
campione viene prelevato da un ambiente costituito da materiale omogeneo e
* Lavoro realizzato nell’ambito del progetto “Il recupero e la valorizzazione del patrimonio architettonico della Sicilia orientale: l’emergenza architettonica urbana e l’edilizia rurale. Conoscenza, interventi e formazione” (T3 CLUSTER C 29), finanziato dal
Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica
130
Burrafato, Gueli, Lahaye, Manera, Stella, Troja, Zuccarello
quindi la metodologia, nelle tecniche e nelle valutazioni è sovrapponibile a
quella utilizzata per ceramiche da scavo, in altri casi, in cui i campioni vengono prelevati da ambiente disomogeneo nei materiali da costruzione, la metodologia di datazione necessita di valutazioni più complesse. Così sulla valutazione dell’età dei reperti provenienti da tali strutture peserà in maniera non indifferente la disomogeneità di tali materiali che hanno circondato il reperto stesso
nella struttura di provenienza. In tale contesto diventa di fondamentale importanza, per questo tipo di applicazioni, valutare il contributo alla dose proveniente dall’ambiente circostante attraverso misure di dosimetria in sito.
Partendo da una precisa problematica relativa alla datazione di due strutture architettoniche, la Cuba di Fontane Bianche (Siracusa) e la Chiesa di San
Nicolò La Rena (Catania), verranno discussi due casi dove, per le particolarità delle costruzioni, verranno utilizzati rispettivamente, per la valutazione
del contributo di dose ambientale misure in situ ed extrasitu.
La Cuba è sita ad una dozzina di chilometri da Siracusa, tra la penisola del Plemmirio e punta Ognina. Nel suo attuale stato di interramento,
dista dal piano di campagna (nel senso della profondità) circa 3.75 metri,
ma il piano di calpestio di roccia spianata è posto a circa 6 metri al di sotto
del piano di campagna. Infatti il suo interno, trasformato in cantina, venne
riempito con materiale per uno spessore di circa 3 metri.
La chiesa ha forma semplice e chiara; una croce greca sormontata da una
cupola depressa, con tre grandi absidi, ed un atrio che la precede (Fig. 1-a).
Tale torre si innalza sopra una magnifica cupola, la quale con le sue solidissime pareti perimetrali sostiene la soprastante costruzione. Infatti non è un
caso se questa costruzione viene chiamata La Cuba, come si è soliti indicare le antiche costruzioni a volta, o meglio a cupola.
Nonostante le caratteristiche architettoniche assocerebbero la costruzione della Cuba ai Bizantini in Sicilia [3], per l’assenza di riferimenti storiografici, la complessità del periodo storico (V-XIII sec.) e di aspetti stilistici associabili univocamente al periodo di costruzione rendono impossibile assegnare una datazione certa al momento di edificazione.
Sicuramente diverso il contesto storico e strutturale in cui si colloca la
Chiesa di San Nicolò La Rena. Iniziata nel 1687 su disegno di Giovan
Battista Contini (v. Fig. 2a), a seguito dei danni subiti dal terremoto del
1693, fu rimaneggiata e finita da diversi architetti, tra cui Francesco
Battaglia e Stefano Ittar. L’interno a tre navate è lungo 105 metri. Ai lati
delle absidi si aprono sei cappelle semicircolari con balaustra.
Su tale struttura, a causa degli eventi naturali quali terremoti che ne
Datazione di strutture architettoniche mediante TermoLuminescenza
131
hanno determinato la parziale distruzione e quindi il susseguirsi di architetti che hanno determinato una struttura difficile da leggere nella sua
architettura, resta aperto il problema legato alla individuazione delle
varie fasi di costruzione.
Dai contesti storico-temporali e geografici in cui si ergono le due strutture è intuibile come queste presentino caratteristiche di costruzione sia
nell’architettura che nei materiali utilizzati sicuramente diversi. Ciò ha
determinato l’ottimizzazione della metodologia di datazione tramite termoluminescenza per le peculiarità delle singole strutture in esame.
2. Campionamento di strutture architettoniche
La prima fase in un progetto di datazione è il prelevamento dal sito dei
reperti da analizzare in laboratorio. La scelta dei punti di prelievo, il
numero di campioni prelevato, le precauzioni da seguire nella fase di prelievo e la buona conoscenza della “storia” del sito assumono grande
importanza per la riuscita del progetto.
Se le “norme” da seguire nel caso di stratigrafia archeologica sono
note, nel caso di strutture architettoniche non esistono dei criteri specifici
che sono quindi stati opportunamente stabiliti esaminando, alla luce della
lunga esperienza dei ricercatori coinvolti, i casi specifici in esame.
Diventa così necessario fare un alto numero di prelevamenti che permette di avere sia una buona statistica nelle successive analisi in laboratorio che di evidenziare differenti fasi di costruzione o di restauro. Per ovviare ulteriormente al problema legato agli elementi di restauro e quindi evitare il prelievo di campioni che non esprimano realmente la “storia” di una
struttura è necessario che i prelievi siano concentrati soprattutto in corrispondenza di parti strutturali architettonicamente significative (colonne,
volte, etc…). Tuttavia è anche importante ricordare che la datazione TL è
una tecnica distruttiva, poiché richiede la distruzione di una quantità di
campione variabile da alcuni grammi ad alcune decine di grammi. Per tale
motivo si è soliti scegliere, sotto indicazione dei responsabili dei siti,
“campioni” il cui prelevamento non danneggi artisticamente la struttura.
Quindi uno studio architettonico preliminare delle strutture oggetto di
studio nel presente lavoro ha così preceduto la fase di prelievo.
L’ottimo stato di conservazione della Chiesa di San Nicolò La Rena
(Catania), l’alto valore artistico da una parte e l’alta distruttività della tec-
132
Burrafato, Gueli, Lahaye, Manera, Stella, Troja, Zuccarello
nica dall’altra hanno reso possibile il prelievo di campioni da datare soltanto dalla zona esterna all’abside (v. Fig. 2b). Uno schema dei campioni
prelevati viene riportato nella tabella seguente.
Le dimensioni dei campioni sono almeno dell’ordine delle decine di cm
e la composizione della parete di prelievo è realizzata in fasce di mattoni
intervallati da conci a formare un ambiente piuttosto omogeneo.
La Cuba di Fontane Bianche presenta un’alta disomogeneità nel materiale da costruzione costituito da arenarie, calcari e laterizi. Nella tabella
di seguito viene riportato uno schema dei prelievi effettuati.
CAMPIONE
ZONA DI PRELIEVO
SN_A1
Mattone prelevato dietro l’abside
SN_A2
Mattone prelevato dietro l’abside
SN_A3
Mattone prelevato dietro l’abside
SN_A4
Mattone prelevato dietro l’abside
SN_A5
Mattone prelevato dietro l’abside
SN_B1
Mattone prelevato nel contrafforte dell’abside
SN_B2
Mattone prelevato nel contrafforte dell’abside
SN_B4
Mattone prelevato nel contrafforte dell’abside
SN_C1
Coccio di terracotta
SN_V1
Mattone di terracotta (sul terreno)
a
b
Fig. 1. (a) Pianta della Cuba di Fontane Bianche presso Siracusa. Schema evoluto a trifoglio con prolungamento su uno dei lati. (b) Schema dei prelievi effettuati nella Cuba di
Fontane Bianche.
CAMPIONE
ZONA DI PRELIEVO
SN_A1
Mattone prelevato dietro l’abside
SN_A2
Mattone prelevato dietro l’abside
SN_A3
Mattone prelevato dietro l’abside
SN_A4
Mattone prelevato dietro l’abside
SN_A5
Mattone prelevato dietro l’abside
SN_B1
Mattone prelevato nel contrafforte dell’abside
SN_B2
Mattone prelevato nel contrafforte dell’abside
SN_B4
Mattone prelevato nel contrafforte dell’abside
SN_C1
Coccio di terracotta
SN_V1
Mattone di terracotta (sul terreno)
Fig. 2 (a). Pianta della chiesa di San Nicolò La Rena. Le zone cerchiate rappresentano i
punti di prelievo. (b) Schema dei prelievi effettuati nella zona dell’abside esterno della
chiesa di San Nicolò La Rena.
Datazione di strutture architettoniche mediante TermoLuminescenza
133
La pochezza degli studi fatti su tale Cuba, la mancanza di ogni traccia di
decorazione scultorea, musiva o pittorica che potesse dare un’indicazione artistico-temporale, e i continui interventi di restauro o adattamento alle esigenze
degli occupanti rendono parecchio difficoltoso il lavoro di datazione [5].
3. La metodologia di analisi
L’unica possibilità di datare un evento del passato, tramite l’analisi dei
materiali utilizzati, è quello di collegare l’istante in cui l’evento si è verificato a una variazione di una grandezza fisica misurabile. Questa deve crescere
secondo una legge che dipende in maniera semplice dal tempo. In questo
modo, il tempo trascorso dal momento in cui è avvenuto l’evento può essere
calcolato in base alla variazione di tale grandezza.
Tra le grandezze fisiche con queste caratteristiche assume grande importanza il fenomeno della luminescenza stimolata dei cristalli naturali.
Infatti, l’emissione termoluminescente da parte di alcuni di essi, come
quarzo e feldspati, normalmente presenti, in quantità variabili, nelle matrici argillose dei materiali da costruzione o delle ceramiche in genere è indice di una più o meno lunga esposizione temporale a radiazioni ionizzanti
provenienti da sorgenti radioattive naturali presenti nell’ambiente circostante e nel reperto stesso [1].
Mediante misure di intensità di termoluminescenza è infatti possibile
determinare l’energia totale per unità di massa assorbita dal reperto durante
tutta la sua vita ad opera di tali radiazioni.
Tuttavia, affinché sia possibile applicare tale metodologia, devono essere
verificate alcune ipotesi fondamentali:
– i reperti siano stati sottoposti a cottura ad alta temperatura (T ≥500°C) e
che tale aumento di temperatura abbia svuotato completamente le trappole elettroniche nelle inclusioni cristalline, portando a zero la luminescenza legata alla dose accumulata sin dalla formazione geologica del cristallo. Questo momento (riscaldamento) rappresenta l’istante zero per il cronometro luminescente (v. Fig. 3)
– l’intervallo di tempo che va dalla cottura alla posa definitiva dell’oggetto
possa essere considerato trascurabile. Quindi il reperto, nel sito archeologico o nella struttura architettonica di ritrovamento, comincia un nuovo
accumulo di radiazioni con una velocità di crescita annua che è caratteristica del campione (radioattività presente nel campione stesso) e dell’am-
134
Burrafato, Gueli, Lahaye, Manera, Stella, Troja, Zuccarello
biente in cui è posto (radioattività dei materiali vicini, radioattività cosmica, condizioni climatiche). Inoltre assumiamo che tale dose annua assorbita dal campione sia stata costante durante la sua “vita”.
– il reperto in esame non abbia subito ulteriori riscaldamenti e si sia mantenuto per tutto il periodo della conservazione in sito ad una temperatura
media corrispondente alla temperatura ambiente.
– La determinazione quantitativa dell’intensità di luminescenza accumulata
dal reperto (paleodose) e della velocità con cui i radioisotopi radioattivi la
forniscono (dose annua), ci permette, a meno di comportamenti anomali del
materiale, di valutare l’età del reperto utilizzando la seguente equazione:
Paleodose
Età = –––––––––––––––––––––––
Dose annua
dove la determinazione della paleodose si effettua analizzando, in laboratorio, il segnale di emissione luminescente proporzionale alla dose accumulata dall’ultimo “azzeramento”.
Infatti dalle curve di intensità luminescente emesse dal cristallo sottoposto a stimolazione termica, misurando il numero di fotoni emessi in funzione della temperatura, è possibile ricavare la paleodose. Tale metodologia di
misura utilizzata, added dose, si basa sull’acquisizione, su porzioni diverse
dello stesso campione, dell’intensità TL naturale e di quella ottenuta aggiungendo alla dose di radiazione naturale dei valori noti di dose artificiale forniti tramite sorgenti radioattive calibrate, nel nostro caso β. Si costruisce in tal
modo l’andamento dell’intensità TL in funzione della dose aggiunta.
L’estrapolazione della retta di crescita sull’asse delle dosi ci dà il valore di
Fig. 3. Individuazione dell’istante zero per il cronometro luminescente.
Datazione di strutture architettoniche mediante TermoLuminescenza
135
dose equivalente beta: la quantità di dose artificiale beta che il campione
dovrebbe assorbire per ottenere un’intensità di luminescenza pari a quella
prodotta dalla dose di radiazione naturale assorbita durante la sua vita [2].
La valutazione della paleodose si basa quindi sulla relazione di proporzionalità che intercorre tra la termoluminescenza emessa dai cristalli e la dose
di radiazione da essi assorbita. La valutazione della dose annua è legata alla
possibilità di effettuare misure dosimetriche di radioattività mediante tecniche del tutto indipendenti da quelle utilizzate per la misura della paleodose.
Infatti, al fine di conoscere il tasso di crescita annua della dose di radiazione
assorbita dal reperto nel sito di provenienza, occorre considerare i contributi
delle radiazioni α, β, e γ provenienti dal decadimento dei radioelementi presenti nel materiale circostante il reperto e all’interno del reperto stesso, tenendo conto dei diversi poteri di penetrazione delle radiazioni considerate e della
granulometria dei campioni utilizzati nelle misure.
4. La chiesa di San Nicolò La Rena. Misure sperimentali
Nella tabella seguente (Tab. 2) vengono riportati i valori ottenuti per la
dose equivalente beta, (Qβ) il fattore di correzione a basse dosi (qβ), il
coefficiente di luminescenza alfa (k), i contributi alla dose annua alfa e
beta del campione e gamma dell’ambiente.
Per quanto concerne la determinazione della dose annua, i valori di
dose alfa, beta (del campione) sono determinati dalla concentrazione di
238U, 232Th, 40K del campione analizzato ottenuti per ICP-MS [2].
Poiché le dimensioni dei campioni sono almeno dell’ordine delle decine di
cm e la composizione della parete di prelievo è realizzata in fasce di mattoni
intervallati da conci, si è ritenuto opportuno di utilizzare come dato di dose
gamma quello dello stesso mattone analizzato. I valori di dose alfa, beta e
gamma del campione vengono corretti in umidità, si terrà conto dell’attenuazione subita all’interno del campione con il grado di umidità (in termini di
contenuto di acqua) relativo al suo periodo di permanenza nel sito [6]. Questo
tipo di approccio si basa sull’ipotesi che tale contenuto di acqua sia confrontabile con quello misurabile al momento in cui il campione è stato prelevato e
rappresenta comunque uno dei limiti maggiori nella possibilità di ridurre l’errore di cui attualmente soffrono in generale le misure di datazione.
Sono stati così ottenuti i seguenti valori di Paleodose, dose annua e di
età (Tab.3):
D +cosm
(µGy/a)
D +cosm
(µGy/a)
k
k
0.01
0.02
0.02
0.01
0.01
0.01
0.02
0.01
0.02
0.02
D
(Gy/a)
0.01
0.05
0.01
0.01
0.05
0.03
0.01
0.01
0,29
0,34
0,44
0,27
0,32
0,12
0,58
0,39
0,69
0,52
D (Gy/a)
0.03
D
(Gy/a)
0.08
0.77
0.15
0.12
0.04
0.08
0.07
0.02
0.01
D (Gy/a)
0.07
0.08
0.04
0.33
0.20
0.03
0.07
0.09
0.08
0.12
q (Gy)
Q (Gy)
1.84
1.82
1.86
1.60
1.77
0.27
1.13
1.69
0.72
0.76
q (Gy)
Campione
Sn_a1
Sn_a2
Sn_a3
Sn_a4
Sn_a5
Sn_b1
Sn_b2
Sn_b4
Sn_c1
Sn_v1
Q (Gy)
Burrafato, Gueli, Lahaye, Manera, Stella, Troja, Zuccarello
136
2995
4155
3627
7172
11235
8455
5435
2606
60
82
72
142
221
168
88
52
557
726
649
1995
1742
1291
917
456
11
14
13
38
34
24
18
9
423
538
478
536
1011
878
654
375
9
10
9
11
20
16
13
7
3366
66
347
7
377
8
Tab. 2. Risultati ottenuti dalle varie misure relative alla determinazione della paleodose
e dose annua.
Campione
Paleodose
Pal.
Dose
annua
Dose
annua
Età TL/2005
Età
Sn_a1
1.92
0.08
1849
95
1038
53
Sn_a2
1.82
0.08
2677
126
680
35
Sn_a3
2.63
0.04
2723
127
966
32
Sn_a4
1.75
0.33
4467
200
392
75
Sn_a5
1.89
0.20
6348
306
298
32
Sn_b1
0.31
0.03
3184
195
97
10
Sn_b2
1.21
0.09
4723
212
256
20
Sn_b4
1.76
0.09
1847
98
953
55
Sn_c1
0.74
0.08
-
0.77
0.12
2474
125
311
10
Sn_v1
Tab. 3. Valori di Paleodose, dose annua ed età. Sul campione Sn_c1, data l’esigua quantità, non è stato possibile effettuare misure di ICP-MS.
5. La Cuba di Fontane Bianche. Misure sperimentali
Nella tabella seguente (Tab. 4) vengono riportati i valori ottenuti per la
dose equivalente beta, (Qβ) il fattore di correzione a basse dosi (qβ), il
coefficiente di luminescenza alfa (k), i contributi alla dose annua alfa e
beta del campione e gamma dell’ambiente.
Q (Gy)
Q (Gy)
q (Gy)
q (Gy)
k
k
D campione
(µ
µ Gy)
D
(µ
µ Gy)
D campione
(µ
µ Gy)
D
(µ
µ Gy)
D ambiente
(µ
µ Gy)
D
(µ
µ Gy)
137
Campione
Datazione di strutture architettoniche mediante TermoLuminescenza
FB1
FB2
FB3
FB5
FB6
FB7
FB8
FB9
FB10
FB11
FB12
FB15
2,66
3,24
2,43
2,92
4,93
3,58
5,78
3,15
3,76
6,33
3,07
3,12
0,37
0,22
0,26
0,29
0,55
0,44
0,56
0,2
0,45
0,63
0,26
0,32
+0,78
-0,49
-0,67
-0,65
-0,41
-0,57
-0,51
-0,52
-0,49
+0,14
-0,16
-0,75
0,01
0,06
0,12
0,08
0,12
0,08
0,15
0,06
0,09
0,02
0,07
0,08
0,31
0,35
0,22
0,29
0,25
0,23
0,27
0,20
0,21
0,20
0,22
0,19
0,01
0,01
0,01
0,01
0,01
0,01
0,02
0,01
0,01
0,01
0,01
0,01
10163
11862
11351
16114
6951
8027
15116
10849
11944
13833
11371
8506
24
64
81
92
47
50
92
80
87
87
121
101
1454
1509
1509
2153
1412
1240
2055
1704
1780
2052
1645
1675
2
5
6
6
3
4
6
5
6
6
8
6
948
948
948
948
948
826
826
826
826
826
878
948
26
26
26
26
26
31
31
31
31
31
20
26
Campione
Q (Gy)
Q (Gy)
q (Gy)
q (Gy)
k
k
D campione
(µ
µ Gy)
D
(µ
µ Gy)
D campione
(µ
µ Gy)
D
(µ
µ Gy)
D ambiente
(µ
µ Gy)
D
(µ
µ Gy)
Tab. 4. Quadro riassuntivo dei dati di dose equivalente beta (Qβ), fattore correttivo a
basse dosi (qβ), fattore di efficienza di luminescenza alfa (k), contributo alla dose annua
alfa e beta del campione e gamma dell’ambiente ottenuti sui campioni prelevati presso
La Cuba di Siracusa.
FB1
FB2
FB3
FB5
FB6
FB7
FB8
FB9
FB10
FB11
FB12
FB15
2,66
3,24
2,43
2,92
4,93
3,58
5,78
3,15
3,76
6,33
3,07
3,12
0,37
0,22
0,26
0,29
0,55
0,44
0,56
0,2
0,45
0,63
0,26
0,32
+0,78
-0,49
-0,67
-0,65
-0,41
-0,57
-0,51
-0,52
-0,49
+0,14
-0,16
-0,75
0,01
0,06
0,12
0,08
0,12
0,08
0,15
0,06
0,09
0,02
0,07
0,08
0,31
0,35
0,22
0,29
0,25
0,23
0,27
0,20
0,21
0,20
0,22
0,19
0,01
0,01
0,01
0,01
0,01
0,01
0,02
0,01
0,01
0,01
0,01
0,01
10163
11862
11351
16114
6951
8027
15116
10849
11944
13833
11371
8506
24
64
81
92
47
50
92
80
87
87
121
101
1454
1509
1509
2153
1412
1240
2055
1704
1780
2052
1645
1675
2
5
6
6
3
4
6
5
6
6
8
6
948
948
948
948
948
826
826
826
826
826
878
948
26
26
26
26
26
31
31
31
31
31
20
26
Tab 5. Valori di Paleodose, dose annua ed età
Data l’alta disomogeneità dei materiali di utilizzo nella costruzione in
esame per la determinazione del contributo dell’ambiente alla dose annua si
è reso necessario realizzare delle misure di dose in sito. Tale misura passa
attraverso l’utilizzo di fosfori (GR200A), che posizionati in capsule di rame
dello spessore tale da rendere trascurabile il contributo proveniente dai decadimenti alfa e beta dei radioisotopi naturali di nostro interesse [4].
138
Burrafato, Gueli, Lahaye, Manera, Stella, Troja, Zuccarello
Conclusioni
Il conseguimento degli obiettivi metodologici ha consentito di ottenere
risultati molto più che soddisfacenti sulla cronologia delle strutture. È infatti
stato possibile ottenere la collocazione cronologica delle due strutture sottoposte ad analisi individuando in particolare per la Chiesa di San Nicolò La
Rena tre periodi storici corrispondenti a tre diversi interventi. Un campione
(Sn_b1) corrisponde all’ ultimo restauro realizzato intorno al 1900. Quattro
campioni (Sn_a4, Sn_a5, Sn_b2, Sn_v1) si riferiscono alla costruzione della
chiesa intorno al 1700. Un terzo gruppo di campioni (Sn_a1, Sn_a2, Sn_a3,
Sn_b2), che risultano essere databili intorno al 1100, possono essere considerati materiali di risulta utilizzati nella costruzione della chiesa.
Tutto ciò conferma la data di costruzione della chiesa (certamente non
il dato che si cercava di ottenere) ma anche il riutilizzo da parte dei monaci delle strutture preesistenti nella zona della fabbrica, come riportato dai
documenti. Ed infine, gli interventi fatti nel periodo di utilizzazione da
parte del demanio, subito dopo l’acquisizione della chiesa agli inizi del
XX secolo.
Come si può notare dai risultati esposti in tabella l’età dei campioni
FB2, FB3, FB5 si distribuisce nel periodo tra il 1500 e il 1650.
Tale periodo va a sovrapporsi con il periodo di costruzione della torre
(Orsi, 1899) ed è quindi possibile ipotizzare che i reperti analizzati provengano da una campagna di restauro sulla cuba avvenuta in occasione di
tale costruzione. Nel 1452, inoltre un terremoto di grossa entità investì il
Siracusano, il che rende l’ipotesi di un intervento di restauro sulla cuba
sempre più probabile.
È da escludere che la cuba sia contemporanea alla torre, sia per la particolare architettura, che per i risultati ottenuti sui campioni FB1, FB7, FB8,
FB9, FB10, FB12, FB15 che si collocano intorno al 1350 e i campioni
FB6 e FB11 che si collocano intorno al 850 (periodo Arabo in Sicilia).
Il basso numero di prelievi, la poca documentazione storica sul sito e le
condizioni di conservazione sfavorevoli non hanno consentito di individuare periodi rappresentativi della costruzione della Cuba ma è stato tuttavia possibile individuare importanti fasi della sua storia.
Alla luce dei risultati ottenuti, è possibile affermare che la metodologia
TL è idonea alla datazione di strutture architettoniche, a condizione di
rispettare alcune precauzioni. Il lavoro realizzato, oltre ad indicare le linee
da seguire per ottimizzare ogni fase dell’applicazione della tecnica alle
Datazione di strutture architettoniche mediante TermoLuminescenza
139
strutture architettoniche, ha permesso di risolvere il problema riguardante
la cronologia delle strutture oggetto dello studio.
BIBLIOGRAFIA
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Archaeology, (1998) Oxford University.
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S. Bottari. L’architettura del Medioevo in Sicilia, in Atti dell’VIII Congresso
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cristalli luminescenti e film radiocromici, Tesi di dottorato di ricerca in Fisica, XI
ciclo, (1999) Università degli studi di Catania.
G. Stella. L’età Bizantina nella Sicilia Orientale. La datazione delle Cube, tesi di
Laurea in Fisica, A.A. 2002-2003.
D.W. Zimmerman. Archaeometry 13, (1971) 29.
140
UN NINFEO ROMANO A LEPTIS MAGNA.
SINERGIE MULTIDISCIPLINARI
BUSCEMI F., TOMASELLO F., TRAPANI F.
Dipartimento di Studi Archeologici Filologici e Storici, Università degli Studi di Catania,
Piazza Dante 32, 95024 Catania, Tel. 095-2502814, Fax. 095-2502825, [email protected]
Le potenzialità di una emergenza archeologica non sempre sono sfruttate appieno ai fini della puntualizzazione dei processi culturali che ne
stanno alla base. La realizzazione di un edificio, in particolare, comporta
diversificate sfaccettature le cui analisi fanno capo a specifiche competenze disciplinari. Questi vari canali di indagine, purtroppo e per più ordini di
motivi, non sempre perseguono un coordinamento delle sinergie ed il
numero dei casi studio risulta decisamente irrisorio rispetto alle tante
emergenze del nostro patrimonio archeologico. Una delle occasioni fortunate è stata certamente l’indagine su alcuni ninfei di periodo romanoimperiale a Leptis Magna (Libia), ove opera una missione archeologica
dell’Università di Catania che da alcuni decenni si occupa di emergenze
architettoniche e urbanistiche.
Tra le infrastrutture idriche urbane, oggetto delle scorse campagne di
scavo, si appunta qui l’attenzione sul ninfeo presso il Calcidico. Per questo
studio sono stati coinvolti il Dpt. di Studi Archeologici, Filologici e Storici e
quello di Scienze Chimiche, l’Istituto Internazionale di Vulcanologia del
CNR a Catania e il Laboratorio Landis-INFN dell’Università di Catania. Ai
colleghi che con generosità hanno aderito al progetto va il merito degli esiti
positivi della ricerca. (F.Tomasello.)
1. L’emergenza
Il Ninfeo del Calcidico si colloca in un delicato snodo viario, all’incrocio tra il decumano teso tra il teatro e le grandi terme di Adriano, e il cardine massimo, prosecuzione della via in Mediterraneum e sbocco delle vie
carovaniere che dalle regioni dell’interno desertico si proiettavano verso il
Un ninfeo romano a Leptis Magna. Sinergie multidisciplinari
141
porto della città e quindi verso le province del vasto impero romano (v.
Fig. 1). L’indagine archeologica ha potuto mettere in evidenza le diverse
connotazioni macroscopiche dell’impianto idrico: il rapporto con la scacchiera urbana, la tipologia, le modalità costruttive, l’apparato decorativo e
la cronologia delle diverse fasi.
Il ninfeo, verosimilmente dedicato a Venere, è il più rilevante dei quattro
punti d’acqua che arricchiscono nel tempo la già monumentale fronte del
Calcidico (mercato delle stoffe ?) edificato in età proto-imperiale (I sec. d.C.)
dal magnate locale Iddibal Caphada Aemilius (IRT 324). La fabbrica del ninfeo, addossandosi al fianco ovest di quest’ultimo, invade il decumano e
rimanda ad una intenzionale intercettazione della prospettiva viaria (lr m
3,90) (v. Fig. 2) e al processo di revisione dell’immagine della città tripolitana che nel giro di 50 anni avrà con gli imperatori Severi l’assetto definitivo.
Fig. 1. Leptis Magna. Pianta del centro
urbano con l’ubicazione del Ninfeo del
Calcidico.
Fig. 2. Ninfeo del Calcidico. Il
prospetto sul cardine massimo.
142
Buscemi, Tomasello, Trapani
La pianta dell’edificio (ln m 25x 3,75) si articola, da Nord a Sud, in una
sequenza di tre serbatoi coperti da volte a botte e termina con una fronte ad
esedra collocata al di sopra dell’ambiente di servizio in cui si manipolavano
i flussi idrici verso la cascata e la vasca disposta sul piano stradale (v. Fig. 3).
I tre serbatoi erano in origine tra loro comunicanti; soltanto uno rimase attivo dopo la costruzione, dentro il Calcidico, di un’enorme cisterna
(castellum in moenibus) che, in periodo severiano, serviva tutto il quartiere del teatro. Dal serbatoio prossimo alla fronte si partivano tubi di terracotta per alimentare il gioco d’acqua della cascata, ai piedi dell’esedra, e
fistule di piombo che servivano anche le domus circostanti.
Spessori e caratteristiche chimico-fisiche delle fistule hanno trovato puntuale riscontro nella manualistica romana (Vitruvio e Frontino) (v. Fig. 4).
Il nicchione semicircolare (lr m 2,22 ca.) ove doveva essere allocata la
statua della Venere Calcidica si imposta al di sopra del piccolo vano in cui
si manipolavano i flussi di distribuzione. La grande conca è inquadrata da
due avancorpi che serrano la cascata a gradoni per il gioco d’acqua, la
quale si raccoglieva in una vasca sistemata a livello stradale per l’attingi-
Fig. 3. Ninfeo del Calcidico. Pianta (da Tomasello).
Fig. 4. Ninfeo del Calcidico. Fistula di adduzione nel
serbatoio 2. Le analisi condotte dal Laboratorio
Landis- INFN dell’Università di Catania, attraverso
tre sorgenti radioattive differenti (241Am, 109Cd,55 F),
hanno chiarito la composizione sia del materiale
della fistula, sia delle patine. Questo ha consentito la
restituzione dello spessore originario del reperto e,
pertanto, il rimando puntuale alla normativa di
Vitruvio, (VIII,6,4) sul dimensionamento delle fistule.
Un ninfeo romano a Leptis Magna. Sinergie multidisciplinari
143
mento. La fronte del ninfeo costituisce una monumentale quinta architettonica a complemento di quella del Calcidico, che proprio in quel periodo
veniva ristrutturata con membrature marmoree ed in simmetria all’arco di
Traiano posto all’estremità orientale del mercato (v. Fig. 5).
Questo prospetto monumentale, a colonne quantomeno in una fase successiva al primo impianto, rimanda a ninfei dell’area centro-italica di età proto e
medio-imperiale (p.e. “Ninfeo del Centenario” a Pompei). Inoltre, la fabbrica
fa riferimento allo stesso contesto culturale non solo per il proporzionamento
progettuale ma anche per le tecniche costruttive adottate (v. Fig. 6).
Le murature sono, infatti, in opera laterizia, tecnica singolare a Leptis
Magna e introdotta in occasione della costruzione di questi apprestamenti idrici e mai sistematicamente adottata dalle maestranze edilizie locali.
Non è improbabile che i laterizi impiegati nel ninfeo provenissero diretta-
Fig. 5. Ninfeo del Calcidico.
Restituzione del prospetto
(da Tomasello).
Fig. 6. Ninfeo del Calcifico.
Restituzione progettuale (da
Tomasello).
144
Buscemi, Tomasello, Trapani
mente dall’area italica, come zavorra per le navi commerciali che lì trasportavano merci esotiche, o fossero prodotti in qualche centro della vicina Provincia Nord-Africana (WARD PERKINS): materiali che in ogni caso
rimarranno estranei al contesto leptitano. I singolari mattoni a sezione trapezia, impiegati nel sordino impostato sopra l’apertura al vano di servizio,
sono certamente sintomo di una cultura edilizia proto-imperiale di ascendenza romano-italica che non supererà l’età adrianea.
L’opera appare realizzata non oltre la metà del II secolo d.C., cioè, non
molto tempo dopo la ristrutturazione della rete idrica infrastrutturale urbana,
vanto del privato finanziatore Quintus Servilius Candidus (IRT 357). Intorno
al 120 d.C., sua pecunia, avviò lavori di captazione e di canalizzazione idrica verso la città in maniera da assicurare per sempre l’acqua alla città e distribuirla ai cittadini in diversi punti del tessuto urbano. (F. Trapani)
2. Le tecniche edilizie
L’indagine delle tecniche edilizie impiegate nella realizzazione e
ristrutturazione del monumento ha costituito uno dei momenti più significativi della sinergia multidisciplinare. In particolare, vorremmo appuntare
l’attenzione su alcuni aspetti: le coperture voltate a botte dei serbatoi; l’apparecchio delle cortine laterizie esaminato da un punto di vista metrologico; gli impasti delle murature e dei rivestimenti parietali. Il contributo che
queste ultime hanno prospettato si è rivelato particolarmente interessante
ai fini della provenienza delle componenti e delle dinamiche di contatto
commerciali e culturali. Inoltre, va sottolineato l’interesse dei risultati
delle analisi chimiche nell’individuazione delle cause del degrado della
struttura, legate alle caratteristiche composizionali dei calcestruzzi.
Le volte a botte parzialmente estradossate dei contenitori idrici sono di
tipo cd. leggero, cioè a due fodere: quella interna in tubuli di terracotta con
estremità peduncolata per l’incastro reciproco; quella più esterna costituita da una caldana di impasto cementizio, con un rivestimento in cocciopesto all’estradosso (V. Figg. 7, 10).
La peculiarità della struttura voltata leptitana consiste nelle inusuali dimensioni dei tubuli, così come nel loro altrettanto insolito apparecchio. Essi,
infatti, sono disposti secondo la generatrice della volta anziché ortogonalmente ad essa; soluzione ottimale, che verrà adottata in tutto il bacino del
Mediterraneo, dalla Tunisia a Ravenna, a partire dall’inizio del III secolo d.C.
Un ninfeo romano a Leptis Magna. Sinergie multidisciplinari
145
Un confronto cronologicamente più vicino per questa anomala giacitura longitudinale si coglierà nel frigidarium delle Terme F3 di Dura Europos e nella
“Nouvelle Maison de la Chasse” a Bulla Regia (2a metà e fine del II sec.
d.C.). La giacitura trasversale secondo la direttrice della volta diventa, invece, la soluzione consueta e più rispondente alla esigenza strutturale come nei
praefurnia dell’annesso termale della villa del Casale a Piazza Armerina, giusto per citare un caso assai noto (v. Fig. 8).
Nel ninfeo leptitano le dimensioni dei tubuli sono inoltre eccessive: la
lunghezza è circa tre volte quella massima poi adottata per questi fittili e
più rispondente alle esigenze della curvatura intradossale ottenuta per
incastro dei segmenti.
Queste alcune delle peculiarità della “volta leggera” di Leptis Magna,
d’altra parte non isolata, come attestato anche nelle Terme della Caccia (2a
metà II sec. d.C), che paiono indiziare una fase di sperimentazione di tecniche costruttive nuove e non perfettamente padroneggiate. È singolare, in
ogni caso, che tale tecnica rimandi ad un ambito culturale più antico: quello che accomuna in età ellenistica vari edifici termali come quello di
Morgantina (III secolo a.C.) e l’area centro-mediterranea (Sicilia e Magna
Fig. 7. Ninfe del calcidico. Copertura voltata di un serbatoio.
Sezione trasversale (da Tommasello).
Fig. 8. Dettaglio della disposizione consueta dei tubuli al
cervello della volta.
146
Buscemi, Tomasello, Trapani
Grecia) riferibile ad Alessandria [3]. I tubuli peduncolati, in Sicilia riferibili già al periodo ellenistico, testimoniano un precoce diverso ambito di
sperimentazione rispetto a quello di impiego precisabile in periodo medio
e tardo-imperiale.
La cortina muraria in laterizi è, come accennato, inusuale a Leptis
Magna; infatti, questa tecnica costruttiva tipicamente romana è applicata
soltanto nei piccoli ninfei urbani databili a partire dalla metà del II secolo
d.C., prima dei grandi interventi edilizi severiani. Al di là delle caratteristiche dimensionali dei fittili (bessali, pedali, speciali a sezione trapezia) o
del loro impiego (trigones e fette, a giunti ribattuti etc.) le tematiche che
emergono dall’analisi riguardano la cronologia dei vari interventi edilizi
(2 fasi accertate), la provenienza dei laterizi, le peculiarità degli impasti di
allettamento (v. Fig. 9). La produzione di laterizi, in genere, appare al
momento estranea alla Tripolitania romana. La presenza di questi fittili a
Leptis può rimandare direttamente ad un ambito italico e questo implicherebbe una commercializzazione, peraltro documentata, dei materiali edili-
Fig. 9. Ninfeo del Calcidico. Fianco
ovest del ninfeo. Il paramento è realizzato in trigones e fette di laterizi. Il
sordino sopra l’ingresso al vano di
servizio è, invece, apparecchiato in
mattoni a sezione trapezia. L’intervento di sopraelevazione è esclusivamente in bessali di piccolo spessore
che rimandano ad età severiana.
Un ninfeo romano a Leptis Magna. Sinergie multidisciplinari
147
zi artigianali contro materie prime africane, o ad un approvvigionamento
più locale da una fabbrica nord-africana che Ward-Perkins localizzava in
Tunisia o in Algeria, aree da lungo tempo romanizzate. In attesa di un’analisi archeometrica sulle provenienze, quella metrica sulla intera fabbrica
sembra portare all’individuazione di un ambito di riferimento costruttivo
proprio della tradizione, neo-punica, più che giustificata in questa regione,
una volta sotto il controllo di Cartagine.
Una diversa prospettiva in senso romano-italico suggeriscono il dimensionamento degli stessi materiali edilizi e la tecnica dell’impasto cementizio e le sue componenti: nello specifico la pozzolana.
L’indagine condotta dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di
Catania ha escluso una provenienza di tale sabbia dai vulcani della Sicilia
orientale (Etna e Iblei) e nord occidentale (Ustica), così come dal contesto
eoliano. L’indagine microscopica, infatti, ha messo a fuoco una composizione alcalino-potassica propria della provincia campana e, specificamente, dell’area flegrea. Circostanze che permettono di ritessere le fila storico-economiche e culturali di questa emergenza architettonica in Tripolitania.
Una risposta ancora più puntuale si è voluta trarre dalle analisi degli
impasti di rivestimento dei serbatoi effettuate dal Dipartimento di Scienze
Chimiche dell’Università di Catania. Oltre alle caratteristiche di impermeabilizzazione dei due rivestimenti sovrapposti, si intendevano appurare
indirettamente quelle di manipolazione degli impasti in rapporto alle varie
esigenze statico-strutturali della fabbrica (v. Fig. 10). Tra i risultati delle
analisi calcimetrica, termogravimetrica, e chimica elementare mediante
spettroscopia di fotoelettroni a raggi X (XPS), quella diffrattometrica di
raggi X, vogliamo porre l’accento sui rimandi ai comportamenti costruttivi nel lungo periodo sulle ragioni del degrado di alcune sezioni. Le analisi hanno individuato, per esempio, una elevata quantità di cloruri cristallizzati, ascrivibile, più che all’impiego di sabbia quarzifera marina non
eccessivamente depurata, all’uso di un’acqua di falda ad alto contenuto
salino. Questa circostanza sembra testimoniare, dunque, una situazione
ambientale oggettiva che presuppone un inaridimento in atto delle falde
freatiche e un loro inquinamento da parte dell’acqua marina. Più in generale, tale dato conferma il processo di desertificazione di tutta la regione
costiera della Tripolitania che Procopio sottolineava come esiziale alla
sopravvivenza stessa del centro leptitano nel V secolo d.C.
La rioccupazione bizantina, succeduta al catastrofico terremoto che
nella seconda metà del IV sec. aveva distrutto la città squassando il
148
Buscemi, Tomasello, Trapani
Mediterraneo centrale compresa la Sicilia, si era limitata al recupero della
sola area del porto mentre il resto era quasi desertificato.
Solo dal confronto tra i dati emersi da questi diversificati approcci multidisciplinari si riesce a leggere compiutamente il significato di questa
emergenza archeologica nel contesto storico e culturale allargato del
Mediterraneo romano. Non solo viene precisato, infatti, il ruolo delle waystations idriche nella costruzione dell’immagine della metropoli libica, ma
anche il coinvolgimento delle maestranze locali con le tematiche edilizie
allogene, soprattutto nel momento più dinamico dell’apparente omologazione della cultura urbana nel Mediterraneo romano.
Le sinergie di studio hanno consentito, in altri termini, di inquadrare
questa operazione progettuale all’interno delle tematiche costruttive
vigenti e consolidate in età medio-imperiale; in una città in cui i vari flussi culturali si incrociano e si sovrappongono in un grandioso palinsesto
(matrici culturali neopunica, micrasiatica, romano-italica). Nonostante la
modesta scala dell’intervento, non appare trascurabile l’esito di questa
indagine paradigmatica sul piano della conoscenza e valorizzazione di uno
dei più importanti siti archeologici del mondo, dichiarato patrimonio
dell’Umanità dall’UNESCO. (F. Buscemi).
Fig. 10. Ninfeo del Calcidico. Serbatoio visto da Sud. Lunetta della volta a botte su cui
si impostano i tubuli peduncolati incastrati tra di loro secondo la generatrice. Sono ancora in posto i filari di spicco sopra la risega muraria del serbatoio. Le pareti del serbatoio presentano un doppio strato di rivestimento, con una incrostazione calcarea superficiale di notevole spessore.
Un ninfeo romano a Leptis Magna. Sinergie multidisciplinari
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BIBLIOGRAFIA
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F. Tomasello, «Una volta leggera del II secolo a Leptis Magna», in L’Africa romana. Ai confini dell’Impero: contatti, scambi, conflitti, Atti del XV Convegno di
Studio, Tozeur 11-15 dicembre 2002, Roma 2004, pp. 1809-1820.
F. Tomasello, Fontane e ninfei minori di Leptis Magna, Monografie di Archeologia
Libica, XVII, Roma 2005.
150
PROGETTO DI VALORIZZAZIONE DI UN CENTRO STORICO:
IL CASO PENTEDATTILO
CAMPOLO D.
Dipartimento P.A.U. (Patrimonio Architettonico e Urbanistico), Università degli Studi
“Mediterranea” di Reggio Calabria Via Salita Melissari, Località Feo di Vito – 89124 Reggio
Calabria, Tel. 3201923413, [email protected]
1. Iter metodologico della ricerca
L’uso sostenibile del patrimonio culturale e ambientale è riconosciuto,
ormai a livello internazionale, un settore di interesse strategico per attivare la crescita economica delle comunità locali.
Il recupero dei beni di questo patrimonio, attraverso il loro riconoscimento come risorsa, permette alla collettività di ridare vita al patrimonio
e di rilanciarlo nel futuro. Questo riconoscimento comporta tutta una serie
di attività, di procedure senza le quali i beni del patrimonio non possono
essere riconsegnati alla collettività: il patrimonio va analizzato, studiato,
tutelato, valorizzato e conseguentemente fruito. Questo concetto può
anche essere esteso al di là degli oggetti materici: i fenomeni folclorici
(tradizioni socio culturali o antropologiche), i riti, le usanze, i canti rappresentativi della tradizione contadina e rurale, possono essere considerati dei monumenti in quanto “ricordo” della cultura di un popolo.
Ma il riconoscimento come risorsa, vale in modo particolare per il
patrimonio architettonico che viene definito da Victor Hugo in Nôtre
Dame de Paris come il “grande libro dell’umanità”, l’espressione principale dell’uomo attraverso i suoi diversi stadi di sviluppo. Sin dall’antichità l’uomo ha sentito il bisogno di incidere nella terra nel modo più visibile, più durevole e più naturale le proprie tradizioni suggellandola con i
monumenti: «L’architettura cominciò come ogni scrittura: dall’alfabeto,
si piantava una pietra diritta, ed era una lettera, e ogni lettera era un geroglifico e sopra ogni geroglifico riposava un gruppo di idee come sulla
colonna riposa un capitello» (Victor Hugo, 1831).
Progetto di lavorazione di un centro storico: il caso Pentedattilo
151
Concepire il patrimonio architettonico e culturale come risorsa da cui
promuovere lo sviluppo economico e sociale di un territorio permette di
innescare un processo di recupero e di rifunzionalizzazione orientati al riuso dell’esistente, nel rispetto del valore semantico dei luoghi.
Con questo modo di procedere si realizza più di un obiettivo: si diffonde la cultura del recupero mettendo fine allo spreco del territorio; si evita
la distruzione di un bene collettivo; si restituisce dignità e decoro a luoghi
che li avevano smarriti, favorendo il rispetto della natura del sito e dei suoi
valori culturali. Si contribuisce in definitiva alla diffusione di un’accorta
“cultura della trasformazione e del recupero” in alternativa alla dissennata “cultura dell’espansione” che privilegia la logica del consumo delle
risorse culturali, insediative ed ambientali delle nostre città. Il riuso di un
edificio culturale è un mezzo formidabile, probabilmente il migliore, per
garantirne realmente la conservazione: un monumento privo di funzione si
deteriora rapidamente; uno tenuto in efficienza può sfidare i secoli. La
funzione ed il riuso quindi diventano un “mezzo” per la tutela, ma bisogna
fare attenzione che non diventino il “fine” di un intervento.
In particolare la provincia di Reggio Calabria dispone di una elevata presenza di risorse naturali ed un patrimonio culturale (area grecanica) di grande rilevanza, ricco di tradizioni e di testimonianze della cultura materiale e rurale.
Partendo dal principio che attribuisce alla conservazione ed alla valorizzazione del patrimonio ambientale e storico, ed in particolare dei centri
storici presenti sul territorio della provincia di Reggio Calabria, un valore
strategico e strumentale allo sviluppo economico ed alla trasformazione
sociale delle realtà locali, l’obiettivo principale di questo progetto è quello di inserire il Borgo di Pentedattilo nel circuito turistico “culturale” e di
gestirlo secondo i principi della sostenibilità ambientale, facendo leva
sulla valorizzazione della cultura grecanica e sulle risorse endogene locali, sia materiali che immateriali.
Il progetto si propone inoltre di individuare le strategie di valorizzazione che possano utilizzare tutte le risorse presenti sul territorio, per recuperare il borgo sia dal punto di vista storico-architettonico, che dal punto di
vista culturale e sociale, attraverso la legislazione europea, nazionale e
regionale; le ipotesi di gestione che devono prevedere gli aspetti economici da utilizzare, la tipologia delle risorse ed il rapporto tra pubblico e privato nella gestione del paese.
La qualità e l’importanza culturale del patrimonio architettonico di
Pentedattilo ci pongono però di fronte alla problematica dell’individua-
152
Campolo
zione del punto di equilibrio “sostenibile” tra il compito primario della
tutela e conservazione del patrimonio culturale e le giuste esigenze di
valorizzazione dello stesso. La tutela modernamente intesa viene collocata in una prospettiva completamente diversa rispetto al passato: il compito non è più quello di restaurare e restituire il bene allo stato originario,
ma piuttosto quello di porlo nella veste di “importanza artistica, storica e
culturale”. Ciò impone non tanto di mettere in evidenza lo stile primigenio del monumento quanto la valorizzazione di tutte le sue fasi con le
caratteristiche specifiche di ciascuna di esse, cioè permettere il “riconoscimento” del monumento e delle sue parti, in tutti i periodi della sua esistenza, che ne hanno caratterizzato le funzioni e gli usi. In particolare
risulta fondamentale far riconoscere nel patrimonio architettonico su cui
si interviene, sia il valore storico, artistico e culturale del bene, sia il valore pratico che deriva dalla capacità di soddisfare le esigenze della contemporaneità.
La valorizzazione comprende tutte quelle azioni che hanno come scopo
essenziale quello di incrementare la fruizione del bene culturale. Un bene
si valorizza migliorandone la conoscenza, che non significa ripetere
l’azione di riconoscimento della tutela, ma mirare a divulgare le conoscenze acquisite attraverso l’incremento della fruizione. Fruire non significa
obbligatoriamente utilizzare i beni a fini economici ma significa essere
capaci di comprendere dall’oggetto la sua storia, rendere il bene culturale
capace di produrre “qualcosa” (anche semplicemente altra cultura, o un
miglioramento della qualità della vita urbana, cioè un ambiente creativo
ed innovativo in cui vivere), deve essere volano di generazione economica, sviluppare tutti quegli aspetti che non sono direttamente collegati al
bene in se stesso ma che ruotano intorno ad esso e riguardano comunque
la crescita economica dell’area in cui il bene è inserito.
L’iter metodologico del progetto di ricerca, portato avanti, può essere
essenzialmente ricondotto a tre fasi: analisi del territorio e di tutte le risorse presenti che possano essere utilizzate nella valorizzazione dell’area in
cui Pentedattilo è inserita; analisi SWOT (Strengths, Weaknesses,
Opportunities and Threats), per analizzare e valutare le caratteristiche del
territorio che offrono maggiori possibilità di essere valorizzate, di attrarre
risorse e di migliorare le condizioni di benessere sociale dei cittadini;
ideazione di strategie di valorizzazione e di ipotesi di gestione che possano creare i presupposti per la realizzazione di un intervento mirato al
miglioramento della qualità della vita nell’area.
Progetto di lavorazione di un centro storico: il caso Pentedattilo
153
2. Descrizione e analisi della situazione attuale del centro storico
Attualmente il paese di Pentedattilo si trova in uno stato di semi abbandono: le abitazioni, molte delle quali in stato di rudere, sono disabitate; i
pochi abitanti rimasti, dalla metà degli anni Sessanta, si sono trasferiti
sulla collina limitrofa creando un piccolo agglomerato di case che costituisce la parte nuova del paese. Il paese nuovo è, però, un “paese-dormitorio” privo di qualsiasi tipo di servizi.
La caratteristica principale di Pentedattilo è la pittoresca posizione: il
carattere insediativo dell’area risulta profondamente legato sia alle caratteristiche geomorfologiche del luogo, sia alle dinamiche demografiche e produttive esistenti; il paese è stato costruito sotto la protezione di una rupe, che rappresenta una delle più interessanti formazioni geologiche che costellano le
pendici dell’Aspromonte Jonico. Le abitazioni arroccate, sono accatastate
l’una sull’altra, in un insieme di tetti, stradine, scalinate e fitta vegetazione.
L’atmosfera di antico, il silenzio e la sensazione di solitudine, rendono
Pentedattilo ancora più attraente e misteriosa, in uno scenario a dir poco spettacolare con scorci di mare e di montagna, i ruderi del castello medievale, la
chiesa dei SS. Pietro e Paolo, le case costruite con materiali e tecnologie tradizionali, con la configurazione urbanistica rimasta inalterata, le due “fiumare” di Annà e Sant’Elia, elementi fondamentali della vita, della cultura e delle
tradizioni del paese, in modo particolare per il lavoro femminile.
Pentedattilo ricade all’interno di un’area di cultura “grecanica” formata da
12 comuni (Melito Porto Salvo, Montebello Jonico, Condofuri, Bova Marina,
Brancaleone, San Lorenzo, Palizzi, Roghudi, Bagaladi, Roccaforte del Greco,
Bova, Staiti) che sulla base della stessa matrice culturale hanno sviluppato tradizioni, arti e consuetudini con delle peculiarità e delle caratteristiche che le
rendono uniche; per questo motivo la protezione e la valorizzazione di questo
territorio può essere definita solo in una prospettiva globale tenendo conto che
l’intera area presenta una condizione di assoluta unicità ed eccezionalità relativamente alla persistenza della cultura e dell’idioma grecanico.
3. Obiettivi generali del progetto
– Tutela e valorizzazione del Centro Storico di Pentedattilo, delle emergenze storico-artistiche, delle zone di interesse storico-ambientale e dei caratteri architettonici della tradizione, molto fragili e spesso degradati;
154
Campolo
– Recupero e valorizzazione di alcuni edifici del centro storico di
Pentedattilo da adibire ad ospitalità diffusa;
– Sostegno di uno sviluppo integrato delle micro-attività economiche presenti sul territorio (artigianato tipico, produzioni agroalimentari, turismo rurale
e di prossimità, economia sociale) in una ottica di filiera territoriale;
– Promozione di uno sviluppo turistico sostenibile mirando alla diversificazione dell’offerta turistica (turismo culturale, storico, congressuale,
religioso, eno-gastronomico, balneare, ecologico, etnico), valorizzando
le emergenze storico testimoniali e naturalistico ambientali, le specificità tradizionali, produttive e gastronomiche, attraverso la creazione di
un’offerta ricettiva alternativa e di qualità in condizioni paesaggistiche
ed ambientali di particolare pregio;
– Creazione di percorsi didattico ambientali e storico testimoniali.
4. Strategie di intervento
– Sostenere il recupero (attraverso un Codice di pratica in corso di realizzazione), la qualificazione e la valorizzazione del borgo, intervenendo
su tutte le dimensioni del problema (recupero fisico dei luoghi e dei
manufatti, servizi per la popolazione, sviluppo di attività economiche).
– Tutelare e valorizzare l’ingente patrimonio culturale dell’Area
Grecanica sia come risorsa fondamentale per il potenziamento del
sistema locale di offerta turistica che come precondizione imprescindibile per il recupero dell’identità delle popolazioni locali (la cultura grecanica è una cultura prevalentemente orale). Si tratta di avviare, oltre
agli indispensabili interventi puntuali di recupero e tutela del patrimonio, interventi di valorizzazione innovativi capaci di mettere in rete le
varie risorse (es. modello dei Parchi Tematici) per aumentare la visibilità e le modalità di fruizione. Indispensabile e strategico è quindi il
ruolo della Popolazione e delle Associazioni locali che costituiscono
una parte fondamentale del patrimonio culturale dell’Area.
– Intervenire sulle nuove generazioni per ricostruire la frattura generazionale che ha portato alla costante perdita di una parte rilevante del rapporto con il territorio e con le proprie ‘radici’. Si tratta di intervenire
con progetti innovativi nelle scuole, nei centri sociali, e soprattutto
nelle famiglie, per ricostruire questi legami che costituiscono l’humus
indispensabile per riconoscere le possibilità di crescita sociale ed eco-
Progetto di lavorazione di un centro storico: il caso Pentedattilo
155
nomica dei singoli cittadini e più in generale delle comunità locali.
– Sostenere lo sviluppo integrato delle micro-attività economiche presenti
sul territorio intervenendo, oltre che puntualmente sulle singole iniziative
imprenditoriali, per realizzare reti di cooperazione tra imprese finalizzate
a migliorare la qualità dei prodotti/servizi, a rendere efficace l’interazione con il mercato (packaging, marketing e distribuzione dei prodotti), a
condividere e qualificare alcune fasi critiche e strategiche dei processi di
produzione (design, progettazione, certificazione, etc.).
5. Recupero del borgo
«Alla base di ogni ipotesi di intervento edilizio deve essere vagliata la
possibilità di effettuare operazioni di recupero e di rifunzionalizzazione
orientate al ri-uso dell’esistente, nel rispetto del valore semantico dei luoghi» (Carta di Megaride, 1994). Con questo modo di procedere si realizza più
di un obiettivo: si diffonde la cultura del recupero mettendo fine allo spreco
del territorio; si evita la distruzione di un bene collettivo; si restituisce dignità e decoro a luoghi che li avevano smarriti, favorendo il rispetto della natura del sito e dei suoi valori culturali. Si contribuisce in definitiva alla diffusione di un’accorta “cultura della trasformazione e del recupero” in alternativa
alla dissennata “cultura dell’espansione” che privilegia la logica del consumo
delle risorse culturali, insediative ed ambientali delle nostre città.
Promuovere la cultura della trasformazione e del recupero dell’esistente significa rispettare e valorizzare le vocazioni e le suscettività locali che
costituiscono un patrimonio da tutelare in tutti gli aspetti da quelli culturali a quelli economici.
L’assenza di vitalità produce degrado edilizio e alimenta, tra l’altro,
fenomeni di degrado sociale che possono innescare comportamenti delinquenziali che nel degrado urbano trovano un buon terreno di coltura.
6. Ipotesi di progetto
La piena valorizzazione dell’inestimabile patrimonio rappresentato dal
borgo di Pentedattilo è un obiettivo irrinunciabile per chi abbia consapevolezza del ruolo fondamentale che esso ha nella costituzione della identità nella comunità di Pentedattilo.
156
Campolo
Il progetto deve partire dal recupero del patrimonio culturale di Pentedattilo che è costituito sia da beni materiali che da beni immateriali.
L’ambiente è un territorio culturale dove ogni elemento è il segno di una
realtà storica. Lo studio dell’antico è una archeologia del presente, ed è
necessario il recupero di tutti i segni ed i messaggi del passato. Il borgo di
Pentedattilo va quindi inteso come se fosse un monumento, dove per
monumento si intende tutto ciò che l’uomo ha materialmente prodotto e si
definisce come un complesso di segni, forme, colori, volumi, che abbia un
significato compiuto per la civiltà che lo ha prodotto; è un testo non verbale, decodificabile con altri codici e secondo altre filologie, che devono
essere rese note a tutti. Il recupero di questi beni attraverso, il loro riconoscimento come documenti storici diretti ed involontari e il conseguente
riconoscimento del valore, è il processo che permette alla collettività di
ridare vita al monumento e di rilanciarlo nel futuro.
Il recupero ha come priorità assoluta quella di rendere il borgo abitabile in
modo che possa tornare ad “essere vissuto” dai suoi abitanti, si parla quindi
di “conservazione attiva” [3], cioè la possibilità di intervenire sull’edificio
con tutte quelle modifiche che possano permettere all’edificio di essere vissuto, ma sempre senza comprometterne l’essenza storica, la civiltà del
costruire che lo ha prodotto, il lessico costruttivo locale, la tecnologia tradizionale, le peculiarità tecnico-costruttive.
Il progetto prevede la ristrutturazione e la riqualificazione del centro storico e dell’ambiente circostante nonché la pavimentazione delle sue vie e
piazze; inoltre sono previsti lavori di consolidamento della rupe, in particolare delle zone dove sono riscontrabili elevati rischi di crollo, e lavori per la
realizzazione di rete telefonica, di alimentazione elettrica, di illuminazione
pubblica, della rete fognaria.
Il borgo sarà costituito da percorsi, zone di sosta e aree panoramiche, e
sarà disseminato di punti dai quali accedere e da stele informative e segnaletiche. I percorsi saranno tracciati tenendo presenti in primo luogo i tradizionali tragitti della devozione religiosa, nonché i luoghi di incontro e di aggregazione sociale, le cui aree, in particolare quelle adiacenti ai beni storici e
architettonici, verranno sistemate e fornite di adeguati pannelli informativi.
Dovranno essere previsti dei sentieri naturalistici, in particolare nelle
vicinanze della rocca e lungo le fiumare di Annà e S. Elia, dove si potrà
ammirare e contemplare la sola natura con tutte le sue qualità di piante e
fiori. Il progetto tende a riportare in auge le testimonianze del passato, le
antiche tradizioni popolari e locali e, soprattutto, vuole riscoprire e con-
Progetto di lavorazione di un centro storico: il caso Pentedattilo
157
servare il paesaggio naturale tramite accorti lavori di salvaguardia, di
bonifica, potatura, reimpianto di specie arboree e arbustive al fine di creare una fonte sempre viva di conoscenza.
Fondamentale l’illuminazione del paese e della rocca: perché la luce è
l’elemento fondamentale che consente di mettere in rilievo i dettagli architettonici: la luce diventa scenografia, ornamento ed architettura mobile,
sotto questo aspetto, infatti, l’illuminazione pubblica non viene più colta
solo nel suo aspetto funzionale, ma anche come scenografia notturna. Per
l’illuminazione pubblica come per tutti gli altri impianti a rete, l’idea portante è quella di ridurre al minimo i cavi aerei e sulle pareti esterne degli
edifici, in modo da liberarle così da elementi che nulla hanno a che vedere con la struttura architettonica e urbanistica di un borgo.
Cercare di definire delle ipotesi di destinazione d’uso, finalizzate alla
valorizzazione del borgo, significa cercare di comprendere con la massima precisione possibile, attraverso gli studi che se ne sono fatti, le vicende che lo hanno caratterizzato nel tempo, ed in particolare le genesi delle
sue attuali conformazioni, le intenzioni che hanno presieduto alla sua trasformazione, le funzioni che gli sono state assegnate dalla cultura che le
ha vissute e utilizzate.
Le soluzioni proposte dal progetto di valorizzazione del Borgo hanno
come obiettivo primario la necessità di armonizzare le attività che l’Associazione Pro-Pentedattilo e le istituzioni locali portano avanti già da vari
anni all’interno del paese, cercando di utilizzare tutte le risorse presenti e
tenendo conto delle possibili destinazioni d’uso degli edifici:
– Parco Letterario, Pentedattilo è stato meta, sin dai secoli scorsi, di
numerosi personaggi che attratti dalla sua bellezza paesaggistica e dalle
sue peculiarità culturali hanno scritto, disegnato o dipinto l’antico
borgo. I più importanti sono stati Edward Lear, Henry Swuinburne,
Mauritius Cornelius Escher. Nella chiesa dittereale dei SS. Pietro e
Paolo di Pentedattilo, inoltre, ha prestato il suo servizio religioso dal
1904 al 1921 anche Padre Gaetano Catanoso dichiarato Santo il 23
ottobre 2005. L’obiettivo del progetto è quello di creare degli ambienti
didattico-museali che possano valorizzare questi personaggi che dal
punto di vista del turismo culturale potrebbero attrarre un ulteriore target di visitatori, diversificando l’offerta turistica della Provincia di
Reggio Calabria che è prettamente balneare.
– Parco Naturale, La rocca del borgo rappresenta una tra le più interessanti formazioni geologiche che, determinate da secolari processi ero-
158
Campolo
sivi, costellano le pendici aspromontane della costa ionica. Arroccate
sotto la protezione della grande rupe vi sono le abitazioni, molte delle
quali disabitate, accostate ai ruderi, il tutto intessuto da una fitta vegetazione. L’eccezionale rapporto tra le abitazioni ed il verde circostante
rende il borgo uno dei luoghi più suggestivi dal punto di vista paesaggistico. Da una recente ricerca sulla flora di Pentedattilo è stata riscontrata una elevata presenza di specie endemiche: queste piante, adattatesi alle condizioni ambientali particolari, al clima secco con temperature medie elevate, al substrato roccioso, sferzato dalle piogge e dai venti,
hanno contribuito a rendere questo microcosmo vegetale di grande
interesse ecologico. Il progetto mira alla realizzazione di un Geosito
che possa valorizzare le risorse naturalistiche e paesaggistiche del
borgo e dell’area (contigua al Parco Nazionale d’Aspromonte) attraverso una educazione al rispetto dell’Ambiente.
– Parco Scientifico e Tecnologico, Il Borgo di Pentedattilo proprio a
causa dell’abbandono alla fine degli anni ‘60 presenta delle caratteristiche uniche per quanto riguarda l’impianto urbano, le tecniche costruttive e l’uso dei materiali tradizionali. Per valorizzare il patrimonio
architettonico e “l’arte del costruire” dell’area grecanica sia dal punto
di vista tecnico che antropologico, basterebbe intendere l’intero abitato come se fosse un museo a cielo aperto con percorsi didattici all’interno dell’abitato che possano mettere in evidenza gli aspetti architettonici più rilevanti. La realizzazione di un parco scientifico e tecnologico darebbe forte impulso alla diffusione sul territorio di ulteriori iniziative culturali, con conseguente miglioramento delle condizioni
sociali e aumento della qualità della vita; consentirebbe il recupero e la
valorizzazione del patrimonio storico architettonico dell’area grecanica; innescherebbe un meccanismo di rivitalizzazione economica, al
momento completamente inesistente. Il parco scientifico ha anche
l’obiettivo primario di diventare polo culturale nel campo della ricerca
e della sperimentazione per quanto riguarda il recupero, la conservazione e la valorizzazione dei Centri storici.
– Parco Arti e Mestieri, La realizzazione di questo parco prevede la realizzazione di un teatro all’aperto vicino all’abitato di Pentedattilo Nuovo (in
costruzione) e di cinque laboratori didattico-museali, realizzati in cinque
edifici del borgo antico restaurati, su antichi mestieri del borgo e dell’area
grecanica (ceramica, tessitura, realizzazione di strumenti musicali, estrazione del bergamotto, pittura e scultura). Obiettivo primario di questo
Progetto di lavorazione di un centro storico: il caso Pentedattilo
159
parco sarà la promozione del paese e della cultura grecanica attraverso la
realizzazione di eventi culturali e spettacoli teatrali.
– Parco Diritti Umani, Pentedattilo nel 1994 nasce come “Centro internazionale del dialogo tra i popoli” e ogni anno ospita gruppi di volontari,
provenienti da tutta Europa, che lavorano insieme agli abitanti al recupero del Paese abbandonato e si confrontano con la cultura calabrese. Lo
scopo è quello di far recuperare il Borgo dagli stessi abitanti di
Pentedattilo, perché solo sviluppando il loro senso di identità, attraverso un maggiore interesse per le loro tradizioni ed il loro passato, è possibile educare ad uno sviluppo sostenibile dell’area, ad abbandonare la
“mentalità dell’attesa”, a far capire loro che solo riappropriandosi della
voglia di vivere a Pentedattilo è possibile recuperare il paese e recuperare la loro dignità di cittadini.
L’idea portante è quella di realizzare attività specifiche di educazione
alla legalità e alla cittadinanza attiva per poter intervenire sul carente
“capitale sociale” dell’area.
L’obiettivo è quello di far diventare il Borgo un centro culturale sulla
formazione sui Diritti Umani e sull’educazione “non-formale”.
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E. Mollica, M. Musolino, «Pagine di Estimo- metodi e strumenti di valutazione
applicati alla conservazione ambientale e culturale», Quaderni PAU, Gangemi
Editore, Reggio Calabria, 1999.
160
IL BIODETERIORAMENTO DELLA CRIPTA DEL PECCATO ORIGINALE
NELLA GRAVINA DI MATERA E LA SUA ANALISI ECOLOGICA PER IL
BIOMONITORAGGIO DEI PARAMETRI AMBIENTALI
CANEVA G. (1), PACINI A. (1), NUGARI M.P. (2), PIETRINI A.M. (2)
(1) Dipartimento Biologia, Università Roma tre Viale Marconi, 446 –00146 - Roma Tel. 06
55176324, Fax. 06 55176321, [email protected] [email protected]
(2) Lab. Ind. Biologiche, Istituto Centrale Restauro Piazza S. Francesco di Paola 9- 00184 - Roma, Tel
06 48896410, Fax. 06 4815704, [email protected], [email protected]
1. Introduzione
È ben noto che la peculiare collocazione ambientale delle chiese rupestri
determina molteplici problemi conservativi spesso ricollegabili agli effetti
dell’elevata umidità, particolarmente rilevante se si determinano fenomeni
d’infiltrazione d’acqua o di ombreggiamento dovuto alla rigogliosa crescita
della vegetazione. Altrettanto critici possono essere l’irraggiamento solare
diretto sulle pitture o i valori bassi delle temperature, pericolosi a causa del
loro effetto sull’umidità relativa o per eventuali fenomeni di gelività in climi
freddi o in stagioni invernali. Se gli ambienti rupestri presentano una vasta
estensione, al loro interno si riscontra una eterogeneità dei valori microambientali che si modificano fortemente in relazione alla distanza esistente con
l’esterno. Procedendo verso l’interno, la luce naturale diminuisce gradualmente, così come l’aerazione e la ventilazione, mentre i valori di umidità
divengono più costanti e generalmente aumentano [1].
Ulteriori fenomeni degradativi possono essere indotti in questi contesti
da processi di natura chimica, riconducibili soprattutto all’eventuale cristallizzazione in superficie di sali provenienti dalla terra o dalla roccia
(solfatazione, carbonatazione etc.). Normalmente trascurabili, invece, i
fenomeni legati alla presenza di inquinanti dell’aria, per il contesto rurale
che normalmente veicola un minor numero di gas e di particelle chimiche
aerodiffuse potenzialmente pericolose.
Il biotedeterioramento della cripta del Peccato Originale nella gravina di Matera 161
Infine a questi agenti di alterazione se ne aggiungono spesso altri di
natura biologica, collegati in particolar modo allo sviluppo di alghe e cianobatteri o attinomiceti e funghi, se presente un sufficiente apporto di
sostanze organiche [2-6]. Ai danni indotti dalle colonizzazioni della
microflora si possono sommare spesso anche quelli dovuti alla vegetazione esterna che può causare, tramite gli apparati radicali, fratture della roccia con incremento delle infiltrazioni d’acqua piovana, e che può determinare anche un maggiore ombreggiamento, con modificazioni sensibili
delle condizioni microclimatiche interne.
Nella gravina materana, formata da imponenti banchi di calcarenite con
valori porosimetrici differenziali in funzione della tipologia dei sedimenti, esistono importanti esempi della civiltà rupestre che ha caratterizzato
per numerosi secoli diverse aree del Mediterraneo.
Nell’ambito di un progetto di studio sulla conservazione degli affreschi
della Cripta del Peccato Originale, che costituisce uno dei cicli pittorici
tardo-medievali più importanti dell’Italia meridionale, promosso dall’associazione Zetema con il coordinamento scientifico dell’Istituto Centrale
per il Restauro, è stata quindi analizzata la colonizzazione biologica diffusamente presente sugli affreschi.
Lo studio è stato finalizzato all’individuazione del ruolo della microflora nel biodeterioramento dei dipinti e al suo potenziale uso come bioindicatore di parametri ambientali significativi ai fini conservativi, con l’obiettivo di predisporre un progetto pilota di studio e di intervento che fosse
estrapolabile ed applicabile alle estese realtà presenti sul territorio.
2. Materiali e metodi
Lo studio delle alterazioni biologiche ha previsto dapprima un’osservazione attenta e ravvicinata delle superfici, volta ad individuare tutte le diverse
forme di alterazione legate alla crescita di microrganismi ed a raggrupparle
in tipologie omogenee. È seguito quindi un capillare campionamento di tutti
i popolamenti microbici all’apparenza omogenei, effettuato sulla base delle
diverse morfologie di degrado, al fine dell’identificazione dei microrganismi
campionati e della definizione delle loro caratteristiche ecologiche (v. Fig. 1).
Per l’analisi della microflora fotoautotrofa sono state compiute osservazioni
al microscopio ottico in luce trasmessa, sia su materiale fresco sia su colture
di arricchimento, per successiva inoculazione su un terreno colturale liquido
162
Caneva, Pacini, Nugari, Pietrini
(BG-11) secondo le procedure UNI-Normal 9/88 [7]. Questa doppia valutazione è stata eseguita per evitare di avere informazioni errate sulla composizione delle comunità presenti. La determinazione delle specie algali è stata
effettuata, utilizzando diverse monografie specialistiche [8-11], nonché alcuni aggiornamenti sulla tassonomia, relativi ad alcuni gruppi di cianobatteri
[12]. La stima semi-quantitativa dei taxa identificati è stata effettuata valutando al microscopio le presenze percentuali delle diverse specie in ciascuno dei
preparati allestiti, sia dal materiale campionato sia dalle colture microbiologiche. Per ottenere un valore statisticamente attendibile, il conteggio degli
organismi è stato effettuato esaminando 10 campi ottici, lungo due diagonali, per ciascun vetrino.
Per la determinazione della microflora eterotrofa, i campioni prelevati sono
stati utilizzati sia per osservazioni al microscopio ottico sia per allestire colture utilizzando i terreni Mycological Agar per i funghi, Plate Count Agar per i
batteri eterotrofi e Actinomycetes Isolation Agar per gli Attinomiceti, sulla
base delle normative Normal 9/88 [7]. La lettura delle colture è stata effettuata dopo incubazione a 28°C in ambiente aerobico, a 3 e 7 giorni per i batteri,
a 7 e 14 giorni per i funghi e a 7, 14 e 21 giorni per gli Attinomiceti.
3. Risultati
3.1 Caratterizzazione dei biodeteriogeni
La maggior parte dei fenomeni alterativi individuati nella fase di campionamento sono risultati associati a varie forme di colonizzazione biolo-
Fig. 1. Ubicazione dei campionamenti sulla parete B della Cripta del Peccato Originale.
Il biotedeterioramento della cripta del Peccato Originale nella gravina di Matera
163
gica. Come in altri contesti rupicoli [13-14], le analisi microscopiche e
colturali hanno mostrato una chiara dominanza degli organismi fotoautotrofi ed in particolare dei cianobatteri (Chlorogloea microcystoides
Geitler, Chroococcus lithophilus Ercegovic, Gloeocapsa biformis
Ercegovic, Gloeocapsa kuetzingiana Naegeli, Gloeocapsa rupestris
Kützing, Gloeothece rupestris (Lyng.) Bornet, Myxosarcina dubia
Ercegovic) e delle Chlorophyceae (Apatococcus lobatus (Chod.) Boye
Petersen, Chlorella vulgaris Beijerinck, Chlorococcum sp., Muriella terrestris Petersen). Ruolo subordinato è invece quello dei licheni e di altri
organismi vegetali. Poco diffusi sono risultati i licheni (Dirina massiliensis forma sorediata, Caloplaca xantholyta) e le piante vascolari, rappresentate dalla sola felce Adiantum capillus-veneris. Molto sporadica è risultata la colonizzazione di eterotrofi, isolati da alcune efflorescenze biancastre (Streptomyces sp.), mentre risulta ancora da chiarire la presenza di
forme presumibilmente batteriche associate ad alcune tipiche alterazioni
diffuse sugli affreschi. Assenti i microfunghi.
Il confronto tra i microrganismi rinvenuti nei diversi campioni ha
mostrato una sostanziale corrispondenza floristica nell’ambito di una stessa tipologia d’alterazione, spiegabile con le analoghe caratteristiche del
substrato e dei fattori microclimatici (vedi Tab. 1).
– le patine verde scuro (alterazione 1) già al momento del prelievo non
presentavano in tutti i punti le medesime caratteristiche di consistenza.
Le analisi hanno messo in evidenza una netta dominanza di cianobatteri dei generi Gloeocapsa e Chlorogloea, nei campioni prelevati dove la
patina si presentava più dura ed aderente al substrato, ed un insediamento preferenziale di Cloroficee nelle zone dove la patina si manifestava morbida. Talvolta le alghe verdi, appartenenti ai generi
Chlorococcum e Muriella, erano associate a protonemi di muschi e
frammenti di licheni. Come si osserverà in seguito, queste differenze
nella composizione del popolamento microbico potrebbero essere
messe in relazione ad un diverso tenore idrico del substrato.
– le patine di colore nero opaco e aspetto fuligginoso (alterazione 2)
si presentavano invece molto uniformi in tutti i campioni esaminati. Il
popolamento microbico era rappresentato esclusivamente da cianobatteri e predominavano nettamente alcune specie del genere Gloeocapsa
(G. biformis, G. kuetzingiana e G.rupestris), cui si associava
Chlorogloea mycrocistoides. In natura, questo tipo di popolamento è
stato rinvenuto frequentemente su superfici rocciose dove formava
Caneva, Pacini, Nugari, Pietrini
164
Taxa identificati
Patine verde
scuro
Alteraz.1
Patine nere
2
2
2
Patine
verde
brillante
Alteraz.4
4 4 4
+
+
+
+
Alteraz.2
1
1
1
1
+
+
+
+
2
Patine
Brune
Alteraz.5
4
+
5
5
+
+
5
5
CYANOBACTERIA
Chlorogloea
microcystoides Geitler
Chroococcus
lithophilus Ercegovic
Gloeocapsa biformis
Ercegovic
Gloeocapsa
kuetzingiana Naeg.
Gloeocapsa rupestris
Kuetz
Gloeothece rupestris
(Lyng.) Born.
Myxosarcina dubia
Ercegovic
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
CHLOROPHYCEAE
Apatococcus lobatus
(Chod.) Boye Petersen
Chlorella vulgaris
Beijerinck
Chlorococcum sp.
Muriella terrestris
Petersen
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
Tab. 1
caratteristiche incrostazioni nere note come “Tintenstriche”. Talvolta
nelle colture di arricchimento è stata evidenziata la presenza sporadica
di alcune alghe verdi appartenenti al genere Chlorococcum.
– le patine di colore rosa (alterazione 3) non hanno mostrato evidente
presenza di fenomeni di alterazione biologica, non essendosi rilevate
forme di crescita né nei vetrini allestiti a fresco, né nelle colture eseguite con i terreni selettivi. L’interpretazione di questa peculiare forma di
alterazione sarà oggetto di ulteriori approfondimenti con metodi istochimici e biomolecolari.
– le patina di colore verde brillante (alterazione 4) sono risultate formate da un cospicuo numero di alghe verdi (Chlorophyceae), appartenenti
principalmente al genere Chlorococcum e, in minor misura, alle specie
Il biotedeterioramento della cripta del Peccato Originale nella gravina di Matera
165
Muriella terrestris, Apatococcus lobatus e Chlorella vulgaris. I cianobatteri, poco rappresentati, appartenevano alle specie Chlorogloea microcystoides, Gloeocapsa rupestris e Chroococcus lithophilus. Nei campioni
erano presenti numerose forme di resistenza e molti individui in cattivo
stato di vitalità.
– le patine brune (alterazione 5) mostravano concordemente la presenza di
una biocenosi in cui le forme dominanti erano rappresentate da cianobatteri appartenenti a diverse specie di Gloeocapsa; altri generi, rinvenuti più
sporadicamente, sono stati Myxosarcina e Gloeothece, fra i cianobatteri, e
Apatococcus e Muriella, nell’ambito delle alghe verdi. Sporadicamente, in
campioni prelevati in prossimità del suolo, sono stati riscontrati numerosi
frammenti di talli lichenici e alcuni protonemi di muschi.
3.2 Analisi ecologica per la valutazione dell’uso dei biodeteriogeni come
bioindicatori
Tale indagine ha previsto in via preliminare una valutazione del grado
di affinità delle specie e dei siti di campionamento utilizzando le usuali
procedure di analisi multivariata su dati matriciali, basate sui valori di presenza-assenza e copertura rilevati (vedi Tab. 1), compiute tramite i programmi di cluster analysis di Willdi Orloci [15]. Dal punto di vista ecologico il principale fattore limitante e condizionante la distribuzione delle
patine è risultato essere l’acqua e tale stretto legame ha permesso di utilizzare questa informazione per mappare i diversi gradienti di umidità presenti sulle pareti e alle varie altezze. Infatti associando alle tipologie di
alterazione censite, la composizione floristica corrispondente e la conseguente affinità per l’acqua, è stato possibile utilizzarle come bioindicatori dei differenti valori idrici del substrato (v. Fig. 2).
Analogamente la distribuzione dei licheni è utilizzabile come bioindicatore di un diverso grado di ventilazione all’interno della grotta.
Di più critica interpretazione è l’analisi della distribuzione delle colonizzazioni batteriche, in relazione alla più difficile interpretazione nella fenomenologia dell’alterazione, del loro habitus talvolta endolitico e della crescita in
condizioni artificiali, spesso ristretta solo ad idonei terreni di coltura.
Significativa è risultata essere anche la diversa porosità del substrato
(stratigrafia dei banchi di calcarenite), mentre le variazioni locali di illuminazione, che non assumevano gradienti rilevanti, sono risultate poco
condizionanti la crescita della microflora fotosintetizzante.
166
Caneva, Pacini, Nugari, Pietrini
4. Conclusioni
La diversa distribuzione dei microorganismi presenti sulle pitture appare correlata a gradienti edafici e microclimatici. Prevalente è risultata la
microflora fotoautotrofa e, nell’ambito di questa, la dominanza dei cianobatteri appare evidente nelle situazioni meno igrofile, mentre le alghe
verdi appaiono correlate a valori idrici più elevati. La resistenza dei cianobatteri, in particolare delle forme coccali, può essere spiegata con il tipo
di metabolismo che consente loro di passare rapidamente dallo stadio
vegetativo a quello di riposo quando la roccia si dissecca, ed entrare nuovamente in una fase attiva, in condizioni idriche favorevoli.
Ai fini conservativi le informazioni raccolte non solo hanno permesso
di meglio calibrare alcuni interventi sull’ambiente, per migliorare le condizioni conservative dei manufatti, ma l’analisi della presenza e della
penetrazione delle alghe in profondità ha evidenziato l’importanza di trattamenti di disinfezione.
Come sottolineato in letteratura [16], tali interventi non solo permetteranno una maggiore leggibilità degli affreschi, ma anche di migliorare le
condizioni conservative del sito.
Fig. 2. In alto: mappatura
della distribuzione delle
diverse forme di alterazione (vedi testo) e in basso:
associazione con i valori
di preferenzialità per l’acqua mostrati in scala cromatica decrescente.
Il biotedeterioramento della cripta del Peccato Originale nella gravina di Matera
167
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Scientia publishing, Budapest, 1995.
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Caneva, Pacini, Nugari, Pietrini
16. M.P. Nugari, A.M Pietrini., «Chiese, cripte ed ambienti ipogei», In La prevenzione
del biodeterioramento. Cap. VII. La Biologia Vegetale per i Beni Culturali.
Biodeterioramento e Conservazione, G. Caneva, M.P. Nugari e O. Salvadori (eds.)
Nardini Editore, Firenze, 2005, 282-286.
169
L’APPARECCHIATURA TECNICO-COSTRUTTIVA
DELLA CHIESA DI SAN NICOLÒ L’ARENA (CT)*
CAPONETTO R., CHISARI W., GULISANO G., LO FARO A., MARGANI G.,
MOSCHELLA A., NAPOLEONE A., SANFILIPPO G., SAPIENZA V.
Osservatorio della Patologie Edilizie, D.A.U., Facoltà di Ingegneria, Università di Catania.
L’individuazione della natura dei materiali base e delle tecniche costruttive adoperate per la realizzazione degli edifici tradizionali, ovvero il riconoscimento del corpus della fabbrica, costituisce una fase fondamentale
dell’iter metodologico per il progetto di restauro in quanto orienta le scelte
connesse ai successivi interventi. Allo stesso modo la comprensione del
sistema costruttivo agevola l’individuazione di eventuali meccanismi di
dissesto in atto.
Nel caso di studio della chiesa di San Nicolò l’Arena, il riconoscimento del corpus è stato espletato mediante specifiche ispezioni in situ, sia
visive che strumentali. I risultati sono stati quindi localizzati in apposite
mappe tematiche.
La lettura tecnico-costruttiva dell’edificio è stata arricchita anche dalle
notizie tratte dalle fonti archivistiche. In particolare hanno fornito una
ricca messe di informazioni i documenti contenenti i conti di spesa per i
lavori di costruzione e riparazione della fabbrica del monastero dei
Benedettini e della chiesa annessa. Tali documenti sono stati di supporto
soprattutto per l’individuazione del materiale lapideo di facciata e per il
riconoscimento delle modalità di posa in opera.
Ulteriori indagini strumentali hanno inoltre rivelato le caratteristiche
costruttive delle sistema voltato, delle chiusure orizzontali di copertura,
delle chiusure verticali d’ambito e del sistema costituito dal tamburo,
cupola e lanternino.
* Lavoro realizzato nell’ambito del progetto «Il recupero e la valorizzazione del patrimonio
architettonico della Sicilia orientale: l’emergenza architettonica urbana e l’edilizia rurale.
Conoscenza, interventi e formazione» (T3 CLUSTER C 29), finanziato dal Ministero
dell’Università e della Ricerca Scientifica
170
REPERTORIO DELLE TECNICHE COSTRUTTIVE NEGLI EDIFICI RURALI
TRADIZIONALI NEL COMPRENSORIO ETNEO
CASCONE S. M. (1), PORTO S. M. C. (2)
(1) Università degli Studi di Catania, Dipartimento di Architettura e Urbanistica
Viale A. Doria n. 6, 95125, Catania, tel. 095 7382509, fax 095 33030
(2) Università degli Studi di Catania, Dipartimento di Ingegneria Agraria, Sezione Costruzioni e
Territorio via S. Sofia 100, 95125 Catania, tel 095 7147587, fax 095 7147605
La conoscenza delle caratteristiche costruttive di un qualunque patrimonio architettonico è condizione indispensabile per poter intraprendere
azioni volte al recupero conservativo dei singoli edifici.
Riconoscendo alle fabbriche tradizionali presenti nelle campagne del
comprensorio etneo valenza storica, paesaggistica ed architettonica si è ritenuto indispensabile procedere a studi e ricerche che potessero costituire fondamento per politiche e modalità di recupero compatibili con l’esistente ed
in grado di preservare i predetti valori intrinseci negli organismi edilizi.
Il presente lavoro è stato pertanto finalizzato allo studio delle tecniche
costruttive dei fabbricati rurali attraverso la redazione di schede grafiche
illustrative dei componenti e dei materiali tipici della tradizione etnea.
Operando in un’area di vasta estensione in cui trovano posto una varietà di tipi edilizi la ricerca ha richiesto l’esame di numerosi fabbricati in
modo da poter costruire un repertorio alquanto esaustivo delle tecniche
realizzative dei singoli componenti edilizi e dei materiali in opera.
L’individuazione dei casi da rappresentare ha tenuto conto dell’opportunità di illustrare anche alcuni elementi architettonici in cui risulta leggibile la
persistenza di modi e di soluzioni stilistiche ricorrenti nell’area di indagine.
L’attenzione posta al materiale da costruzione più diffuso, la pietra lavica, ha stimolato riflessioni su come la sua disponibilità in sito ha generato tecniche costruttive nelle sue differenti caratteristiche di lavorabilità, di
resistenza e di grana.
171
INDIVIDUAZIONE DEI DECADIMENTI CAUSATI DAI BIODETERIOGENI
ALGALI NELL’INVOLUCRO ESTERNO DELLA CHIESA DI S. NICOLÒ
L’ARENA (CATANIA, MONASTERO DEI BENEDETTINI)
CATRA M., GIACCONE G., PEZZINO A.
Dipartimento di Botanica, Università degli Studi di Catania,
Via A. Longo, 19, Catani,. tel. 095507490.
1. Introduzione
La ricerca si propone l’individuazione dei microambienti definiti dalla
presenza e dalla distribuzione dei biodeteriogeni algali responsabili del
decadimento dei materiali lapidei della fabbrica esterna della Chiesa di S.
Nicolò L’Arena, annessa al Monastero dei Benedettini di Catania.
Le alghe che si possono insediare sulle opere d’arte, ed in particolare
sui manufatti lapidei, appartengono principalmente ad alcune divisioni
sistematiche di due taxa: i Procarioti (Cyanophyta o Cyanobacteria) e gli
Eucarioti (Bacillariophyta, Chlorophyta, Chrysophyta e Xantophyceae).
[1]. Questi organismi, per la maggior parte fotoautotrofi, necessitano di
ambienti umidi per svolgere le proprie attività metaboliche, condizione
che si realizza assai facilmente sui monumenti e sui manufatti lapidei sui
quali questi organismi si insediano, provocando non solo danni meramente estetici, ma in alcuni casi inducendo modificazioni chimico - fisiche nel
substrato originario.
I risultati della ricerca sono documentati in elenchi di specie, in tabelle con i dati quantitativi per gruppi tassonomici e in quattro tavole di
distribuzione quali – quantitativa dei biodeteriogeni algali sui siti campionati che individuano ambienti caratterizzati da differenti qualità di stato
ecologico [2].
* Lavoro realizzato nell’ambito del progetto «Il recupero e la valorizzazione del patrimonio
architettonico della Sicilia orientale: l’emergenza architettonica urbana e l’edilizia rurale.
Conoscenza, interventi e formazione» (T3 CLUSTER C 29), finanziato dal Ministero
dell’Università e della Ricerca Scientifica
172
Catra, Giaccone, Pezzino
La ricerca è stata condotta e finanziata nell’ambito del Progetto Cluster
C29/W1 «Il recupero e la valorizzazione del patrimonio architettonico della
Sicilia orientale: l’emergenza architettonica urbana e l’edilizia rurale.
Conoscenza, interventi e formazione». Attività 10: Biodeteriogeni algali
(responsabile Prof. Giuseppe Giaccone), in collaborazione con i laboratori
di ricerca che afferiscono al C.R.I.Be.C.U.M. dell’Università degli Studi di
Catania.
2. Materiali e metodi
L’opera d’arte oggetto di questo studio è la fabbrica esterna della
Chiesa barocca di San Nicolò L’Arena, annessa al Monastero dei Benedettini. La facciata e la cupola di questa opera monumentale sono rivestite da lastre e altri manufatti in pietra calcarenitica porosa di provenienza da cave dei Monti Iblei.
I protocolli di prelievo utilizzati per l’individuazione dello stato di decadimento delle superfici esterne della fabbrica ad opera dei biodeteriogeni
algali, utilizzano metodologie non distruttive di campionamento nel sito ed
analisi in laboratorio, finalizzate all’identificazione sia degli organismi algali sia della loro specifica azione deteriogena [5]. Il campionamento, effettuato durante la stagione estiva e ripetuto in quella autunnale, ha interessato 86
siti distribuiti tra la cupola, comprendente il torrino, il camminamento intermedio e quello di base e la facciata, includente invece le finestre, le porte, le
colonne ed il basamento (Fig.1). Le absidi, prive di rivestimento in manufatti lapidei calcarei, non si prestano a significativi insediamenti di alghe e di
licheni per cui non sono state oggetto di campionamento. La cupola, che è
stata sottoposta a pulitura idromeccanica negli anni ottanta, presenta una
superficie irregolare ed instabile che non ha consentito invece l’insediamento degli organismi algali.
Nella fase di campionamento nel sito, il materiale di alterazione visivamente apprezzato e documentato con foto a colori, inserite nelle tavole
elaborate, è stato prelevato utilizzando tamponi umidi o una punta di
bisturi. Il campione prelevato, numerato con lo stesso numero di riferimento indicato sulla mappa georeferenziata della fabbrica è stato conservato in una provetta sterile e portato in laboratorio per essere analizzato a
vivo nell’arco delle 48 ore.
La determinazione tassonomica degli organismi algali è stata realizzata
Individuazione dei decadimenti nell’involucro esterno
della Chiesa di S. Nicolò L’Arena (CT)
173
al microscopio ottico a luce trasmessa, munito di micrometri oculari, di
contrasto di fase e di apparato fotografico. In questo modo, è stato possibile produrre una documentazione fotografica che si è rivelata indispensabile
nella realizzazione di una guida di identificazione e di riconoscimento dei
principali Cyanobatteri responsabili del degrado dei manufatti lapidei [4].
L’azione deteriogena degli organismi algali individuati è stata invece
determinata con osservazioni allo stereomicroscopio a luce riflessa ed al
Microscopio Elettronico a Scansione (S. E. M.). I vari taxa diagnosticati sono
stati infine caratterizzati in base alla loro valenza ecologica (indicatori
ambientali) ed alla specifica azione deteriogena sul substrato campionato.
3. Risultati
La ricerca ha portato all’individuazione di 33 biodeteriogeni algali,
censiti tassonomicamente (Chlorophyta, Cyanophyta, Xantophyta) caratterizzati sia per la loro specifica azione deteriogena (ricoprimento, corrosione e perforazione) sia per la loro capacità di indicatori della qualità dell’ambiente (in equilibrio, eutrofico per la presenza di componente organi-
Fig. 1. Mappatura dei siti campionati e dei microambienti individuati caratterizzati da
differente qualità di stato ecologico.
174
Catra, Giaccone, Pezzino
ca, soggetto all’azione del vento salso dal mare, soggetto all’inquinamento da traffico urbano). Questi dati sono indicati nelle tabelle di seguito
riportate, nelle quali è indicata anche la frequenza del ritrovamento dell’organismo algale nel sito considerato (Tab. 1-2-3). L’analisi delle tabelle, riportanti i dati quantitativi relativi alle percentuali di frequenza delle
specie algali riscontrate, ha consentito l’elaborazione di quattro tavole1 di
distribuzione quali-quantitativa dei biodeteriogeni algali sulle diverse
componenti dell’involucro esterno della fabbrica e di una tavola, nella
quale sono indicati i microambienti, individuati in relazione alle specie
riscontrate e caratterizzati da differente stato ecologico. Quest’ultima
tavola è in parte riprodotta e rielaborata nella figura 1 presente nel testo.
Nella fase preliminare di caratterizzazione ecologica dei deteriogeni
algali rinvenuti sulla fabbrica, sono state rilevate specie eurivalenti, specie
tiotermofile, specie alofile e specie tionitrofile. Le prime sono diffuse
ovunque su tutta la fabbrica, le altre occupano microambienti caratterizzati rispettivamente da fenomeni esergonici di solfatazione dei calcari (specie tiotermofile), da esposizione al vento salso che spira dal mare (specie
alofile) e da inquinamento organico ad opera di uccelli e di roditori (specie tionitrofile). Per quanto concerne l’azione deteriogena sul substrato, la
maggior parte delle alghe individuate ha un effetto ricoprente; si tratta di
specie epilitiche e fotofile che agiscono a livello superficiale, formano
patine sottili, ma senza alterare la superficie litica sottostante; quando formano croste nere, nei siti in corrispondenza di percolamento di acqua piovana, nei lati esposti a forte insolazione, causano differenti dilatazioni nei
materiali lapidei con conseguente fratturazione.
Una parte consistente (15 specie) delle specie epilitiche e fotofile evidenzia un effetto corrodente, spesso favorito dall’azione delle ife fungine
dei consorzi lichenici nei quali costituisce la componente ficobionte.
L’effetto corrodente, visibile al binoculare o con una lente d’ingrandimento, è evidenziato dalla superficie coperta da scialbatura e leggermente
infossata. L’infossamento spesso corrisponde alla geometria delle colonie
algali o dei licheni insediati (v. Tab. 1).
1 Le tavole relative al degrado nelle singole componenti della fabbrica e le tabelle
delle quali si parla nel presente paragrafo e non riportate nel lavoro, sono state esposte
nei poster presentati in occasione del Workshop “L’approccio multidisciplinare allo studio ed alla valorizzazione dei Beni Culturali”, Siracusa 28-29 ottobre 2005.
Individuazione dei decadimenti nell’involucro esterno
della Chiesa di S. Nicolò L’Arena (CT)
175
Cyanophyta
Specie
Azione
Torrino
Camm. int.
Camm. base
Anacystis cianea
R
+
+
++
Anacystis dimidiata
R
+
Anacystis thermalis
C
+
Calothrix parietina
C
++
Clastidium setigerum
P
+
+
Coccochloris aeruginosa
R
+
+
Enthophysalis rivularis
P
Loefgrenia anomala
C
+
Oscillatoria lutea
C
+
Porphyrosiphon notarisii
R
+
Stigonema muscicola
R
+
+
+
Chlorophyta
Specie
Azione
Torrino
Camm. int.
Camm. base
Caespitellheria mascheri
C
+
Desmococcus vulgaris
C
Hazenia mirabilis
C
+
Hormidiopsis crenulata
R
+
+
Kirchineriella obesa
R
+
++
Leptosira mediciana
C
+
+
+
Micropora leptochaete
C
+
Pseudopleurococcus printzii
C
+
Pseudotrebouxia decolorans
R
+
Scenedesmus protuberans
R
+
Trebouxia italiana
C
+
+
Trentepohlia aurea
R
+
+
+
Ulothrix zonata
R
+
+
+
++
++
+
Xanthophyceae
Specie Azione
Torrino
Camm. int.
Camm. base
Heterococcus caespitosus
C
+
+
+++
Heterothrix ulothricoides
C
+
+
Tab. 1. CUPOLA (Torrino, Camminamento intermedio, Camm. di base). Siti campionati: 1-23. Legenda: R = ricoprente; C = corrodente; P = perforante; +: specie rinvenuta
1-3 volte; ++: specie rinvenuta 4-6 volte; +++ : specie rinvenuta 7-9 volte
176
Catra, Giaccone, Pezzino
Cyanophyta
Specie
Azione
Fin. balc.
Fin. ovali
Porte tim.
Anacystis aeruginosa
C
+
Anacystis cianea
R
Anacystis thermalis
C
++
Calothrix parietina
C
++
Coccochloris aeruginosa
R
++
Enthophysalis rivularis
P
+
Microcoleus lyngbyaceus
R
++
+
+
+
Chlorophyta
Specie
Azione
Fin. balc.
Caespitellheria mascheri
C
Leptosira mediciana
C
+
Pseudotrebouxia decolorans
R
+
Scenedesmus flexuoxus
R
+
Scenedesmus tenuispina
R
+
Trebouxia magna
C
+
Westellia botryoides
R
Fin. ovali
Porte tim.
+
+
+
+
+
Tab. 2 - FINESTRE (Finestre balconi, Finestre ovali, Porte timpani). Siti campionati:
24-60.
Soltanto 2 specie di Cyanophyta hanno rivelato un effetto perforante
attivo; si tratta di alghe tranofite o euendolitiche che dissolvono i carbonati penetrando nel substrato e formando delle microcavità di morfologia
differente (osservabili al S.E.M.) a seconda della specie.
Sulla base dei campionamenti stagionali si è definita la composizione qualitativa dei biodeteriogeni algali insediati sulla fabbrica e si è fatta una valutazione della frequenza e del ricoprimento percentuale delle specie componenti la comunità algale epilitica ed endolitica nei differenti siti campionati.
L’analisi dei dati ha consentito l’elaborazione di undici istogrammi di frequenza per le undici componenti dell’involucro esterno analizzate: torrino,
Individuazione dei decadimenti nell’involucro esterno
della Chiesa di S. Nicolò L’Arena (CT)
177
Cyanophyta
Azione
Porte
stipiti
Anacystis aeruginosa
C
++
Anacystis cianea
R
Anacystis thermalis
C
Calothrix parietina
C
Coccochloris aeruginosa
R
Enthophysalis rivularis
P
+
Azione
Porte
stipiti
Desmococcus vulgaris
C
+
Leptosira mediciana
C
+
Specie
Colonne Colonne Colonne
Basam.
p. alta p. media p. basale
++
++
+++
++
+
++
+++
+
+
Chlorophyta
Specie
Colonne Colonne Colonne
Basam.
p.alta p. media p. basale
Tab. 3. COLONNE (Porte stipiti, Colonne porzione alta, media, basale, Basamento).
Siti campionati: 61-80.
camminamento intermedio, camminamento basale, finestre ovali, finestre
balconi, porte timpani, porte stipiti, porzione superiore, mediana e basale
delle colonne ed il basamento [2].
4. Conclusioni
L’individuazione dei principali decadimenti ad opera dei biodeteriogeni algali presenti nella fabbrica esterna della Chiesa barocca di S. Nicolò
L’Arena e la caratterizzazione dei microambienti, sulla base della loro
178
Catra, Giaccone, Pezzino
valenza ecologica, rappresentano i risultati più importanti di questa ricerca. L’individuazione della sistematica dell’alga insediata e la conoscenza
della sua ecofisiologia, rappresentano fasi propedeutiche per interventi di
controllo e di risanamento ambientale, poiché gli organismi algali contribuiscono al deterioramento dei materiali lapidei mediante i processi metabolici e rilasciando composti ricoprenti, corrodenti e chelanti.
I principali decadimenti presenti ad opera dei biodeteriogeni algali sull’involucro esterno della fabbrica sono: alterazione del colore, corrosione
delle superfici e perforazione dei materiali lapidei. L’evoluzione dei decadimenti evidenzia ritmi stagionali in funzione delle precipitazioni meteoriche ed incrementi locali, in funzione dell’esposizione all’inquinamento
veicolare, atmosferico, animale, soprattutto dell’avifauna [3] ed alla direzione e alla frequenza dei venti dominanti, rispettivamente umidi dai quadranti occidentali e salsi dai quadranti orientali [7].
Gli organismi algali rappresentano dunque degli indicatori di qualità di
stato ecologico del sito considerato, poiché espressione dei fattori fisico chimici che lo caratterizzano. Pertanto, è evidente che il risanamento
ambientale del sito nel quale è posto il manufatto lapideo e l’eliminazione delle condizioni favorevoli allo sviluppo dei biodeteriogeni algali nei
micro–habitat individuati, rappresentano fasi preliminari agli interventi di
restauro e di conservazione.
La molteplicità e la complessità dei fattori che intercorrono in questi
processi richiedono, infatti, uno studio interdisciplinare e sinergico al fine
di programmare interventi mirati ed efficaci sia di risanamento ambientale e di recupero dell’opera monumentale sia più in generale per una gestione ecologicamente sostenibile dell’area in cui essa si trova.
Individuazione dei decadimenti nell’involucro esterno
della Chiesa di S. Nicolò L’Arena (CT)
179
BIBLIOGRAFIA
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Monastero dei Benedettini», Proceedings of First International Congress on:
Science and Technology for the safeguard of cultural heritage in the
Mediterranean basin, 1998, pp. 1195-1203.
180
ANALISI MULTIDISCIPLINARE PER L’INDIVIDUAZIONE DEI DEGRADI
PRESENTI NELLA CHIESA DI SAN NICOLÒ L’ARENA
CHISARI W., LO FARO A., MOSCHELLA A., NAPOLEONE A., SANFILIPPO G.
Osservatorio della Patologie Edilizie, D.A.U., Facoltà di Ingegneria, Università di Catania.
La collaborazione tra svariate competenze scientifiche orientate ad
approfondire ogni aspetto del monitoraggio applicato ai BB. CC., promossa grazie all’attività espletata dal C.RI.Be.Cum per il progetto “Programma di ricerche per lo studio e la salvaguardia del barocco della Sicilia
orientale”, ha dimostrato che l’approccio pluridisciplinare costituisce sicuramente la via da intraprendere per sviluppare in modo completo le
indagini necessarie alla formulazione della diagnosi e del conseguente
progetto finalizzato alla salvaguardia del patrimonio architettonico.
Nello studio sulla chiesa di S. Nicolò L’Arena, dopo aver individuato l’apparecchiatura tecnico-costruttiva, si sono rappresentati i risultati ottenuti dalle
singole unità di ricerca in elaborati informatizzati che hanno facilitato la disamina sincronica dei decadimenti riscontrati nella fabbrica, consentendo di
cogliere le correlazioni tra degradi, difetti costruttivi e ambiente.
Le mappe esposte sintetizzano il quadro dei degradi provocati dall’interazione manufatto-ambiente e dalla presenza patologica di acqua (umidità
ascendente e discendente). In particolare i decadimenti relativi all’involucro
esterno sono stati individuati e riportati in apposite mappe tematiche i cui
risultati sono stati posti in relazione con le indagini svolte in ambito chimico, geologico, biologico e botanico; le patologie da umidità, anch’esse
opportunamente mappate, sono state confrontate ed approfondite sulla scorta dei risultati ottenuti dalle ulteriori indagini ingegneristiche ed infine correlate con i dati ottenuti, in ambito fisico-chimico, sui materiali base.
* Lavoro realizzato nell’ambito del progetto “Il recupero e la valorizzazione del patrimonio architettonico della Sicilia orientale: l’emergenza architettonica urbana e l’edilizia rurale. Conoscenza, interventi e formazione” (T3 CLUSTER C 29), finanziato dal
Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica
181
SPUNTI CARAVAGGESCHI
NELLA PITTURA SICILIANA DEL SEICENTO
CICALA CAMPAGNA F.
Museo Regionale di Messina
La relazione Spunti caravaggeschi nella pittura siciliana del Seicento,
ha per oggetto la ricostruzione della vicenda umana ed artistica del pittore fiammingo Jan Van Houbracken, nato ad Anversa intorno al 1600, ma
giunto ed attivo a Messina almeno fin dal 1631-32, anni in cui riceve la
commissione per un’opera da collocarsi nella chiesa di S. Francesco alle
Stimmate retta dalla confraternita dei mercanti, fino alla morte avvenuta
nel 1665.
Sebbene come nella maggior parte dei casi che riguardano la pittura
messinese si debba fare i conti con l’enorme dispersione di opere e documenti causata dal terremoto del 1908, circostanza che priva la ricerca di
molti elementi utili alla ricostruzione delle personalità artistiche e del contesto sociale e culturale in cui gli artisti si trovano ad operare, rendendo
così difficile la possibilità di verifica delle notizie riportate dalle fonti,
l’argomento di questo studio intende formulare alcune ipotesi che tracciano un percorso diverso rispetto a quanto finora prospettato dagli studi condotti sulla personalità del pittore.
Questa revisione parte da due elementi fondamentali costituiti da un
lato dalle più recenti ricerche di archivio che hanno messo in luce una rete
di relazioni e rapporti tra mondo artistico e ceti imprenditoriali e mercantili, attivi tra le Fiandre, Genova, Firenze ed i porti siciliani soprattutto di
Palermo, Trapani e Messina, dall’altro da alcune indicazioni delle fonti,
relative alla committenza di questo pittore fiammingo, finora non tenute
nella debita considerazione.
Da una attenta lettura di questi aspetti che suggeriscono per altro legami tra il pittore e importanti mercanti e collezionisti fiamminghi e altri
artisti di stessa nazionalità, è possibile rivedere l’intero percorso del Van
Houbracken fin dal suo arrivo in Sicilia, e comprendere anche la fortuna
182
Cicala Campagna
della sua pittura, legata alla matrice fiamminga di tipo rubensiano e vandyckiano, cui si assimilano quei caratteri di tipo caravaggesco che mettono in risalto i tratti più realistici di alcuni episodi, e sfruttano i suggerimenti luministici per potenziare l’efficacia drammatica ed emotiva.
Nell’ambito di una realtà così dinamica che viene promossa soprattutto da questo tipo di committenza privata interessata comunque a privilegiare artisti della stessa nazionalità anche nelle commissioni destinate alle
chiese fondate o abbellite in base alle preferenze ed esigenze di devozione, è forse possibile ipotizzare un ulteriore sviluppo della fortuna del Van
Houbracken, se si può riconoscere la sua mano in una tela che fa parte dell’arredo decorativo dell’Oratorio del Rosario in S. Domenico a Palermo,
l’Orazione di Gesù nell’orto, dove assieme ai caratteri peculiari della sua
formazione fiamminga e della sua evoluzione stilistica maturati nel periodo messinese, si possono scorgere le premesse di tipo classicheggiante e
monumentale che qualificano la sua ultima opera a noi nota, la
Crocifissione nella chiesa di S. Maria di Randazzo, firmata e datata 1657,
caratterizzata dal recupero di aspetti vandickiani e dalla comprensione del
linguaggio novellesco.
183
CARATTERIZZAZIONE E PROVENIENZA
DEI MATERIALI LITOIDI IMPIEGATI NELLA COSTRUZIONE
DELLE COLONNE DELL’EMICICLO
TEATRO
DEL PARCO DEL CAVALLO DI SIBARI (CALABRIA)
CIRRINCIONE R.(1), CRISCI G.M.(1), DE VUONO E.(1), LO GIUDICE A.(2),
MIRIELLO D.(1), PEZZINO A.(2), PUNTURO R.(2)
(1) Dipartimento di Scienze della Terra – Università della Calabria
(2) Dipartimento di Scienze Geologiche – Università di Catania
L’impiego delle rocce granitoidi nella realizzazione di importanti opere
architettoniche risale a tempi antichissimi. Particolare diffusione si ha tra
il I sec. a. C. ed il IV sec d.C. sotto l’Impero Romano.
I Romani, affascinati dalla bellezza e dalle caratteristiche meccaniche
di tali rocce, ne fecero un largo uso per la costruzione di imponenti edifici in tutte le più importanti città dell’area mediterranea, quasi a sottolineare una corrispondenza tra le caratteristiche intrinseche della roccia e la
magnificenza dell’Impero stesso.
Nel presente lavoro sono stati affrontati alcuni problemi di natura
archeometrica relativi alla provenienza di resti di colonne di materiale granitoide, prelevati in corrispondenza di un importante sito archeologico del
Sud Italia: L’Emiciclo Teatro del Parco del Cavallo di Sibari (I sec. a.C.).
La prima fase del lavoro si è basata su rilievi di campagna per l’individuazione e la successiva campionatura delle cave di cui si avevano notizie
di antiche attività estrattive. Tali indagini hanno permesso di indirizzare le
ricerche delle possibili cave di estrazione in corrispondenza delle aree ubicate nei pressi di Nicotera Marina e Parghelia (Calabria - VV), dove affiorano, lungo una superficie di circa 1.250 km2, corpi plutonici di composizione granitica di età carbonifero – permiana, che da un punto di vista
petrochimico suggeriscono un’affinità calc-alcalina e peralluminosa.
Successivamente, sui campioni provenienti sia dalle cave che dal Teatro
sono state condotte analisi chimiche mediante XRF, ICP-MS ed analisi
petrografiche di dettaglio. Dal confronto tra i dati ottenuti è emersa una
184
Cirrincione, Crisci, De Vuono, Lo Giudice, Miriello, Pezzino, Punturo
forte corrispondenza composizionale e tessiturale dei materiali archeologici con le rocce campionate presso la cava di Parghelia, dove sono tutt’oggi presenti resti di colonne e di vari elementi architettonici parzialmente lavorati in situ. La suddetta cava storica si configura pertanto come
il più probabile sito estrattivo di provenienza.
185
IL TERREMOTO DI SANTA VENERINA DEL 29 OTTOBRE 2002:
ASPETTI SISMOLOGICI E APPLICAZIONI DIAGNOSTICHE PROPEDEUTICHE AI SISTEMI DI INTERVENTO
CORRAO M., LICITRA M.
Novatech Consulting s.r.l.
2002 October 29th h 11:02 L.T. Ml 4.5 S. Venerina Event
Un terremoto di Magnitudo 4.5 scuote S. Venerina. Gli effetti ed i danni
hanno interessato parecchie costruzioni, anche in cemento armato, particolarmente in una fascia estesa circa 4 km, direzione NW-SE, tra Guardia
e S. Venerina e comprendente le frazioni di Scura, Felicetto, Ardichetto e
Bongiardo. L’evento fa parte di uno sciame sismico che ha prodotto centinaia di scosse per i primi 4 giorni di attività. Quest’ultima è correlata
all’attività vulcanica del M.te Etna.
In questo studio si è cercato di valutare due aspetti riguardanti l’evento
sismico e gli effetti che ha prodotto su alcuni manufatti del comprensorio
comunale di S. Venerina. Gli aspetti valutati sono di tipo sismologico e di
tipo ingegneristico.
Per quello sismologico si è cercato di capire il perché un evento di così
modesta magnitudo abbia potuto produrre danni così rilevanti. Nella valutazione dell’aspetto ingegneristico ci si è interrogati sulla possibile causa
di così rilevanti danni alle strutture, anche in cemento armato.
Le osservazioni di carattere sismologico [G. Milana, A. Rovelli, P.
Marsan, M. Corrao, G. Coco – I terremoti vulcanici dell’Etna: necessità
di una nuova definizione di magnitudo e di diverse leggi di scala Annali di
Geofisica – GNGTS 2004], scaturite da una serie di analisi sintetiche e
sperimentali di eventi registrati dalla rete mobile dell’I.N.G.V. di Roma,
installata a S. Venerina, hanno consentito di configurare quanto segue:
- I terremoti registrati sul Mt. Etna, durante l’attività vulcanica intensa, indicano una discrepanza forte con le leggi di attenuazione degli eventi tettonici.
186
Corrao, Licitra
- La sorgente poco profonda non è l’unica causa di danni significativi.
- La componente nel lungo-periodo degli eventi vulcanici ha implicazioni
importanti in termini di rischio nella zona di Mt. Etna perché è associata a
grandi spostamenti al suolo. Strutturalmente i ricettori colpiti hanno subito
danni imputabili a diverse cause: definizione inadeguata delle tipologie fondazionali e geometriche, realizzazione della struttura in modo non conforme
alle direttive progettuali, messa in opera di materiali sottodimensionati, stati
di ammaloramento e degrado della struttura. L’approccio investigativo è stato
di tipo diagnostico a mezzo di indagini non distruttive e/o semi invasive associate a rilievi geometrici di dettaglio del tipo laser scanner 3D. Tutto ciò è
stato affrontato, sotto forma di Case History, nella Chiesa del Sacro Cuore di
Gesù. Lo studio è stato condotto secondo una campagna diagnostica finalizzata alla caratterizzazione meccanico – strutturale del danneggiamento subito dal manufatto mediante:
• il rilievo geometrico della struttura;
• il rilievo architettonico del quadro fessurativo;
• la valutazione delle caratteristiche meccaniche e fisiche dei materiali
utilizzati nonché delle caratteristiche di resistenza, di deformabilità e
dello stato tensionale presente nelle murature;
• rilievo delle caratteristiche tecnologiche e costruttive dei vari elementi
strutturali.
In ultima analisi ciò che scaturisce da questo preliminare approccio
specifico ha prodotto le seguenti conclusioni:
- Il controllo di aree sottoposte ad attività sismica, quale Santa
Venerina, risulta necessario per comprendere e configurare eventuali scenari e contrastarli migliorando la pianificazione del territorio;
- La parametrizzazione delle grandezze fisico-sismologiche in gioco
contribuisce a mirare la progettazione;
- La caratterizzazione meccanico-strutturale, dinamica e geometrica dei
manufatti, rappresenta uno strumento fondamentale per una progettazione finalizzata.
187
ANALISI DEI MECCANISMI DI DEGRADO
DEI MATERIALI CALCARENITICI
DOVUTO ALL’AZIONE DEI LICHENI
CRISCI G. M., GATTUSO C., MACCHIONE M., MIRIELLO D.
Dipartimento di Scienze della Terra, Università della Calabria Via Ponte P. Bucci - 89036
Cosenza, Tel. 0984 493637, Fax. 0984 493601, [email protected]
1. Introduzione
Nel definire una procedura metodologica si riesce ad ottimizzare il
percorso da seguire poiché si possono utilizzare momenti di controllo,
secondo le necessità, a livello di singole parti o di visuali d’insieme.
Con il presente lavoro si è cercato di tracciare un profilo metodologico finalizzato a strutturare il sistema di indagini necessarie per approfondire la conoscenza sui meccanismi di degrado della pietra attaccata dall’azione di licheni. Per verificarne la validità è stata, quindi, effettuata una
applicazione pratica con riferimento all’attacco biologico presente sul
prospetto della Chiesa di Santa Maria della Serra a Montalto Uffugo
(CS), particolarmente colpito da colonizzazioni licheniche, soprattutto a
livello del basamento.
La ricerca, di tipo sperimentale, caratterizzata dall’integrazione di
competenze provenienti dal settore storico-architettonico, geologico e
delle scienze naturali, ha permesso di effettuare osservazioni sul comportamento della microflora a livello dell’interfaccia roccia-lichene. In particolare, dopo aver individuato ed analizzato le specie licheniche più diffuse sul prospetto della Chiesa, è stato possibile in alcuni casi mettere a
fuoco meccanismi di attacco e dissoluzione delle microparticelle di materiale roccioso.
In particolare comunque si è cercato di comprendere i meccanismi e i
processi di alterazione del substrato attraverso una analisi di dettaglio
eseguita soprattutto mediante osservazioni al SEM.
188
Crisci, Gattuso, Macchione, Miriello
2. Struttura della metodologia
La ricerca, per la sua particolare dimensione interdisciplinare è stata
articolata in maniera da affrontare le varie problematiche per fasi, al fine
di permettere le integrazioni tra le varie parti e lo sviluppo coordinato
delle analisi.
Lo studio è stato quindi strutturato considerando fasi sinteticamente
riportate di seguito:
1. fase preliminare:
– monitoraggio delle condizioni climatiche e della microvegetazione,
– analisi bibliografica e storica,
2. fase caratterizzazione:
– piano di campionamento,
– analisi floristiche,
– analisi di laboratorio,
3. fase discussione e conclusioni:
– trattamento ed elaborazione delle informazioni,
– considerazioni e risultati.
Il percorso metodologico è stato tarato mediante una applicazione pratica effettuata considerando un caso reale rappresentato dalla Chiesa di
Santa Maria delle Serre a Montalto Uffugo situato in provincia di Cosenza
sul versante occidentale della Valle del Crati a 470 m slm.
Il confronto con la realtà ha permesso di mantenere, durante lo svolgimento del percorso metodologico permettendo un continuo orientamento e controllo delle attività durante lo svolgimento della ricerca ed anche di apportare dei correttivi migliorativi alla struttura metodologica nel suo complesso.
3. Area di studio e analisi storico-architettonica del monumento
Preliminarmente allo studio è stata sviluppata una indagine per valutare l’habitat dell’area nel quale è inserito il monumento considerato.
Premesso che l’ambiente in cui vivono i licheni non è l’espressione dei
soli fattori climatici, ma la risultanza di questi e delle interferenze di fattori edafici, topografici e biotici, l’indagine ha permesso di rilevare un
andamento climatico stagionale piuttosto costante nel tempo, costituito da
stagioni primaverili ed estive piuttosto caldo-secche ed autunni ed inverni
Analisi dei meccanismi di degrado dei materiali calcarenitici
189
freddo-umidi. Tale comportamento è rilevabile da dati climatici forniti
dall’Arpacal di Reggio Calabria (rete dell’ex istituto idrografico della
Presidenza del consiglio, ora Arpacal) relativi agli anni che vanno dal
1989 al 2000, di cui a titolo di esempio è riportato il grafico (v. Fig.1) relativo al termogramma su base mensile della stazione di Montalto.
In parallelo è stato effettuato un monitoraggio sul monumento che si è
espresso mediante vari sopralluoghi e la registrazione di variazioni significative della vegetazione al variare delle stagioni. Più precisamente si è
potuto osservare che: i sopralluoghi hanno permesso di rilevare in primavera ed estate, a causa della scarsità di piogge e della bassa umidità presente, i licheni si presentavano molto secchi, poco rigogliosi e fortemente
appiattiti sulla roccia al punto da non permetterne il prelievo; mentre nel
periodo autunnale con l’arrivo delle prime piogge la vegetazione lichenica manifestava maggior rigoglio fino a giungere poi nel periodo invernale, con valori di temperature, umidità e precipitazioni ottimali, ad esprimere la massima attività vegetativa. Inoltre è stato possibile notare una maggiore estensione delle colonizzazioni visibile anche sui gradini adiacenti
ai portali fin sotto la gradinata d’accesso.
Sempre in maniera parallela è stata svolta una indagine storico-architettonica sul monumento che ha consentito di delinearne i principali lineamenti, nonché di acquisire alcune informazioni sui materiali costitutivi e
sul particolare degrado presente.
C°
Termogramma mensile nel decennio
1989
30
1990
25
1991
1992
20
15
1993
1994
1995
10
5
1996
1997
1998
0
1999
2000
Fig. 1. Grafico riportante il termogramma relativo alla stazione di Montalto.
190
Crisci, Gattuso, Macchione, Miriello
La Chiesa di Santa Maria della Serra (v. Fig. 2, 3), che sorge nel centro
storico di Montalto Uffugo, sul colle Serrano situato alle porte della cittadina, è caratterizzata dalla presenza di un’imponente e ricca facciata, purtroppo ancora incompiuta, realizzata in pietra calcare, in stile barocco.
La Chiesa per la bellezza dei caratteri barocchi è stata prescelta, nel
contesto dell’Atlas mondial du Baroque, promosso dall’Unesco, per essere inserito nell’Atlante del Barocco in Italia.
Le origini della Chiesa risalgono al XIII secolo, quando venne eretta
sui ruderi del mausoleo di un comandante romano. Consacrata nel 1227,
la Chiesa subì diversi trasformazioni a causa dei terremoti che la devastarono negli anni. In seguito al terremoto del 1854, l’impianto originario
acquisì un assetto planimetrico costituito da una pianta a croce latina di
stile neoclassico con un’unica navata ed un ampio transetto.
4. Caratterizzazione
Sulla base dei dati raccolti durate le indagini preliminari è stato predisposto un apposito piano di campionamento, realizzato tenendo conto sia
delle condizioni climatiche, delle caratteristiche architettoniche della
Chiesa e del particolare degrado esistente.
Fig. 2. Chiesa di Santa Maria della Serra.
Fig. 2. Particolari.
Analisi dei meccanismi di degrado dei materiali calcarenitici
191
Nello specifico, pur avendo rilevato la presenza di oltre 20 tipologie di
licheni l’attenzione si è concentrata su quattro specie in particolare, rilevate come le più rigogliose e le più diffuse. I campioni sono stati prelevati utilizzando bisturi previamente sterilizzati (sollevando la crosta del tallo
e facendo in modo che almeno la porzione centrale dello stesso potesse
essere prelevata senza troppo danno) e posti in contenitori (capsule di
Petri) anch’essi sterilizzati. Spesso il prelievo ha comportato l’asportazione di un po’ di materiale lapideo, necessario per poter studiare l’interfaccia pietra-lichene e di conseguenza il degrado del monumento.
Il campionamento è stato effettuato in considerazione delle indicazioni riportate nella “Raccomandazione Normal-3/80 Materiali Lapidei: Campionamento”
e in punti tali da non arrecare danni all’estetica del monumento.
I campioni prelevati sono stati quindi portati in laboratorio e separati
per svolgere le analisi sia sulla pietra che sui licheni.
In particolare per individuare con precisione le specie campionate è
stata svolta una indagine floristica mediante l’utilizzo di chiavi dicotomiche. Pertanto attraverso una serie di controlli è stato possibile determinare le quattro specie:
Caloplaca coronata (v. Fig. 4), è una specie caratterizzata dal tallo interamente isidiato, aranciato. Si trova su rocce calcifere, specialmente in
postazioni fertili, di solito in sommità di blocchi soleggiati.
È una tra le specie più diffusa facilmente riconoscibile per le sue forme
dai bordi con andamenti arrotondati.
Caloplaca flavescens (v. Fig. 5), specie molto comune su manufatti litici, s’instaura su calcare o arenarie basiche, su superfici bagnate dalla pioggia e piuttosto eutrofizzate.
Fig. 4. Caloplaca coronata.
Fig. 5. Caloplaca flavescens.
192
Crisci, Gattuso, Macchione, Miriello
Tollera temperature molto basse e la si può trovare fino alla fascia montana. La specie è spesso presente su statue, bassorilievi e muri di roccia
carbonatica: alla sommità delle superfici rocciose, comunque dove si
abbia un certo accumulo di guano. La sua presenza determina una forte
alterazione cromatica dei manufatti, poiché colora di giallo–arancione
vaste superfici.
Caluzadea metzleri (v. Fig. 6), presenta un tallo bianco-grigio pallido,
più o meno immerso. L’apotecio è situato in buche poco profonde, sparso
o, a volte, immerso lungo le fessure. Il tallo è murato nella roccia calcarea, in ciottoli principalmente di gesso, spesso si trova in zone piuttosto
ombreggiate e umide.
L’alterazione superficiale prodotta sulle rocce si manifesta con una
caratteristica presenza di piccoli e diffusi fori ravvicinati (pitting).
Buellia epipolia (v. Fig. 7), piccolo lichene crostoso a tallo di color
bianco puro, continuo o fessurato-areolato, che forma macchie di dimensioni in genere non superiori ai 3-4 cm di diametro. La parte centrale del
tallo è occupata da numerosi apoteci di colore nero, spesso pruinosi, piani
o più frequentemente convessi, senza margine ben evidente.
È abbastanza frequente su roccia calcarea (raramente anche su arenarie
basiche), su superfici bagnate dalla pioggia, esposte al sole e poco eutrofizzate. Il colore bianco cretaceo dei talli contrasta abbastanza nettamente con quello del substrato, producendo un’alterazione cromatica piuttosto evidente.
I campioni lapidei (v. Fig. 8) costituenti il substrato sono stati sottoposti ad analisi petrografiche e chimiche, allo scopo di caratterizzare la roc-
Fig. 6. Caluzadea metzleri.
Fig. 7. Buellia epipolia.
Analisi dei meccanismi di degrado dei materiali calcarenitici
193
cia utilizzata per realizzare la Chiesa. L’analisi petrografica è stata eseguita su sezioni sottili (v. Fig. 9) del campione, utilizzando un microscopio
ottico polarizzatore “Zeiss”; mentre le analisi chimiche sono state eseguite sul campione tale e quale polverizzato, utilizzando uno “spettrometro
PhilipsPW 1480” e applicando il metodo per la correzione degli effetti di
matrice di Franzini et Al. [5].
L’analisi petrografica ha consentito di caratterizzare il campione come
una “calcarenite”. È stata rilevata la presenza di calcite osservabile sia
come cemento, sottoforma di sparite e micrite (prevale comunque il
cemento sparitico su quello micritico), che come fase cristallina costituente lo scheletro della roccia. Sono stati osservati, inoltre, quarzo, biotite
alterata, plagioclasio e microclino. I bioclasti prevalgono sulla frazione
terrigena e sono costituiti essenzialmente da foraminiferi planctonici e
bentonici, gusci di bivalvi, briozoi e alghe calcaree. I pori sono di forma
prevalentemente irregolare e sono dovuti a probabili fenomeni di dissoluzioni della componente calcitica.
L’analisi chimica, inoltre, effettuata mediante spettrometria a raggi X
ha consentito di completare la caratterizzazione della roccia mediante la
determinazione degli elementi maggiori e degli elementi in tracce, di cui
sono riportati, nelle Tab. 1 e 2, i dati relativi ad uno dei campioni analizzati (gli altri campioni sono petrograficamente e chimicamente identici a
quello di cui sono riportati i dati).
Fig. 8. Campione in capsula di Petri:
si possono notare le Caloplache determinate: la chiara è la C.flavescens, la
scura è la C.coronata.
Fig. 9. Sezione sottile a luce polarizzata ingrandimento 3x: si osservano cristalli di muscovite, biotite, quarzo e
calcite.
Crisci, Gattuso, Macchione, Miriello
194
H2O
39,60
Na2O MgO Al2O3 SiO2
0,09
0,97
0,62
2,77
P205
K20
CaO
TiO2
MnO Fe2O3
0,02
0,13
55,40
0,03
0,14
0,24
Tab.1. Elementi maggiori (% in peso) della composizione totale dei campioni
Nb
Zr
Y
Sr
Rb
Ni
Cr
V
La
Ce
Co
Ba
0
26
2
510
30
24
14
16
39
80
3
98
Tab. 2. Elementi in tracce (ppm) della composizione totale dei campioni
5. Discussione e conclusioni
L’attenzione si è quindi concentrata sull’analisi dell’interfaccia roccialichene al fine di investigare i meccanismi di danno arrecati dai licheni alla
roccia.
Pertanto sono state preparate delle sezioni sottili (v. Fig. 10) modificando adeguatamente il protocollo standard: è stato usato un composto organico, la Glutaraldeide al 20%, che ha permesso di sezionare i licheni evitandone la distruzione.
Le analisi delle sezioni sottili hanno indotto a effettuare delle indagini
a maggiori ingrandimenti per cui sono state effettuate delle osservazioni
di dettaglio al SEM che hanno permesso di evidenziare tre meccanismi di
degrado principali:
1. nel caso delle Caloplache - il lichene provoca microfratture diffuse a
livello dell’interfaccia lichene-roccia, dall’andamento lineare parallelo
alla superficie, che si manifestano ad una profondità media di circa 95
micron (v. Fig. 11).
2. nel caso della Clauzadea metzleri - il lichene ha corpi fruttiferi che
penetrano nel substrato ad una profondità di 0,32 mm provocando il pit-
Fig. 10. La parte organica rappresentata dal lichene è la parte più scura, in alto, mentre
la parte inorganica rappresentata dal substrato è la parte più chiara, in basso.
Analisi dei meccanismi di degrado dei materiali calcarenitici
195
ting, corrosione puntiforme che si manifesta attraverso la formazione diffusa di piccole cavità. Questi forellini originariamente occupati dal corpo
fruttifero, una volta lasciati liberi, con la caduta del corpo fruttifero, vengono ulteriormente allargati dalle acque meteoriche soprattutto nel periodo invernale, rendendo quindi la superficie maggiormente attaccabile da
altri fattori di degrado, quali ad esempio l’escursione termica tra il giorno
e la notte che può provocare fenomeni di contrazioni e dilatazioni della
roccia nei punti in cui si trova l’acqua quindi nella zona di interfaccia roccia-lichene (v. Fig. 12).
3. nel caso della Buella epipolia - il lichene penetra nel substrato attraverso la dissoluzione dei minerali, ricchi di elementi chimici da cui trae nutrimen-
Fig. 11. Si intravedono due tipi di fratture: una più profonda che sembra provocare il
distacco di parte della roccia ed una più frastagliata a livello dell’interfaccia.
Fig. 12. Visione dall’alto di superficie calcarea infestata dal lichene crostoso endolitico
in cui si notano i periteci immersi nel substrato - nella sezione si nota al centro, il corpo
fruttifero del lichene all’interno della roccia nella quale forma come un incavo che alla
caduta del corpo fruttifero, appare come una profonda depressione (effetto pitting).
196
Crisci, Gattuso, Macchione, Miriello
to. È possibile quindi che penetrando con le ife nei punti di frattura della roccia andando alla ricerca di minerali per il proprio nutrimento riesca a staccare
attraverso la produzione degli acidi lichenici frammenti di minerale della roccia. Il fenomeno è favorito dall’azione prodotta dall’alternanza di pressione
provocata dalla pulsazione delle cellule che variano di volume passando da
condizioni di restrizione in corrispondenza dei periodi di siccità (estate) a condizioni di accrescimento nei periodi in cui riescono ad avere maggiore idratazione (inverno). Inoltre occorre considerare anche le azioni di tipo meccanico
provocate dall’accrescimento del tallo. Ne risulta infine una attività complessiva di disgregazione per cui i granuli di quarzo e i frammenti di altri minerali si staccano dal supporto e vengono inglobati dal lichene che progressivamente li dissolve riducendoli gradualmente di volume (v. Fig. 13 e 14).
La presenza ormai storica dei licheni sul prospetto della Chiesa permette di rassicurare circa l’azione devastante dei licheni che comunque, anche
Fig. 13. Il lichene poggia sul substrato calcareo (in basso) ove si mota una lieve frattura. Si può inoltre notare come parti di minerali vengano inglobati nel tallo lichenico (granuli in bianco). In particolare le superfici esterne del minerale vengono gradualmente
frantumate.
Fig. 14. Meccanismi di disgregazione dei minerali ad opera della Buella epipolia: 1a
Fase - il lichene avvolge con le proprie ife i minerali. 2a Fase - il lichene stacca i minerali e li solleva gradualmente. 3a Fase - il lichene frantuma i minerali fragili e avvolge
per intero quelli più resistenti. 4a Fase - i minerali più duri sono attaccati sui contorni.
5 a Fase - disgregazione totale dei minerali più duri.
Analisi dei meccanismi di degrado dei materiali calcarenitici
197
se non hanno fino adesso provocato danni di rilievo, possono potenzialmente originare degradi incontrollati nel caso in cui dovessero crearsi particolari condizioni ambientali.
È proprio per questo motivo che appare necessario tenere sotto controllo la
crescita dei licheni con monitoraggi periodici scanditi ad intervalli di 2-3 anni.
È evidente che un’abbondante vegetazione lichenica sui monumenti
pone dei problemi di conservazione e di restauro in quanto produce come
detto sopra alterazioni cromatiche modificandone l’estetica dei monumenti e soprattutto le caratteristiche chimiche fisiche delle superfici litiche.
Il processo conoscitivo proposto permette di mostrare un percorso
interdisciplinare all’interno del quale il coinvolgimento di competenze
diverse, a vari livelli di interesse, mette in grado di creare sinergie che
favoriscono l’analisi e lo studio diretti a meglio comprendere e interpretare particolari fenomeni di alterazione e deterioramento dei monumenti.
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198
VALUTAZIONE DELLA SUSCETTIVITÀ AL RIUSO
PER FINI AGRITURISTICI DEI FABBRICATI RURALI TRADIZIONALI
CONFRONTO TRA DUE CASI STUDIO
FAILLA A., CASCONE G., PORTO S.M.C.
Università degli Studi di Catania Dipartimento di Ingegneria Agraria, Sezione Costruzioni e
Territorio via S. Sofia 100, 95125 Catania, tel +39 095 7147587,
[email protected], [email protected], [email protected]
1. Introduzione
La crescente insoddisfazione nei confronti della qualità della vita cittadina favorisce sempre più la fruizione del territorio rurale da parte di visitatori desiderosi di riscoprire, anche attraverso il contatto con la natura e
con la tranquillità della campagna, le esperienze di vita della tradizione
popolare rinvenibili soltanto in alcune aree agricole residuali o in piccoli
centri abitati. Il territorio rurale è così divenuto sede di attività diversificate connesse soprattutto ad una crescente domanda di turismo alternativa
alla formule tradizionali e di massa.
L’attenzione oggi rivolta verso il patrimonio edilizio rurale è, in parte,
anche dovuta a tale nuovo modo di fruire il territorio agricolo; infatti, nell’ambito delle attività turistico-ricettive, i fabbricati tradizionali costituiscono una risorsa edilizia importante, soprattutto nelle aree protette da
vincoli di tutela ambientale dove, in genere, non vengono rilasciate concessioni edilizie per la realizzazione di nuove costruzioni.
Tale interesse nei confronti dell’edilizia rurale, però, ha comportato
numerosi interventi di recupero di fabbricati non sempre appropriati alle
loro caratteristiche morfologiche e tecnico-costruttive.
Pertanto, al fine di riutilizzare gli edifici rurali tradizionali reintegrandoli in un nuovo ciclo vitale che ne garantisca la cura e la manutenzione,
nell’ambito delle politiche finalizzate alla conservazione del patrimonio
architettonico rurale, è necessario definire strategie di intervento fondate
su una valutazione attenta della loro suscettività al riuso.
Valutazione della suscettività al riuso dei fabbricati rurali tradizionali
199
Fra i fattori che consentono tale valutazione riveste particolare importanza il grado di adattamento di nuove destinazioni funzionali ai caratteri
morfologici dei fabbricati rurali. Tale fattore, infatti, rappresenta uno dei
nodi cruciali nella tutela del patrimonio architettonico, soprattutto in considerazione del fatto che non di rado, gli interventi di riuso attuati hanno
trascurato la compatibilità delle nuove destinazioni funzionali con le caratteristiche morfologiche dei fabbricati esistenti.
Nel presente lavoro, dopo una breve disamina dell’approccio metodologico per la valutazione della suscettività al riuso dei fabbricati rurali tradizionali, si riportano i risultati ottenuti dall’applicazione di un metodo [4]
elaborato per la valutazione del grado di adattamento della destinazione
d’uso agrituristica ai caratteri morfologici di un campione di edifici ubicati in due aree omogenee della Sicilia orientale.
Tale applicazione risulta particolarmente attuale in relazione alle opportunità offerte dalla programmazione economica regionale siciliana (P.O.R. 20002006) che, al fine di promuovere lo sviluppo delle aree rurali, offre sostegno
finanziario agli imprenditori agricoli per la realizzazione di attività agrituristiche. Ciò, nell’ambito delle problematiche connesse con il recupero dell’edilizia rurale, si traduce, spesso, in interventi da attuare sui fabbricati rurali esistenti al fine di adattarli ai requisiti richiesti dai regolamenti edilizi vigenti.
2. Approccio metodologico per la valutazione della suscettività al riuso
La limitatezza delle disponibilità finanziarie, in rapporto all’elevato
numero di edifici rurali tradizionali che necessitano di interventi di recupero, non consente la conservazione dell’intero patrimonio architettonico
rurale. Pertanto, allorquando è necessario scegliere uno o più edifici da
tutelare fra un insieme di alternative possibili, si pone il problema di superare il limite della soggettività del giudizio ricorrendo all’applicazione di
metodi decisionali basati su procedimenti analitici che utilizzano criteri di
giudizio quanto più possibile oggettivi.
In tale contesto, fra le caratteristiche che contribuiscono a qualificare il
patrimonio architettonico rurale (rilevanza storica, architettonica, paesaggistica, ambientale, ecc.) [9], la suscettività al riuso riveste un ruolo determinante ai fini dell’attribuzione del giusto valore ai fabbricati soprattutto
in relazione alle limitazioni imposte all’attività edificatoria dalle norme di
tutela ambientale.
200
Failla, Cascone, Porto
La valutazione della suscettività al riuso dei fabbricati rurali tradizionali, secondo la metodologia proposta, è articolata nelle fasi di seguito
descritte [5].
Fase conoscitiva di primo livello
Per lo svolgimento di questa prima fase del metodo bisogna individuare un’area di indagine omogenea sotto il profilo delle caratteristiche territoriali che possono influenzare la possibilità di riuso dei fabbricati rurali
tradizionali. A tal proposito, è possibile avvalersi di ricerche di archivio,
della cartografia di base nonché di elaborati a supporto degli strumenti
urbanistici come gli studi agricolo-forestali.
Alla definizione dell’area di indagine segue la messa a punto di schede
di rilievo che consentono di pervenire ad una conoscenza quanto più esaustiva delle tipologie edilizie presenti nel territorio. Poiché le campagne di
rilievo sono onerose soprattutto per le risorse necessarie al loro svolgimento, è opportuno che i dati raccolti nelle schede siano quelli strettamente necessari a consentire la valutazione della suscettività al riuso.
Fase valutativa
Obiettivo di questa fase di lavoro è la definizione di un insieme di destinazioni funzionali compatibili con il contesto territoriale prendendo in considerazione, se necessario, anche usi diversi da quelli originari e accettando,
in relazione alle mutate esigenze funzionali, eventuali trasformazioni edilizie
purché rispettose dei caratteri del fabbricato oggetto dell’intervento [8]
Scelta una delle destinazioni d’uso nell’ambito dell’insieme precedentemente individuato, si procede alla valutazione della suscettività al riuso
mediante un metodo basato sull’analisi multicriteriale. Pertanto, nella fase
di analisi del problema è necessario definire l’insieme delle alternative e
quello degli attributi. Il primo è costituito dagli edifici rurali tradizionali
il cui stato di conservazione è tale da giustificarne il riuso funzionale; il
secondo, invece, è costituito dai fattori estrinseci all’edificio (caratteristiche dell’attività produttiva, disponibilità finanziaria dell’imprenditore e il
suo titolo nei confronti del fabbricato, integrazione dell’edificio con il
paesaggio, dotazione di servizi, ecc.) e da quelli intrinseci (interesse storico, interesse architettonico, stato di conservazione, grado di adattamento di nuove destinazioni funzionali alla morfologia dell’edificio esistente).
A partire dalla formulazione del giudizio di valore degli attributi delle
alternative, l’approccio multicriteriale prevede la definizione della matri-
Valutazione della suscettività al riuso dei fabbricati rurali tradizionali
201
ce delle decisioni. I dati necessari per tale valutazione possono essere ricavati dalle schede di rilievo compilate nel corso della prima fase di lavoro;
inoltre, poiché per la definizione dei valori degli attributi potrebbero essere necessarie valutazioni di tipo qualitativo, è opportuno che i criteri di
valutazione di ogni attributo siano forniti da esperti (architetti, storici dell’architettura, urbanisti, ingegneri, agronomi, etnografi, economisti, ecc.)
dell’edilizia rurale dell’area interessata.
Infine, la scelta del modello decisionale più opportuno fra quelli esistenti in bibliografia (Saw, Electre, ecc.) consente di pervenire ad un ordinamento dei fabbricati in relazione al loro grado di suscettività al riuso per
la destinazione d’uso prescelta.
Fase conoscitiva di secondo livello
In questa fase si procede alla verifica dei risultati ottenuti dalla valutazione della suscettività al riuso, effettuando il rilievo di dettaglio degli edifici precedentemente analizzati.
In relazione al tempo e ai costi necessari, tale attività è svolta soltanto
per gli edifici che hanno ottenuto i punteggi più elevati all’interno delle
classi definite dalle destinazioni d’uso analizzate.
Questa ultima fase del metodo è propedeutica alla progettazione esecutiva per la quale può essere richiesta l’acquisizione e l’elaborazione di
ulteriori informazioni ricavate dalle norme tecniche vigenti al fine di definire gli interventi più appropriati in relazione alle caratteristiche compositive e tecnico-costruttive dei fabbricati.
3. Il grado di adattamento della destinazione d’uso agrituristica ai
fabbricati rurali tradizionali
Nel presente lavoro sono riportati i risultati ottenuti dall’applicazione
di un metodo appositamente elaborato per la valutazione del grado di adattamento della destinazione d’uso agrituristica ai caratteri morfologici
degli edifici rurali tradizionali [4]. Nella ricerca sono stati esaminati sedici fabbricati rurali tradizionali, abbandonati o parzialmente utilizzati, ubicati in due aree omogenee della Sicilia orientale ritenuti adatti al riuso per
attività agrituristiche.
La prima area (area etnea, v. Fig. 1), situata sul versante nord-orientale
del Parco dell’Etna, ricade nei territori comunali di Linguaglossa e
202
Failla, Cascone, Porto
Piedimonte Etneo; la seconda (area iblea, v. Fig. 2), invece, è ubicata nella
parte sud-orientale della Sicilia, si estende dai Monti Iblei sino alla fascia
costiera sul Mar Mediterraneo ed è compresa fra i centri abitati di Ragusa
e Santa Croce Camerina.
Rimandando ad altre note precedenti [4, 11] per la descrizione dettagliata del metodo, di seguito si elencano le fasi principali in cui si articola lo studio:
– conoscenza degli aspetti morfologici e distributivi degli edifici rurali in
esame;
– individuazione dei requisiti richiesti dalla destinazione d’uso agrituristica;
– definizione dei fattori che intervengono nella valutazione del grado di
adattamento della destinazione d’uso agrituristica agli edifici esistenti;
– impiego di un modello multicriteriale che tenga in considerazione l’interazione fra i fattori individuati nella fase precedente.
I caratteri morfologici dei fabbricati sono stati rilevati mediante apposite
schede di rilievo, invece, i requisiti richiesti da specifiche destinazioni d’uso
sono stati individuati facendo riferimento alla normativa vigente [6] ovvero
ai manuali di progettazione edilizia [1].
Giacché la valutazione della potenzialità d’uso rappresenta uno studio
preliminare sulla possibilità di adibire a specifiche funzioni gli edifici esistenti, la compilazione delle schede di rilievo non ha comportato rilievi metrici di
dettaglio. I dati rilevati comprendono le informazioni su: la collocazione planimetrica delle unità edilizie che compongono il complesso rurale; la scomposizione delle unità edilizie in corpi di fabbrica; i caratteri morfologici relativi alle unità funzionali e ai corpi di fabbrica [3, 11].
Fig. 1. Area etnea.
Fig. 2. Area iblea.
Valutazione della suscettività al riuso dei fabbricati rurali tradizionali
203
I requisiti richiesti dalla destinazione d’uso agrituristica sono stati estrapolati dall’analisi delle esigenze delle attività da svolgere: ospitalità in camere e/o in miniappartamenti; ristorazione degli ospiti; soggiorno; deposito.
Dall’analisi dei requisiti funzionali dell’attività agrituristica e dalla caratterizzazione del patrimonio architettonico effettuata sulla base della schedatura è emerso che i fattori che influenzano il grado di adattamento della nuova
destinazione d’uso ai caratteri morfologici del fabbricato sono quelli descritti in Fig. 3.
Fig. 3. Descrizione dei fattori che intervengono nella valutazione del grado di adattamento della destinazione d’uso agrituristica ai caratteri morfologici degli edifici.
Failla, Cascone, Porto
204
Il modello di valutazione
Per giungere alla valutazione del grado di adattamento, è stato scelto di
utilizzare un modello che consente di calcolare le interazioni possibili fra i
fattori descritti in Fig. 3. Già applicato per la valutazione di beni architettonici ed ambientali [10], il modello ha consentito di valutare il grado di
apprezzamento totale V che in questo lavoro corrisponde al grado di adattamento della destinazione d’uso agrituristica ai caratteri morfologici degli edifici.
Riportando quanto esposto in precedenti studi [4, 13]
“Il modello consiste nella costruzione di una matrice quadrata X di ordine n, le cui n righe ed n colonne si riferiscono agli n fattori da analizzare.
X=
x1
x2
x3
....
xn
x1
x11
x21
x31
....
xn1
x2
x12
x22
x32
.....
xn2
x3
x13
x23
x33
.....
xn3
xn
x1n
x2n
x3n
.....
xnn
1)
L’elemento xii (xii ≥ 0 per i=1, 2,..., n) della matrice X indica il grado
di azione attribuito al fattore (xi) corrispondente alla i-esima riga (o iesima colonna). Il grado di azione si assume:
• pari a 1, se il fattore in esame presenta un livello normale;compreso fra
0 e 1, se il fattore in esame si presenta a un livello inferiore a quello
ritenuto normale;
• maggiore di 1, se il fattore in esame si presenta a un livello superiore
a quello ritenuto normale.
Ogni elemento xij (xij ≥ 0 per i ≠ j; i = 1, 2,…, n; j=1, 2,..., n) indica il
grado di influenza esercitata dal fattore xi corrispondente alla i-esima riga
su quello xj corrispondente alla j-esima colonna.
Il generico elemento xij può assumere valore:
• pari a 1, qualora il fattore xi abbia un comportamento neutrale rispetto al fattore xj;
• maggiore di 1, se il fattore i-esimo contribuisce ad esaltare il grado di
azione del fattore j-esimo;
Valutazione della suscettività al riuso dei fabbricati rurali tradizionali
205
• compreso fra 0 e 1, se il fattore i-esimo riduce la potenzialità del grado
di azione del fattore j-esimo;
• pari a 0, se il grado di azione del fattore j–esimo, ancorché elevato,
viene completamente annullato dalla presenza del fattore i-esimo il cui
livello è ritenuto completamente insoddisfacente.
La matrice X può essere orlata con una ulteriore riga (la n+1 - esima
riga) i cui elementi vj (j=1, 2,…, n) sono dati dal prodotto degli n elementi della colonna j-esima, ossia:
Il termine vj rappresenta un indice del grado complessivo d’azione
esplicitato dal fattore j-esimo poiché risultato dell’interazione con gli altri
n-1 fattori esaminanti.
Calcolato, quindi, il grado complessivo di azione relativo agli n fattori
considerati, il modello consente la costruzione di una funzione di utilità
mediante l’introduzione di opportuni coefficienti di ponderazione (pesi) ?i
da attribuire a ciascun valore vj. Tali coefficienti devono possedere i
seguenti requisiti:
λi ≥ 0 per j = 1, 2,…, n
Eseguendo la somma dei prodotti del valori vj per i rispettivi pesi ?i è
possibile ottenere l’indice V :
che sinteticamente indica il grado di apprezzamento totale, cioè il
grado di azione attribuibile complessivamente agli n fattori.
Il grado di apprezzamento totale, rappresentativo dell’utilità dell’alternativa considerata rispetto ad un livello ritenuto normale (per il quale ),
è il parametro che consente di realizzare una classifica di priorità tra più
alternative possibili”
Poiché in questa sede non è possibile descrivere tutti i criteri di attribuzione dei valori ai termini della matrice di interazione X, al fine di consentire
l’interpretazione dei risultati si è ritenuto opportuno illustrare in Tabella 1
almeno i valori relativi al grado di azione1 di ciascun fattore individuato.
Failla, Cascone, Porto
206
4. Risultati e discussione
Sebbene le norme relative all’agriturismo auspicano che l’attività di
ristorazione venga almeno affiancata da quella di ospitalità, negli edifici
ubicati nell’area etnea, ciò non sempre è realizzabile. Nei fabbricati in cui
è possibile riutilizzare alcuni ambienti per la realizzazione di camere da
letto e/o minialloggi, il numero di posti letto non supera le 16 unità; ciononostante, la superficie mediamente disponibile per utente non è di molto
superiore a quella prevista dalle norme vigenti [7]. Negli edifici etnei è
generalmente possibile realizzare la zona di ristorazione con una capacità
media di 35 coperti e, tenuto conto delle caratteristiche plano-altimetriche
degli ambienti, con un impiego di superficie mediamente maggiore del
20% rispetto a quella massima consigliata nei manuali di progettazione
edilizia [1].
Dallo studio svolto sugli edifici ubicati nell’area iblea, emerge una
maggiore flessibilità funzionale nonché una più razionale distribuzione
delle superfici disponibili per la realizzazione dell’area per la ristorazione.
La capacità di posti letto è mediamente di 35 unità, mentre il numero
medio dei coperti è di 50 unità.
In entrambi i campioni di fabbricati, l’adeguamento della destinazione
d’uso agrituristica ai fattori morfologici (TCO ed ST, v. Fig. 3), richiede
interventi rilevanti. Inoltre, non sempre le altezze minime degli ambienti
interni sono rispondenti ai requisiti imposti dai regolamenti edilizi vigenti. Infine, la disponibilità di altri spazi funzionali fruibili dagli ospiti (spazi
di deposito e salette di soggiorno) è mediamente insufficiente.
Mediante la relazione (2), per ciascuno degli edifici è stato calcolato il
grado complessivo di azione dei fattori considerati che ha consentito di pervenire ai risultati illustrati in Fig. 4 dove gli scenari 1 e 2 si riferiscono a due
differenti scelte strategiche eventualmente attuabili dalle Autorità competenti. Lo scenario 1 è stato determinato applicando al modello suddetto coefficienti di ponderazione idonei a classificare i fabbricati nell’ambito di strategie che mirano ad ottimizzare la capacità ricettiva dell’attività agrituristica;
lo scenario 2, invece, è stato individuato adottando pesi idonei a classificare
i fabbricati nell’ambito di strategie che mirano alla conservazione dei caratteri morfologici degli edifici interessati dall’intervento.
1 Termini
della diagonale della matrice di interazione X.
Valutazione della suscettività al riuso dei fabbricati rurali tradizionali
207
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07VD ULFDGH QHOO¶LQWHUYDOOR · H XQ YDORUH VFDUVR TXDQGR 07VD ULVXOWL
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$JULFROWXUD H GHOOH )RUHVWH '$ PDJJLR 'LVSRVL]LRQL LQ
PDWHULD GL DJULWXULVPR LQ *856 Q GHO JLXJQR Tab. 1. Criteri di valutazione dei fattori che influenzano il grado di adattamento della
destinazione d’uso agrituristica ai caratteri morfologici degli edifici.
Failla, Cascone, Porto
208
Se si assume che per 0≤V <0,33, 0,33≤V <0,66, 0,66≤V <1, V≥1 tale grado
di apprezzamento totale è rispettivamente scarso, mediocre o sufficiente,
è possibile affermare che tre fabbricati (due ubicati nell’area etnea ed uno
nell’area iblea) possono essere riutilizzati per l’agriturismo soddisfacendo
contemporaneamente entrambi gli scenari ipotizzati; altri cinque (due ubicati nell’area etnea e tre nell’area iblea) possono essere destinati a tale attività soltanto nell’ipotesi di adottare le scelte strategiche previste dal primo
scenario. Si osserva, infine, che solamente per tre fabbricati ubicati nell’area etnea, l’obiettivo di conservare i caratteri morfologici dei fabbricati (scenario 2) ne migliora la valutazione complessiva.
5. Conclusioni
Il rilievo effettuato mediante un’apposita scheda ha consentito la caratterizzazione morfologica di un campione di fabbricati rurali tradizionali al
fine di valutare, mediante un metodo di analisi multicriteriale, in quale
misura essi siano riutilizzabili per lo svolgimento di attività agrituristiche.
Si ritiene che il risultato di tale valutazione potrebbe integrare i criteri
adottati dalle Autorità competenti nella scelta dei fabbricati su cui concentrare eventuali sostegni finanziari. In particolare, al fine di preservare le
caratteristiche morfologiche degli edifici, nei casi di studio analizzati la
scelta dei fabbricati dovrebbe avvenire sulla base dei seguenti criteri:
D $UHD HWQHD
E $UHD LEOHD
Fig. 4. Confronto fra le valutazioni effetuate impiegando due distinti classi di peso.
Valutazione della suscettività al riuso dei fabbricati rurali tradizionali
209
1 grado di adattamento della destinazione d’uso almeno sufficiente in
entrambi gli scenari;
2 grado di adattamento relativo allo scenario 2 migliore dello scenario 1;
3 scarto minimo del grado di adattamento valutato per i due scenari.
I risultati ottenuti sono stati condizionati dai criteri adottati per la valutazione dei fattori che influenzano il grado di adattamento della destinazione
d’uso agrituristica agli edifici considerati. Certamente si può pervenire a
valutazioni differenti assegnando ai suddetti fattori livelli normali più aderenti ai caratteri morfologici degli edifici rurali tradizionali esistenti nelle due
aree omogenee, anche attraverso apposite indagini sul numero di posti letto e
sul numero di coperti mediamente offerti dalle aziende agrituristiche esistenti. Si ritiene che il metodo di valutazione adottato in questa ricerca possa
essere applicato anche ad altre aree omogenee a vocazione agrituristica.
Infine, il metodo con cui è stato determinato il grado di adattamento della
destinazione d’uso agrituristica ai fattori morfologici dei fabbricati appartenenti al campione esaminato, è ripercorribile per altre attività purché vengano stabiliti in fase di analisi gli opportuni fattori di valutazione.
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Milano, 1993.
211
MISURAZIONE DELLA PERFORMANCE
E TUTELA DEI BENI CULTURALI:
IL CASO DELLA SICILIA
FINOCCHIARO CASTRO M. (1);(2), RIZZO I.(1)
(1)Dipartimento di Economia e Metodi Quantitativi, Università di Catania C.so Italia, 55 –
95129 Catania, Tel. +39 (0)95 375344 int. 254, Fax. +39 (0)95 370574 [email protected]
(2)Department of economics, Royal Holloway College, University of London
Egham Hill, Egham, Surrey - TW200EX, UK, Tel. +44 (0)1784 414158, Fax: +44 (0)1784
439534, [email protected]
1. Introduzione
Nella letteratura economica non viene dedicata molta attenzione alla
misurazione della performance nel settore della tutela del patrimonio culturale. Obiettivo di questo lavoro è affrontare questo tema da un punto di
vista sia metodologico che empirico. Si tenterà di fornire una definizione
delle attività di tutela e un metodo per la costruzione di indicatori di performance in questo specifico ambito, estendendo al settore del patrimonio
culturale tecniche già sperimentate in altri contesti e utilizzando l’attività
delle Soprintendenze siciliane come caso di studio.
In particolare, l’attenzione verrà concentrata sulle caratteristiche della
tutela in Sicilia e sugli strumenti più significativi di intervento, con specifico riferimento ai beni culturali immobili e paesaggistici. Successivamente, verrà analizzata l’attività delle Soprintendenze e verranno affrontati i problemi metodologici connessi alla sua misurazione. Infine, per
valutarne la performance, si proporrà un esercizio di applicazione della
Data Envelopment Analysis (DEA).
2. L’attività delle Soprintendenze in Sicilia: strumenti di intervento e
problemi di misurazione
A differenza che nelle altre regioni italiane, in Sicilia la tutela del
patrimonio culturale è competenza esclusiva del governo regionale ed è
212
Finocchiaro Castro, Rizzo
realizzata attraverso l’attività di nove Soprintendenze1. Le Soprintendenze sono organi tecnici che svolgono un ruolo di grande rilievo e godono
di ampi margini di discrezionalità giacché non soltanto la scelta dello
strumento ma anche l’ambito stesso dell’intervento di tutela rientra nella
loro sfera decisionale. La loro attività, quindi, offre un caso di studio interessante per analizzare le caratteristiche dell’intervento pubblico nel settore culturale.
La identificazione di ciò che presenta interesse culturale e merita di
essere tutelato è di competenza della Soprintendenza. Per i beni di proprietà privata è necessaria la dichiarazione dell’interesse culturale e, una volta
accertata la sussistenza di tale interesse, questi beni sono sottoposti a vincolo e gli interventi di protezione sono soggetti all’autorizzazione della
Soprintendenza competente. Tutti i beni di proprietà pubblica rientrano
nella sfera di competenza della Soprintendenza a meno che non sia stata
dichiarata l’insussistenza del loro interesse culturale.
La mancanza di oggettività sottesa all’identificazione di ciò che può considerarsi bene culturale e alla scelta del tipo di intervento da realizzare
implica che le Soprintendenze godano di ampi margini di autonomia e che
sul risultato finale incidano significativamente le caratteristiche del processo decisionale pubblico e dei soggetti in esso coinvolti. Anche nel caso
della tutela del patrimonio culturale, come in altri ambiti di intervento
pubblico, il processo decisionale può essere descritto come una catena di
relazioni “principale – agente”. Anzi, il settore dei beni culturali è caratterizzato da asimmetrie informative particolarmente marcate, in conseguenza dei problemi informativi connessi alle caratteristiche artistiche e storiche del bene culturale [15].
Le ragioni sottese all’intervento pubblico in questo settore sono ben note
e non sono qui ulteriormente approfondite2 così come si rimanda ad altri
contributi3 per l’analisi positiva delle particolari caratteristiche delle poli1 Per un’analisi delle competenze delle Soprintendenze siciliane, v. [10]. In generale,
per una trattazione delle tematiche connesse alla tutela e valorizzazione dei beni culturali in Sicilia, v. [16] e [11].
2 Il “fallimento del mercato” è riconducibile ai ben noti problemi derivanti dall’esistenza di beni pubblici, di esternalità, di benefici derivanti dalla mera esistenza del patrimonio, indipendentemente dalla fruizione (non use values) che, in assenza di interventi
correttivi, condurrebbero a risultati inefficienti, per esempio, ad un livello insufficiente
di tutela. Sulle giustificazioni normative, recentemente, v. [4].
3 [7], [9] e [14].
Misurazione della performance e tutela dei Beni Culturali: il caso della Sicilia
213
tiche pubbliche in questo ambito. Qui si ritiene utile focalizzare l’attenzione sugli strumenti di intervento a disposizione del governo regionale –
spesa pubblica e regolamentazione - per giungere a fornire una definizione del prodotto delle Soprintendenze e tentarne la misurazione4.
2.1. Definizione dell’attività di tutela
Nella letteratura economica poca attenzione è stata dedicata alla definizione del prodotto dell’attività di tutela e alla sua misurazione. Questo
lavoro sviluppa l’analisi avviata dagli autori sullo stesso tema in precedenti lavori, [2] e [3], ai quali si rimanda per maggiori approfondimenti.
Pur consapevoli delle inevitabili semplificazioni, facendo riferimento
alla distinzione tra spesa pubblica e regolazione prima richiamata, l’attività delle Soprintendenze viene scomposta in due tipologie distinte -la
Tutela Attiva (TA) e la Tutela Passiva (TP)- che possono essere utili sia per
comprendere le implicazioni economiche dell’attività di tutela che come
base per condurre l’analisi empirica.
Il concetto di TA è riconducibile all’intervento di spesa e comprende
una vasta gamma di attività che include: attività di catalogazione, formazione specialistica del personale, scavi, restauri e manutenzione. Le
Soprintendenze godono di ampi margini di autonomia nella programmazione della TA, subordinata alla limitata disponibilità di fondi, mentre,
dopo l’approvazione del programma, non sono ammesse variazioni
discrezionali né autonomia decisionale nella gestione della spesa5.
La TP riguarda l’attività riconducibile alla regolazione e ai controlli
sulla sua applicazione e si sostanzia in molti tipi di atti di natura prevalentemente amministrativa, anche se con rilevante contenuto specialistico, rivolti a soggetti sia pubblici che privati. Le Soprintendenze nell’esercizio dell’attività di regolazione godono di un ampio ambito di discrezionalità. In alcuni casi, le attività di regolazione dipendono dalla domanda
dei regolati (per esempio, è questo il caso delle autorizzazioni ad intervenire sul bene culturale)6 mentre, in altri casi, può trattarsi di misure spon4 Nel settore culturale questo problema è stato ampiamente studiato con riferimento
all’attività dei musei. Per la Sicilia, v. [12] e [13].
5 Fanno eccezione soltanto le situazioni di emergenza.
6 L’intensità di questa forma di regolazione dipende dal tipo di bene culturale e dal
vincolo al quale il bene è sottoposto: per esempio, le prescrizioni saranno più stringenti,
con riferimento agli interni, se il bene è di interesse artistico, mentre sarà meno stringente se il bene, anche quando sito nel centro storico, è soltanto soggetto a restrizioni circa
il suo aspetto esterno.
214
Finocchiaro Castro, Rizzo
taneamente adottate per limitare le attività sui beni culturali (per esempio,
i vincoli)7 o per sanzionare violazioni (per esempio, le demolizioni).
2.2. Composizione e determinanti dell’output complessivo
Come viene decisa la composizione dell’output complessivo delle
Soprintendenze? È ragionevole attendersi che le Soprintendenze decidano
in base ai vincoli esterni e alle preferenze degli esperti operanti al proprio
interno, anche in ragione del sistema degli incentivi esistenti.
I due tipi di prodotto sono sottoposti a vincoli e incentivi diversi. I vincoli finanziari sono più stringenti per la TA che per la TP dal momento che la
spesa ha un ruolo limitato rispetto al complesso dell’attività di regolazione8.
Non sembra, peraltro, che esistano incentivi finanziari specifici mirati a stimolare l’attività delle Soprintendenze: le risorse loro assegnate non sono
influenzate dalla loro performance9. Gli incentivi derivanti dal prestigio e
dalla reputazione tra gli specialisti sono probabilmente più marcati per la TA
in quanto, oltre all’attività di ricerca, la TA offre opportunità di interpretazioni storiche innovative, di nuovi ritrovamenti che costituiscono una testimonianza delle competenze degli esperti operanti all’interno della
Soprintendenza. Naturalmente, l’efficacia di questi incentivi è, comunque,
condizionata dall’esistenza dei vincoli finanziari prima ricordati.
Gli incentivi operano in modo diverso sulle attività di TP; alcune di esse –
per esempio, le autorizzazioni, i permessi, gli ordini di demolizione - esercitano effetti rilevanti sulle attività collegate ai beni culturali e producono benefici
o costi divisibili. Di conseguenza, questo specifico tipo di attività è più esposto
al controllo dei soggetti interessati (individui, imprese e istituzioni), cioè agli
stimoli della “domanda”, e in questo caso è probabile che i ritardi o altre eventuali manifestazioni di condotta inefficiente delle Soprintendenze possano dar
luogo a qualche forma di protesta. Questa tendenza potrebbe essere ulteriormente incentivata dal contesto istituzionale; basti ricordare che le
Soprintendenze sono responsabili per i danni che il bene culturale subisce in
conseguenza di ogni lavoro o attività che terzi conducono in relazione al bene
culturale. In base a questi elementi, potrebbe emergere un incentivo a privilegiare attività di TP, nel senso di allocare le risorse disponibili, principalmente il
personale, in quelle attività sottoposte ad un maggiore controllo esterno. Il
7 Questi vincoli possono essere di diverso tipo: vincoli monumentali; divieti di apportare modifiche al bene culturale; vincoli paesaggistici.
8 Per esempio, questo è il caso della spesa per demolizioni ed espropri.
9 Sul punto, v. l’analisi dei determinanti del finanziamento delle Soprintendenze svolta da [5].
Misurazione della performance e tutela dei Beni Culturali: il caso della Sicilia
215
ruolo della pubblica opinione sembra, invece, essere meno rilevante nell’influenzare la decisione di attuare la TA dal momento che tale decisione dipende
prevalentemente dalle condizioni del sito/edificio così come dalla sua importanza artistica e storica, anche se la scelta tra restauro conservativo e possibilità di riuso di un edificio comporta significative differenze per quanto riguarda
gli usi compatibili e, pertanto, l’impatto sullo sviluppo locale.
3. Analisi Empirica dell’Attività di Tutela Attiva e Passiva delle
Soprintendenze Siciliane
I dati utilizzati per valutare la performance delle Soprintendenze si riferiscono all’attività di TA e TP. Per quanto riguarda quest’ultima, abbiamo raccolto il numero di atti amministrativi posti in essere da ogni Soprintendenza
nel periodo 1993-2000 (per ulteriori dettagli si veda l’appendice). Data l’eterogeneità degli atti amministrativi considerati, abbiamo deciso di pesarli
prendendo in considerazione sia le difficoltà di natura tecnica sia quelle di
natura amministrativa che si devono affrontare per porre in essere tali atti10.
I dati della TA si riferiscono ai pagamenti relativamente ai beni culturali effettuati dall’Assessorato ai BB.CC. ed AA. nel periodo 1993-2000.11
Avendo a nostra disposizione sia i dati degli impegni sia quelli dei pagamenti, abbiamo scelto di utilizzare quest’ultimi per la nostra analisi.
Nonostante i pagamenti non dipendano esclusivamente dall’attività delle
Soprintendenze12, riteniamo che essi rispecchino più fedelmente i risultati dell’intervento pubblico rispetto gli impegni.
In un precedente lavoro, [2] abbiamo usato gli stessi dati per costruire
alcuni indici di attività di TA e TP. Attraverso tali indici, si evidenzia che
le Soprintendenze mostrano output abbastanza simili nonostante le significative differenze in dimensioni finanziarie e patrimonio culturale di competenza. Inoltre, i livelli di attività di TA e TP riscontrati per ciascuna
10 I pesi, i cui valori vanno da 1 a 5, sono stati assegnati da diversi dirigenti che lavorano in differenti dipartimenti dell’Assessorato ai BB.CC. e presso alcune
Soprintendenze.
11 I nostri dati riguardano le risorse finanziarie disponibili così come indicate sul
bilancio della Regione Sicilia per le attività di recupero, restauro, mantenimento e conservazione dei beni culturali immobili. Per una più dettagliata analisi degli aspetti finanziari si veda [10].
12 Ad esempio, i pagamenti possono dipendere dagli appelli, dalla velocità delle procedure di restauro e conservazione e da eventuali problemi legali con le ditte appaltatrici delle opere di restauro.
216
Finocchiaro Castro, Rizzo
Soprintendenza sembrano riflettere gli andamenti regionali. Nel presente
lavoro impiegheremo gli stessi dati per analizzare la performance dell’attività di tutela svolta dalle Soprintendenze.
3.1 Analisi d’Efficienza: un’Applicazione della DEA
Per misurare l’efficienza dell’attività di tutela delle Soprintendenze
abbiamo applicato una tecnica non parametrica, la Data Envelopment
Analysis (DEA), ai dati relativi alla TA e alla TP. Si tratta di un programma lineare e deterministico, che è stato inizialmente sviluppato da [1] per
costruire la frontiera della tecnologica su base non parametrica13. La tecnica DEA è comunemente utilizzata in diversi settori (sanità, istruzione,
etc.) poiché mostra un elevato grado di flessibilità d’impiego. Tale approccio consente di studiare l’efficienza attraverso due modelli alternativi: la
massimizzazione degli output e la minimizzazione degli input. In questo
lavoro, applicheremo il modello di minimizzazione degli input che è coerente con il paradigma principale-agente che, come si è detto, caratterizza l’attività di tutela del patrimonio culturale.
Nel nostro studio, assumiamo che le Soprintendenze producano output
sia in termini di TA sia in termini di TP. Gli input a disposizione sono il
personale14 ed il patrimonio culturale15. Quest’ultimo è un input con
caratteristiche particolari poiché costituisce la condizione necessaria
13 La DEA è definita come non parametrica poiché non si assume che la tecnologia
sottostante appartenga ad una determinata classe di funzioni la cui forma funzionale
dipende da un numero finito di parametri, come ad esempio la ben nota funzione CobbDouglas. Inoltre, questa tecnica è anche detta non-statistical perchè non vengono fatte
alcune assunzioni circa la distribuzione degli errori (cioé i residui d’efficienza) della funzione di produzione [17]. Utilizzando la DEA, è possibile misurare la massima contrazione (espansione) radiale degli inputs (outputs) compatibile con l’insieme delle possibili scelte di produzione o spazio d’inviluppo. Tale analisi si divide in due fasi. Nella prima,
si sviluppa un programma matematico che permette di ottenere lo spazio d’inviluppo partendo da ogni unità decisionale in questione. Successivamente, si segue una procedura di
ottimizzazione della proiezione radiale di ogni unità decisionale all’interno dell’inviluppo. Chiaramente, l’inviluppo così ottenuto deve soddisfare tutti i requisiti imposti dalla
teoria economica, come illustrato in [6].
14 I dati relativi al personale sono stati ottenuti dall’Assessorato ai BB.CC. e AA. In
particolare, i valori utilizzati nella nostra analisi fanno riferimento esclusivamente al personale direttamente coinvolto nelle attività di AC e PC delle Soprintendenze.
15 I dati relativi al patrimonio culturale sono stati raccolti dall’Atlante dei Beni
Culturali Siciliani pubblicato nel 1988. Questi sono gli unici dati ufficiali tuttora dispo-
Misurazione della performance e tutela dei Beni Culturali: il caso della Sicilia
217
Input
Patrimonio Culturale (Input non controllabile)
Personale (Input controllabile)
Output
Atti Amministrativi Pesati
Tab. 1. Variabili Utilizzate nell’Analisi d’Efficienza.
affinché vi sia attività di tutela e non può, pertanto, essere considerato
come un qualsiasi elemento di costo. Il patrimonio culturale può, quindi,
essere considerato come un input non controllabile poiché l’obiettivo dell’attività di tutela non è volto alla sua minimizzazione quanto, piuttosto,
alla sua conservazione ed ampliamento. Al tempo stesso, pur con queste
peculiarità, si ritiene opportuna la sua inclusione nella analisi per catturare le eventuali differenze in termini di efficienza tra le Soprintendenze
siciliane. Input e output sono riportati in Tabella 1.
Nella nostra analisi, ogni Soprintendenza, in ogni anno d’osservazione,
rappresenta un’unità decisionale16 per la quale abbiamo calcolato il livello d’efficienza assumendo rendimenti variabili di scala17. In un precedente lavoro [3], abbiamo presentato possibili specificazioni alternative dei
modelli di minimizzazione degli input e massimizzazione degli output e
ne abbiamo discusso aspetti positivi e negativi. La comparazione di tali
specificazioni alternative ci ha permesso di pervenire alla scelta di un
nibili. Per ogni Soprintendenza, viene riportato (1) il totale dei siti archeologici, (2) i beni
paesaggistici, architettonici ed urbani, (3) il patrimonio etno-antropologico e (4) i beni
storico-artistici. Alcune categorie di beni culturali presenti nell’Atlante dei Beni Culturali
Siciliani (i beni archeologici museali, beni archivistici, beni bibliografici ed i beni naturali e naturalistici) sono state escluse dalla nostra analisi poiché non direttamente connesse con l’attività di TA e TP.
16 Quei valori che costituiscono degli outliers sono stati esclusi ed il numero di unità
decisionali è stato ridotto da 72 a 64. In ogni caso, abbiamo anche calcolato i livelli d’efficienza utilizzando gli outliers senza riscontrare alcuna differenza significativa.
17 Abbiamo anche condotto lo studio d’efficienza sotto l‘ipotesi di rendimenti costanti di scala, anche in questo caso, senza trovare alcuna differenza significativa rispetto
all’ipotesi di rendimenti variabili di scala.
218
Finocchiaro Castro, Rizzo
Personale
-18%
Tutela Attiva
-
Tutela Passiva indotta dai privati
-
Tutela Passiva svolta dalle Soprintendenze
-
Perc. Di unità decisionali efficienti
Efficienza media
25%
76.60%
Tab. 2. Modello di Minimizzazione Input.
modello, che meglio sembra rappresentare la performance delle
Soprintendenze nell’attività di tutela dei beni culturali. La specificazione
scelta per tale modello è la minimizzazione degli input in cui il patrimonio culturale è considerato come input non controllabile e gli atti amministrativi di TP sono distinti in due categorie: gli atti posti in essere in seguito a domanda di terzi (per esempio, i proprietari di un bene culturale) e
quelli spontaneamente “prodotti” dalla Soprintendenza. La Tabella 2
mostra i valori relativi a tale modello18.
L’inclusione del patrimonio culturale come input non controllabile merita
qualche commento. Questo input permette di tener conto, anche se in maniera non perfetta, delle differenti “dimensioni” delle Soprintendenze. I risultati delle singole unità decisionali, qui non riportati per esigenze di spazio,
mostrano come molte unità di piccole dimensioni raggiungano la frontiera
d’efficienza o vi siano molto vicine. In altre parole, il patrimonio culturale
permette di verificare il collegamento tra l’output prodotto da una soprintendenza ed il patrimonio da tutelare. Molta cautela, però, va utilizzata nel trarre conclusioni circa l’efficienza relativa delle Soprintendenze. La DEA consente a quelle unità decisionali che presentano bassi livelli di input ed alti
livelli di output di raggiungere elevati scores di efficienza. Il patrimonio culturale non rappresenta soltanto un costo, il cui basso livello combinato con
un’intensa attività di tutela permette di ottenere alti livelli d’efficienza, ma
esso costituisce la ragione stessa dell’attività di tutela svolta dalle
Soprintendenze. I risultati dell’analisi d’efficienza sono, dunque, significativamente influenzati dal duplice ruolo svolto dal questo input.
18 Non riportiamo i valori del patrimonio culturale poiché esso è considerato come
input non controllabile nella nostra analisi.
Misurazione della performance e tutela dei Beni Culturali: il caso della Sicilia
Constanti
15
Decrescenti
39
Crescenti
10
Totale
64
219
Tab. 3. Distribuzione dei Rendimenti di Scala.
Come rilevato in un precedente lavoro [3], è interessante sottolineare
che la distinzione tra atti amministrativi posti in essere in seguito a domanda di terzi e quelli spontaneamente “prodotti” dalla Soprintendenza permette di raggiungere valori di efficienza più elevati. In particolare, la componente indotta dai privati richiede, in media, minori miglioramenti per
raggiungere la frontiera d’efficienza rispetto quella spontanea delle
Soprintendenze. In altre parole, tale componente potrebbe ridurre i potenziali effetti negativi sulla performance delle Soprintendenze che sono
dovuti alle scelte discrezionali degli esperti in conseguenza delle asimmetrie informative che caratterizzano il processo decisionale.
Nonostante il modello descritto sia quello che ha raggiunto il più alto livello di efficienza, l’analisi mostra come sia ancora possibile aumentare il livello
d’efficienza medio delle Soprintendenze, giungendo alla loro dimensione ottimale, intesa in termini di personale. Per poter ottenere tale risultato, bisogna
prima definire la tipologia di rendimenti di scala che caratterizzano ogni unità
decisionale. La Tabella 3 mostra che soltanto 15 unità decisionali (pari al 23%
del totale) hanno rendimenti costanti di scala, 39 unità decisionali (pari al 61%
del totale) hanno rendimenti decrescenti di scala ed, infine, soltanto 10 unità
decisionali (pari al 16% del totale) hanno rendimenti crescenti di scala; in
sostanza, durante il periodo d’osservazione, la scala media di produzione delle
Soprintendenze è stata di dimensione maggiore rispetto quella efficiente.
Relativamente ad una possibile variazione degli input, l’analisi mostra
che, nel caso di unità decisionali al di sotto della frontiera d’efficienza, la
dimensione ottimale potrebbe essere raggiunta attraverso una diminuzione del personale, in media pari al 18%. Tale dato è fornito dall’analisi dei
potenziali miglioramenti attuabili, in media, dalle unità decisionali. Chiaramente, se da un lato, tali suggerimenti riguardano le modalità di miglio-
220
Finocchiaro Castro, Rizzo
ramento dell’efficienza di ogni unità decisionale, dall’altro lato, non offrono elementi per valutarne la qualità o l’efficacia.
Per analizzare gli eventuali effetti dei cambiamenti tecnologici sui livelli
d’efficienza dell’attività di tutela delle Soprintendenze è stato calcolato l’indice di produttività di Malmquist19. Tale indice ha mostrato che non vi sono
stati cambiamenti tecnici rilevanti nel corso del periodo d’osservazione, che
i cambiamenti nei fattori produttivi dovuti all’innovazione tecnologica non
differiscono significativamente tra le Soprintendenze e che, in media, tali
variazioni sono leggermente positive al passare del tempo.
4. Conclusioni
Questo lavoro costituisce un primo esercizio di applicazione della DEA
nel settore della tutela dei beni culturali; i risultati ottenuti mostrano che ci
sono margini di miglioramento dei livelli d’efficienza delle Soprintendenze
siciliane. Nel caso dell’attività di TP, le Soprintendenze sembrano essere relativamente più efficienti quando il loro output è originato dalla domanda dei
terzi. Comparando le attività di TA e TP, è nella prima, in cui la performance
è più facilmente verificabile e monitorabile, che si raggiungono livelli di efficienza relativa maggiori. Più in generale, il complesso sistema dell’attività
delle Soprintendenze sembra essere sensibile all’esistenza di incentivi esterni; quindi, una possibile implicazione di policy sarebbe quella di introdurre
incentivi e vincoli sull’attività di tutela in maniera da aumentare l’efficienza
del mix dell’output delle Soprintendenze. L’analisi, comunque, non ci permette di valutare né la qualità né l’efficacia delle varie unità decisionali.
Inoltre, a causa dei limiti dei dati a disposizione, i nostri risultati devono essere considerati esclusivamente come indicatori delle potenzialità
metodologiche ed applicative della DEA nel campo dell’analisi economica applicata al settore dei beni culturali. Il presente lavoro, in conclusione,
rappresenta un primo passo verso una più completa analisi e misurazione
dell’efficienza dell’attività di tutela; tale misurazione, però, necessita un
significativo ampliamento dei dati a disposizione.
19 L’indice di produttività di Malmquist permette di scorporare la variazione nel
tempo dell’efficienza tecnica dallo spostamento nel tempo della frontiera di produzione
(in altre parole, il progresso tecnico).
Misurazione della performance e tutela dei Beni Culturali: il caso della Sicilia
221
APPENDICE
Atti Amministrativi
Autorizzazioni (aree archeologiche)
Modifica decreto
Abusivismo:annull.sanz.art.59
Occupazione d’urgenza
Acquisti
Osservazioni
Approvazione donazioni
Spese autorizzazione
Approvazioni lavori-78124
Spese variazioni 78104
Contributi a comuni per acquisti
Svincolo somme
Contributi per acquisti-78201
Vincoli archeologici
Contributi per restauri
Vincoli architettonici
Decisioni su ricorsi
Vincoli etno-antropologici
Demolizioni
Vincoli monumentali
Dichiarazione P.U.
Vincoli naturalistici
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2279-2304.
223
IL PREZIOSO RUOLO DELLA RICERCA NEI BENI CULTURALI
GRECO V.
Galleria Regionale di Palazzo Bellomo, via Capodieci, 12 96100 Siracusa; tel: 0931-69511; 347
8792265; fax 0931-69529 [email protected]
Forse a prima vista una collaborazione tra un museo di arte medievale e
moderna e una facoltà di tecnologie applicate alla conservazione e al restauro dei beni culturali può sembrare scontata, quasi normale. Ma, approfondendo la questione dal punto di vista di chi, come me, si trova a dover fare
i conti ogni giorno con la particolare condizione dell’istituzione museale
che, in un clima di sempre maggiori restrizioni non dispone assolutamente
di alcun fondo per la ricerca, ci si rende conto che questa collaborazione è
di vitale importanza per la qualità dell’offerta culturale che il museo propone al pubblico. Oggi i musei siciliani si dibattono tra le difficoltà dotazioni
finanziarie sempre più esigue, costi di personale e strutture sempre maggiori, e necessità di fornire un servizio adeguato agli standard prestazionali dei
musei italiani ed esteri. Anche quando ci sia una dotazione di personale sufficiente, condizione che certo non è quella del Museo Bellomo, da sempre
inficiato da una cronica mancanza di personale, soprattutto tecnico e specialistico, questa da sola non basta perché deve essere affiancata dall’accesso
agli strumenti e alla ricerca che solo un centro deputato istituzionalmente
alla ricerca, come l’Università, può garantire.
Dal canto suo, una facoltà che si prefigge di formare personale qualificato per il restauro e la conservazione dei beni culturali può rischiare, se non
intraprende percorsi dai quali lo studente può accedere a sperimentazioni pratiche, di cristallizzare su posizioni meramente teoriche il bagaglio culturale
fornito. Così, i percorsi paralleli, l’uno volto ad acquisire nozioni specialistiche ma teoriche, l’altro immerso nei problemi quotidiani e martellanti della
concreta organizzazione, quando invece riescono a trovare un punto di contatto, si scambiano linfa vitale, e costruiscono insieme una possibilità che,
sperimentando una sorta di “ricerca applicata sul campo” arricchisce entrambi di ulteriori potenzialità che generano un percorso “virtuoso”.
224
Greco
La mostra di Mario Minniti, pittore siracusano seicentesco, così famoso da tenere una tra le maggiori, forse addirittura la più fiorente, bottega
d’arte, è stata il primo “laboratorio” di sperimentazione tra i due istituti.
Lo studio colorimetrico effettuato secondo i protocollo fissati dalla normativa, è stato molto importante per due motivi: il primo ovviamente attiene
al valore intrinseco della ricerca specifica sul pittore siracusano che, valutato sempre sbrigativamente dalla critica come “caravaggesco”, e comunque non aiutato certo dal fatto che fu amico e modello di Caravaggio, non
è stato studiato, analizzato e approfondito, finora, così come invece meriterebbe. Così, nella fiorente produzione della bottega si riscontrano opere
che non presentano sempre la stessa qualità pittorica e spaziale, e, accanto a capolavori riconosciuti come Il Miracolo della vedova di Naim o
l’“Ecce Homo” maltese, conservato a ‘Mdina’, si ritrovano opere la cui
fattura ed esecuzione molto probabilmente sono da attribuirsi alla “scuola”, cioè a quella cerchia di pittori, più o meno vicini al maestro che eseguivano le copiose commissioni provenienti da tutta la Sicilia.
L’attribuzione di un dipinto, infatti, si avvale di una serie di elementi
oggettivi quali le fonti d’archivio, ma è determinante la ricerca, che attraverso l’analisi del colore e quindi della tavolozza cromatica del maestro e
degli allievi, può offrire elementi di identificazione assai probanti.
Inoltre, le indagini radiografiche, che non sono invasive e non costituiscono alcun pericolo per l’opera d’arte, penetrando gli strati pittorici,
attraverso gli infrarossi permettono di vedere in tutta chiarezza il disegno
preparatorio sottostante al dipinto, svelando così non solo “ripensamenti”
ma anche le tracce non visibili di eventuali ad esempio di quadrettature,
che, costituendo la base per una copia, sono la conferma implacabile della
non originalità dell’opera. Questo tripodi analisi quindi fornisce utilissime
informazioni non solo per la datazione ma anche per testare l’autenticità
di un dipinto, e per verificare eventuali disegni preparatori o assenza di
essi, anche come elemento importante per l’attribuzione dell’opera.
Le indagini sono state per buona parte condotte su aspetti colorimetrici e misurazioni di colore, oltre alle radiografie all’infrarosso. Scoprire o
ri-scoprire che il colore, elemento fondamentale delle opere d’arte non è
una grandezza o misura oggettiva ma una percezione soggettiva da parte
dell’occhio umano dell’assorbimento delle vari lunghezze d’onda contenute nel fascio di luce, significa ripensare e ragionare sul condizionamento operato dalle varie sorgenti luminose che noi, preposti all’esposizione
delle opere d’arte presso il pubblico, normalmente utilizziamo, spesso
Il prezioso ruolo della ricerca nei Beni Culturali
225
senza il supporto necessario dell’approfondimento tecnico e scientifico
che invece l’argomento meriterebbe.
Una sorgente di luce non è infatti uguale ad un’altra e solo misurandone gli effetti sul dipinto e cioè su come il nostro occhio percepisce le variazioni dei colori, e confrontando con il modello cui fare riferimento della
luce naturale, si può scegliere e proporre al fruitore/visitatore una soluzione più corretta ed adeguata. E, oltre a ciò, possono sperimentarsi
nuove/antiche emozioni, sulla base della conoscenza di quelle che erano le
fonti di luce utilizzate dall’artista, naturale o artificiale e sui presunti effetti che lo stesso aveva programmato per la percezione della sua opera. È
fondamentale infatti conoscere quanto più oggettivamente le condizioni
dell’opera nella sua genesi, che evidentemente è già definita all’interno
della mente dell’artista prima ancora che egli l’abbia trasferita sul supporto scelto, tela, pietra, legno, metallo.
Solo così si può operare quella necessaria quanto inevitabile opera di
“ridefinizione”, ben sapendo che qualsiasi riproposizione odierna non può
pretendere di restituire l’immagine storica dell’opera, perché sarebbe
impossibile, ma può mettere in luce alcuni aspetti ritenuti essenziali,
orientare verso la percezione di quegli elementi che l’artista aveva gerchicamente fissato, cercando di fornire le chiavi di lettura senza operare arbitrarie e ingiustificate cesure o, peggio, “mettendo in ombra” componenti
importanti per una globale comprensione dell’opera.
226
ANALISI DELLA FLORA E DELLA VEGETAZIONE
DELLE AREE ARCHEOLOGICHE DELLA SICILIA ORIENTALE
FINALIZZATA ALLA TUTELA E VALORIZZAZIONE
DEI MANUFATTI ARCHITETTONICI
GUGLIELMO A.(1), PAVONE P.(1)., SPAMPINATO G.(2), TOMASELLI V.(3)
(1) Dipartimento di Botanica, Università di Catania (2) Dipartimento S.T.A.F.A., Università Mediterranea di Reggio Calabria
(3) CNR, Istituto di Genetica Vegetale, Bari
Ricerche sulla flora spontanea e ornamentale e sulla vegetazione infestante sono dedicate da alcuni anni ai più importanti complessi archeologici della Sicilia orientale (1): la Neapolis (2) e la Latomia dei Cappuccini
a Siracusa (3), il Parco Archeologico di Akrai a Palazzolo Acreide (4);
inoltre è stata avviata l’analisi dell’area di Megara Hyblea.
Lo studio della componente ornamentale consente di meglio conoscere e
valutare il contesto rilevato, ai fini di una corretta gestione, ed ha evidenziato due aspetti meritevoli di nota: gli impianti a verde preesistenti, connotabili come verde storico, e quelli di recente realizzazione. Un esempio di verde
storico si osserva nella Latomia dei Cappuccini dove accanto a specie fruttifere risalenti all’800, sono presenti alberi ornamentali introdotti successivamente, quando l’area era usata come giardino pubblico (3).
Gli impianti a verde più recenti non sempre rispettano le caratteristiche
stazionali e storiche del sito rivelandosi inadeguati e inappropriati.
L’esempio del Parco archeologico di Akrai (4) dimostra quanto spesso tali
realizzazioni siano dovute solo all’improvvisazione.
In particolare i criteri d’intervento proposti per le aree studiate sono
volti a valorizzare il bene dal punto di vista paesaggistico, a migliorarne
la fruizione turistica, a risolvere particolari problemi ambientali. Inoltre la
scelta delle specie da utilizzare deve tener conto di parametri quali condizioni climatiche, utilizzo di specie autoctone o, comunque, di esotiche
compatibili con l’ambiente, possibilità di svolgere altri scavi.
Gli studi sulla flora e sulla vegetazione spontanea evidenziano i complessi rapporti tra specie e comunità vegetali e manufatti architettonici (5,
6). L’esigenza primaria della conservazione e tutela può scontrarsi con gli
Analisi della flora e della vegetazione delle aree archeologiche della Sicilia 227
interventi di controllo della vegetazione, ma anche con la funzione estetico-ricreativa che le piante svolgono nelle aree archeologiche e con l’interesse scientifico-ecologico di specie e/o comunità vegetali presenti. E’
stata così rilevata la presenza di specie rare o endemiche come Calendula
suffruticosa Vahl ssp. gussonii Lanza, Origanum onites L., Antirrhinum
siculum Miller nella Neapolis e Aristolochia altissima Desf. nella Latomia
dei Cappuccini.
Lo studio fitosociologico della vegetazione della Neapolis a Siracusa
(2) ha evidenziato come le fitocenosi si distribuiscono in funzione di fattori microclimatici, edafici e antropici. I sintaxa osservati si riferiscono
alle classi Parietarietea judaicae, Adiantetea capilli-veneris, Stellarietea
mediae (Brometalia rubenti-tectori, Geranio-Cardaminetalia hirsutae),
Polygono-Poetea annuae, Stipo-Trachynietea dystachyae, Lygeo-Stipetea,
Molinio-Arrhenatheretea, Cisto-Micromerietea, Quercetea ilicis
(Pistacio-Rhamnetalia alaterni). La carta della vegetazione è stata realizzata con specifici software.
L’analisi floristico-vegetazionale permette inoltre di definire la pericolosità di specie e comunità vegetali per i manufatti. Per ogni fitocenosi è
stato elaborato uno “Spettro di Pericolosità” basato sull’Indice di
Pericolosità (7) e sull’Indice di Ricoprimento Specifico. I risultati ottenuti, correlati alle caratteristiche strutturali e al pregio storico ed architettonico dei manufatti, sono stati elaborati graficamente in una “Carta degli
Interventi” utile strumento per la conservazione del bene e per il mantenimento delle fitocenosi di particolare pregio naturalistico ed estetico.
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(1), pp. 7-14.
229
SU ALCUNI GIARDINI STORICI DELLA SICILIA ORIENTALE
GUGLIELMO A., PAVONE P., SALMERI C.
Dipartimento di Botanica, Università di Catania, Via A. Longo, 19 – 95125 Catania,
[email protected]
I giardini storici sono oggi unanimemente considerati beni monumentali la cui salvaguardia e valorizzazione richiedono competenze pluridisciplinari di agronomi, architetti paesaggisti, storici e, non ultimi, botanici
quali esperti nello studio di base di un giardino relativamente al riconoscimento delle diverse specie ed alla valutazione delle loro esigenze biologiche, edafiche e climatiche.
Il censimento dei giardini storici presenti nella parte orientale e meridionale della Sicilia è stato avviato già da alcuni anni, grazie anche al progetto
finalizzato del C.N.R. “Beni Culturali” (1996-2001). Pur necessitando di
ulteriori indagini, alcuni dei risultati acquisiti vengono presentati e analizzati perché hanno rivelato l’esistenza di un consistente patrimonio naturalistico, oltre che architettonico e culturale, poco noto e spesso trascurato, la cui
conoscenza è preliminare alle attività di conservazione e gestione.
Lo studio è stato articolato in un’indagine storica in archivi e biblioteche, ricorrendo a volte anche a testimonianze personali, per ricostruire gli
eventi legati alla nascita e all’evoluzione di ciascun giardino, e in un’indagine botanica per il riconoscimento delle specie, la valutazione della situazione attuale e, ove possibile, il rilevamento su mappa del giardino stesso
al fine di fissare la situazione in vista di eventuali interventi di manutenzione o restauro.
Dal punto di vista storico va rilevato che, a causa dei disastrosi eventi naturali che, alla fine del Seicento, sconvolsero questa parte dell’isola, il verde storico è tutto rappresentato da impianti non antecedenti al XVIII secolo. La ricostruzione dei centri abitati privilegiò l’espansione edilizia a scapito dei giardini che, perlopiù, rimasero confinati alle aree periferiche e alle residenze di
campagna (Pavone & Salmeri, 1996 [8]; Pavone et al., 1997 [9]).
I giardini studiati presentano caratteristiche storiche, architettoniche e floristiche differenti; eppure, in tale diversità, sono legati da un filo comune
230
Guglielmo, Pavone, Salmeri
LOCALITA’
GIARDINO
BIBLIOGRAFIA
MAPPA
Catania
Villa Bellini
Pavone & Salmeri,
1996
si
Villa Pacini
Guglielmo et al.,
2001a
si
Giardini del centro
storico
Guglielmo et al.,
2003
no
Villa Consoli
Marano
no
Paternò (CT)
Giardino Moncada
si
Bronte (CT)
Castello Nelson
si
Aci S. Antonio (CT)
Villa Casalotto
Pavone et al., 1997
si
Taormina (ME)
Parco G. Colonna
Duca di Cesarò
Guglielmo et al.,
2002a
no
Villa La Falconara
Guglielmo et al.,
2002a
no
Latomia dei
Cappuccini
Guglielmo et al.,
2002b
no
Siracusa
Giardini di Ortigia
no
Palazzolo Acreide
(SR)
Giardino Comunale
Guglielmo et al.,
2002a
si
Ragusa
Giardino Ibleo
Guglielmo et al.,
2002b
si
Piazza Armerina
(EN)
Giardino Garibaldi
Guglielmo et al.,
2002a
si
Tab. 1. Giardini censiti
determinato dalle condizioni climatiche della Sicilia, per cui quasi tutti si
connotano come giardini “mediterranei” per la grande varietà di specie esotiche subtropicali, sempre accompagnate da un ricco contingente di autoctone. Anche se l’immagine tradizionale è quella di un’eterna primavera, con
grande luminosità e flora lussureggiante, in realtà il giardino del Sud, come
si può ancora osservare in vecchie ville e parchi secolari, è studiato per la
ricerca dell’ombra e della frescura, al fine di attenuare il sole e il caldo.
Tra i giardini finora censiti, localizzati nelle province della Sicilia
orientale (v. Tab. 1), si possono individuare, dal punto di vista storico,
alcune tipologie riconducibili all’origine e all’uso del giardino stesso.
Su alcuni giardini storici della Sicilia Orientale
231
– I giardini dei conventi, tipicamente all’interno di chiostri, dal disegno
regolare e simmetrico; acquisiti al demanio pubblico a seguito delle leggi
eversive del 1866, solo in alcuni casi essi mantengono il disegno originario,
come quello del Convento di San Pietro, oggi Giardino Garibaldi, a Piazza
Armerina, o quello del Convento di San Domenico a Catania; più spesso si
presentano profondamente trasformati nelle strutture e nella flora, come nel
Monastero dei Benedettini a Catania. Particolare è il caso della Latomia dei
Cappuccini a Siracusa, dove condizioni storiche e ambientali hanno consentito la sopravvivenza di un rigoglioso giardino (Guglielmo et al., 2002 [6]).
– I giardini delle dimore nobiliari, in città o nelle residenze di villeggiatura, alcuni riconducibili alla ricostruzione post-terremoto, come i
giardini pensili di Villa Cerami, dei palazzi Manganelli e Francica Nava
a Catania (Guglielmo et al., 2003 [4]) o le ville ottocentesche dei residenti inglesi a Taormina (la Falconara dei Nelson di Bronte, il giardino
di Florence Trevelyan, oggi parco pubblico) o, ancora il parco di Villa
Casalotto (Pavone et al., 1997 [9]) e quello del Castello Nelson presso
Maniace.
– I giardini pubblici, nati spesso dal mecenatismo di cittadini illuminati, quali la Villa Pacini (Guglielmo et al., 2001a) e la Villa Bellini
(Pavone & Salmeri, 1996) a Catania, la Villa Comunale di Palazzolo
Acreide, il Giardino Ibleo a Ragusa (Guglielmo et al., 2001[5]).
A queste tipologie fondamentali si accompagnano poi altri impianti a
verde, meno appariscenti ma sicuramente interessanti, spesso nascosti in
affollati contesti urbani e gelosamente custoditi.
Per quanto concerne gli aspetti floristici va sottolineata la rilevante presenza, sia nei giardini delle dimore nobiliari e dei conventi sia in quelli più
modesti, di specie fruttifere tipiche della tradizione siciliana, agrumi come
pure nespoli, melograni, ulivi e banani, che testimoniano la diffusa usanza di considerare il giardino in un’ottica utilitaristica, quindi non solo
luogo destinato allo svago, al riposo o all’affermazione del rango sociale,
ma anche alla produzione di frutta e ortaggi che il proprietario destinava
al consumo familiare o alla vendita.
Nell’ambito di queste ricerche sono stati già pubblicati diversi contributi per esteso, in particolare sulle due ville comunali catanesi, su Villa
Casalotto, sul Giardino Ibleo e sulla Latomia dei Cappuccini. Si presentano quindi i risultati preliminari delle indagini su altri insediamenti, di cui
si descrivono gli aspetti principali, relativamente alla storia, allo stile ed
alla componente floristica.
232
Guglielmo, Pavone, Salmeri
In appendice sono elencate le più significative specie rilevate, soprattutto arboree ed arbustive, mentre, per quanto riguarda le erbacee, facilmente soggette a sostituzioni, si indicano solo quelle tradizionalmente più
frequenti nei giardini siciliani.
Villa La Falconara
Ubicazione: Taormina (ME)
Tipologia o proprietà: giardino privato
Data di fondazione: 1867 (acquisto del terreno), primi ‘900 (costruzione)
Notizie storiche: la presenza in Sicilia della famiglia Nelson risale al 1800,
quando il re Ferdinando I conferì il titolo di Duca di Bronte all’ammiraglio Horace Nelson in riconoscimento dei suoi meriti, ma solo nel 1835 gli
eredi di Nelson vennero per la prima volta in Sicilia. Il terreno di Taormina
fu acquistato intorno al 1867 e, dopo una lunga vertenza giudiziaria, nel
1911 iniziò la costruzione della villa. La consultazione del Fondo Nelson,
custodito a Palermo nell’Archivio di Stato, ha consentito di ricostruire le
diverse fasi di realizzazione tramite corrispondenze, ordini di materiali ed
arredi, ecc. In particolare, per quanto riguarda il giardino, si dispone di
informazioni dettagliate, spesso comprensive dei costi, sugli elementi
d’arredo, mentre ben pochi dati si hanno sull’introduzione delle piante.
Stile: il giardino della Falconara si estende su una parete rocciosa a strapiombo sul mare, affacciata a Sud-Est sul golfo di Giardini-Naxos. Scale
e sentieri collegano i diversi livelli e conducono alla scoperta di angoli
nascosti, rovine e ipogei, nicchie e colonnati con statue, suggestive terrazze affacciate sul mare. La vegetazione esalta l’aspetto romantico del giardino e ne sottolinea l’essenza mediterranea; piante indigene ed esotiche
coesistono in un insieme unico di grande effetto.
Flora: la componente mediterranea è rappresentata da specie a portamento arboreo come Laurus nobilis, Nerium oleander, Cupressus sempervirens, Pinus halepensis, Chamaerops humilis, nonchè un vetusto esemplare di Ceratonia siliqua. Molte piante arbustive sono tipiche della macchia
e crescono soprattutto nelle zone più scoscese, dove predomina la vegetazione naturale; qui si ritrovano Euphorbia dendroides, Pistacia lentiscus e
P. terebinthus, Rhamnus alaternus. Sulle rocce sporgenti e tra le pietre si
possono osservare specie rupestri come Capparis spinosa, Antirrhinum
siculum e A. majus, Umbilicus rupestris, Galium aparine, Polypodium
vulgare. Come spesso accade nei giardini siciliani, sono presenti anche
diverse piante fruttifere, tra cui Olea europaea, Eryobotria japonica,
Su alcuni giardini storici della Sicilia Orientale
233
Prunus amygdalus e P. armeniaca, Punica granatum e agrumi (Citrus
aurantium e C. limon). Le specie esotiche, seppure non insolite per i giardini mediterranei, si contraddistinguono per le dimensioni e le fioriture.
Le più significative sono Jacaranda mimosaefoliae, Grevillea robusta.
Eucalyptus camaldulensis e E. globulus, Phoenix canariensis e P. dactylifera, Sterculia diversifolia, Dracaena draco, Tilia x orbicularis, Cycas circinnalis. Singolare è la presenza di Aberia caffra, alberello dai frutti eduli
di origine sudafricana.
Commenti: il giardino della Falconara è un’interessante testimonianza dell’integrazione tra l’idea del giardino all’inglese, legata alle tradizioni culturali dei proprietari, e le peculiarità climatiche e paesaggistiche della
regione mediterranea. Esso ha mantenuto nel tempo la sua struttura originaria grazie al persistere della proprietà privata che solo parzialmente è
intervenuta sugli aspetti di vegetazione naturale; pertanto, merita di essere adeguatamente preservato e valorizzato.
Parco G. Colonna Duca di Cesarò
Ubicazione: Taormina (ME)
Tipologia o proprietà: giardino pubblico
Data di fondazione: 1890 ca., dal 1923 giardino pubblico
Notizie storiche: prende il nome da Giovanni Colonna, Duca di Cesarò,
Ministro delle Regie Poste e Telegrafi, grazie al quale il Comune di
Taormina riuscì ad ottenere i finanziamenti necessari per acquisire il parco
tramite un esproprio per pubblica utilità. A quel tempo il parco era di proprietà del Dott. Salvatore Cacciola che l’aveva ricevuto in eredità dalla
moglie, la nobildonna inglese Florence Trevelyan stabilitasi a Taormina
nel 1889. A lei si deve la progettazione e realizzazione del giardino esteso
su un terreno in ripido pendio sotto le mura della città. Le differenze di
livello furono colmate con terrazzamenti in pietra e scalinate. Agli alberi
autoctoni, carrubi, olivi, mandorli, si aggiunsero quelli provenienti dall’emisfero australe introducendo molte piante esotiche non conosciute a
Taormina, come Araucaria, Calliandra, Bahuinia. Il giardino oltre che
con statue classiche e giare enormi, fu arricchito da estrose costruzioni
ideate dalla stessa Florence, dette beehives cioè alveari, con struttura intermedia tra il gazebo e la pagoda orientale, in parte realizzati sulle basi di
rustici preesistenti in un improbabile miscuglio di stile romanico, gotico e
rococò creato con mattoni colorati, pezzi di pietra, stoffa, tegole, tubi di
tutte le dimensioni e altri recuperi architettonici. Erano usati per ospitare
234
Guglielmo, Pavone, Salmeri
gli amici della nobildonna o come tranquilli luoghi di lettura. Oltre ai beehives, Florence Trevelyan adornò il parco con i cromlech, una sorta di
monumenti megalitici di pietre disposte in circolo che formano un recinto
religioso, e i dolmen simili a costruzioni funerarie in pietra del III millennio a.C., fatti costruire da Lady Trevelyan in ricordo dei suoi cinque cani.
Stile: il Parco si presenta oggi come un vasto giardino destinato alla fruizione pubblica e quindi ampiamente modificato in alcune strutture architettoniche, dalla pavimentazione dei viali all’inserimento di monumenti
estranei al suo stile originario. Altrettanto può dirsi della componente
vegetale, sostituita e integrata ripetutamente anche con l’intervento di noti
progettisti del verde. Per quanto riguarda la suddivisione del giardino è
possibile approssimativamente distinguere tre parti. A Nord si trova il settore più ampio, sviluppato su due livelli, raccordati da scalinate, e dominato dai beehives e dai dolmen; qui è stato posto un busto di Florence
Trevelyan. La parte centrale del giardino, in corrispondenza dell’ingresso
principale, è quella che ha subito le maggiori modifiche, soprattutto per
l’inserimento del monumento ai Caduti. Nell’impianto formale sono stati
inseriti il “giardino degli odori”, ricco di piante profumate tra cui diverse
varietà di rose e il “giardino roccioso” con diverse specie di piante succulente. A Sud il giardino si articola su diversi livelli, più in alto il cosiddetto Viale delle Rimembranze, con un lungo filare di ulivi dedicati ai caduti, quindi, tramite scalinate, si accede ad una vasta area triangolare, intensamente coltivata. Tutto il giardino, sul versante orientale, si affaccia a
strapiombo sul mare con un viale panoramico delimitato da siepi di
Bougainvillea e da un parapetto in mattoni.
Flora: tra le specie che risalgono all’impianto primitivo si possono distinguere quelle legate alla precedente destinazione agricola del fondo, come
l’ulivo (Olea europaea) di cui rimangono annosi esemplari, il carrubo
(Ceratonia siliqua), alcuni agrumi (Citrus aurantium e C. limon), il mandorlo (Prunus amygdalus) oltre ad alcune specie introdotte dalla Trevelyan
come Thuya orientalis, Araucaria bidwillii e A. excelsa, Calliandra tweedii. Le successive introduzioni hanno privilegiato le specie esotiche rispetto alle autoctone, rispettando però la compatibilità con l’ambiente. Tra le
essenze tipiche della regione mediterranea sono Pinus pinea, Nerium oleander, Rhamnus alaternus, Cercis siliquastrum. La componente esotica si
presenta estremamente eterogenea dal punto di vista botanico con
Gimnosperme (Cedrus atlantica e C. deodara, Cupressus sempervirens,
Libocedrus decurrens), numerose Palme (Arecastrum romanzoffianum,
Su alcuni giardini storici della Sicilia Orientale
235
Chamaerops humilis, Erythea armata, Howea forsteriana, Livistona chinensis, Phoenix canariensis e P. dactylifera, Trachycarpus fortunei e
Washingtonia robusta e alcuni notevoli esemplari di Chamaedorea elegans). Alcune delle specie arboree di recente introduzione sono piuttosto
rare nei giardini della Sicilia orientale; si segnala Photinia serrulata, Ilex
pernyi, Wigandia caracasana, Cyphomandra betacea.
Commenti: per quanto fortemente trasformato, il parco non ha completamente perduto la sua connotazione originale e mantiene quindi la sua
valenza culturale, come testimonianza di un ben preciso periodo storico
della cittadina taorminese.
Giardini del centro storico
Ubicazione: Catania
Tipologia o proprietà: varie
Notizie storiche: il centro storico di Catania corrisponde alla zona un tempo
delimitata dalle mura e si connota per l’impianto settecentesco della struttura urbana derivato dalla ricostruzione successiva al terremoto del 1693. Le
aree destinate a giardini, perlopiù confinate lungo il perimetro delle mura
(Basile & Magnano di San Lio, 1996) erano soprattutto di pertinenza delle
dimore nobiliari e dei conventi, ma piccoli orti erano presenti anche presso
più modeste abitazioni. Lo sviluppo urbanistico della città ha provocato nel
tempo la forte riduzione di tali spazi e oggi solo alcuni giardini si sono conservati mantenendo la loro fisionomia con una componente vegetale discretamente conservata grazie al persistere della proprietà privata. Altri, particolarmente rilevanti sotto il profilo storico, si presentano invece fortemente
modificati nella flora, seppure ancora leggibili nella loro struttura originaria.
Stile: i giardini del centro storico sono riconducibili alle tipologie indicate in premessa. Dei numerosi conventi ancora identificabili, oggi destinati
agli usi più disparati, pochi conservano all’interno i chiostri tradizionali,
come il Monastero dei Benedettini, il Convento di Santa Maria del
Rosario, il Convento di Santa Chiara. Anche i giardini delle dimore patrizie sono oggi quasi del tutto scomparsi, ad eccezione dei pochi che, sorgendo sulle mura, si sono conservati come veri e propri giardini pensili;
ne sono esempio i giardini di Palazzo Manganelli, con i suoi monumentali cipressi, e quello di Villa Cerami. Frequenti erano anche in città i giardini interni delle case più modeste della piccola e media borghesia, dove
maggiormente coltivati erano gli alberi da frutto, soprattutto gli agrumi,
per la loro utilità. Un esempio interessante di questa tipologia di giardino
236
Guglielmo, Pavone, Salmeri
in prossimità di Villa Cerami, conserva ancora l’antico sistema d’irrigazione. In generale si può affermare che il giardino, anche se in città, è sempre organizzato, a qualsiasi livello sociale, nel modello “giardino-orto”,
insieme di orticole fruttifere e ornamentali.
Flora: la scarsità di dati storici sulla componente vegetale dei giardini e la
difficoltà di accesso a molti giardini privati non consentono una precisa
valutazione quantitativa e qualitativa di tale patrimonio. La nostra indagine ha rilevato un centinaio di specie, di cui circa il 20% fruttifere, soprattutto agrumi. Tra le ornamentali, oltre alle frequenti palme, va sottolineata la presenza quasi costante di bulbose o rizomatose (Ruscus aculeatus,
Aspidistra elatior, Zantedeschia aethiopica) e di arbustive (Datura arborea, Aloysia triphylla, Philadelphus coronarius) tradizionalmente coltivate, mentre singolare è il ritrovamento di Camellia japonica nel giardino
dell’Abbazia di Nuova Luce dove probabilmente si mantengono condizioni ambientali più umide e ombrose. Come in tutti gli ambienti urbani sono
presenti alcune specie infestanti, come Ailanthus glandulosa, che si riproducono diffusamente in mancanza di adeguato controllo.
Commenti: la coesistenza di specie fruttifere e ornamentali è carattere comune a tutti i giardini rilevati nel centro storico di Catania, come d’altronde consueto nella cultura siciliana. Occorre però sottolineare come sia sempre più
difficile percepire tali aspetti a causa della continua riduzione dello spazio
destinato a giardini nel centro storico e della marcata indifferenza dei cittadini e delle autorità. Inoltre l’assenza di qualsiasi tipo di vincolo specifico sui
giardini ancora presenti e il precario stato di conservazione e manutenzione,
che riguarda sia l’impianto del giardino sia le componenti architettoniche,
rendono ancora più difficile la loro sopravvivenza.
Villa Comunale
Ubicazione: Palazzolo Acreide (SR)
Tipologia o proprietà: giardino pubblico
Data di fondazione: 1880
Notizie storiche: la cittadina, nata come prima colonia di Siracusa nel 664
a.C. e distrutta dal terremoto del 1693, fu ricostruita come molte città della
Val di Noto in stile barocco. Anche qui, come per il Giardino Ibleo a
Ragusa, la nascita del giardino si deve all’opera di un benemerito cittadino, il barone Vincenzo Messina di Bibbia che dispose la trasformazione di
una villa privata con il terreno annesso per creare un giardino pubblico ad
uso della cittadinanza.
Su alcuni giardini storici della Sicilia Orientale
237
Stile: il giardino è strutturato in due aree differenziate sia nello stile sia
nella composizione floristica. Una parte, corrispondente al nucleo più
antico, è sviluppata lungo tre viali paralleli e articolata secondo un disegno prettamente formale delle aiuole, delimitate da siepi in varie forme
geometriche e arricchite da esemplari di bosso foggiati secondo i dettami
dell’ars topiaria. L’altra area, in stile paesistico, si caratterizza, invece, per
la presenza di un boschetto di lecci secolari.
Flora: dal punto di vista botanico il giardino si differenzia dai tradizionali giardini mediterranei per una flora ricca di specie tipiche dei climi temperato-freschi, come Aesculus hippocastanum, Tilia platyphyllos e T.
tomentosa, Platanus orientalis, Pinus brutia, Fraxinus ornus. Spiccano
per la loro imponenza Cedrus libani, Cupressus macrocarpa,
Broussonetia papyrifera, Elaeagnus umbellata, Quercus virgiliana,
Photinia serrulata.
Commenti: il giardino presenta un valore storico ed estetico rilevante
avendo mantenuto l’originale struttura formale e conservando dei pregevoli esemplari foggiati a topiaria; a ciò si unisce un importante significato
naturalistico per la presenza del bosco di lecci che rappresenta l’aspetto di
vegetazione climax del territorio.
Villa Garibaldi
Ubicazione: Piazza Armerina (EN)
Tipologia o proprietà: giardino pubblico
Data di fondazione: 1700 ca.
Notizie storiche: la città di Piazza Armerina assume nel XV secolo un
ruolo economico, culturale e religioso di rilievo nell’ambito dei territori
circostanti, di cui veri centri propulsori furono i diversi Ordini religiosi,
insediati in conventi e chiese tra le quali quella di San Pietro, nella parte
settentrionale della città. La chiesa trecentesca fu affidata nel 1498 ai francescani che costruirono l’annesso convento, divenuto celebre perché sede
di uno Studio delle Provincie del Val di Noto, oltre che per la sua ricchissima biblioteca; esso fu anche sede dell’Accademia Letteraria, di cui furono soci molti illustri letterati siciliani.
Adiacente al convento e alla chiesa era la Silva di San Pietro, “vasta estensione di terreno digradante di 4 ettari, 56 are e 29 centiare coltivato in piccolo ortalizio, seminerio boschivo e pascolativo, delimitato da siepi”, che,
nella parte più prossima ai fabbricati, era mantenuto a giardino con la coltivazione di diverse specie ornamentali.
238
Guglielmo, Pavone, Salmeri
A seguito delle leggi eversive del 1866-1867, l’ex convento di San Pietro,
acquisito dal Demanio per un valore fondiario calcolato in £ 60.000,
divenne caserma di artiglieria; per la chiesa fu nominato un rettore “accollandosene il comune la cura”. La Selva di San Pietro fu destinata a giardino pubblico realizzato però solo nel 1883 su progetto dell’Ing. Rosario
Cacciola e dedicato al Generale Garibaldi. Ben poco invece è dato di sapere sull’impianto delle diverse essenze, non essendovi alcuna delibera in
proposito ma soltanto generici riferimenti a lavori di coltura, provviste di
acqua e concime, riparazioni alle siepi e ai corsi d’acqua (Delibere dal
1892 al 1895). Da ciò si può dedurre che buona parte delle specie erano
quelle già presenti nella Selva.
Stile: l’origine settecentesca del giardino è testimoniata da un impianto di
tipo formale, riscontrabile in Sicilia anche in altri impianti ornamentali di
edifici religiosi, che, nella parte più prossima al convento, conserva il disegno originario a pianta circolare suddivisa da due viali ortogonali in quattro settori, ognuno dei quali ulteriormente articolato intorno ad una più
piccola aiuola centrale, anch’essa circolare.
Flora: il giardino occupa attualmente un’area di circa 20.000 mq, che si
continua a SE nel parco urbano San Pietro con un’estensione di circa
40.000 mq. La componente floristica, nel complesso piuttosto impoverita,
annovera comunque alcuni esemplari monumentali di Cedrus libani e C.
deodara, Cinnamomum camphora, Cupressus sempervirens, Magnolia
grandiflora, Picea abies, Pinus pinea. Sono inoltre presenti Tilia cordata,
Cercis siliquastrum, Cocculus laurifolius, Robinia pseudo-acacia,
Lagerstroemia indica. Purtroppo solo in parte la sistemazione delle piante rispetta la simmetria dell’impianto a seguito dell’introduzione casuale
di nuove essenze e per la mancata sostituzione di quelle decedute.
Al giardino formale è collegata una vasta area a vegetazione naturale, il
parco urbano San Pietro, corrispondente all’antica Selva, ricca di specie
autoctone, quali Quercus virgiliana e Q. ilex con forte capacità di rinnovo, Acer campestre, Olea oleaster.
All’interno del convento è un piccolo chiostro, delimitato da tozze colonne in stili diversi che sostengono archi a tutto sesto, dove, intorno ad un
pozzo centrale, crescono Celtis australis, Picea abies, Washingtonia robusta e W. filifera.
Commenti: Il giardino è un interessante esempio di antica Selva conventuale
risalente al Settecento, con impianto formale nella parte adiacente al convento; analoga struttura è stata già descritta in Sicilia da Mazzola et al. (1994)
Su alcuni giardini storici della Sicilia Orientale
239
[7] a Mistretta. Nel complesso esso conserva oggi la sua struttura originaria,
soprattutto nella parte formale dove il tracciato delle aiuole rispecchia lo stile
e il gusto dell’epoca e pertanto è opportuno che venga rivalutato nei suoi
aspetti architettonici e botanici in considerazione dell’elevato valore storico.
Il nostro studio ha permesso di acquisire dati storici e floristici di una
certa rilevanza su un patrimonio storico e botanico spesso misconosciuto,
ma ricco e diversificato. Si rende quindi necessaria, più in città che nelle
più piccole cittadine di provincia, un’opera di sensibilizzazione della cittadinanza e delle autorità, ma anche dei privati, perché questa ricchezza
non vada ulteriormente perduta.
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conoscenza del verde storico siciliano. 1. Il giardino Garibaldi di Mistretta
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Acc. Gioenia Sc. Nat. Catania 27(347), pp. 163-195.
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Antonio (Catania)». Quad. Bot. Amb. Appl. 6(1995), pp. 29-38.
240
Guglielmo, Pavone, Salmeri
ELENCO FLORISTICO
1. Parco Colonna, Taormina; 2. Villa Falconara, Taormina;
3. Giardino Garibaldi, Piazza Armerina; 4. Villa Comunale, Palazzolo Acreide;
5. Giardini del centro storico, Catania
Aberia caffra Harv. & Sond.
Abies alba Miller
Acacia cyanophylla Lindl.
Acacia dealbata L.
Acacia harmisiana Dinter
Acacia podalyriifolia G. Don
Acanthus mollis L.
Acer campestre L.
Acer platanoides L
Acocanthera spectabilis (Sonder) Hook.
Adhatoda vasica Nees
Aesculus hippocastanum L.
Agave americana L.
Agave americana L. fo. marginata Hort.
Agave attenuata Salm-Dyck
Ailanthus altissima (Miller) Swingle
Aloe arborescens Miller
Aloysia triphylla (L’Hérit.) Britt.
Alpinia zerumbet (Pers.) Burtt & Sm.
Antholyza aethiopica L.
Antigonon leptopus Hook.& Arn.
Araucaria bidwillii Hook.
Araucaria excelsa R. Br.
Arecastrum romanzoffianum (Cham.) Becc.
Artemisia arborescens L.
Arundo donax L.
Asparagus plumosus Baker
Asparagus sprengerii Regel
Aspidistra elatior Bl.
Aucuba japonica Thunb.
Bauhinia aculeata L.
Bougainvillea glabra Choisy
Bougainvillaea spectabilis Willd. cv. alba
Broussonetia papyrifera Vent.
Buddleia madagascariensis Lam.
Butia sp
Buxus sempervirens L.
Calliandra tweedii Benth.
Callistemon citrinus Skeels
Camelia japonica L.
Campsis radicans (L.) Seem.
Casuarina equisetifolia L.
Cedrus atlantica (Endl.) Carrière
Flacourtiaceae
Pinaceae
Mimosaceae
Mimosaceae
Mimosaceae
Mimosaceae
Acanthaceae
Aceraceae
Aceraceae
Apocynaceae
Acanthaceae
Hippocastanaceae
Agavaceae
Agavaceae
Agavaceae
Simaroubaceae
Liliaceae
Verbenaceae
Zingiberaceae
Iridaceae
Polygonaceae
Araucariaceae
Araucariaceae
Palmae
Compositae
Graminaceae
Liliaceae
Liliaceae
Liliaceae
Cornaceae
Caesalpiniaceae
Nyctaginaceae
Nyctaginaceae
Moraceae
Loganiaceae
Palmae
Buxaceae
Mimosaceae
Myrtaceae
Theaceae
Bignoniaceae
Casuarinaceae
Pinaceae
2
1, 3, 4
2
1
2
1
2, 3
3
2
1
1
3, 4
2, 3
1, 3
1, 2
5
2
1, 5
1
3
2, 3
1, 5
1, 4, 5
1
2, 3
2
2
1, 2
1, 5
1
1
1, 2, 5
1
4
1
1
1, 3, 4
1
1
1
1
1, 4
1, 4
Su alcuni giardini storici della Sicilia Orientale
Cedrus atlantica (Endl.) Carrière var. glauca Hort.
Cedrus deodara (Roxb. ex Lamb.) G. Don
Cedrus libani A. Rich.
Celtis australis L.
Ceratonia siliqua L.
Cercis siliquastrum L.
Cestrum elegans (Brongn.) Schdl.
Cestrum parqui L’Herit
Chamaedorea elegans Mart.
Chamaerops humilis L.
Chimonantus praecox (L.) Link.
Chorisia insignis Kunth.
Chrysanthemum frutescens L.
Cinnamomum camphora Nees & Eberm.
Citrus aurantium L.
Citrus limon (L.) Burm.
Citrus medica L.
Citrus x paradisi Macfad.
Citrus reticulata Blanco
Citrus sinensis (L.) Osbeck
Cocculus laurifolius DC.
Colocasia antiquorum Schott
Cordyline australis (Forst.) Endl.
Cordyline indivisa (Forst. f.) Steud.
Corylus avellana L.
Cupressus macrocarpa Hartweg
Cupressus sempervirens L.
Cyathea sp.
Cycas circinnalis L.
Cycas revoluta Thunb.
Cydonia oblonga Mill.
Cyperus alternifolius L.
Datura arborea L.
Datura sanguinea Ruiz Pav.
Datura sp.
Distictis buccinatoria (DC.) A. Gentry
Dracaena draco L.
Drosanthemum hispidum (Haw.) Schwantes
Duranta erecta L.
Duranta plumieri Jacq.
Elaeagnus umbellata Thunb.
Ephedra fragilis Desf.
Eryobotrya japonica (Thunb.) Lindley
Erythea armata S. Wats.
Erythrina caffra Thunb.
Erythrina crista-galli L.
Erythrina insignis Thunb.
Eucalyptus camaldulensis Dehnh.
Euonymus japonicus L. f.
Euphorbia dendroides L.
Euphorbia milii Desmoul.
Pinaceae
Pinaceae
Pinaceae
Ulmaceae
Caesalpiniaceae
Caesalpiniaceae
Solanaceae
Solanaceae
Palmae
Palmae
Calycanthaceae
Bombacaceae
Compositae
Lauraceae
Rutaceae
Rutaceae
Rutaceae
Rutaceae
Rutaceae
Rutaceae
Menispermaceae
Araceae
Agavaceae
Agavaceae
Fagaceae
Cupressaceae
Cupressaceae
Cyatheaceae
Cycadaceae
Cycadaceae
Rosaceae
Cyperaceae
Solanaceae
Solanaceae
Solanaceae
Bignoniaceae
Agavaceae
Aizoaceae
Verbenaceae
Verbenaceae
Elaeagnaceae
Ephedraceae
Rosaceae
Palmae
Fabaceae
Fabaceae
Fabaceae
Myrtaceae
Celastraceae
Euphorbiaceae
Euphorbiaceae
241
1, 4, 5
1, 3, 4
3, 4
3, 4
1, 2
1, 3, 4, 5
1
1
1
1, 2, 3, 4, 5
1
1, 2
3
3
1, 2, 5
1, 2, 5
5
5
5
5
1, 3
1, 2, 4
1
3, 4
5
4
2, 3, 4, 5
1
2
1, 5
5
1, 2, 5
1, 5
1
3
1
1, 2
2
5
1
1, 4
1
2, 5
1, 5
1
1
1
2, 3, 5
1, 3, 5
2
1, 2, 5
242
Guglielmo, Pavone, Salmeri
Euphorbia pulcherrima Willd.
Feijoa sellowiana O.Berg.
Ficus benjamina L.
Ficus carica L.
Ficus elastica Roxb.
Ficus microcarpa L. f.
Fraxinus ornus L.
Furcraea selloa C. Koch
Grevillea robusta Cunn.
Hedera colchica (K.Koch) Hibb.
Hedera helix L.
Hibiscus mutabilis L.
Hibiscus rosa-sinensis L.
Hibiscus syriacus L.
Howea forsteriana Becc.
Hydrangea macrophylla (Thunb.) Ser.
Ilex aquifolium L.
Ilex aquifolium L. var. variegatum
Ilex pernyi Franch.
Iochroma cyaneum (Lindl.) Green.
Jacaranda mimosaefolia D. Don
Jacobinia carnea (Lindl.) Nichols.
Jacobinia macrantha Benth. & Hook. F.
Jasminum azoricum L.
Jasminum mesnyi Hance
Jasminum officinale L.
Lagerstroemia indica L.
Lagunaria patersonii G. Don
Lantana camara L.
Lantana montevidensis (Spreng.) Briq.
Laurus nobilis L.
Leonotis leonurus R. Br. in Ait.
Libocedrus decurrens Torr.
Ligustrum japonicum Thunb.
Ligustrum lucidum Ait.
Ligustrum ovalifolium Hassk.
Ligustrum sinense Lour.
Livistona chinensis R. Br.
Macfadyena unguis-cati A. H. Gentry
Magnolia grandiflora L.
Melaleuca sp.
Meryta denhamii Seem.
Monstera deliciosa Liebm.
Montanoa bipinnatifida C. Koch
Morus alba L.
Murraya sp.
Musa x paradisiaca L.
Nandina domestica Thunb
Nephrolepis exaltata (L.) Schott.
Nerium oleander L.
Olea europaea L.
Euphorbiaceae
Myrtaceae
Moraceae
Moraceae
Moraceae
Moraceae
Oleaceae
Amaryllidaceae
Proteaceae
Araliaceae
Araliaceae
Malvaceae
Malvaceae
Malvaceae
Palmae
Hydrangeaeceae
Aquifoliaceae
Aquifoliaceae
Aquifoliaceae
Solanaceae
Bignoniaceae
Acanthaceae
Acanthaceae
Oleaceae
Oleaceae
Oleaceae
Lithraceae
Malvaceae
Verbenaceae
Verbenaceae
Lauraceae
Labiatae
Cupressaceae
Oleaceae
Oleaceae
Oleaceae
Oleaceae
Palmae
Bignoniaceae
Magnoliaceae
Myrtaceae
Araliaceae
Araliaceae
Compositae
Moraceae
Rutaceae
Musaceae
Berberidaceae
Oleandraceae
Apocynaceae
Oleaceae
1, 5
1, 5
5
2, 5
1, 5
1, 5
4
1
1, 2, 5
1
1, 2, 4, 5
1
1, 2, 5
4
1, 5
5
1
1
1
1
1, 2, 4
1
1
1, 2
1, 2, 4, 5
1, 2, 4, 5
1, 3, 4, 5
5
1, 2, 4, 5
1
1, 2, 4, 5
1
1
1, 2
2, 3, 5
1
3
1, 5
4
1, 3, 5
1
1, 5
1
1, 2, 5
4, 5
1, 2
5
1
1
1, 2, 3, 4, 5
1, 2, 5
Su alcuni giardini storici della Sicilia Orientale
Opuntia ficus-barbarica A. Berger
Paeonia suffruticosa Andrews.
Parkinsonia aculeata L.
Parthenocissus tricuspidata Planch.
Parthenocissus quinquefolia Planch.
Philadelphus coronarius L.
Phoenix canariensis Hort. ex Chaub.
Phoenix dactylifera L.
Phoenix reclinata Jacq.
Phormium tenax Forst.& Forst.f.
Photinia serrulata Lindl.
Phyllostachys bambusoides Sieb. & Zucc.
Picea abies L.
Pinus halepensis Miller
Pinus pinea L.
Pistacia lentiscus L.
Pistacia terebinthus L.
Pittosporum tobira (Thunb.) Ait. f.
Platanus orientalis L.
Platanus x hybrida Brot.
Plumbago capensis Thunb.
Portulacaria afra Jacq.
Prunus amygdalus Stokes
Prunus armeniaca L.
Prunus cerasifera Ehrh.
ssp. pissardii J. Dostal
Prunus sp.
Punica granatum L.
Pyracantha coccinea Roem.
Pyrus communis L.
Quercus dalechampii Ten.
Quercus ilex L.
Quercus virgiliana (Ten.) Ten.
Raphiolepis umbellata Makino
Rhamnus alaternus L.
Robinia pseudacacia L.
Rosa banksiae Ait.
Rosmarinus officinalis L.
Ruscus aculeatus L.
Sabal blackburniana (Cook) Glazebr.
Santolina chamaecyparissus L.
Schefflera digitata Forst.
Schinus molle L.
Senecio kaempferi DC
Senecio petasites (Sims) DC.
Solandra grandiflora Sw.
Solanum wendlandii Hook. f.
Soleirolia soleirolii (Req.) Dandy
Sophora japonica L.
Spiraea chamaedryfolia L.
Spiraea trilobata L.
243
Cactaceae
Ranunculaceae
Fabaceae
Vitaceae
Vitaceae
Saxifragaceae
Palmae
Palmae
Palmae
Liliaceae
Rosaceae
Graminaceae
Pinaceae
Pinaceae
Pinaceae
Anacardiaceae
Anacardiaceae
Pittosporaceae
Platanaceae
Platanaceae
Plumbaginaceae
Portulacaceae
Rosaceae
Rosaceae
2
1
4
2
1
1, 3, 4, 5
1, 2, 3, 4, 5
1, 2, 3, 5
5
1
1, 4
2
3
2, 3, 5
1, 3, 5
2
2
1, 2, 3, 4, 5
4
3, 5
1, 2, 5
1, 2, 5
1, 2
1, 2
Rosaceae
Rosaceae
Punicaceae
Rosaceae
Rosaceae
Fagaceae
Fagaceae
Fagaceae
Rosaceae
Rhamnaceae
Fabaceae
Rosaceae
Labiatae
Liliaceae
Palmae
Compositae
Araliaceae
Anacardiaceae
Compositae
Compositae
Solanaceae
Solanaceae
Urticaceae
Fabaceae
Rosaceae
Rosaceae
4, 5
3
1, 2, 5
1
5
3
3, 4
3
1
1, 2, 4
3, 4
1, 5
1, 5
5
3
3
1, 4
1, 2, 4
1, 5
3
1
3
2
4, 5
1, 3, 4
1
244
Guglielmo, Pavone, Salmeri
Sterculia diversifolia G. Don
Strelitzia augusta Thunb.
Strelitzia reginae Banks
Tecoma stans (L.) Juss.
Tecomaria capensis (Thunb.) Spach
Tetrastigma voinerianum (Pierre) Gagnep.
Thuja orientalis L.
Tilia cordata Miller
Tilia x orbicularis
Trachycarpus fortunei H. Wendl.
Ulmus glabra Hudson
Viburnum suspensum Hort. ex Dippel
Viburnum tinus L.
Vitis vinifera L.
Washingtonia filifera H. Wendl.
Washingtonia robusta H. Wendl.
Weigela florida Thunb.
Wigandia caracasana Kunth
Wistaria chinensis DC.
Zantedeschia aethiopica (L.) Spreng.
Sterculiaceae
Musaceae
Musaceae
Bignoniaceae
Bignoniaceae
Vitaceae
Cupressaceae
Tiliaceae
Tiliaceae
Palmae
Ulmaceae
Caprifoliaceae
Caprifoliaceae
Vitaceae
Palmae
Palmae
Caprifoliaceae
Hydrophyllaceae
Fabaceae
Araceae
2
1
1, 2
1, 2, 5
2, 5
1
1, 3, 5
3
2
1, 3, 4, 5
3
1
1, 3, 4
5
2, 3, 5
1, 3, 5
3
1
2, 5
1, 3, 5
245
STIMA DELLA RISPOSTA DI SITO E INDAGINI GEORADAR:
UN CASO STUDIO APPLICATO ALLA CHIESA DEI “MINORITELLI”
(CATANIA)
IMPOSA S., GRESTA S.
Dipartimento di Scienze Geologiche, Università di Catania C.so Italia, 57, 95129 Catania
Tel. 095 7195701-9, Fax. 095 7195701, [email protected], [email protected]
1. Introduzione
Nel centro urbano di Catania sono state spesso rinvenute diverse strutture archeologiche, a testimonianza dei diversi insediamenti che si sono
succeduti nel tempo. Infatti, sotto il suolo di Catania si estendono numerose strutture archeologiche sepolte, databili al periodo greco-romano.
Il presente lavoro compendia i risultati delle indagini geofisiche e dei
sondaggi geognostici eseguiti presso la chiesa dei Minoritelli di Catania,
che è stata danneggiata a seguito del terremoto verificatosi nella Sicilia
orientale il 13 dicembre 1990.
È stata predisposta una campagna di indagini geognostiche per definire
l’esatta situazione litostratigrafia locale. Inoltre, al fine di poter investigare
la risposta sismica locale del sito su cui insiste la chiesa si è utilizzata la tecnica dei microtremori. Nell’ottica di effettuare degli interventi di recupero
e conservazione del manufatto, è stata eseguita anche una prospezione elettromagnetica, mediante l’utilizzo del metodo georadar, finalizzata alla individuazione e alla definizione di possibili cavità e manufatti sepolti.
2. Cenni storici
La chiesa dei Minoritelli è stata costruita sopra delle antiche terme
romane da Bartolomeo Asmondo, anch’egli confratello, alla fine del XVII
secolo. Fu ubicata alla sommità dell’attuale Via Antonino di Sangiuliano
(Fig. 1), quasi di fronte all’ospedale Santa Marta, anch’esso sorto verso il
1750 grazie all’opera di attivi ecclesiasti [1]. Dal punto di vista della tipologia costruttiva, essa si presenta con una breve gradinata semicircolare con
246
Imposa, Gresta
l’accesso orientato a nord e ricalca lo stile bizantino o, come più comunemente detto, a croce greca (Fig. 2). Infatti, l’altare maggiore risulta ubicato nell’abside semicircolare, mentre altri quattro altari sono stati eretti nelle
restanti braccia della croce, gli uni dirimpetto agli altri. Di notevole fattura
e valore sono, inoltre, le tele e i simulacri in essa contenuti.
3. Caratteristiche geologiche, geomorfologiche e sismotettoniche
L’area su cui è stata edificata la chiesa ricade in una zona al margine di
un alto morfologico, intensamente antropizzata e con debole acclività
verso SSE. Dal punto di vista geologico si è in presenza di una associazione litostratigrafia di terreni sedimentari e di terreni vulcanici [2]. Infatti,
dal basso verso l’alto, è possibile individuare e schematizzare le seguenti
unità litostratigrafiche:
- Argille marnose azzurre: è una formazione che rappresenta il substrato locale su cui poggiano le altre unità. Si tratta di sedimenti pelitici a
stratificazione indistinta, mescolati a livelli difficilmente distinguibili.
Fig. 1. Mappa dell’area d’indagine. L’ubicazione della chiesa dei Minoritelli è circoscritta nel riquadro in basso a destra.
Fig. 2. Planimetria della chiesa dei Minoritelli e ubicazione dei due sondaggi meccanici (S1 e S2).
Stima della risposta di sito e indagini Georadar
247
- Lave del Mongibello Recente: sono prodotti vulcanici che presentano una porzione sommitale scoriacea e vacuolare e una porzione sottostante massiva e diffusamente fessurata e bollosa.
- Colate laviche (del 1381?): si tratta di colate laviche di età storica,
meno alterate delle precedenti.
- Materiale di riporto: sono depositi sabbioso-ghiaiosi ai margini
delle linee di costa antiche e recenti.
Il territorio dell’area metropolitana di Catania è interessato da una sismicità locale, spesso caratterizzata da eventi superficiali e aree mesosismiche di
modesta estensione areale. Le intensità osservate sono di gran lunga inferiori a
quelle relative ai sismi di origine regionale, che hanno prodotto valori di intensità più elevati (fino al X grado) ma con periodi di ritorno decisamente più lunghi. In particolare il sisma del 13 dicembre 1990 (M = 5.4), ha causato nell’edificio in esame una serie di lesioni con ampiezza da millimetrica a centimetrica
in varie parti della struttura. Come terremoti di scenario si può fare riferimento agli eventi del 1693 (massimo evento regionale atteso) e del 1818 (massimo
evento locale atteso). Per entrambi gli scenari le simulazioni effettuate [3] identificano nell’area scuotimenti molto forti (Fig. 3), mentre dal punto di vista spe-
Fig. 3. Rappresentazione in mappa del moto del suolo calcolato per l’area urbana di Catania [3].
248
Imposa, Gresta
rimentale, è stata trovata, per alcuni siti che insistono nelle vicinanze della chiesa, un’amplificazione significativa per valori di frequenza di 4 – 5 Hz [4].
4. Metodologie utilizzate
4.1 Sondaggi meccanici
Sono stati eseguiti due sondaggi meccanici verticali a rotazione e carotaggio continuo, la cui ubicazione è riportata in figura 2. I sondaggi sono
stati spinti fino alla profondità di 6 metri dal piano di sosta della perforatrice. La perforazione è stata eseguita mediante attrezzatura oleodinamica,
adottando, per tutto lo spessore indagato, la tecnica di conservazione del
nucleo, tramite l’ausilio di tubi carotieri. È stata ricostruita una sequenza
stratigrafica, data per lo più da materiale di riporto costituito da clasti lavici eterometrici in matrice sabbiosa presenti da 3 cm fino a 1.4 m dal piano
campagna sovrapposti a lave basaltiche di colore scuro, da mediamente ad
intensamente fratturate (v. Fig. 4a e 4b). La stratigrafia relativa al sondaggio S2 evidenzia, inoltre, la presenza di una struttura muraria preesistente
costituita da conci basaltici e clasti lavici, con una di malta cementizia da
-1.0 m a -2.8 m circa dal piano campagna (v. Fig. 4b).
4.2 Indagine georadar
La metodologia della prospezione elettromagnetica si basa sull’ipotesi
che il terreno possa essere considerato un dielettrico, cioè capace di gene-
Fig. 4. Sezioni stratigrafiche relative ai due sondaggi meccanici.
Stima della risposta di sito e indagini Georadar
249
rare correnti di spostamento senza trasporto di cariche attraverso di esso;
il terreno sarebbe quindi adatto a fungere da guida di campi elettromagnetici. In particolare nelle prospezioni georadar vengono utilizzate microonde (con frequenze comprese tra 0.3 e 300 GHz) e la loro radiazione può
venire diretta in fasci concentrati di energia con una forma conica e con
un angolo di apertura di 90°-120°. Il sistema di ricezione amplifica gli echi
ricevuti e trasla il treno d’onda in arrivo nella banda delle audiofrequenze.
La risoluzione orizzontale ottenibile è funzione del rapporto tra la velocità di spostamento lungo il profilo e il ritmo di scansione scelto. Numerosi
sono gli esempi di applicazione del metodo; solo a titolo di esempio si
citano qui alcuni casi relativi all’area urbana di Catania [5, 6, 7].
Operativamente, la scala verticale è calibrata in nanosecondi e può essere
tradotta in termini di profondità, una volta stabilita la relazione tra tempi
di propagazione e profondità. I dati così ottenuti sono stati sottoposti a filtraggio tramite l’utilizzo del software “Radan 3”. Ciò ha permesso la restituzione dei grafici di campagna, depurati dai segnali anomali.
La prospezione elettromagnetica è stata eseguita utilizzando un georadar
modello SIR System 3 della G.S.S.I. ed effettuando sei profili sulla pavimentazione della chiesa, utilizzando una antenna da 100 MHz per complessivi 103.5 metri lineari. Ciò al fine di evidenziare l’eventuale presenza, nei
tratti indagati, di strutture antropiche sepolte. La profondità massima raggiunta è stata valutata in circa 6 metri. Nella figura 5, è rappresentata l’ubicazione dei profili elettromagnetici e le relative anomalie riscontrate.
Fig. 5. Ubicazione dei profili georadar. In legenda è riportata la relativa interpretazione.
250
Imposa, Gresta
La figura 6 rappresenta i grafici relativi ai sei radargrammi ottenuti. In
ascissa si riportano le distanze progressive dal punto di partenza, individuate da appositi markers con intervalli di due metri, mentre in ordinata è
rappresentata la scala delle profondità desunta dalla interpretazione dei
profili elettromagnetici. In particolare è stato utilizzato un tempo di 150
nanosecondi per tutti i profili.
4.3 Indagini sui microtremori
Le analisi dei microtremori possono fornire importanti informazioni
sulla possibile risposta sismica del sito. Il rapporto (H/V) tra le ampiezze
delle componenti orizzontale e verticale del moto del suolo viene definito
fattore di amplificazione. Una volta verificate le assunzioni di base [8],
maggiore è il valore di questo fattore, maggiore è la risposta sismica locale attesa. Nel caso in esame le misure sono state eseguite sul sito corrispondente al sondaggio meccanico S2. Le registrazioni sono state effettuate utilizzando un sismometro multicanale Geotech Teledyne accoppiato a
un geofono Mark a corto periodo e a tre componenti. La finestra temporale utilizzata per le registrazioni è stata fissata pari a 300 secondi.
Fig. 6. Radargrammi
relativi ai sei profili
eseguiti. A = echi riferibili alla probabile
presenza di strutture di
natura antropica non
ben delimitabili; C =
echi riferibili alla probabile presenza di
strutture di natura
antropica (vani, cripte)
riempite con materiali
di riporto; M = echi
riferibili alla probabile
presenza di muri o
murature complesse; P
= echi riferibili alla
probabile presenza di
traccia di scavo (probabile pozzetto); S = echi riferibili alla probabile presenza di servizi sottotraccia (tubazioni e canalette).
Stima della risposta di sito e indagini Georadar
251
Lo spettro della campionatura è stato elaborato tramite un analizzatore
digitale il quale opera una trasformata del tipo PSD (Power Spectrum
Density), sommando e mediando una serie di circa 135 spettri, risultanti
dalla larghezza di banda usata dallo strumento, nell’arco di durata della
serie temporale utilizzata. Per tutte le stazioni di misura si è effettuata una
operazione di filtraggio, utilizzando un filtro passa-basso con frequenza di
taglio pari a 10 Hz. Successivamente si è analizzato lo spettro di frequenza relativamente al range 0-10 Hz.
L’analisi ha evidenziato come gli spettri (v. Fig. 7) relativi a tutte e tre
le componenti del segnale (verticale e orizzontali, rispettivamente longitudinale alla struttura e trasversale alla stessa) mostrino un comune picco di
frequenza a 0.9 Hz. Tuttavia tale picco non può essere dovuto a particolari risposte di sito, visto che il rapporto H/V tra le ampiezze delle componenti orizzontali e della verticale è circa 1; la presenza di tale picco sarebbe da attribuire piuttosto all’influenza del mare o di sorgenti antropiche.
Invece risulta significativo, in termini di risposta sismica locale, il picco a
3.9 Hz sulla componente orizzontale longitudinale, in quanto il rapporto
H/V che si è ricavato risulta circa uguale a 3.
6. Conclusioni
Le indagini effettuate sul sito su cui insiste la chiesa dei Minoritelli, nell’area urbana di Catania, hanno fornito lo spunto per diverse considerazioni. Innanzitutto, è stata trovata una buona corrispondenza tra le amplifica-
Fig. 7. Spettri dei microtremori relativi alle tre componenti del moto del suolo.
252
Imposa, Gresta
zioni misurate (mediante l’uso dei microtremori) e quelle calcolate (mediante simulazioni numeriche). Ciò è stato osservato in numerosi altri casi (vedasi a titolo di esempio Ragusa-Ibla [8]), a conferma della bontà di un metodo di indagine speditivo, quale quello dei microtremori, per una stima della
risposta sismica locale. Nel caso della chiesa dei Minoritelli, sembra evidente un discreto effetto di amplificazione al sito per frequenze attorno ai 4 Hz.
Tuttavia, allo scopo di verificare la possibile esistenza di effetti di doppia
risonanza (dovuti all’interazione tra la risposta sismica del sito e quella tipica dell’edificio), sarebbero necessarie ulteriori misure dei microtremori
sulla struttura, a diverse elevazioni, al fine di individuare le frequenze fondamentali di vibrazione della struttura stessa.
Lo scopo dell’indagine geofisica tramite georadar, invece, è stato quello di individuare eventuali strutture di natura antropica ubicate sotto il
piano di calpestio della chiesa. In particolare, sono state individuate strutture ben delimitabili (probabili cripte o vani riempiti di materiale di riporto). È stata anche evidenziata una struttura posta vicino la scalinata dell’ingresso; infine sono stati identificati diversi echi riferibili a murature. La
conferma della presenza di tali strutture sepolte si è avuta dai risultati derivanti dalla interpretazione dei sondaggi meccanici, nonché da scavi
archeologici effettuati in aree limitrofe.
RINGRAZIAMENTI
Gli autori ringraziano l’Ing. Antonio Leone, dell’ Assessorato Regionale LL.PP.,
Dipartimento. LL.PP., Ufficio Genio Civile di Catania per il continuo e costruttivo supporto
e il Dr. Geol. Alessandro Schillaci per la fattiva collaborazione. Questa ricerca è stata eseguita su fondi dell’Università degli Studi di Catania, “Ricerca di Ateneo” (2003 e 2004).
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Monaco, «The site response in the city of Ragusa-Ibla (Sicily) by using
microtremors and strong ground simulations»., in C.A. Brebbia (ed) Risk Analysis
IV, WIT Press, 2004, pp. 93-101.
254
IL MUSEO DEL MARE DI POZZALLO: UNO STUDIO PRELIMINARE
INCATASCIATO S.
Laboratorio di Progettazione e Servizi per l’Ingegneria e i Beni Culturali IngegniCultura.
Questo lavoro illustra i risultati di una ricerca preliminare alla realizzazione di un Museo del Mare a Pozzallo (RG). Lo scopo è quello di presentare
una proposta, un quadro organico di linee guida da cui prendere spunti e suggerimenti in vista dell’eventuale progetto di allestimento definitivo.
Il lavoro fornisce un breve excursus sulle istituzioni museali realizzate nei
secoli, dalle prime raccolte di oggetti preziosi aventi carattere votivo al museo
contemporaneo. Questa analisi ha consentito di seguire l’evoluzione del concetto di museo ed il suo processo di trasformazione da contenitore di beni del
passato e “riserva” dello studioso a protagonista nella produzione di cultura,
che alla funzione tradizionale associa quella di ricerca e didattica.
Esaurita questa prima fase, si è presa in considerazione la specifica tipologia di museo del mare e sono stati analizzati diversi esempi italiani rappresentativi per trarre validi spunti, soprattutto in relazione alle modalità di allestimento ed organizzazione. Ciò in considerazione del fatto che la conoscenza e l’esame delle strutture già realizzate costituisce senza dubbio uno strumento essenziale per la progettazione di una nuova struttura museale.
Il passo successivo è stato quello di analizzare il panorama siciliano per
valutare l’offerta di musei del mare in modo da comprendere il significato che può assumere ed il peso che può avere in un’ottica regionale l’apertura di un nuovo Museo del Mare a Pozzallo. Si è anche cercato di valutarne l’impatto sull’economia – in termini di produzione di reddito – e sul
turismo – in termini di attivazione di flussi turistici aggiuntivi. Dopo aver
tracciato, dunque, un quadro sintetico dell’offerta museale, si è concentrata l’attenzione sull’analisi della domanda e sulla natura e consistenza dei
flussi turistici in Sicilia e, specificamente, in provincia di Ragusa.
Quindi si è passati al caso studio partendo con l’esaminare l’ambito territoriale e culturale in cui il museo dovrebbe sorgere. Questa analisi è consistita nella descrizione delle vicende storiche della cittadina di Pozzallo e
Il museo del mare di Pozzallo: uno studio preliminare
255
dello stato attuale della stessa per metterne in luce le criticità, i limiti, le
potenzialità ed individuarne le opportunità di sviluppo.
Quindi si è passati alla descrizione della sede dell’istituendo Museo del
Mare, l’ex Colonia Marina, e del progetto architettonico elaborato dalla
Soprintendenza per adeguare i locali alla nuova destinazione di uso
museale.
Nella parte conclusiva del lavoro sono illustrate, infine, le linee guida
della proposta in ordine all’allestimento ed alla gestione dell’istituendo
Museo del Mare di Pozzallo.
256
IL VALORE DI UN’ESPERIENZA MULTIDISCIPLINARE
IL CASO DI FESTÒS (CRETA)
LA ROSA V.
Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Catania
Che gli archeologi non potessero essere autarchici P. Orsi (la citazione qui
a Siracusa è d’obbligo) lo aveva capito dalla fine dell’Ottocento e si era fatto
convincere dall’antropologo G. Sergi dell’esistenza di una razza “ibero-ligure-mediterranea” e del primitivo popolamento della Sicilia da parte di gruppi africani. Assai prima, insomma, che una banda di scalmanati agli inizi
degli anni Sessanta appartenenti a diverse Società americane per l’Archeologia e con in testa Lewis Binford decidesse di abbattere a martellate l’edificio
dell’archeologia umanistica, fatta sì di sovrapposizioni stratigrafiche, ma
soprattutto di fonti letterarie, di liste di faraoni, di genealogie di sovrani, di
elenchi di arconti e di consoli, di riferimenti alla guerra troiana o ai giochi
olimpici. Il dialogo fra cultori di discipline diverse, fino ad allora episodico
ed affidato alla sensibilità dei singoli, veniva codificato come indispensabile.
Nasceva la New Archaeology, cangiante, dispotico, prolifico, fruttuoso
Leviatano [1]. Qualche anno dopo, nell’Italia accademica, sarebbero infelicemente proliferate le “scienze sussidiarie dell’archeologia”, con un relativo
raggruppamento concorsuale che sopravvive ancor oggi, assai meno ambizioso, nelle Facoltà umanistiche come “Metodologie della ricerca archeologica”. Il compianto amico Giorgio Gullini, pioniere indiscusso della sua
generazione (era nato nel 1923) arrivò a concepire, lui archeologo classico di
lungo corso, una Facoltà di Scienze delle risorse culturali ed ambientali presso il Politecnico di Torino, mai decollata. Lo sbocco generalizzato delle
Facoltà umanistiche è sotto gli occhi di tutti: i tanti corsi di laurea in Beni
Culturali (variamente etichettati e con diversi curricula) cedono il passo, in
fatto di gradimento, solo a quelli in Scienze della comunicazione. I corsi di
laurea in Tecnologie dei Beni Culturali delle Facoltà scientifiche ripristinano
ora quella necessaria autonomia e specificità che l’utopia di Gullini intendeva annullare, a scapito (ben inteso) di archeologi e storici [2].
Il valore di un’esperienza multidisciplinare: il caso di Festòs (Creta)
257
L’abbraccio – è questo il punto – non poteva essere didattico, a meno di
raggruppare diversi corsi di laurea in un’unica Facoltà di Beni Culturali,
con complicazioni, tuttavia, di carattere accademico, programmatorio,
concorsuale, o di risorse che lascio ai colleghi immaginare. L’incontro fra
archeologi e scienziati, in altri termini, può e deve riguardare la ricerca e
la sua applicazione.
Nei tempi presenti di New Archaeology, la spasmodica caccia a sempre
nuovi approcci, mutuati dalle discipline più varie, ha incrementato il
rischio che i dati reali vengano ‘manipolati’ od adattati a principi generali o ad affermazioni teoriche nate, molto spesso, per fenomeni e società
assai meno complesse di quelle antiche. Un vecchio archeologo militante,
formatosi al positivismo delle stratigrafie o degli sviluppi delle forme e
delle decorazioni ceramiche, non può che partire dai Realien, con delle
griglie di cronologia relativa che propongano un ‘prima’ e un ‘dopo’, ma
anche un ‘dove’. Il ‘teorico’, brillante e geniale, sceglie invece un approccio e va al galoppo per la sua strada, spesso senza curarsi di chi gli corre
accanto, sebbene tenti di raggiungere la medesima meta [3].
Guardare ai Realien significa, in primo luogo, confrontarsi su di essi, con
la stessa aspirazione alla obiettività (aspirazione, si badi!) che si è disposti a
concedere ad un esame di laboratorio: dimenticandosi del fatto che – mi si
passi la boutade – un valore di glicemia o di colesterolo può qualche volta,
ad uno stesso prelievo, risultare diverso per due differenti analisti.
Strati, forme ceramiche ed esami di laboratorio possono parlare,
insomma, lo stesso linguaggio positivo, volto ad una comprensione la più
vasta possibile del dato reale. Voglio dire – e non sarà questa la mia ultima affermazione lapalissiana – che tutti dobbiamo concorrere a perseguire una tale conoscenza allargata; solo alcuni di noi invece (e mi tolgo subito dal novero) [4] saranno in grado di proseguire il percorso della conservazione e della valorizzazione del bene culturale. E poco importa che per
i nostri politici l’imperativo categorico e il toccasana del sottosviluppo sia
“valorizzare ad ogni costo”, mentre il bene esiste ancora. Niente è eterno,
certo; il rischio è però che il dibattito civile ed etico sull’eutanasia possa
trascinarsi dietro quello sulla dolce, ma vantaggiosa, morte per questo o
quel monumento.
Mettendo da parte la cornice, tentiamo adesso di descrivere il quadro,
quello beninteso, della mia personale esperienza nello scavo di Festòs, nell’isola di Creta, che gli Italiani conducono dal 1900, e nel quale sono ininterrottamente coinvolto dal 1965, allora giovane allievo della Scuola
258
La Rosa
Archeologica Italiana di Atene. Una tale esperienza si è decisamente tinta
con i colori del nostro Ateneo soprattutto a partire dal 1998, anno di fondazione del Centro di Archeologia Cretese, multidisciplinare per compiti
statutari, Centro ai cui programmi di ricerca diversi dei colleghi in sala
continuano a dare il loro proficuo apporto.
Distinguerei, per comodità, tre momenti nell’articolazione di un’indagine multidisciplinare:
a) la formulazione delle domande (che l’archeologo rivolge in prima
istanza a se stesso e quindi ai diversi specialisti che intende, sulla base di
esse, coinvolgere);
b) l’esame sperimentale dei dati, secondo le autonome e specifiche
competenze (quelle dell’archeologo comprese);
c) il momento della “comunicabilità dei vasi” [5], cioè quello del confronto fra le diverse classi di acquisizioni, in vista di una conclusione ‘storica’ la più articolata possibile: è certo il momento più arduo, ma anche il
più gratificante e creativo.
Vengo adesso, sulla base di questa scaletta di comodo, a proporre alcuni
esempi che riguardano il sito di Festòs, ma anche il limitrofo e complementare insediamento di Haghia Triada, pur’esso fiore centenario all’occhiello
dell’archeologia italiana. Premetto, infine, che non farò alcun riferimento ad
indagini di tipo paleobotanico, paleozoologico o paleoantropologico, che non
richiedono specifiche domande, ma che costituiscono ormai discipline autonome, il cui apporto non può mancare in qualsiasi scavo, soprattutto di ambito preistorico. E farò appena uno scontato cenno al tema delle datazioni, precisando che, dopo qualche isolato tentativo di analisi al C14 (risultate tuttavia difficilmente inquadrabili nel sistema di cronologie relative già acquisito), abbiamo puntato sul metodo della termoluminescenza, applicato a contesti particolari come quelli delle fornaci da vasaio. La competenza e la passione di O. Troja hanno già partorito i primi risultati.
Passerò pure sotto silenzio i progetti di collaborazione nei quali siamo
stati coinvolti da colleghi inglesi che lavorano a Cnosso o francesi di
Mallia; ad essi abbiamo fornito campioni mirati di ceramiche festie, in
relazione a loro domande, dalle quali noi pure abbiamo ricevuto utili
risposte. E così nel caso di campionature relative ad oggetti di bronzo (per
lo studio delle leghe metalliche e per l’indagine sulla provenienza della
materia prima), oppure in quello per la ricerca di materiale organico all’interno dei contenitori ceramici, propostici da alcuni colleghi greci.
Il valore di un’esperienza multidisciplinare: il caso di Festòs (Creta)
259
Queste, in ordine sparso, le domande iniziali che intendevamo porre,
come tasselli mancanti per una ricostruzione complessiva della storia del
sito, con le relative risposte:
1) quale era l’articolazione del quartiere sud-ovest del Primo Palazzo di
Festòs al momento della sua distruzione sismica, intorno al 1700 a.C.?
Che peso andava dato, fra l’altro, a quell’ormai celebre conglomerato
detto astraki, che aveva spuntato i picconi degli operai negli anni
Cinquanta, nello scavo degli ambienti di quel quartiere? La posta in palio
era decisamente alta. La chiara sovrapposizione di tre piani di calpestio,
con porte e pavimenti aveva portato il Levi ad ipotizzare che si trattasse
delle rovine di tre differenti e sovrapposti edifici: in seguito ad una distruzione sismica, le rovine sarebbero state livellate fino ad un’altezza desiderata e poi colmate con il citato astraki, onde creare delle piattaforme di
fondazione e consentire la riedificazione, praticamente con la stessa planimetria, dei vani del palazzo. Su questa base egli aveva ipotizzato una suddivisione tripartita del periodo dei Primi Palazzi assolutamente diversa,
per durata e corrispondenze, da quella proposta agli inizi del secolo da A.
Evans, lo scavatore di Cnosso. Una tale suddivisione pensava il Levi
dovesse valere per l’intera isola di Creta. Già subito dopo lo scavo alcuni
studiosi gli obiettarono, con argomenti relativi sia alle strutture sia ai corredi pavimentali, che non di tre palazzi sovrapposti si trattava, ma di tre
piani di un unico edificio, distrutto una sola volta, ed una sola volta colmato con la colata di calcestruzzo. Il Levi difese a spada tratta la sua interpretazione, che col passar degli anni fu sempre più considerata eretica: con
il risultato che lo scavo di Festòs, riccamente pubblicato dallo stesso studioso, fu in qualche modo ghettizzato, anche per la difficoltà che la dilagante anglofonia incontrava nel cimentarsi con il farraginoso italiano del
Nostro. La rilevanza del problema, soprattutto per le sue implicazioni
paninsulari, era palese ed i colleghi stranieri si aspettavano, da chi era succeduto al Levi nella responsabilità dello scavo festio, una parola risolutiva. La risposta non poteva però essere solo quella di un archeologo che si
fosse limitato a rivedere i corredi pavimentali recuperati nei diversi vani e
nei diversi piani, con qualche osservazione, al più, sulla sovrapposizione
dei muri o sui tracciati delle scale. Ecco allora l’idea dell’equipe multidisciplinare, con dei limiti-capestro per quel che riguardava i tempi per un
primo bilancio: la fine dell’anno 2000, centenario dello scavo festio, con
un appuntamento d’obbligo in dicembre, per un convegno presso
l’Accademia Nazionale dei Lincei. Gli Atti di quel Convegno (I cento anni
260
La Rosa
dello scavo di Festòs) costituiscono una delle pubblicazioni alla quale mi
sento più legato [6]. Un paio di archeologi (il sottoscritto e F. Carinci
dell‘Università di Venezia), un architetto (il collega F. Tomasello), dei
sismologi (F. Galadini e G. Galli dell’Istituto Nazionale di Geofisica), un
ingegnere strutturista (P. Riva dell’Università di Brescia), un chimico (il
collega E. Ciliberto) per malte ed intonaci, ognuno con i suoi specifici
strumenti di indagine, hanno consentito una straordinaria risposta unitaria:
dei tre livelli architettonici tuttora ben visibili, almeno i due inferiori si
riferiscono a due piani di un unico edifico; quanto al terzo, la scarsità dei
resti non consente una presa di posizione certa. Una serie di indizi (sui
quali ovviamente sorvolo) permettono forse di aggiungere che i piani fossero addirittura tre e che si fosse deciso, dopo un primo episodio sismico,
di abbandonare (colmandoli con il calcestruzzo) i due più bassi e di ripristinare soltanto il superiore. Un secondo terremoto, dopo un lasso di
tempo assai breve, avrebbe definitivamente mandato in rovina il Primo
Palazzo di Festòs. Morale della favola: la classificazione data dal Levi per
l’età protopalaziale non è più sostenibile e le peculiarità festie, pure innegabili, avranno bisogno di nuovi contenuti.
2) Come e perché era stata distrutta, intorno al 1450 a.C., la c.d. Villa
Reale di H. Triada? Anche in questo caso il tipo di risposta avrebbe avuto
conseguenze storiche di enorme rilievo, inserendosi in una delle vexatae
quaestiones dell’archeologia minoica: la fine dei Secondi palazzi e l’eventuale ruolo dei Micenei del continente. Nel caso di H. Triada, in particolare, l’edificio del potere di età micenea era stato costruito proprio sopra la
Villa reale, senza che fossero stati minimamente saccheggiati i suoi ricchi
corredi pavimentali. L’indagine dei sismologi L. Tortorici e C. Monaco,
rispolverando, con una cogente documentazione analitica, la vecchia ipotesi della distruzione sismica, consente ora di escludere episodi bellici e
saccheggi e depone in favore di una forte continuità dei gruppi di potere
prima e dopo la fine dei Secondi Palazzi.
3) Dove potevano essere cercate le tuttora ignote necropoli più antiche di
Festòs, e quali elementi potevano da esse ricavarsi per valutare l’estensione
dell’abitato? Al di là del tradizionale ‘gambe in ispalla’, alla ricerca di strutture o di resti ossei affioranti, la moderna tecnologia era in grado, anche in
questo caso, di fornire il suo apporto determinante. Con un unico volo su un
piccolo aereo, nell’estate del 2000, A. Geraci (insieme con i suoi collaboratori) ha scritto la prima pagina di telerilevamento a Festòs, con tante prospettive che consiglierebbero di continuare in questa direzione: peccato, tuttavia,
Il valore di un’esperienza multidisciplinare: il caso di Festòs (Creta)
261
che gli aerei non volino con il solo entusiasmo e le curiosità dei ricercatori.
Alcuni contorni di strutture circolari (se non si tratta ovviamente di costruzioni recenti o semplice aie per la mietitura) potrebbero riferirsi a tombe di
età geometrica, confermando un modello di abitato per piccoli nuclei (katà
komas) che era già stato ipotizzato. Ma resti circolari di dimensioni maggiori, nel settore a Sud-Ovest dell’area archeologica, potrebbero proprio costituire quelle famose sepolture collettive caratteristiche della Creta centromeridionale fino al momento di costruzione dei Primi Palazzi. Chi avrà la
ventura di verificare con piccone e cazzuola, potrà riprendere, sulla base dei
corredi tombali e degli eventuali oggetti di prestigio, il problema della consistenza e dell’articolazioni delle elites, e reinterrogarsi sul perché della nascita del palazzo proprio a Festòs.
4) Come si potevano mettere a fuoco, con l’approccio multidisciplinare, i fenomeni dell’artigianato e del commercio per le diverse classi di
materiali? È questa, in effetti, la domanda più vasta e apparentemente più
vaga, che conviene articolare in una serie di quesiti specifici, tenendo tuttavia presente l’aspirazione a non limitarsi al solo versante tecnologico,
ma a tentare una qualche lettura socio-politica.
4a) Quale era la conoscenza tecnologica maturata dagli artigiani del
nostro comprensorio nella modellazione e nella cottura delle ceramiche e
nella realizzazione dei vasi in pietra, sia nel periodo dei Primi che dei
Secondo Palazzi? In questo ambito ha assunto una sua individualità il subprogetto “fornaci”, con impianti artigianali che nei due centri di Festòs ed H.
Triada andavano dal periodo dei Primi Palazzi (1700 a.C. ca.) al momento
orientalizzante (fine del VII sec. a.C. ca.). Si pensi che scavando, ormai quasi
ottuagenario, il forno di H. Triada il Levi aveva addirittura oscillato sulla
natura dell’impianto, se per fusione di metalli o per cottura di vasi. I nuovi
rilievi di F. Tomasello e le sue proposte sul funzionamento e sulle peculiarità tecniche dei diversi forni, le indagini cronologiche di O. Troja (per confermare datazioni ottenute solo attraverso i materiali ceramici raccolti all’interno, o con brevi saggi e pulizie lungo le fondazioni dei muri), le acquisizioni
di A. Pezzino e P. Mazzoleni sulle tecniche e le materie prime utilizzate per
la produzione dei rivestimenti o sulle temperature massime raggiunte all’interno delle fornaci, hanno consentito di evidenziare la sapienza tecnologica
dei vasai festii di età minoica, fornendo la documentazione preliminare per
ogni discorso sulle fabbriche locali.
4b) Quale era la tavolozza dei decoratori parietali, da dove traevano i
loro colori e con quale tecnica li realizzavano? Allo studio degli affreschi
262
La Rosa
P. Militello si dedica da tempo. Sue sono state, in questo caso, le domande. Un primo lotto di analisi, sulle pitture di H. Triada, effettuato dal collega greco Perdikatzis nel 1998, consentì, con un’indagine mineralogica,
di individuare gli elementi che componevano pigmenti ed intonaci e di
accertare che l’unico materiale importato era il bleu egiziano, impiegato
solo nelle pitture di maggiore impegno. Ad E. Ciliberto, a partire dal 2000,
furono proposti, attraverso una campionatura più vasta, anche quesiti più
complessi relativi alla tecnica. Egli ha potuto accertare che accanto a quella detta ad affresco, ne veniva impiegata una a mezzo-fresco e che proprio
questa era stata erroneamente confusa con la tempera, invece largamente
impiegata sia in Egitto che nel Vicino Oriente: il che equivale ad affermare l’originalità e la versatilità dei decoratori minoici.
4c) Da dove si procuravano gli artigiani festii le materie prime, argille,
pietre, ossidiane etc.) e cosa queste provenienze potevano, eventualmente,
dirci per il problema degli scambi e dei commerci?
Le analisi di laboratorio delle argille sono ormai un supporto indispensabile ad ogni edizione di materiali ceramici: l’esame autoptico serve, in
altri termini, soprattutto per stabilire criteri e limiti della campionatura. Il
coinvolgimento di Festòs è stato originariamente propiziato, come già
detto, dai colleghi inglesi. La strabiliante (per loro e per noi) conclusione
fu che le sole importazioni presenti a Cnosso, dalla fine del IV millennio
a.C., erano di provenienza festia; qualche coccio dipinto con ocra risaliva
addirittura al periodo del neolitico finale. Tuttora oggetto di valutazione
congiunta (dai due versanti cioè di Cnosso e di Festòs) è la seconda acquisizione: che tali importazioni occupino tutti il periodo AM I ed AM II A
(fino 2500 a.C. ca.), che si interrompano bruscamente per almeno mezzo
millennio, e che riprendano solo al tempo dei Primi Palazzi. Le relazioni
tra i due centri più importanti dell’isola, in altri termini, hanno ancora
parecchio da svelarci.
Proprio in questa prospettiva, abbiamo deciso di continuare la collaborazione con il collega inglese P. Day, concentrandoci sui periodi più antichi di quelle importazioni. S. Todaro, alla quale ho affidato l’edizione
delle ceramiche di età prepalaziale dei nuovi scavi di Festòs, sta completando un dottorato di ricerca presso l’Università di Sheffield con lo stesso
prof. Day, insieme con il quale ha avviato un programma di analisi, da cui
è lecito attendersi risultati di grande interesse.
La collaborazione del collega inglese (ma anche del ricercatore greco
Kilikoglou) si è fruttuosamente realizzata con i catanesi A. Pezzino e P.
Il valore di un’esperienza multidisciplinare: il caso di Festòs (Creta)
263
Mazzoleni (contro i quali dovrete protestare per questo mio intervento!),
che hanno guidato, nel dottorato di ricerca, C. Belfiore. Ella ha dovuto
imparare cos’era un forno o un coccio Tardo minoico I, analizzando e studiando i risultati di una cinquantina di campioni ceramici recuperati
appunto entro un forno del 1500 a.C. ca. scoperto ad H. Triada. Che la
rivista Archaeometry abbia deciso di accogliere il lavoro è garanzia che
non richiede ulteriori commenti. Abbiamo già in programma di continuare con la stessa equipe, scegliendo complessi stratigraficamente mirati,
relativi alle diverse epoche, non escludendo persino le produzioni veneziane di XVI-XVII sec., alle quali si è già preliminarmente dedicato P.
Mazzoleni, pungolato da L. Arcifa, che studia le ceramiche dall’area della
necropoli ‘moderna’ di H. Triada.
Un’indagine sui generis, sempre nel campo della produzione vascolare, ha interessato le pentole tripodate, forma fra le più comuni nella ceramica c.d. da fuoco. In questo caso l’osservazione autoptica dell’archeologo era che il tipo risultasse assai diffuso nel NE dell’Egeo (per es. nell’isola di Lemno) ed a Creta e che fosse quasi assente nell’arcipelago delle
Cicladi, ma con una sostanziale differenza morfologica fra le due aree:
corpo mastoide, fondo nettamente bombato e piedi molto alti con attaccatura fin quasi sotto l’orlo, nel caso di Lemno; corpo cilindrico, fondo quasi
piatto e attacco dei piedi in corrispondenza con la base del recipiente, nel
caso di Creta. Dal punto di vista termodinamico (e sono già alle considerazioni propostemi da E. Ciliberto) le due diverse fogge del fondo consentono un differente assorbimento del calore, verosimilmente in rapporto,
quest’ultimo, con il genere di cibo da cuocere e con la qualità della cottura. La forma a calotta profonda degli esemplari di Lemno, assorbendo una
maggiore quantità di calore, meglio si adatterebbe alla cottura delle carni.
Dal punto di vista tecnico è necessario tuttavia ricordare che un tipo di
argilla non refrattaria, come hanno dimostrato le analisi di laboratorio per
i campioni del NE dell’Egeo, sarebbe risultato difficilmente impiegabile
in recipienti dal fondo piatto: da qui la necessità di pentole mastoidi. Una
terza variante, direttamente in rapporto con la diffusione del calore, può
essere rappresentata dalla forma del focolare, più o meno costruito, e con
maggiore o minore dispersione di fiamma, ma anche con una diversa fonte
di calore, come fuoco vivo o brace. Gli esemplari di Lemno, con attacco
molto alto dei piedi e con la loro notevole divaricazione, potrebbero, per
esempio, risultare più funzionali per una cottura alla fiamma; le pentole
minoiche, con i sostegni attaccati direttamente al fondo, sembrerebbero
264
La Rosa
più adatte per una cottura alle brace o a fuoco lento. Nell’attesa di passare all’archeologia sperimentale, la provvisoria ipotesi di lavoro è che
un’accertata differenza nelle forme dei contenitori e quindi dei focolari e
dei tipi di cottura autorizza a sospettare anche una differenza di abitudini
alimentari fra il Nord ed il Sud dell’Egeo, per non parlare dello strano
‘buco nero’ rappresentato, per quel che riguarda la nostra forma ceramica,
dal centrale arcipelago delle Cicladi. È appena il caso di richiamare, in
questa sede, i cd. Regional Paths, le differenziazioni culturali nelle diverse aree, che prendono in genere le mosse da nozioni di tipo climatico ed
ambientale, con il supporto della paleobotanica e della paleozoologia. E
taccio della proposta di C. Renfrew, ormai degli inizi degli anni Settanta,
circa un Nord attardato rispetto ad un Sud più progredito.
La classe dei vasi in pietra risultava a Festòs e nei centri vicini di particolare rilevanza, per la varietà del materiale usato, per la raffinatezza dell’esecuzione, per l’eleganza delle forme (in qualche caso copiate addirittura dalla produzione ceramica). Alle considerazioni archeologiche di O.
Palio (sviluppo tipologico delle forme, contesti, specifiche funzioni, cronologia degli esemplari più antichi nell’AM II, con una vera e propria produzione in serie fra la fine dell’AM III e gli inizi del MM IA etc.) è stato
possibile aggiungere le osservazioni del geologo (L. Lazzarini nella fattispecie), del massimo interesse per quel che riguarda la provenienza delle
pietre e il sistema di lavorazione. La maggior parte di esse è risultata della
zona, raccolta piuttosto che estratta, essendosi trattato in genere di grossi
ciottoli di fiume: conclusione tutt’altro che scontata, dal momento che
quello dei rapporti con la consimile produzione egiziana era sempre stato
un tema presente in bibliografia. Un’altra notevole acquisizione è rappresentata dall’individuazione del materiale usato per lavorare la pietra,
mediante rudimentali trapani di canna: si tratta di uno smeriglio che in
Egeo era fornito quasi esclusivamente dall’isola di Nasso. Ne abbiamo
avuto eclatante conferma proprio ad H. Triada, recuperando uno scarto di
lavorazione di un blocco di calcare, usato forse solo per impratichirsi nell’uso del trapano: con le tante carote ancora attaccate al blocco e con
abbondanti resti di quella polvere scura, risultata appunto, alle analisi,
smeriglio di Nasso.
In G. Pappalardo e nelle sue analisi diffrattometriche pixe-alfa mi sono
imbattuto, per i materiali festii, in un paio di occasioni: nella prima sono
andato al traino, nella seconda ho fatto invece da mosca cocchiera. Sulla
base di alcuni suoi precedenti studi sui pigmenti del nero delle vernici atti-
Il valore di un’esperienza multidisciplinare: il caso di Festòs (Creta)
265
che di età arcaica e classica, egli era fortemente interessato alla composizione della vernice dei vasi Kamares, più vecchi di oltre un millennio.
Dall’esame proprio di un manufatto festio donato a suo tempo da L.
Pernier a P. Orsi per il museo siracusano, è risultata una sostanziale uniformità fra il nero attico e quello Kamares, sia nella composizione mineralogica sia nelle proporzioni degli elementi presenti, con l’assenza di quel
manganese che sarebbe stato invece impiegato in coeve produzioni di altri
ambiti mediterranei.
Al problema degli scambi in Egeo, a partire già dall’età neolitica, è
legato invece il programma di analisi, sempre con la stessa tecnica, di ossidiane, le quali possono essere, sulla base degli elementi in traccia, attribuite a precise cave di provenienza. La disponibilità di campioni cronologicamente ben stratificati, su un arco di almeno un paio di millenni, ha consentito di dare alle analisi una buona rilevanza statistica. La conclusione
generale appariva scontata già al semplice esame autoptico: tutti i campioni provenivano dall’isola di Melos, la maggiore fornitrice, assieme all’altra di Ghialì, di questo importante vetro vulcanico. Il risultato del tutto
inatteso è stato invece quello di poter identificare l’esatta provenienza
rispetto ai due grandi giacimenti attestati a Melos. Le lame e le schegge
neolitiche erano solo dalla cava di Demenegaki, quelle di età Antico
Minoica soprattutto dal giacimento di Sta Nykia, i campioni più recenti da
entrambi. Saranno gli specialisti di archeologia melia a valutare appieno,
soprattutto sulla base della vicinanza di queste cave rispetto agli insediamenti preistorici isolani, le dinamiche dello sfruttamento e della rete degli
scambi, il coinvolgimento dei gruppi locali o la prevalenza di correnti di
traffico esterne già ben organizzate.
Un’indagine particolare, l’ultima in ordine di tempo, presentata ad
Atene una diecina di giorni fa da E. Ciliberto alla 2° Conferenza internazionale sulla Ancient Greek Technology, riguarda la natura e la composizione del citato astraki, dopo che le ultime indagini di scavo ci avevano
consentito di raccogliere campioni in livelli assai più antichi di quelli della
fine del Primo palazzo. Si trattava di un edificio risalente allo scorcio del
IV millennio a. C., nel quale il conglomerato non era forse stato usato
come semplice materiale di riempimento. La conclusione più importante
delle analisi sembra la sostanziale omogeneità di composizione dell’astraki nell’arco di quasi due millenni. Il conglomerato festio, usato non soltanto come materiale di riempimento, ma anche come rivestimento di strutture murarie e nella preparazione di tetti e solai, è sicuramente più antico
266
La Rosa
rispetto alle malte identificate in Siria, ad Alalakh VII, distrutta alla metà
del XVII sec. a.C. o ad Ugarit. Sarebbe quindi del massimo interesse poter
appurare, sulla base anche di campionature medio-orientali, se lo scambio
di conoscenze tecnologiche, nel caso specifico, avesse fatto eccezione alla
ben nota espressione “ex Oriente lux”: se, in altri termini, fosse stata una
tecnologia minoica ad approdare nella terra fra i due fiumi.
Una siffatta messe di dati relativa agli aspetti tecnologici, alla produzione
artigianale ed al commercio è tuttora in corso di elaborazione dalla parte
della sponda archeologica, la quale ha in animo, ovviamente, di sollecitare
altri coinvolgimenti multidisciplinari. Mi pare però fin da adesso acquisito il
ruolo portante dell’artigianato nella struttura sociale festia e la sua rilevanza
economica. Sono queste attività, in aggiunta alle primarie dell’agricoltura e
dell’allevamento favorite dall’ambiente geografico, ad aver fatto la fortuna
autarchica del regno di Festòs e ad averne consentito una specifica caratterizzazione. Autarchia, non chiusura, come documentano le citate importazioni
di ceramica festia a Cnosso, ma anche quelle di anfore-contenitori d’olio rinvenute a Mallia ed attribuite dai colleghi francesi, in seguito alle analisi delle
argille, a vasai delle nostre officine. La storia dei rapporti di forza fra i diversi centri palaziali (e dunque delle vicende politiche nell’intera isola) passa,
insomma, da nuove acquisizioni di tipo multidisciplinare. E non saremo certo
noi archeologi a tirarci indietro.
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267
IL DUOMO DI S. GIORGIO A RAGUSA IBLA: INDIVIDUAZIONE
DEI MATERIALI LITICI UTILIZZATI, IMPLICAZIONI ARCHITETTONICHE
ED ANALISI DELLE FORME DI DEGRADO
LA RUSSA M.F.(1), BARONE G.(1), MAZZOLENI P.(1)., PEZZINO A.(1), CRISCI G.
M.(2), MALAGODI M.(3), AREDDIA G.(4), VINDIGNI A.(4)
(1)Dipartimento
di Scienze Geologiche Università di Catania, Corso Italia, 53-Catania, Tel
0957195755, fax 0957195760, email: [email protected]
(2)Dipartimento di Scienze Geologiche Università della Calabria
(3)Istituto Centrale per il Restauro – Roma
(4)Gruppo progettazione Dir. lavori restauro Duomo
1. Introduzione
Il presente lavoro rappresenta la sintesi di un preliminare studio pluridisciplinare di ricerche sperimentali, che interessano la geologia, la fisica,
la chimica, la biologia e l’architettura, condotto sui materiali lapidei del
Duomo di Ragusa Ibla.
Tali ricerche sono state condotte principalmente per caratterizzare i materiali litici e per ottenere una mappatura completa delle forme di degrado presenti al fine di eseguire degli interventi di conservazione e restauro mirati.
Inoltre un accurato rilievo architettonico ha consentito di evidenziare l’utilizzo di diversi materiali per la costruzione della facciata del Duomo, sinora attribuiti ad una sola tipologia. Questo dato ha importanti implicazioni
architettoniche sia per ciò che concerne l’estetica del monumento stesso,
poiché va a rientrare nei tipici esempi monumentali di bicromia barocca
presenti nel Ragusano, sia per l’impiego di diversi materiali lapidei messi
in opera in funzione delle loro caratteristiche chimico-fisiche.
2. Analisi storica e architettonica del monumento
Una delle massime espressioni dell’architettura sacra barocca è la
Chiesa di San Giorgio di Ragusa Ibla, progettata dall’architetto Rosario
268
La Russa, Barone, Mazzoleni, Pezzino,
Crisci, Malagodi, Areddia, Vindigni
Gagliardi, siracusano di Noto, figura eminente della corrente artistica di
quei tempi.
Il prospetto propone la più bella facciata – torre dell’architettura iblea,
con la sovrapposizione di tre ordini che vanno a restringersi a piramide,
per concludersi con la cella campanaria e la cuspide a bulbo. La Chiesa fu
edificata sul sito della vecchia Chiesa di San Nicola, che era stata distrutta dal terremoto e la posa della prima pietra è avvenuta il 25 ottobre del
1739, come ricorda un’incisione in uno dei pilastri d’angolo, mentre la
cupola fu iniziata verso il 1810 per essere terminata nel 1820. Ancora più
tardi, nel 1890, fu eseguita ed installata la magnifica cancellata che cinge
la scalinata.
La Chiesa sorge su un progetto a pianta basilicale, a tre navate, divise da
robusti ma eleganti pilastri di calcare duro, con zoccolatura in pietra pece ; la
navata maggiore, coperta da una volte a botte lunettata, è illuminata da ampie
finestre modanate con timpani ad arco ribassato. Le due navate laterali comprendono una serie di Cappelle con copertura a cupola.
La facciata, a tre ordini, con partito centrale leggermente convesso, con
volute spiraliformi che collegano i vari ordini, termina con l’originale
inserimento della torre campanaria al terzo ordine, sovrastata dalla cuspide con forma a bulbo. Forte plasticità è data dall’inserimento di colonne
libere nei vari ordini.
Il primo ordine presenta dieci robuste colonne corinzie su solidi piedistalli, con un portale centrale e due laterali . Il secondo ordine presenta
un finestrone ornato da una cornice con intagli impreziosito da una vetrata colorata raffigurante San Giorgio nell’atto di uccidere il drago. Sei
colonne corinzie sono sovrapposte alle sei interne del primo ordine; ai
lati, su due volute artistiche, le statue equestri di San Giorgio e di San
Giacomo Apostolo. Il terzo ordine offre alla vista la cella campanaria con
balaustra, quattro colonnine corinzie e due statue sulle volute laterali raffiguranti San Pietro e San Paolo. Un orologio con la campana per i rintocchi, quello della vecchia Chiesa della Maddalena, due vasi artistici e
la cuspide coronata da un globo e da una croce aerea completano la facciata.La neoclassica cupola, alta 43 metri poggia su una serie di sedici
colonne binate, cilindriche, leggere con raffinatissimi capitelli corinzi.
Sulla cupola più grande sorgono altre colonne più piccole che sostengono una cupoletta più piccola.
L’interno della Chiesa è a croce latina, con tre navate, separate da due
file di robuste colonne, cinque per ogni lato.
Il Duomo di S. Giorgio a Ragusa Ibla:
individuazione dei materiali litici utilizzati
269
3 Materiali e metodi
Secondo indicazioni storiche, l’edificio venne costruito utilizzando
materiali lapidei cavati in loco. Si tratta di calcareniti appartenenti alla
Formazione Ragusa, la quale si compone di due membri: Membro
Leonardo (calcilutiti e marne dell’Olig. sup.) e Membro Irminio (calcareniti e marne di ambiente pelagico del Mioc. inf.). Largo impiego trova
anche la pietra pece o asfaltica, ossia un calcare imbevuto di bitume in una
percentuale compresa tra il 7-10%. Gli affioramenti di pietra pece del settore ibleo, sono costituiti da banchi di calcareniti impregnati di bitume
riferiti stratigraficamente al Membro Irminio (Di Grande et al., 1977).
Secondo le classificazione di Folk e di Dunham si tratta rispettivamente di
una biomicarenite e di un packstone.
Inizialmente, la pietra pece fu utilizzata solo per i capitelli del primo ordine; successivamente, in seguito a cedimenti e disgregazioni, anche i capitelli
del secondo ordine, le cornici e gli elementi decorativi dei tre portali vennero sostituiti con la pietra pece. Sono costituiti in pietra pece anche i seguenti
elementi architettonici: gli spicchi fra le nervature della calotta esterna della
cupola ottocentesca, le cornici orizzontali di coronamento del complesso
cupola – lanterna, la pigna e il basamento interno ed esterno.
In passato, la scelta di utilizzare la pietra asfaltica accostata alla calcarenite era legata probabilmente ad un effetto estetico di bicromia.
Nell’area Ragusana ci sono infatti diversi esempi di bicromia del periodo
barocco come la Badia, la Chiesa di S. Francesco all’Immacolata, il portale d’ingresso con balcone in palazzo Sortino-Trono e la Cattedrale di S.
Giovanni. Probabilmente anche le buone caratteristiche fisico-meccaniche
della pietra pece (ottima gelività, buona durevolezza fisica esterna ed ottima durevolezza fisica interna) hanno condizionato in passato la scelta del
materiale lapideo utilizzato.
Oggi il prospetto principale non mostra più una bicromia poiché gli elementi architettonici in pietra pece appaiono dello stesso colore della calcarenite che presenta comunque una colorazione alterata arancione brunastra. Solo un’attenta analisi macroscopica ha consentito di distinguere le
due tipologie principali di materiale utilizzato. La distribuzione della pietra pece sulla facciata è evidenziata dalle parti in nero presenti sul rilievo
architettonico (v. Fig. 1).
Sono stati prelevati (secondo Normal 2/80) in totale 21 campioni comprendenti:
270
La Russa, Barone, Mazzoleni, Pezzino,
Crisci, Malagodi, Areddia, Vindigni
malte, intonaci, calcare, pietra pece e patine di alterazione e degrado. Un
primo studio del degrado è stato eseguito attraverso un’analisi macroscopica
secondo Normal 1/88; sono state riscontrate mancanze, distacchi, alterazioni
cromatiche, disgregazioni differenziali, patine biologiche, croste, erosione e
flos tectori degli intonaci. I punti di prelievo sono riportati in fig. 1.
Le metodologie analitiche impiegate comprendono:
– la spettroscopia infrarossa (FT- IR), che permette di definire le specie
mineralogiche e la materia organica eventualmente presente. Lo strumento utilizzato è un Nicolet 380 dotato di accessorio Smart Orbit.
– l’analisi in cromatografia ionica (CI), effettuata con un Dionex dx 100
al fine di valutare le concentrazioni delle specie anioniche presenti
nelle patine campionate. I campioni sono stati opportunamente preparati secondo Normal 13/83 portati in soluzione e analizzati.
– l’analisi al microscopio elettronico a scansione (SEM) effettuata su
frammenti di campione, preventivamente preparati attraverso metallizzazione in oro. Lo strumento utilizzato è un esem quanta 200 della
Fei/Philips.
Fig. 1. l Patine di alterazione e/o
degrado; m Materiale lapidei.
Il Duomo di S. Giorgio a Ragusa Ibla:
individuazione dei materiali litici utilizzati
271
4. Risultati
Tutti i campioni prelevati sono stati sottoposti all’analisi in spettroscopia infrarossa FT-IR. In Fig. 2 e Fig. 3 sono riportati due spettri rappresentativi di patine di alterazione in cui si evince la presenza di carbonato di
calcio, in maniera predominante, gesso e tracce di ossalato, presente nella
specie più comune, ovvero whewellite.
Al fine di ridurre la componente carbonatica, e le relative bande, i campioni sono stati sciolti in una soluzione 0,1 N di acido cloridrico, successivamente sono stati filtrati e essiccati in stufa a 60 gradi. Una volta raggiunto un peso costante il campione è stato sottoposto nuovamente
all’analisi IR. Il risultato ottenuto è riportato nello spettro sottostante, in
cui sono ben evidenti le bande caratteristiche della whewellite riconoscibile dai picchi caratteristici a 1328 cm-1 rappresentante lo stretching C =
O, a 1615 cm-1 e 3398 cm-1.
Fig. 2. Spettro IR
relativo a patina
di alterazione.
Fig. 3. Spettro IR
relativo a patina
di alterazione.
272
La Russa, Barone, Mazzoleni, Pezzino,
Crisci, Malagodi, Areddia, Vindigni
I risultati ottenuti dalla microanalisi hanno permesso di individuare la
presenza di gesso, ben visibile in Fig. 4 e dallo spettro composizionale
EDS relativo ai medesimi cristalli.
Sono stati inoltre evidenziati la presenza di ossalati e strutture filamentose riconducibili alla presenza di funghi quali Attinomiceti e Zygomiceti
(Prof. A. Guglielmo, Dr.ssa A. Pezzino) (v. Fig. 5).
Fig. 4. Immagine al SEM di cristalli di gesso con relativo spettro composizionale.
Fig. 5. Immagine al SEM di strutture filamentose appartenenti ad Attinomiceti e spettro
composizionale di ossalato.
Le concentrazioni anioniche ( espresse in g/ml ) determinate mediante
analisi in cromatografia ionica sono riportate in tabella 1:
I risultati ottenuti sono stati rielaborati mediante istogrammi riportati in
Fig. 6a, 6b, 6c da cui si evince facilmente l’elevata presenza di solfati,
nitrati e cloruri.
Il Duomo di S. Giorgio a Ragusa Ibla:
individuazione dei materiali litici utilizzati
273
Cl
NO3
SO4
NO2
SGR12
2.953
1.183
1.176
0
SGR9
0.141
0
0.068
0.042
SGR21
0.31
0.155
6.049
0.016
Tab. 1.
Fig. 6a. Analisi di crosta.
Fig. 6b. Analisi patina su calcarenite.
Fig. 6c. “Flos tectori su intonaco”.
5. Conclusioni
Dai risultati preliminari ottenuti sono stati dunque individuati diversi tipi
di degrado: fisico, chimico e biologico.
Tra i prodotti di degrado chimico, sono stati riscontrati ossalati (whewellite), solfati, cloruri e tracce di nitriti e nitrati. Le pellicole ad ossalati, diffuse sulle superfici lapidee, hanno un colore arancione; tali patine potrebbero essere il risultato o di interventi conservativi (protettivi) effettuati nel
passato, mediante l’ utilizzo di sostanze organiche che nel tempo si trasformano in ossalati o di processi metabolici di microflora (licheni o bat-
274
La Russa, Barone, Mazzoleni, Pezzino,
Crisci, Malagodi, Areddia, Vindigni
teri). Tra i prodotti di degrado biologico sono stati infatti riscontrati licheni epilitici di tipo crostoso, che possono determinare la formazione di sottili veli (micron) di Ca-ossalati.
Inoltre, è stata evidenziata una particolare forma di degrado fisico-chimico su alcune parti d’intonaco che prende il nome di “Flos tectori”, imputabile a diverse cause in corso di verifica e probabilmente interconnesse,
quali: condizioni microclimatiche (azione del vento), risalita capillare dell’acqua, presenza di sali solubili, probabile azione dei microrganismi, eterogeneità della malta, tecnica di lavorazione e messa in opera.
Infine, sono in corso prove per stabilire ulteriori meccanismi del processo
di degrado dei materiali lapidei mediante analisi petrografiche su sezioni
stratigrafiche, prove d’invecchiamento accelerato su campioni di materiale lapideo naturale ed artificiale (malte) trattati con olii, resine, pigmenti
naturali e scialbature e riproduzione di malte ed intonaci antichi.
RINGRAZIAMENTI
Si ringrazia la Prof.ssa A. Guglielmo e la Dr.ssa A. Pezzino del Dip. Botanica Università
di Catania per il contributo riguardante la classificazione dei microrganismi individuati.
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275
LA RICOSTRUZIONE SETTECENTESCA DEL MONASTERO
DI SAN BENEDETTO IN VIA DEI CROCIFERI A CATANIA.
FABBRICHE E LIBRI DI SPESA
LAMAGNA R.
Architetto e docente a contratto presso il Corso di Laurea in: “Tecnologie Applicate alla conservazione ed al restauro dei Beni Culturali”, via Vittorio Veneto 33, Siracusa - Università di Catania
Ricostruire ed identificare le vicende costruttive di un manufatto è di
particolare interesse quando l’ interpretazione del testo architettonico,
degli apparati costruttivi e del linguaggio formale trova riscontro nel testo
scritto inteso come documento cartaceo. Così per il monastero di San
Benedetto, in via dei Crociferi a Catania, tra le diverse fonti scritte particolare interesse hanno i libri della spesa del monastero che elencano spese
per vitto, vestiario, gestione quotidiana del monastero e della chiesa e non
ultime le spese per la “fabbrica”.
Durante il corso del settecento il monastero di San Benedetto, ricostruito sulle preesistenze dell’antico ed ampliato rispetto al sito precedente, è
modificato più volte nella distribuzione degli spazi e delle funzioni. La consistenza dei corpi di fabbrica del complesso monastico, definita nel XVIII
secolo, corrisponde a quella attuale articolata in due distinti edifici collegati dall’Arco su via dei Crociferi e dalla chiesa intitolata a San Benedetto.
1. La ricostruzione del monastero dopo il terremoto del 1693
Nel 1702 iniziano i lavori per la nuova fabbrica del monastero e proprio
tra le prime spese è annotata quella per l’acquisto di casaleni rimasti dal terremoto occorso nell’anno 1693 con tutte le fabbriche vecchie, e nuove,
pedamenti, dammusi, scale, et altre in quelli esistenti, posti a frontespizio di
esso monastero. Contemporaneamente al progetto di ricostruzione viene
quindi avviato anche quello di ampliamento e l’acquisto di fabbriche vicine
al monastero seicentesco, è una scelta programmata che segue un progetto
276
Lamagna
ben definito e manifesta una volontà chiara ed esplicita. A conferma, proprio tra le prime spese, è riportata anche quella di dieci onze pagate a
Mastro Alonzo di Benedetto che fece lo disigno e prezzò le dette fabbriche.
Precedentemente nel secolo quattordicesimo il monastero di San
Benedetto, dalla sua fondazione nel 1334 nel luogo detto Pozzo de Albano,
era stato nel 1355 trasferito nella contrada Santo Stefano, sito corrispondente in parte a quello attuale. Al complesso abitativo originario, di proprietà
della nobile Costanza Spatafora e alla sua morte donato al monastero, costituito da una torre, case solarate, cucina e cortile, erano state comprate ed
aggiunte negli anni successivi altre proprietà poste in prossimità del monastero : domos contiguas e dirutas unite a nord-est al cortile del monastero,
la taverna ki est allati Sanctu Stephani, chiesa poi concessa alle moniali, ed
altri casalini e case terranee e solarate. Il terremoto del 1693 diventa occasione non soltanto per ricostruire ma anche per ampliare la proprietà monastica benché una strada pubblica segni confine e limite, di fatto superato con
la realizzazione, soluzione eccezionale ed ardita, del sovrappasso.
I lavori iniziano nel dicembre del 1702 e proseguono l’anno successivo
con la costruzione, prima fra tutte, del cavalcavia su via dei Crociferi (Fig.
1). La struttura di collegamento tra il monastero e le nuove proprietà
Fig. 1. L’Arco su via dei Crociferi.
La ricostruzione settecentesca del monastero di S. Benedetto (Ct)
277
immobiliari al di là della strada e quanto mai necessaria ed indispensabile alla funzionalità ed unità del complesso, e quindi è la prima opera del
progetto di ricostruzione, ad essere realizzata. Nell’aprile del 1703 si
fanno le furme del dammuso dell’arco e si comprano grandi quantità di
petre pumici e calcina, agliara e petra. Si paga inoltre il trasporto della
petra dalla marina al monastero e numerose giornate a intagliaturi e
mastri muratori, manuali e figlioli. La costruzione dell’Arco procede
velocemente benché un litigio con li Illustrissimi Deputati di questa città
sembra interrompere la costruzione dell’opera. Ma nel maggio dello stesso anno si paga la petra valata per scolpire la statua del P. S. Benedetto ed
a giugno vengono pagate sette giornate allo mastro intagliaturi per fare
l’arme del Vescovo e allo suddetto per fare l’arme della religione del P. S.
Benedetto. La costruzione è così, con l’apposizione dello stemma del
Vescovo e di San Benedetto, legittimata e sarà completata nei mesi successivi. Un pagamento, ad agosto, a Mastro Salvatore La Rocca e Mastro
Michele Pluvirenti per dieci migliora di ciaramidi ed a settembre, al
mastro d’ascia per fare lo tetto e lo solaro dello dammuso, conferma il
completamento del sovrappasso. Ancora oggi in corrispondenza della
chiave dell’arco, verso piazza San Francesco, campeggia al centro tra i due
stemmi la “ valata” con San Benedetto (Fig. 2 ).
Fig. 2. Particolare
dell’Arco con gli
stemmi del Vescovo
e dell’Ordine ed il
bassorilievo
con
San Benedetto.
278
Lamagna
Avviato così il programma di ampliamento del nuovo monastero e realizzato il collegamento tra le due parti, si continua a costruire e sistemare
gli spazi necessari.
Tra il 1704 ed il 1707 i lavori proseguono con la costruzione dell’altro
dormitorio e si comprano ancora proprietà immobiliari vicine con muri
vecchi e novi.
Dal 1708 si lavora alla nuova chiesa e si paga intagliatura di pietra
giurgiulena a mastro Paolo Battaglia.
La “nuova chiesa” era stata costruita negli ultimi decenni del seicento, pochi
anni prima del terremoto del 1693 in sostituzione di una precedente, presumibilmente di dimensioni minori. Tra gli anni 1680 e 1683 sotto il governo della
badessa suor Maria della Concezione Gravina alcune spese annotavano: per
levare lo tetto della Chiesa vecchia, e giornate di mastro d’ascia per fare li
furni dell’arco maggiore della Chiesa e nel 1684 la costruzione del Cappellone
della chiesa e la sagrestia e nel 1688 la spesa fatta del pavimento di marmo di
tutta la Chiesa. Nel 1691 la nuova chiesa doveva essere quasi del tutto completa perché risultavano realizzati gli stucchi e le pitture eseguite dal pittore
Stefano Volpe fatto venire appositamente da Roma e il Palio d’argento fatto
eseguire a Messina, i vasi d’argento e il crocifisso in legno dello scultore Giulio
Gallo per abbellire la Cappella del Santo Crocifisso.
Le prime annotazioni sui lavori in chiesa dopo il terremoto sono del
settembre 1703 lavori per sbarattare le mura restate della Chiesa, che certamente aveva subito danni ma non era stata distrutta del tutto. La mancanza di alcuni libri contabili per gli anni successivi non permette di individuare e collegare in sequenza tutti i lavori eseguiti ma sicuramente la
chiesa è già del tutto completa nelle strutture nel 1726 quando vengono
eseguiti le pitture da Giovanni Tuccari. Affreschi che coperti in parte da
aggiunte tardo settecentesche sono stati, dopo i restauri eseguiti per riparare i danni dei bombardamenti del 1943, ripristinati quasi interamente.
È possibile invece, dal fondo archivistico, individuare i lavori eseguiti
intorno agli anni settanta del settecento che segnano, con l’aggiunta di
nuovi corpi di fabbrica, una nuova distribuzione degli spazi e conseguentemente delle funzioni.
Decisivo e determinante nella configurazione e definizione dell’ edificio è, proprio tra il 1771 ed il 1777, l’intervento progettuale di Francesco
Battaglia, che con un progetto organico di ampliamento e aggiunte definisce l’aspetto monumentale del corpo di fabbrica su via dei Crociferi e via
Teatro Greco.
La ricostruzione settecentesca del monastero di S. Benedetto (Ct)
279
L’intelligenza e perizia dell’ arch. Francesco Battaglia, annotata nei
libri di spesa, attesta il merito dell’intervento progettuale del dormitorio
grande che guarda a mezzogiorno, del rifittorio e dell’antirifittorio (Fig.
3). Così si pagano all’Architetto D. Francesco Battaglia alla ragione di
onze due al mese per sue Fatiche, ed assistenza data alla nostra fabbrica
ed onze dieci pagate al medesimo per riconoscenza fatta della Pianta,
disegni tutti, e spaccati fatti, e consegnateci.
Nei libri mastri oltre ai nomi di architetti e mastri muratori si aggiungono una serie consistente di altre informazioni su pagamenti a mastri,
manuali e picciotti; spese per la gestione del cantiere: cofani, corde, zapponi di pale di ferro, crivi, carichi di cavalcature ; spese per materiali
diversi, calce, agliara e gisso, barcate di pietra bianca di Siracusa nominata del Piano ed altre. Da queste annotazioni è possibile ricostruire
anche la sequenza dei tempi e dei modi di costruzione: fare li pedamenti,
sterrare, fare lo visolato, serrare la pietra ; individuare parti costruttive
della fabbrica stessa come pedamenti e dammusi oltre indicazioni sulla
distribuzione interna e la destinazione d’uso degli spazi.
Fig. 3. Prospetto del “ dormitorio grande che
guarda a mezzogiorno” su via Teatro Greco.
Fig. 4. Il prospetto del nuovo dormitorio in
prossimità dell’ Arco su via dei Crociferi.
280
Lamagna
Questa cronaca minuziosa sulla conduzione del cantiere settecentesco che
emerge dal testo cartaceo, prende consistenza reale e trova verifica proprio
nel confronto con il testo architettonico. È la fabbrica stessa nella sua forma
e aspetto presente che svela e mostra in modo chiaro e coerente sequenze
costruttive, gesti e significati. Così l’aspetto formale dell’alzato non appare
semplice composizione di segni, ma sottende e manifesta proprio attraverso
il confronto tra le due differenti scritture, quella propria dell’architettura e
quella documentale-cartacea, significati e valori, idee progettuali, scelte e
pratiche del costruire che rendono il manufatto un testo chiaro nel significato, preziosa testimonianza di un sapere trascorso e non più sconosciuto, di
indiscutibile e insostituibile valore documentale.
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281
DATAZIONE CON TERMOLUMINESCENZA:
RECENTI SVILUPPI E NUOVE PROSPETTIVE
MARTINI M.
Dipartimento di Scienza dei Materiali e INFN, Università degli studi di Milano-Bicocca
Via Cozzi, 53- 20125 Milano
1. Introduzione
Le potenzialità delle applicazioni in campo archeologico delle tecniche di
datazione con termoluminescenza (TL) sono ormai ben note, e la loro affidabilità è stata ampiamente dimostrata a partire dai primi anni Settanta.
Queste tecniche sono specifiche per il materiale ceramico, o meglio, per ogni
materiale contenente quarzo o feldspati che abbia subito un riscaldamento
prolungato a temperature dell’ordine di alcune centinaia di gradi.
Diversi sono i materiali e gli oggetti di interesse archeologico o storico
che, in via di principio, possono essere datati: innanzitutto ceramiche, terrecotte e laterizi, ma anche porcellane, fornaci, focolari, terre di fusione.
Per essi si possono ottenere di norma ed in corrette condizioni di prelievo,
datazioni con una accuratezza del 5-10% nell’intervallo indicativo di età
tra 50 e 20.000 anni.
Negli ultimi anni la ricerca si è sviluppata anche verso l’applicazione
della datazione TL ad altri materiali, quali porcellane, fornaci, focolari,
terre di fusione. In questi casi la precisione del metodo è molto dipendente dal materiale. Un altro materiale sul quale lo studio per una possibile
datazione è in fase di studio è il vetro, in particolare nel caso dei mosaici.
Va sottolineato che queste tecniche appartengono alla classe dei cosiddetti metodi distruttivi, poiché richiedono il prelievo di una quantità non
trascurabile, seppur limitata, di materiale (almeno 10 grammi di ceramica
ed altrettanti di terreno di scavo). Questo aspetto, se non rappresenta generalmente un problema nel caso di scavi archeologici caratterizzati da
abbondante ritrovamento di materiale “sacrificabile”, diventa molto delicato quando si richieda la datazione di oggetti di interesse storico od artistico, vista l’esigenza di preservarne l’integrità.
282
Martini
2. Principi generali della datazione con termoluminescenza
I principi fondamentali su cui si basano le tecniche di datazione con termoluminescenza sono ampiamente illustrati e discussi in letteratura. Nel
seguito ne forniremo una descrizione volutamente semplificata, rimandando alla bibliografia specializzata per approfondimenti (Aitken, 1985).
Una frazione non trascurabile degli usuali costituenti la ceramica (quarzo e feldspati, per esempio) è termoluminescente: questi materiali immagazzinano cioè in trappole stabili gli elettroni in essi prodotti dall’interazione delle radiazioni alfa, beta e gamma dovuti all’irraggiamento naturale. La liberazione degli elettroni avviene a seguito di cessione di energia
termica mediante riscaldamento a temperature dell’ordine di diverse centinaia di gradi centigradi, ed è caratterizzata da una emissione luminosa:
la termoluminescenza. La cottura in fornace della ceramica elimina ogni
TL accumulata durante l’esistenza “geologica” dell’argilla e degli eventuali costituenti aggiunti all’impasto: da questo momento, la TL ricomincia ad accrescere col tempo, tanto più rapidamente quanto maggiori sono
le sue concentrazioni di radioattività e quelle dell’ambiente. La quantità di
TL osservata è quindi un indicatore sia dell’età dell’oggetto che dell’irraggiamento cui è stato sottoposto Tipiche curve di TL di una ceramica
archeologica, confrontata con un falso, sono riportati in Fig.1.
Fig.1. Curve di termoluminescenza di materiale prelevato da un’urna originale etrusca
e da una copia moderna. Le curve contrassegnate con 2-3 si riferiscono alla risposta
dovuta all’irraggiamento naturale, mentre le curve contrassegnate con 4-5 si riferiscono
alla risposta dovuta all’irraggiamento artificiale impartito in laboratorio.
Datazione con Termoluminiscenza: recenti sviluppi e nuove prospettive
283
Misurata la TL di un campione, e quindi, indirettamente, la quantità di
radiazione che lo ha attraversato, e misurata la sua radioattività e quella
dell’ambiente, si giunge all’equazione fondamentale dell’età, qui presentata in forma semplificata:
ETÀ (anni)= Radiazione totale assorbita/Radiazione assorbita annualmente
Alla luce di quanto osservato, risulta evidente che le datazioni con TL
si riferiscono all’ultima cottura subita dall’oggetto, considerazione da
tener sempre ben presente nell’interpretazione e valutazione dei risultati.
Si pensi soltanto alla frequenza della pratica del reimpiego, alla possibilità di incendi, riscaldamenti accidentali o restauri, sia moderni che antichi.
La valutazione del numeratore si ottiene tramite due tecniche principali, chiamate Fine-grain (Zimmermann, 1971) che prevede la selezione
granulometrica della frazione ceramica compresa tra 1 e 8 micrometri, ed
Inclusion (Fleming, 1970), per la quale si estrae dal corpo ceramico eclusivamente il quarzo con granulometria di circa 100 micrometri. La tecnica fine-grain richiede di norma una quantità inferiore di materiale, ed a
questa si ricorre sempre quando vi sia necessità di effettuare prelievi limitati.
Per la valutazione del denominatore, si utilizzano tecniche chimicoanalitiche e di rivelazione della radiazione nucleare: spettrometria a fiamma, misure di attività alfa totale con rivelatori a scintillazione, spettrometria alfa e gamma, misure di dose beta e gamma, da effettuarsi tanto sul
materiale che sul terreno di scavo o nell’ambiente di conservazione dell’oggetto. Una datazione precisa potrà essere raggiunta solo disponendo
anche di informazioni sul livello di radioattività esterno.
Un’altra grandezza molto importante da stimare è il contenuto medio
di umidità del campione: l’acqua in esso contenuta assorbe infatti parte
dalle radiazione, e di questa attenuazione va tenuto debito conto.
Come tutte le misure fisiche, le età ottenute con queste tecniche sono
sempre accompagnate da imprecisione, il che significa che viene indicato l’intervallo temporale entro il quale è avvenuta la cottura, centrato sull’età di probabilità massima. Tenendo conto di tutti i fattori in gioco e
della complessità delle valutazioni sperimentali necessarie, si giunge a
stimare, come accennato, un errore globale medio del 7-10%, riducibile
soltanto in casi particolari al 5-6% (Aitken, 1976).
284
Martini
3. Datazione di laterizi e terrecotte: alcuni esempi di applicazione
L’applicazione delle tecniche di TL a ceramiche di scavo o a strutture
laterizie di edifici, con abbondanza di materiale a disposizione e ove sia
possibile eseguire sul sito le valutazioni di radioattività ambientale, consente di norma di ottenere datazioni caratterizzate da buona precisione,
come illustrato dagli esempi che riportiamo nel seguito.
Più complicata è la situazione quando si esegue la datazione di oggetti di valore artistico o che rivestano importanza storica e documentaria: in
questi casi, è esigenza fondamentale eseguire un prelievo estremamente
contenuto, danneggiando il meno possibile l’integrità dell’oggetto.
Questo vincolo può limitare la possibilità di eseguire i supplementi di
indagine necessari ad ottenere valutazioni sperimentali sufficientemente
precise anche con materiali le cui caratteristiche non siano eccellenti.
Non sono infrequenti infatti i casi in cui si osservano i fenomeni della TL
spuria (Martini ed al.,1988) o del Fading anomalo (Wintle e al., 1978),
emissione di luce o svuotamento di trappole indipendenti dalla radiazione assorbita e dal riscaldamento, la cui riduzione o controllo possono in
molti casi esser ottenuti a seguito di trattamenti chimici e misure aggiuntive che necessitano quantità di materiale dell’ordine di almeno qualche
grammo.
Una difficoltà ulteriore è rappresentata spesso dal fatto che viene
richiesta la datazione di oggetti sulla cui storia non sono disponibili informazioni, come per oggetti conservati da anni, se non da secoli, in Musei:
in questi casi risulta problematica, se non impossibile, la valutazione della
dose ambientale, a scapito ancora una volta, della precisione del risultato.
3.1 Scavi Archeologici: Piadena, Trino Vercellese e Villa S.Maria a Lomello
Gli scavi dell’insediamento medievale di Piadena, situato lungo il terrazzo fluviale dell’Oglio, e documentato dalle fonti a partire dal 990 d.C.,
hanno portato alla luce i resti di un importante abitato medievale i cui edifici sono riconoscibili dalle impronte negative dei pali verticali e delle travature orizzontali infisse nel terreno a supporto dei perimetrali, e dai livelli d’uso in argilla su cui furono accesi i focolari, costituiti da lenti di argilla concotta. La cronologia dello scavo, che si estende dall’alto medioevo
al XV sec., risultava incerta, soprattutto per le fasi più antiche, anche per
la povertà e scarsità di ritrovamenti ceramici.
Datazione con Termoluminiscenza: recenti sviluppi e nuove prospettive
285
La datazione di una successione stratigrafica di focolari del Lotto 2 di
scavo ha consentito di precisare la cronologia dell’intero insediamento,
collocandone al IX secolo la seconda fase, ed al XIII l’ultima (Martini et
al., 1985).
L’insediamento di Trino Vercellese, sorto nei pressi di un centro di
popolamento celtico e di una mansio romana, sorgeva sulla via da Milano
alle Gallie prima, e da Pavia ai grandi valichi alpini, poi. Si tratta di un
importante insediamento medievale caratterizzato da complesse fasi di
edificazione e ristrutturazione, sviluppatosi nell’arco di quasi un millennio. In siti di questo tipo e periodo gli elementi databili (monete, ceramica fine, tipologie edilizie specifiche), sono eccezionali e normalmente
assenti; assumono grande rilevanza le tecniche di datazione basate su
materiale organico o sulle ceramiche comuni, che sono i soli materiali
effettivamente diffusi negli strati di uso e crollo altomedievali.
Per i materiali di questo scavo è stato impostato un esperimento di confronto delle datazioni con TL con quelle da radiocarbonio su carboni
dispersi negli stessi strati, che ha mostrato in alcuni casi ottima compatibilità dei risultati delle due tecniche, ma sostanziale disaccordo in altri,
dove le età TL sono risultate sempre più antiche, e non congrue con le evidenze stratigrafiche (UU.SS. 71, 81, 198 e 266). Il disaccordo è da attribuire alla diffusa e documentata pratica del reimpiego di laterizi: di conseguenza la datazione del materiale non coincide con quella della struttura in cui fu posto in opera.
Lomello, mansio romana fortificata, era importante anche nel regno
longobardo quale sede dei conti palatini. Nel suo territorio, in località
Villa Maria, sono stati scoperti resti di edifici di grandi dimensioni, databili dall’epoca romana al basso medioevo. Lo scavo dell’insediamento,
che offre un’opportunità rara di esaminare la transizione tra epoca romana e medievale, ha riportato alla luce una ricca serie di strutture, focolari,
buche e sepolture, risultate in alcuni casi di datazione problematica per la
difficoltà di comprensione della stratigrafia e per la scarsità di ritrovamenti ceramici. Sono stati datati 3 focolari e materiale prelevato da porzioni di
pavimento o strutture in terra apparentemente bruciate (Sibilia e Della
Torre, 1987).
I focolari hanno fornito datazioni caratterizzate da buona precisione,
che chiariscono la cronologia dello scavo; i dodici campioni di terra sono
risultati in realtà non bruciati e, pertanto, non databili
286
Martini
3.2 Edifici: la Chiesa di S.Maria foris portas a Castelseprio e la torre
Asinelli di Bologna.
La chiesa medievale di Santa Maria foris portas si trova all’interno del
sistema archeologico di Castelseprio. Si tratta di un insediamento formatosi
in età tardo-romana, centro fortificato goto, poi bizantino, castrum longobardo, capitale di una vasta regione che disturbava sia Como che Milano, da cui
venne distrutta definitivamente nel 1287. La chiesa, una delle più importanti del Nord Italia per il suo famoso ciclo di affreschi, ha alimentato e continua ad alimentare discussioni circa la sua datazione (v. Fig. 5). Il dato certo,
dedotto da una scritta su un intonaco, è che è precedente al X secolo.
Sono stati datati 8 tegoloni della copertura originale della chiesa, e 3
frammenti di laterizio dallo scavo del pavimento (Martini et al., 1985).
I risultati ottenuti sui materiali dei due gruppi, sostanzialmente coincidenti, datano l’edificio al IX secolo (828+30; +90 d.C.), e concordano con
datazioni al C-14 di materiale organico coevo, e con le più recenti datazioni stilistiche degli affreschi.
Delle ventitré torri e casetorri medievali di Bologna, solo la torre dei
Galuzzi è sicuramente datata; tutte le altre mancano di documentazione
che accerti in modo probante il tempo della loro costruzione. Anche la
datazione della Torre Asinelli, simbolo della città insieme alla Garisenda,
era controversa. Alta 97,60 metri, nel XIII secolo la torre apparteneva al
Comune e veniva utilizzata come postazione di avvistamento. La rocchetta alla sua base fu aggiunta nel 1488 come sede del corpo di guardia e di
alcune botteghe.
Sono stati analizzati quaranta mattoni prelevati dall’esterno a diverse
quote della torre, anche tramite carotaggi orizzontali, allo scopo di datare
l’edificazione originaria del monumento e di chiarire la complessa cronologia degli interventi di edificazione, restauro e manutenzione successivi
(Bergonzoni et al. 1991).
Dei campioni appartenenti alla fase originaria di edificazione della
torre, alcuni sono risultati di età romana, evidentemente reimpiegati
secondo l’uso del tempo, mentre per altri sette si è ottenuta una datazione
alla seconda metà del secolo XI, che viene ritenuto il periodo più probabile della costruzione del tronco originario. (media: 1081+20; +70 d.C.).
È interessante notare che le datazioni dei mattoni prelevati in superficie
risultano aver subito l’ultimo riscaldamento a cavallo tra il XIV ed il XV
Datazione con Termoluminiscenza: recenti sviluppi e nuove prospettive
287
secolo, essendo stati presumibilmente coinvolti in un rovinoso incedio
documentato dalle fonti nel 1412.
4. Nuove prospettive della datazione con termoluminescenza: datazione di vetri musivi
Il problema della datazione dei vetri antichi è ancora aperto, non essendo disponibili per il momento metodi assoluti di datazione. La tecnica
delle tracce di fissione dell’Uranio (Brill, 1964) e quella dello spessore
delle croste di corrosione (Brill and Hood, 1961) si applicano solo a classi limitate di vetri, con caratteristiche particolari.
Le caratteristiche chimico-fisiche dei vetri silicati hanno suggerito la
possibilita’ di estendere a questi amteriali l’applicabilità delle tecniche di
datazione con TL (Sanderson, 1983). In realtà, in conseguenza della natura amorfa del vetro, la sua sensibilita’TL è molto bassa e questo, unito alla
presenza di bleaching ottico (svuotamento di trappole indotto dall’esposizione alla luce), fa si’ che la datazione sia possibile solo in pochissimi casi,
circa il 3-4% dei campioni analizzati (Muller and Schvoerer, 1990).
Negli ultimi anni presso il nostro Laboratorio abbiamo iniziato uno studio focalizzato su una classe particolare di vetri, le tessere musive di pasta
vitrea, le cui caratteristiche TL non erano state investigate in precedenza.
Scopo della ricerca, oltre all’analisi delle proprieta’ termoluminescenti di
questi materiali, è individuare i parametri che le determinano e le condizioni favorevoli alla datazione TL.
I primi risultati di questo studio hanno messo in evidenza che la possibilita’ di datazione è molto dipendente dalla presenza nei vetri di differenti ioni, generalmente aggiunti per ottenere un determinato effetto cromatico (Chiavari, 2001, Azzoni 2002, Galli, 2004). Alcuni ioni in particolare
sembrano avere un ruolo nella formazione di microcristalli che aumentano di molto la sensibilita’ termoluminescente del vetro.
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289
L’APPROCCIO MULTIDISCIPLINARE
ALLA CONOSCENZA SCIENTIFICA DELLE OPERE D’ARTE.
MATTEINI M.
ICVBC del C.N.R., Sesto Fiorentino
Qualsiasi considerazione in merito al carattere multisciplinare, o
meglio pluri-disciplinare delle varie attività scientifiche connesse ai beni
culturali deve necessariamente partire dal ‘bene’ stesso, ciò che comunemente si chiama l’opera d’arte.
Ogni opera antica - manufatto, monumento, complesso architettonico,
archeologico o quant’altro – possiede categorie diverse di valori che
accedono ad aree di conoscenza varie e diversificate.
In quanto prodotto di una cultura del passato, l’opera antica – e non
potrebbe essere diversamente - è intrinsecamente portatrice di valori storici; corrisponde cioè a un ‘messaggio culturale’ tangibile, e per sua natura insostituibile, proveniente da un contesto socio-culturale passato.
Un certo numero di opere inoltre – ma non certamente tutte e probabilmente nemmeno la maggioranza – raggiungono quel livello dell’espressione che solitamente definiamo ‘artistico’, valore assai diverso
da quello del loro ‘essere storico’, anche se il fascino della storicità è così
potente che talvolta l’uno viene confuso con l’altro. Pochi oggetti, in realtà, pervengono a quella intensità e levatura della comunicazione emotiva
che nel comune immaginario identifichiamo col concetto di arte. Il valore artistico è perciò qualcosa di assai prezioso e raro.
C’è poi un ulteriore aspetto di cui tener conto. Larga parte della produzione antica è stata in realtà diretta alla raffigurazione del sacro, dell’iconografia legata al culto religioso. È naturale che quanto di più prezioso e creativo si era in grado di realizzare in periodi storici nei quali
l’istanza religiosa era oggetto di un’attenzione dominante - almeno
rispetto ad epoche più recenti - fosse destinato alla rappresentazione del
‘sacro’. Ciò identifica un ulteriore differente tipologia di valori che alcune opere antiche possiedono: il valore religioso. Anche a questo proposi-
290
Matteini
to si è fatto talvolta confusione, nel senso che a ciò che all’origine aveva
solo valore o finalità religiosa è stato in seguito attribuito valore artistico.
Le ‘opere d’arte’ - definizione che qui usiamo secondo l’accezione corrente – sono fatte di materie, o almeno lo sono quelle categorie di opere di cui
al momento ci occupiamo. E le materie possiedono un loro ’linguaggio’ ossia
quell’insieme complesso di proprietà ottiche che ne definiscono l’aspetto e le
distinguono l’una rispetto all’altra. Il legno’, gli strati pittorici, il marmo, la
terracotta appaiono diversi gli uni dagli altri, indipendentemente da ciò che
raffigurano, proprio a causa della loro identità materica.
Ai nostri occhi di fruitori l’identità materica corrisponde a una sorta di
codice identificativo che diviene a sua volta un valore dell’espressione,
un’ulteriore categoria di valori che potremo chiamare materici.
Ci sono tuttavia ancora altri aspetti di cui tener conto, innanzitutto quelli legati alla tecnologia costruttiva dell’opera. Se consideriamo, ad esempio, un palazzo il concetto di progettualità costruttiva è talmente intrinseco e sottinteso che non si fa difficoltà a comprendere come questo rappresenti una valenza fondamentale dell’’oggetto’ stesso, un suo valore determinante da ascrivere a una categoria di valori che potremmo definire tecnologici. Meno immediato è pensare a questo tipo di valori quando si
osserva, invece, un quadro. Eppure – e questo è tanto più vero nell’antichità – le conoscenze tecnologiche e la progettualità che ne è diretta conseguenza, costituivano indubbiamente fasi fondamentali del percorso realizzativo dell’opera, fosse anche questa un dipinto, oggetto per il quale
siamo decisamente più portati a riconoscere valori di tipo artistico o storico piuttosto che tecnologico. Ma non è così. In ogni tipo di opera, soprattutto se molto antica, le conoscenze tecnologiche e l’accurata progettazione per la realizzazione, hanno giocato un ruolo determinante, che spesso,
sbagliando, si è portati a sottovalutare o a non considerare nella giusta
dimensione.
Vi è un’ulteriore categoria di valori dei quali molti non fanno caso, a
differenza di altri che considerano questi aspetti invece di estrema importanza e tali da rispettare con estrema cura nelle operazioni di restauro.
Anni fa li ho definititi valori storici acquisiti, intendendo riferirmi a una
tipologia di valori che l’opera, in effetti, non possiede all’origine, diversamente da tutti quelli che abbiamo finora considerato. Mi riferisco a qualcosa che viene acquisito da ogni oggetto materico in conseguenza delle
lievi trasformazioni, modifiche, alterazioni, che in esso determina il ‘trascorrere del tempo’. Sottolineando ‘lievi’ si vuole escludere tutto ciò che
L’approccio multidisciplinare alla conoscenza scientifica delle opere d’arte
291
valori storici
valori artistici
valori religiosi
OPERA D’ARTE
valori materici
valori tecnologici
valori storici acquisiti
valori economici
Tab. 1.
ha invece carattere invasivo o peggiorativo, ciò che produce degrado e che
sicuramente è tutt’altro che un valore.
Per concretizzare questo concetto è sufficiente pensare alle patine, a
quelle patine cosiddette ‘nobili’ che si formano gradualmente pressoché
su tutti i materiali e che comunque segnano in modo inequivocabile il
‘passaggio del tempo’ sull’oggetto, il suo essere antico, al di là e indipendentemente dello stile che lo identifica.
Non si può completare questa panoramica sulle categorie dei valori
senza un riferimento al valore commerciale degli oggetti antichi, ovvero,
un valore collegato a tutto ciò che in essi risulta attrattivo per grandi masse
di fruitori ed è quindi in grado di innescare processi preminentemente di
tipo economico. Si tratta di valori da non trascurare, soprattutto se attraverso di essi si riesce a garantire migliore conservazione e più lunga durata alle opere d’arte.
Nella tabella 1 è schematizzato quanto abbiamo ora discusso e che fa
da base al tema di questo saggio: la multidisciplinarità nelle attività connesse alle opere d’arte e in particolare, ma non solo, in quelle a carattere
scientifico.
Ripercorrendo le diverse valenze di un’opera ora considerate, infatti, è
immediato rendersi conto che, a seconda del nostro approccio verso o per
l’opera (conoscenza, conservazione, valorizzazione, fruizione) è comunque
coinvolta una molteplicità di discipline differenti e specifiche caso per caso.
292
Matteini
La conoscenza
Conoscere le opere d’arte non significa semplicemente osservarle e
riconoscerle ma può implicare operazioni complesse e profonde che coinvolgono sfere di competenza anche assai specialistiche.
Una prima e importante forma di conoscenza è connessa all’attribuzione, la datazione, la provenienza: attribuire l’autore o la scuola di un’opera, accertarne la data o il periodo di esecuzione, stabilirne la cultura di
provenienza. Si tratta di operazioni assai impegnative che, tradizionalmente, in funzione della categoria del bene, richiedono l’esame attento e competente dello storico, dell’architetto, dell’archeologo. Essi operano soprattutto sulla base dello stile dell’opera e, spesso, del contesto in cui è collocata (un sito urbano, un complesso archeologico, etc.). Ma ciò non è sempre sufficiente e allora si deve ricorrere a competenze di tipo scientifico:
l’archeometria, che a sua volta può richiedere il contributo di un fisico (es.
per una datazione con C14), di un chimico (es. per l’identificazione di un
pigmento impiegato non prima di una certa data), di un geologo (es. per il
riconoscimento di un litotipo proprio di una determinata cultura), etc.
Una seconda (solo in ordine di esposizione) forma di conoscenza è
senza dubbio quella storico-culturale. Direi che è la forma più classica,
dominio di storici, architetti, archeologi. Essi ripercorrono, sulla base
degli stili e, soprattutto, delle connessioni e delle conoscenze proprie della
storia dell’arte, dell’architettura, dell’archeologia, il filo conduttore che
inquadra storicamente e culturalmente un’opera antica; ne ricostruiscono
il substrato che ne ha consentito la realizzazione, ne analizzano a fondo
alcuni dei valori che abbiamo sopra considerato.
Ma vi sono anche gli aspetti materico-tecnologici di cui è necessario
tener conto e in tal senso è un gruppo completamente diverso di specialisti ad essere coinvolto. La materia è oggetto di studio di chimici, fisici,
geologi ed è appunto agli ‘scienziati della conservazione’ che spetta il
compito di portare alla luce - come in effetti è stato negli ultimi 40-50 anni
– questi aspetti delle opere antiche ai quali in precedenza non si era data
adeguata attenzione, ma che abbiamo visto contribuire in maniera decisiva a creare in esse valori importanti.
Altrettanto dicasi degli aspetti costruttivo-tecnologici di un’opera.
Talvolta per questi occorre non solo la competenza di uno specialista fisico o chimico ma ad esempio, almeno per il ‘costruito’, di un architetto (o
ingegnere), non più tuttavia nella veste dello storico dell’architettura ma
piuttosto in quella del tecnologo delle costruzioni.
L’approccio multidisciplinare alla conoscenza scientifica delle opere d’arte
293
Già da quanto detto appare estremamente chiaro come la polivalenza
delle opere antiche implichi, solo per la loro conoscenza, un approccio
pluri-disciplinare. Ma, a questo proposito, voglio mettere in evidenza
quanto ancor più essenziale sia l’inter-disciplinarità dello studio piuttosto
che la sola multi-disciplinarità. Sarebbe sterile che il chimico e l’architetto, per esempio, non trovassero un terreno comune di integrazione delle
competenze nel percorso di conoscenza di un’opera; faremmo un torto
all’opera stessa e alla sua intrinseca polivalenza.
La conservazione
Eminentemente pluri- e inter-disciplinare è sicuramente la conservazione. Tutti oramai sono convinti di questa realtà e l’attività di conservazione
costituisce forse la tematica per la quale, più che per altre - almeno in alcuni contesti e ambienti - si sono effettivamente raggiunti risultati concreti
sul fronte della interdisciplinarità. Il cultore di scienze umane (storico
d’arte, archeologo, architetto, a seconda dei contesti), l’esperto scientifico
di conservazione, il restauratore, costituiscono una triade indiscussa che,
almeno per gli interventi di maggiore complessità e delicatezza, riesce
realmente a interagire a tutto vantaggio della qualità del risultato, in termini di rispetto dei valori storico-artistici dell’opera, stabilizzazione fisico-chimica delle sue condizioni, durabilità, compatibilità, reversibilità dei
trattamenti. E’ soprattutto negli Istituti di stato che queste condizioni vengono realizzate, sebbene ormai ciò accada anche nel restauro privato qualificato.
Ciò che ora occorre è che questa prassi venga sempre più estesa, acceda non solo ai casi di elevato valore dell’opera, ma anche a quelli di minore importanza, se la complessità del caso, comunque, lo richiede.
Valorizzazione e fruizione
Anche sui temi della valorizzazione e della fruizione l’inter-disciplinarità si pone come condizione indispensabile.
Valorizzazione e fruizione sono strettamente correlate fra loro. La prima
è indirizzata a creare valore aggiunto a quei tanti e diversificati valori delle
opere antiche che abbiamo ripercorso nell’introduzione di questo scritto.
Valore aggiunto può essere acquisito attraverso vie molteplici. Abbiamo
visto ad esempio come le indagini conoscitive sullo stile, la scuola, la provenienza, la tecnica di esecuzione, i materiali, integrino in maniera decisiva il
significato di un’opera. Non sempre, però, queste informazioni sono adegua-
294
Matteini
tamente comunicate nelle opere esposte nei musei, negli edifici architettonici o nei siti archeologici, e se lo sono, ciò avviene tramite messaggi frettolosi, per lo più solo scritti, poveri di immagini, schemi, documentazioni.
Valorizzare può voler dire rendere note queste tante diverse informazioni,
nozioni, etc. in forma facilmente accessibile, curando sempre di mantenere,
comunque, il livello del rigore. Valorizzare può voler dire anche presentare
un’opera nella veste migliore, affinché sia in grado di esternare ai fruitori il
meglio dei propri valori espressivi; può voler dire, ad esempio, studiare in
maniera esperta l’illuminazione, presentare alcune opere in maniera più
esclusiva rispetto ad altre così da evitare la ripetitività dei soggetti, e la conseguente noia o ipersaturazione, come spesso accade di vedere in tanti musei
del mondo, con esposizioni più a beneficio degli studiosi che del generico
fruitore.
Dunque anche i temi della valorizzazione e della fruizione sostenibile
richiedono attenzione da parte di una molteplicità di soggetti diversi, con
conoscenze specifiche in settori disciplinari ben specifici e che solo attraverso piani di lavoro interdisciplinari possono sortire risultati importanti.
La ragione infatti per cui valorizzazione e fruizione sono ancor oggi così
distanti dal raggiungere quei livelli realizzazione che tutti ci attendiamo,
per cui alla fine i beni culturali possano realmente divenire una effettiva
risorsa per il Paese, sta proprio nel fatto che gli esperti di questo settore, i
cultori di queste discipline, siano essi tecnici, operatori turistici, direttori
di musei, responsabili di soprintendenze, rappresentanti di enti locali, non
trovano quasi mai la via di operare in sinergia, unendo e integrando tra
loro le rispettive competenze, in piani di azione condivisi.
Osservazioni conclusive
L’esigenza di interdisciplinarità nei beni culturali è quindi un dato di
fatto e l’analisi, sia pur breve, che ora ne abbiamo fatto rende conto di
quanto risulti essenziale in qualsiasi attività che con essi abbia a che fare,
ma l’impresa di farla divenire una realtà operativa si scontra ancora, nonostante convegni, dibattiti, workshop, pubblicazioni e quant’altro, con una
serie di notevoli difficoltà.
Queste sono essenzialmente dovute alla separazione tra le diverse ‘culture’ da sempre alimentata dalla tradizione dei percorsi formativi, che continuano a rendere difficile non solo la creazione di un linguaggio di comu-
L’approccio multidisciplinare alla conoscenza scientifica delle opere d’arte
295
nicazione tra le diverse figure professionali ma, tanto più, il maturare di
una certa flessibilità delle rispettive formae mentis.
Accade quindi che uno storico d’arte, un tecnologo, un chimico, un
economista, un esperto di marketing, rimangano ciascuno, per lo più, fortemente ancorati alle proprie forme di pensiero ed è richiesto un grande
sforzo e un grande impegno per accedere – solo in qualche misura, si badi
bene perché nessuno pretende di pensare a una qualche forma di ‘tuttologia’ – ad altri tipi di approccio. Per molti, anzi, vi è un rifiuto, un atto
volontario aprioristicamente negativo nei confronti di qualsiasi commistione di questo tipo. È una convinzione come un’altra che non dobbiamo
certo criticare.
Di fatto, però, i beni culturali esigono una mentalità aperta alla pluri- e
alla inter-disciplinarità e diversamente, conoscenza, conservazione, valorizzazione del nostro patrimonio antico rimarranno azioni parziali, manchevoli, incomplete, insoddisfacenti, in molti casi inefficaci.
296
LA GEOARCHEOMETRIA APPLICATA ALLA CONOSCENZA
E ALLA CONSERVAZIONE DEI BENI CULTURALI.
UN CASO DI STUDIO: LA FACCIATA DELLA CHIESA
DI S. NICOLÒ L’ARENA DI CATANIA
MAZZOLENI P., PUNTURO R., RUSSO L.G., CENSI P., LO GIUDICE A., PEZZINO A.
Dipartimento di Scienze Geologiche, Università degli studi di Catania, Corso Italia 55,
I-95129 Catania, Tel. 095-7195757, Fax: 095-7195760; [email protected]
1. Introduzione
La costruzione della chiesa di S. Nicolò L’Arena di Catania ebbe inizio ad
opera dei Padri Benedettini Cassinesi nella seconda metà del XVI secolo
contemporaneamente alla costruzione dell’annesso Monasterium Magnum
di Sancti Nicolai de Arenis. Le vicende costruttive del monumento, la cui
facciata è rimasta incompiuta sono varie e segnate da eventi naturali catastrofici che interessarono l’intera città di Catania. La Chiesa e l’annesso Monastero vennero distrutti per ben due volte: nel 1669 durante l’eruzione
dell’Etna e nel 1693 dal terremoto che distrusse completamente la città di
Catania. Dall’anno del terremoto, i lavori per la ricostruzione dell’abbazia di
S. Nicolò L’Arena, proseguirono per circa un secolo tra alterne vicende, fino
a quando cessarono a causa dell’insorgere di varie difficoltà tecniche, tra cui
il reperimento di quantità sufficiente di materiale necessario per il rivestimento della facciata. Tali materiali, che secondo le notizie d’archivio
(Fichera, 1934) provenivano dall’antica cava esistente nei pressi del paese di
Melilli (Cava della Palombara) in provincia di Siracusa, venivano denominati dalle maestranze dell’epoca come “Pietra Bianca di Siracusa”. In realtà,
alla “Pietra Bianca di Siracusa” afferiscono un insieme di rocce sedimentarie di natura carbonatica, affioranti nell’altipiano Ibleo, che sono simili dal
punto vista cromatico ma differenti dal punto di vista petrografico.
* Lavoro realizzato nell’ambito del progetto “Il recupero e la valorizzazione del patrimonio architettonico della Sicilia orientale: l’emergenza architettonica urbana e l’edilizia rurale. Conoscenza, interventi e formazione” (T3 CLUSTER C 29), finanziato dal
Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica
La geoarcheometrica applicata alla conoscenza e alla conservazione
dei Beni Culturali: la facciata della chiesa di S. Nicolò L’Arena (Ct)
297
Lo scopo di questo lavoro è stato quello di ottenere, partendo dai risultati della ricerca storico-documentale, l’identificazione in termini geologico-petrografici dei suddetti materiali e delle rispettive cave di provenienza. Tale identificazione è di fondamentale importanza quando si vuole
risolvere uno dei problemi che si pongono più frequentemente nel restauro dei beni monumentali, e cioè quello del reperimento dei materiali con i
quali effettuare gli interventi di ripristino conservativo.
2. Materiali e Tecniche d’indagine
La metodologia d’indagine impiegata è stata articolata in due fasi successive precedute da un’indagine storico-archivistica, effettuata presso le
Biblioteche Riunite Civica e Ursino Recupero di Catania e presso L’Archivio
di Stato di Catania. Nello svolgimento della prima fase, dedicata allo studio
dei materiali in opera, è stato eseguito un rilievo litologico dei materiali della
facciata e contestualmente è stato eseguito il campionamento dei litotipi riconosciuti (v. Fig. 1). Tutti i campioni prelevati sono stati sottoposti ad analisi
Fig. 1. Rilievo litologico della facciata della Chiesa di S.Nicolò L’Arena e localizzazione
dei campioni.
298
Mazzoleni, Punturo, Russo, Censi,
Lo Giudice, Pezzino
petrografico-paleontologica in sezione sottile mediante microscopio polarizzatore e ad analisi geochimiche degli elementi maggiori (Spettrometro XRF
Philips PW2404) ed in traccia (SF-ICP-MS; Element 2, ThermoFinningan).
La fase II è stata invece dedicata allo studio di provenienza dei materiali. Con
questo scopo è stato eseguito un confronto a livello regionale con formazioni geologiche note ed individuazione di quelle compatibili con le tipologie
litologiche riconosciute, la circoscrizione delle aree estrattive di possibile
provenienza dei materiali d’origine, ed infine la campionatura dei litotipi presenti in cava e le relative analisi petrografiche e geochimiche.
3. Caratteri petrografici dei materiali di facciata
Le indagini petrografiche eseguite sui campioni prelevati dalla facciata
della chiesa hanno permesso il riconoscimento delle seguenti facies:
Facies A:
Roccia carbonatica con struttura omogenea, tessitura granosostenuta (v.
Fig. 2a) e granulometria arenitica. La porosità (15-20%) è prevalentemente intergranulare ma anche intragranulare. I componenti allochimici costituiscono fino al 50-60% del totale della roccia; si osservano foramniferi (>
50% degli allochimici) sia planctonici (Globigerinidae) che bentonici
(Heterostegina, Amphistegina e Miogipsina). In percentuali minori sono
presenti anche alghe coralline, gusci di molluschi (bivalvi e gasteropodi),
echinodermi e briozoi). Il legante è dato prevalentemente da micrite (30%
dei componenti tessiturali) omogeneamente distribuita nel sedimento, e da
sparite microcristallina (10-20% dei componenti tessiturali). Secondo
Dunham (1962) si tratta di packstones.
Età: Miocene inferiore.
Facies B:
Roccia carbonatica con struttura prevalentemente omogenea e tessitura
granosostenuta (v. Fig. 2b) e granulometria arenitica. La porosità (2030%) è prevalentemente intergranulare ma anche intragranulare. I componenti allochimici sono presenti con una percentuale del 50-60% dei componenti tessiturali della roccia e sono costituiti prevalentemente da ooliti
con struttura concentrica (> 50% degli allo chimici, peloidi (10-50%) e
foramniferi bentonici (<10%). Questi ultimi appartengono alle famiglie
La geoarcheometrica applicata alla conoscenza e alla conservazione
dei Beni Culturali: la facciata della chiesa di S. Nicolò L’Arena (Ct)
299
Miliolidae (generi Quinqueloculina sp., Pyrgo sp. e Triloculina sp. e
Rotaliidae. Gli spazi intergranulari sono occupati quasi esclusivamente da
sparite con strutture a mosaico, granulare e microsparitica. La micrite è
presente in piccola percentuale (10-15% dei componenti tessiturali della
roccia) come orli di rivestimento dei componenti allo chimici. Secondo
Dunham (1962), i campioni esaminati sono classificabili come grainstones
oolitici. Età: Miocene superiore (Tortoniano sup.- Messiniano inf.).
4. Provenienza dei materiali lapidei
I materiali lapidei impiegati per la realizzazione della facciata della
Chiesa di San Nicolò, distinti mediante le indagini petrografico-paleontologiche nelle due facies A e B, sono stati attribuiti a due diverse formazioni geologiche affioranti nell’Altopiano Ibleo, in Sicilia sud-orientale (v.
Fig. 3): la F.ne dei Monti Climiti e la F.ne di Monte Carrubba, rispettivamente. La campionatura dei litotipi appartenenti alle suddette formazioni
geologiche è stata effettuata in corrispondenza delle cave storiche da cui
certamente, nel periodo di ricostruzione della città di Catania dopo il terremoto del 1693, provenivano (mediante trasporto marittimo) le pietre calcaree ampiamente usate nella realizzazione dei decori tardo-barocchi delle
facciate dei palazzi monumentali (Cf. Cirrincione et al., 2000; Punturo et
al., 2006). Successivamente, i campioni prelevati in cava sono stati sottoposti alle stesse indagini effettuate sui campioni in opera.
Fig. 2. Microfotografie dei Calcari costituenti la facciata della Chiesa. a) Calciruditi della
Facies A (F.ne M.Climiti); b) Calcareniti oolitiche della Facies B (F.ne M. Carrubba).
300
Mazzoleni, Punturo, Russo, Censi,
Lo Giudice, Pezzino
F.ne dei Monti Climiti
La Formazione, di età Oligocene medio - Tortoniano, è suddivisa nei
Membri di Melilli in basso e dei Calcari di Siracusa in alto (Pedley 1981). Il
primo dei due membri é rappresentato da calcareniti polverulente biancogiallastre che si presentano notevolmente bioturbate, talora con Pettinidi,
Anellidi o altri modelli interni di bivalvi non determinabili. Il Membro dei
Calcari di Siracusa è costituito da calcareniti e calciruditi algali di colore
bianco-grigiastro con Litotamni e Briozoi passanti a volte a biolititi algali
(Pedley 1981; Di Grande 1972).
L’attribuzione di parte dei campioni in opera (litotipi della Facies A) ai calcari F.ne dei Monti Climiti trova riscontro anche nella documentazione storica: i dati di letteratura riportano infatti che i materiali lapidei carbonatici
impiegati per la costruzione del prospetto della chiesa provengono dalla Cava
della Palombara che ricade nel territorio di Melilli (Sr). Per questo motivo, le
calciruditi della F.ne dei Monti Climiti sono state campionate in corrispondenza della cava stessa.
F.ne di Monte Carrubba
La F.ne di M.Carrubba è costituita da rocce sedimentarie di natura carbonatica affioranti nell’altipiano Ibleo in cui si possono distinguere due facies:
– calcari oolitici di colore biancastro, con cemento carbonatico,
– calcari a lumachella di colore bianco-crema, ben cementati, a granulometria arenitica, e caratterizzati da abbondante presenza di livelli fossiliferi
di età Tortoniano sup.-Messiniano inf. (Lentini 1986).
L’attribuzione dei calcari oolitici (Facies B) alla F.ne di M.Carrubba è scaturita anche da considerazioni di tipo storico, pur non direttamente correlate
con la documentazione inerente la Chiesa di San Nicolò L’Arena. Rodolico
1952, fa infatti riferimento ai calcari oolitici della F.ne M.Carrubba citando
un documento del 1715 (una sorta di libro contabile dell’epoca) relativo alla
costruzione del Palazzo dell’Università che fa riferimento a ”pezzi di pietra
forte, e tutte di qualità e perfezione, (…) provenienti dalle pirrere antiche di
Mazza Olivieri”. Tale località (attualmente Massolivieri) é una contrada della
penisola della Maddalena, nelle vicinanze di Siracusa. Inoltre, è stata campionata anche la cava storica ubicata nella zona di Capo Murro di Porco, che
costituisce l’estremità meridionale della suddetta penisola (v. Fig. 3).
La geoarcheometrica applicata alla conoscenza e alla conservazione
dei Beni Culturali: la facciata della chiesa di S. Nicolò L’Arena (Ct)
301
Fig. 3. Schema geologico semplificato dell’Altopiano Ibleo. Sono riportate le ubicazioni delle
cave di possibile estrazione delle rocce carbonatiche (in stampa con Punturo et al., 2006).
5. Indagini geochimiche
La caratterizzazione geochimica dei litotipi studiati è stata effettuata
mediante l’analisi degli elementi maggiori e minori. In particolare, l’attenzione è stata focalizzata sia sugli elementi legati alla frazione detritica che
su quelli presenti nella componente carbonatica (CaO, Sr, Mn e Zn).
In particolare lo Sr è risultato essere un ottimo elemento discriminante per le popolazioni studiate (v. Fig. 4). Si osserva che i litotipi
appartenenti alla F.ne M. Carrubba sono caratterizzati da valori di Sr
più elevati rispetto ai calcari della F.ne M. Climiti. Inoltre, dal confronto dei tenori in Sr tra i campioni in opera con quelli delle cave, si evince che i calcari attribuiti alla F.ne M.Climiti provengono dalla cava
Palombara. Per quanto riguarda i campioni appartenenti alla F.ne
M.Carruba, i tenori in Sr sono più vicini a quelli in contrada Massolivieri (v. Fig. 4).
302
Mazzoleni, Punturo, Russo, Censi,
Lo Giudice, Pezzino
Fig. 4. Diagrammi binari Sr (ppm) vs Al2O3 (wt%) per i campioni analizzati. Sn: campioni in opera.
6. Considerazioni conclusive
Lo studio petrografico e geochimico condotto sui materiali della fabbrica della Chiesa di S. Nicolò L’Arena di Catania ha messo in evidenza che, diversamente da quanto riportato dalle fonti storiche, i litotipi
utilizzati nell’apparato di facciata sono costituiti non esclusivamente
dalle calciruditi della F.ne dei M.Climiti (come si evince dai dati di
archivio riportati da Fichera 1934). Secondo le notizie storiche
(Fichera, 1934), nella facciata in pietra è stata utilizzata la calcirudite
biancastra proveniente dalla Cava della Palombara, situata in prossimità dell’abitato del paese di Melilli in provincia di Siracusa. L’indagine
petrografica condotta su campioni prelevati in più punti della facciata
ha, invece, evidenziato la presenza di due litotipi differenti: questo è
ovviamente anche conseguenza delle lunghe e complesse vicende
costruttive (Fichera, 1934).
In particolare, oltre alla calcirudite biancastra geologicamente riferibile al Membro dei Calcari di Siracusa della F.ne dei Monti Climiti
La geoarcheometrica applicata alla conoscenza e alla conservazione
dei Beni Culturali: la facciata della chiesa di S. Nicolò L’Arena (Ct)
303
(Burdigaliano-Serravaliano), fu impiegato un altro calcare miocenico
caratterizzato dalla presenza di ooliti. Tale calcare ascrivibile alla
Formazione M. Carrubba di età Tortoniano sup. - Messiniano inf. affiora
nella zona della Penisola Maddalena (Sr) dove, secondo le fonti storiche,
vi era in passato una fiorente attività estrattiva (Rodolico, 1952). Ulteriori
indagini petrografiche eseguite su campioni prelevati in cave storiche, sia
nella Penisola della Maddalena sia nei pressi di Melilli, hanno accertato
che le calciruditi della F.ne dei Monti Climiti provengono dalla cava della
Palombara che ricade nel territorio di Melilli, mostrando pertanto congruità con i dati storico-monumentali ed archivistici. I calcari oolitici,
invece, sono attribuibili alle cave ubicate a Sud di Siracusa (Penisola
della Maddalena), in particolare a quelle in prossimità di Contrada
Massolivieri, per le quali tuttavia non si è riusciti ad identificare in maniera univoca il livello estrattivo.
Le condizioni di messa in opera dei due lititipi sono eterogenee, sia per
quanto riguarda la loro distribuzione negli elementi architettonici (v. Fig.
1) che per l’orientazione dei conci rispetto all’originaria stratificazione in
affioramento.
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Catania e considerazioni sul loro degrado». Boll. Acc. Gioen. Sci. Nat., 2000; 33
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305
DEVOLUZIONE E BENI CULTURALI:
IL CASO DELLA SICILIA E DELLA SCOZIA
MIGNOSA A.
Dipartimento Di Economia E Metodi Quantitativi – Università Di Catania Corso Italia, 55 –
95129 Catania, Tel. 095 375344 Int. 363, Fax. 095 370574, [email protected]
1. Introduzione
Le politiche culturali seguono modelli specifici influenzati dalle tradizioni politiche, culturali e sociali di ogni paese. Le modalità attraverso le
quali avviene l’identificazione dei beni culturali, il ruolo degli esperti,
l’intervento pubblico e l’intervento degli altri settori (privato, non-profit),
le modalità di finanziamento della cultura, in generale, e dei beni culturali, in particolare, l’attenzione prestata agli aspetti economici delle decisioni relative ai beni culturali, variano da paese a paese. Diversi studi
(Cumming e Katz, 1987 [3]; Schuster, 1999 [13]) hanno confrontato le
politiche culturali e le modalità di finanziamento dei beni culturali in paesi
diversi. Malgrado i limiti legati alle diverse modalità di raccolta dei dati,
le differenze nella definizione di beni culturali, ecc., questi studi forniscono un contributo per comprendere l’impatto che istituzioni e regole differenti hanno sulla conservazione e valorizzazione dei beni culturali.
Questo lavoro mette a confronto le modalità attraverso cui decisioni
pubbliche relative ai beni culturali sono prese in Sicilia ed in Scozia.
Diverse ragioni sono alla base di questo confronto. Innanzitutto, in entrambi i casi, il potere decisionale è stato decentrato a seguito della devoluzione di competenze, rispettivamente, al Parlamento Scozzese ed al
Parlamento della Regione Siciliana. Secondariamente, la maggior parte
delle decisioni in materia di beni culturali sono prese nel settore pubblico
da burocrati-esperti che hanno un ruolo dominante nel processo decisionale. L’analisi, guardando alla effettiva organizzazione delle istituzioni
responsabili in materia di politiche culturali in Sicilia e Scozia, intende
proprio evidenziare se, come la teoria lascerebbe dedurre, tali similitudini
implichino politiche culturali analoghe nei due casi.
306
Mignosa
2. L’approccio teorico
In Sicilia, così come in Scozia, la definizione ed implementazione delle
politiche culturali avviene prevalentemente nel settore pubblico e burocrati-esperti hanno un ruolo dominante. La teoria della burocrazia costituisce
un valido strumento per analizzare il processo attraverso cui le decisioni
sono prese nel settore pubblico ed il comportamento degli attori che prendono tali decisioni. Secondo questo approccio teorico, i burocrati sono
“agenti” che operano per conto dei politici; quindi, teoricamente, i burocrati dovrebbero seguire le indicazioni dei politici e soddisfarne le preferenze. Questo approccio teorico può spiegare vari aspetti del modo di operare dei burocrati ed il rapporto di questi con i politici. Infatti, dire che le
politiche culturali sono scelte ed implementate nel settore pubblico significa raramente che i politici (es. ministri della cultura) agiscono direttamente. Normalmente, essi delegano il potere ai burocrati in virtù delle
specifiche conoscenze di questi ultimi. Secondo la teoria della burocrazia,
quindi, il rapporto politici-burocrati è un rapporto principale-agente in cui
i politici delegano potere ai burocrati al fine di sfruttare la loro conoscenza di uno specifico settore (cultura, sanità, istruzione, ecc.) per fare scelte
migliori, più rapidamente. La teoria fornisce una spiegazione di molti elementi che caratterizzano questo particolare rapporto e del ruolo che tanto
i burocrati quanto i politici hanno. Tale approccio è utile anche nel caso
delle politiche culturali pubbliche che sono l’oggetto di questa analisi. La
teoria sottolinea il fatto che i politici non sono “dittatori benevolenti” ma
individui che cercano di massimizzare i propri interessi tenendo in considerazione specifici incentivi e vincoli.
La teoria della burocrazia evidenzia alcuni elementi che caratterizzano
questo rapporto: le asimmetrie informative che sono alla base della delega di poteri da parte dei politici; la discrezionalità dei burocrati che può
portare a risultati diversi rispetto alle preferenze dei politici (i principali);
le caratteristiche della burocrazia quali l’avversione al rischio e la mancanza di incentivi; e la possibilità dei politici di controllare i burocrati.
La teoria della burocrazia costituisce il riferimento teorico che useremo
per spiegare il modo di operare dei burocrati siciliani e scozzesi responsabili per le politiche culturali e la loro relazione con i politici. In generale,
l’analisi teorica tende a evidenziare l’autonomia di cui godono i burocrati
e la difficoltà dei politici di effettuare una qualche forma di controllo nei
confronti dei primi.
Devoluzione e beni culturali: il caso della Sicilia e della Scozia
307
Questo problema sembra essere persino più evidente nel caso delle
politiche culturali in quanto in questo settore le competenze di burocratiesperti sembrano essere indispensabili per poter prendere qualsiasi decisione e, nello stesso tempo, sembra essere impossibile metterle in discussione (Peacock, 2001 [11]). Secondo alcuni autori, in realtà, esistono strumenti alternativi per limitare la discrezionalità dei burocrati. Ad esempio
i referendum potrebbero servire a chiedere direttamente alla collettività di
partecipare al processo decisionale esplicitando le proprie preferenze e la
propria disponibilità a pagare per un determinato bene o servizio (Frey e
Pommerehne, 1989 [6]; Frey e Oberholzer-Gee, 1998 [5]). Ancora, si
potrebbe ricorrere alla Valutazione contingente (Contingent Valuation
Method o CVM) e ad altre metodologie usate per inferire la disponibilità
a pagare per la cultura della collettività (Klamer e Zuidhof, 1999 [10]).
Infine, si ritiene (Rizzo, 2003 [12]) che il controllo sui burocrati e, quindi,
la riduzione della loro discrezionalità possa aver luogo nel caso della
devoluzione ovvero del decentramento di potere da un livello più elevato
ad un livello più basso di governo.
In effetti, la Sicilia e la Scozia costituiscono due esempi di devoluzione, in quanto i poteri in materia di cultura (così come in altre materie quali
istruzione, sanità, lavori pubblici, ecc.) sono stati devoluti al governo
regionale siciliano e al governo scozzese. La teoria del federalismo fiscale consente di approfondire l’analisi guardando come avviene il processo
decisionale quando si svolge ad un livello più basso di governo. Secondo
la teoria, infatti, le decisioni dovrebbero essere più vicine alle preferenze
delle comunità locali poiché i politici locali dovrebbero conoscere meglio
le preferenze del loro elettorato. È questo ciò che avviene in Sicilia e
Scozia? Le politiche culturali corrispondono alle preferenze della popolazione?
3. L’analisi empirica
Questo lavoro si fonda su un’analisi empirica dell’organizzazione e del
modo di operare delle istituzioni responsabili per la definizione e l’implementazione delle politiche culturali in Sicilia e Scozia. Fondamentali, per
l’individuazione di tali istituzioni sono risultati: lo studio della legislazione vigente in materia di beni culturali in Sicilia e Scozia; l’analisi dei
documenti ufficiali delle istituzioni relativi tanto alle regole per la tutela,
308
Mignosa
conservazione e valorizzazione dei beni culturali quanto al loro finanziamento; e la somministrazione di interviste ai soggetti che operano all’interno delle suddette istituzioni. L’analisi della normativa vigente ha costituito il primo passo indispensabile per ricostruire il quadro legislativo che
è alla base della tutela, conservazione e valorizzazione dei beni culturali
in Sicilia e Scozia. Essa ha anche consentito di ricostruire l’organizzazione delle istituzioni responsabili in materia evidenziando le differenze presenti nei due casi: malgrado la dominanza del settore pubblico –
esperti/burocrati sono i soggetti che prendono le decisioni in materia di
beni culturali – l’organizzazione delle istituzioni al cui interno questi soggetti operano differisce molto nei due casi. L’analisi dei documenti ufficiali pubblicati da queste istituzioni ha consentito di tracciare il modo di operare delle stesse ed il loro rapporto con i politici e con la popolazione.
Infine, le interviste somministrate direttamente ad alcuni degli attori che
operano in queste istituzioni hanno consentito di meglio comprendere il
modo di operare delle stesse e le eventuali discrasie fra quanto previsto nei
documenti ufficiali e quanto avviene nella realtà.
3.1. L’amministrazione dei beni culturali in Sicilia
La Regione Siciliana in quanto regione a “statuto autonomo” gode di particolare autonomia, fra l’altro, in materia di tutela, conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale tale autonomia è ribadita agli artt. 14 e 33
dello Statuto Regionale. L’effettivo trasferimento di poteri dal governo nazionale alla regione in materia di cultura è stato effettuato con due decreti del
Presidente della Repubblica (n. 635 e n., 637 del 1975). A seguito di tale delega l’amministrazione regionale responsabile in materia di beni culturali
divenne autonoma rispetto al Ministero nazionale, e la sua organizzazione,
che fino a quel momento era stata uguale al resto del paese, venne modificata. La legge regionale n. 80 del 1977 ridisegnò l’organizzazione e la ripartizione delle soprintendenze seguendo un principio territoriale mentre nel resto
del paese l’articolazione delle soprintendenze segue un criterio tipologico. In
Sicilia ci sono nove soprintendenze (una soprintendenza per provincia) e
ognuna di esse presenta al suo interno tutte le competenze necessarie per
garantire la tutela, conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale
dell’isola. L’organizzazione dell’amministrazione regionale in materia di
beni culturali non ha subito rilevanti modifiche sino all’emanazione della
Legge Regionale 10/2000 che ha implicato la riorganizzazione dell’ammini-
Devoluzione e beni culturali: il caso della Sicilia e della Scozia
309
strazione pubblica regionale (incluso l’assessorato regionale beni culturali,
ambientali e pubblica istruzione).
L’organizzazione introdotta a seguito della devoluzione è descritta dettagliatamente nelle leggi quindi è molto difficile apportare modifiche alla
stessa. Essa è organizzata gerarchicamente e fortemente sottoposta al
potere dell’Assessore, il politico eletto nominato a capo dell’Assessorato
che controlla i vari uffici centrali e periferici che compongono l’assessorato stesso (v. Fig. 1).
Il finanziamento dei beni culturali avviene prevalentemente attraverso
fondi che l’assessorato distribuisce fra i vari uffici periferici che lo compongono. Altra fonte di finanziamento che, specialmente negli ultimi anni,
ha svolto un ruolo rilevante è quella legata agli introiti del lotto (Giuranno,
2005 [7]). Va, tuttavia, posto in evidenza il fatto che il settore culturale
beneficia anche di risorse che arrivano indirettamente al settore attraverso
altri assessorati (es. Lavori pubblici, turismo, etc.). In ogni caso, tutti gli
interventi sui beni culturali (anche quelli che derivano dall’iniziativa di
altri assessorati o di livelli più bassi di governo – province, comuni) devono essere autorizzati dall’assessorato (dipartimento o soprintendenze a
seconda del tipo di intervento).
I privati non hanno un ruolo particolarmente rilevante per quanto
riguarda le politiche culturali. Infatti, da un lato i cittadini, generalmente,
sembrano alquanto disinteressati rispetto alle politiche culturali, anche se
è vero è che indicazione in senso opposto sembra venire dal successo che
il censimento dei “Luoghi del cuore” proposto dal Fondo per l’Ambiente
Italiano (FAI) ha avuto in Sicilia. Dall’altro lato il ruolo delle fondazioni
Fig. 1. Organizzazione dell’Assessorato Regionale BBCCAA.
310
Mignosa
private non è particolarmente rilevante, soprattutto rispetto ad altre regioni italiane (Creaco 2005 [4]). La situazione potrebbe, tuttavia, cambiare
visto il crescente coinvolgimento dei privati nella gestione di siti archeologici e di musei.
3.2. L’amministrazione dei beni culturali in Scozia
In Scozia la devoluzione ha avuto luogo nel 1997 a seguito di un lungo
processo storico e politico e di un apposito referendum. La tendenza dei
politici scozzesi è stata quella di distinguersi dai loro colleghi inglesi, ciò
ha portato all’introduzione di istituti (es. la petizione pubblica) intesi proprio a sottolineare questa differenze e, nel contempo, a colmare il “deficit
democratico che separa gli scozzesi dal governo scozzese” (Cavanagh e al.
2000, [1]).
A seguito della devoluzione, il Concordato stipulato fra il Department
of Culture, Media and Sport (DCMS) e il governo scozzese ha indicato le
materie che sono passate sotto l’autorità del governo scozzese.
L’organizzazione dell’amministrazione scozzese responsabile per i beni
culturali, segue il modello britannico della “quangocracy” (Hewison, 1996
[8]): l’organizzazione si compone di “diversi dipartimenti centrali guidati
da ministri nominati politicamente, mentre l’amministrazione è devoluta
agli enti locali e ad agenzie (Non Departmental Pubic Bodies - NDPB) di
diverso tipo (Keating 1999, [9]). Inoltre, in Gran Bretagna viene applicato il principio dell’arms length (lunghezza del braccio) che evita che le
istituzioni che operano nel settore culturale siano direttamente sottoposte
al ministro o al dipartimento competente, ma operano in cooperazione con
gli stessi. In Scozia il ministro responsabile in materia di beni culturali
opera tramite il Dipartimento del Governo per l’Istruzione (Scottish
Executive Education Department – SEED).
A seguito della devoluzione la struttura delle istituzioni responsabili
per i beni culturali non ha subito modifiche degne di rilievo: si trattava di
istituzioni create originariamente come filiali locali di istituzioni con sede
a Londra che con la devoluzione sono passate sotto la giurisdizione dei
ministri scozzesi. Quindi, la devoluzione in Scozia non ha portato alla
creazione di una nuova struttura amministrativa responsabile in materia di
beni culturali e di politiche culturali più generalmente. Il sopra menzionato Concordato dichiara esplicitamente che le regole pre-devoluzione relative all’organizzazione ed al funzionamento delle varie istituzioni e dei
Devoluzione e beni culturali: il caso della Sicilia e della Scozia
311
NDPB resta valido. Questa è stata considerata una delle principali cause
del fatto che le politiche culturali non rispondono appieno alle esigenze e
preferenze di una Scozia indipendente.
Il ministro dello sport, arte e cultura (Ministry for tourism, culture and
Sport) è responsabile della politica culturale nazionale scozzese. Si tratta
di un membro del parlamento, ovvero un politico eletto dagli elettori scozzesi. Il SEED è, invece, l’istituzione che, sotto la guida del ministro,
implementa le politiche culturali. In realtà, questo dipartimento non agisce direttamente ma tramite due agenzie esecutive e in partenariato con
diverse istituzioni. L’agenzia responsabile per i beni culturali è Historic
Scotland, fra i principali partner sono gli enti locali, lo Scottish Arts
Council (SAC), i National Museums of Scotland, le National Galleries of
Scotland, la Royal Commission on the Ancient and Historical Monuments
of Scotland (RCAHMS), etc.
Solo Historic Scotland è un’agenzia esecutiva del SEED. Essa esisteva già
prima della devoluzione a seguito della quale passò sotto l’autorità del governo scozzese. I burocrati che lavorano per questa agenzia sono di fatto responsabili per l’implementazione delle politiche scozzesi in materia di beni culturali e, soprattutto, dell’inclusione dei beni stessi nelle liste riconoscendone
l’importanza dal punto di vista storico artistico. La principale differenza
rispetto ai loro colleghi in Sicilia è legata alla maggiore attenzione prestata al
riuso degli edifici storici, punto questo del tutto trascurato dai burocrati siciliani per i quali la conservazione ha valore di per sé.
Il finanziamento di quest’agenzia avviene prevalentemente con fondi
pubblici anche se l’agenzia ottiene circa un terzo delle sue risorse attraverso la vendita di biglietti, le vendite di prodotti presso i siti che custodisce
e attraverso altre attività culturali. Come in Sicilia anche in Scozia altri
dipartimenti possono destinare risorse al settore culturale, ed, anche in
questo caso, i fondi ricavati attraverso la lotteria nazionale hanno acquisito un’importanza crescente nel favorire il finanziamento di interventi sui
beni culturali (restauro, valorizzazione).
Anche in Scozia la popolazione non sembra particolarmente interessata ai beni culturali tuttavia Historic Scotland è costantemente impegnata a
coinvolgere la popolazione nella tutela, conservazione e valorizzazione
del “proprio patrimonio”. Va, poi, sottolineato il ruolo del National Trust
of Scotland, questa fondazione tutela più di un centinaio di edifici operando, fondamentalmente, grazie alle donazioni, ai contributi, alle sottoscrizioni ed ai lasciti di privati.
312
Mignosa
Riassumendo le principali caratteristiche dell’organizzazione responsabile in materia di beni culturali in Scozia, va sottolineato innanzitutto che
in Scozia, per effetto dell’applicazione dell’arm’s length principle non si
ha una struttura organizzata in modo gerarchico come avviene, invece, in
Sicilia. La devoluzione non ha portato alla creazione di una nuova struttura amministrativa diversa dalle precedenti. Anche se i burocrati scozzesi,
come i loro colleghi siciliani, devono seguire regole e procedure prefissate, la struttura dell’amministrazione responsabile per i beni culturali sembra essere molto più flessibile in Scozia e le regole sembrano più chiare.
4. Sicilia e Scozia
Accanto alle analogie nel modo di operare della burocrazia e nel maggiore controllo sui burocrati reso possibile dalla devoluzione tanto in
Sicilia quanto in Scozia, l’analisi empirica ha messo in evidenza l’esistenza di alcune caratteristiche che differenziano l’organizzazione delle istituzioni responsabili per i beni culturali, il loro modo di operare ed il rapporto fra queste e il potere politico, da un lato, e la popolazione dall’altro.
In Sicilia, l’organizzazione introdotta a seguito della devoluzione sembra
seguire un approccio fortemente decentralizzato che, teoricamente, dovrebbe
garantire la definizione ed implementazione di politiche vicine alle preferenze
delle comunità locali. La distribuzione capillare delle istituzioni sul territorio
dovrebbe garantire una maggiore conoscenza del patrimonio culturale e la conservazione di quei beni minori che tendono ad essere “dimenticati” quando il
processo decisionale è centralizzato. In realtà, la carenza di risorse finanziarie
sembra spostare l’attenzione verso i beni più importanti analogamente a quanto avviene nei sistemi in cui le decisioni sono centralizzate. Inoltre, in realtà,
l’organizzazione introdotta in Sicilia sembra quasi replicare il sistema nazionale risultando fortemente accentrata. In Scozia, a seguito della devoluzione, non
si è avuta una modifica sostanziale delle istituzioni responsabili in materia di
beni culturali; come già menzionato, queste sono “semplicemente” passate
sotto l’autorità del parlamento scozzese. Ciononostante, l’amministrazione
scozzese sembra essere stata capace di effettuare scelte vicine alla popolazione, come dimostrato dallo stesso atteggiamento di Historic Scotland che intende coinvolgere la popolazione direttamente nella conservazione del proprio
patrimonio. L’organizzazione responsabile per i beni culturali risulta molto più
flessibile e coinvolge molte più istituzioni in modo cooperativo.
Devoluzione e beni culturali: il caso della Sicilia e della Scozia
313
Altro punto da porre in evidenza riguarda l’importanza della normativa in Sicilia: il sistema vigente è stato introdotto con legge regionale e può
essere modificato solo da nuove leggi regionali. In Scozia, invece, il sistema sembra essere molto più flessibile e modifiche possono essere introdotte senza dover ricorrere all’emanazione di nuove leggi.
Per quanto riguarda il modo di operare dei burocrati siciliani responsabili delle decisioni in materia di beni culturali, confermando quanto previsto dalla teoria, appare evidente la mancanza di controllo sull’uso che questi fanno dei fondi destinati a questo settore. L’Assessore (e, analogamente, i dirigenti che operano presso il Dipartimento regionale dei beni culturali – fig. 1) sembra non conoscere l’ammontare di risorse disponibili,
quelle utilizzate e quelle da utilizzare in un particolare momento. Vero è
che le Soprintendenze devono presentare un rendiconto annuale ed un
piano relativo alle attività che intendono intraprendere, ma tali documenti
non sembrano essere presi in considerazione nel momento in cui si procede alla distribuzione di risorse da parte dell’Assessorato. Il controllo dei
politici sui burocrati avviene fondamentalmente attraverso il potere di
nomina da parte dell’Assessore. La situazione risulta diametralmente
opposta in Scozia dove tanto i burocrati quanto i politici sono perfettamente consapevoli dell’ammontare di risorse disponibili e dell’uso che ne
viene fatto. Il controllo sul budget, e, soprattutto, sull’uso che se ne fa
risulta essere lo strumento per eccellenza usato dai politici scozzesi per
controllare e, quando possibile, influenzare l’attività della burocrazia.
I burocrati siciliani e scozzesi sembrano presentare un’altra caratteristica che la teoria considera tipica della burocrazia: l’avversione al rischio.
Tuttavia, questa implica scelte politiche diametralmente opposte. Infatti,
in Sicilia i burocrati ricorrono alla regolamentazione (apposizione di vincoli, espropri, etc.) per ridurre il rischio che il patrimonio sia danneggiato. Ciò fa si che l’attenzione delle politiche culturali, in Sicilia, si concentri soprattutto sulla conservazione del patrimonio (Consiglio d’Europa,
2002 [2]), che assorbe la maggior parte delle risorse umane e finanziarie
messe a disposizione del settore culturale. Tale avversione al rischio e l’attenzione posta sulla conservazione sono alla base di non rari conflitti con
i privati che vedono limitare i propri diritti su un bene (per l’esigenza di
ottemperare a regole ben precise nel restauro di un edificio antico, o per le
limitazioni che possono derivare per il fatto di trovarsi vicini ad un sito –
es. divieto di costruire) e che finiscono col percepire i beni culturali come
qualcosa di distante e oneroso. In Scozia, invece, l’avversione al rischio
314
Mignosa
fa si che i burocrati siano particolarmente attenti alla sostenibilità economica e sociale degli interventi sul patrimonio culturale. Quindi, essi considerano anche, e soprattutto, la possibilità di riutilizzare un bene, anzi tale
possibilità diventa un punto di forza nella scelta di un progetto. Il diverso
orientamento dei burocrati in Scozia riguarda anche il ruolo di altri attori
ed il loro coinvolgimento. Infatti, anche se conflitti fra burocrazia e popolazione sono presenti, va evidenziato l’atteggiamento di Historic Scotland
che cerca di sensibilizzare la popolazione alla conservazione del patrimonio e di coinvolgerla direttamente nella conservazione dello stesso. Il
diverso coinvolgimento di altri attori “non-pubblici” è messo in evidenza
dal ruolo che i diversi tipi di fondazioni hanno nei due casi. Il National
Trust of Scotland custodisce 128 siti, in Sicilia, il Fondo per l’Ambiente
Italiano si occupa solo di 2 siti.
Le varie differenze che caratterizzano l’amministrazione dei beni culturali rispettivamente in Sicilia e Scozia, possono sembrare incoerenti alla
luce dell’approccio teorico scelto. Ci si sarebbe aspettati una maggiore
omogeneità tanto nell’organizzazione delle istituzioni responsabili per i
beni culturali quanto nel loro modo di operare. Tale omogeneità, tuttavia,
è ravvisabile nel modo di operare dei burocrati e nella maggiore vicinanza alla collettività dei decisori pubblici dovuta alla devoluzione di potere
al governo siciliano e scozzese. Tuttavia, come evidenziato, sono molte le
differenze fra i due sistemi che non trovano una spiegazione nell’approccio teorico scelto. Si ritiene che una possibile spiegazione potrebbe aversi
considerando la diversa evoluzione storica delle istituzioni politiche e
burocratiche di questi due paesi. Il sistema britannico che prevede la presenza di diverse istituzioni pubbliche e non, insieme all’applicazione dell’arm’s length principle fa si che l’organizzazione responsabile per i beni
culturali in Scozia sia profondamente diversa rispetto a quella siciliana,
operi in modo diverso seguendo principi ben diversi. Anche il diverso
orientamento delle politiche culturali – conservazione in Sicilia, riuso in
Scozia – corrisponde ad un diverso approccio al bene culturale che ha
caratterizzato i due paesi nel tempo. In definitiva, si ritiene che per avere
una spiegazione completa del modo di operare dei decisori pubblici e delle
scelte che questi fanno è necessario utilizzare un approccio teorico più
ampio che guardi anche all’evoluzione storica delle istituzioni.
Devoluzione e beni culturali: il caso della Sicilia e della Scozia
315
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316
CAMPIONARI IN “MARMI” E PIETRE DURE DEL
BAROCCO SICILIANO: UN ESEMPIO A SIRACUSA.
MONTANA G. (1), TRISCARI M. (2)
(1)
Dipartimento di Chimica e Fisica della Terra (CFTA), Università di Palermo
(2) Dipartimento di Scienze della Terra, Università di Messina
Nel barocco siciliano, sono state ampiamente utilizzate, nella realizzazione dei cosiddetti “marmi mischi” e nel “commesso a pietre dure” varie
tipologie di diaspri ed altre pietre ornamentali. Un’ampia trattazione dell’utilizzo di tali materiali viene riportata da Montana et al. (1998) che
descrive anche la tipica, ed a volte univoca, denominazione comune di tali
materiali. Adesso si segnalano due inediti tavoli-campionario datati stilisticamente alla seconda metà del Settecento e conservati a Siracusa presso una collezione privata. La coppia di tavoli, cm 163 x 62.5 x 90 presenta il ripiano superiore costituito da formelle quadrate di cm 6.5 disposte in
sette righe e quattordici colonne per un totale di 98 formelle cadauno. Le
formelle sono inserite in un’unica lastra di marmo bianco di Carrara. Nel
fronte di ognuno dei tavoli, immediatamente sotto la lastra con le tarsie
marmoree, si apre un cassetto che riporta - dipinto su legno - l’esatto disegno a quadri della lastra di marmo superiore, recante in ogni casella la
denominazione del materiale utilizzato.
I due tavoli presentano così una singolare ed unica caratteristica di
“campionario” per litologie ornamentali che già nella mente del suo realizzatore venivano distinte, una in ogni tavolo, in due serie: quella delle
“pietre dure” e quella della “pietre molli”. Con tale denominazione nel
Settecento venivano separatamente indicate tutte le tipologie facenti riferimento a forme microcristalline della silice (agate, diaspri etc.) e quelle
riferite, invece, a rocce calcaree compatte, a varia dominante cromatica,
suscettibili di buona lucidatura.
Si riportano le trascrizioni “letterali” di alcune delle denominazioni
riscontrate nel catalogo riferito alle cosiddette “pietre dure”:
Campionari in “marmi” e pietre dure del barocco Sicilliano
317
DEASPARO DI S. STEFANO CON MACCHIA GIALLA E BIANCHA /
AGATA NERA DELL PARCO / DEASPARO NERO DI GIULIANA / FICIRIGLIA GIALLA DEL CAPUTO / AGATA VERDE CON MACCHIA GIALLA /
FICIRIGLIA ROSSA DEL CASTILLAZZO / AGATA DELLA PIANA DELLI
GRECI CON MACCHIA GIALLA / AGATA CHIAMATA SCORCIA DI SMIRADO DI TERMINI / DEASPARO ROSSO CON MACCHIE TORCHINI DI
GIULIANA / AGATA GIALLA DELLA MONTAGNA DI RAMO ARDO /
AGATA VIRDONA DI GRATERI / DEASPARO CON MACHIA GIALLA DI
GIULIANA / AGATA VERDE CON MACCHIE CRISTALLINE DI S. STEFANO
ed alle “pietre molli”:
CIACA DELLA TORRETTA / COTOGNINO DI CAPO ZAFARANA / PIETRA
DI CARINI / ROSSONE DI’ TRAPANI / PIETRA DEL’ CAPO DI S. VITO /
NOVELLA DI BELLIEMI / PIETRA DI FIUME / PIETRA DI S. M. DI GESU /
PIETRA DI MUSSOMELE / PIETRA DI CAPACI / PIETRA DI SAVONA /
PIDOCCHOISA DI TRAPANI / PIETRA CARCHARIGNA / VERDE DI
FIUME
Già dal XVII secolo le raccolte di materiali lapidei ornamentali di pregio, diventano segno di un “colto” collezionismo che trovano nel mecenatismo dei Medici una delle massime espressioni. Lazzarini L. (2004)
segnala anche “studioli” e/o “campionari portatili di tali materiali alcuni
realizzati anche con marmi e pietre dure siciliane: a questa categoria fa
anche riferimento la collezione di diaspri siciliani del naturalista catanese
Giuseppe Giorni datata alla fine del XVIII secolo. Anche se sono ben noti
stipi, mobili, tavoli con inserti in pietre dure tra il XVIII ed il XIX secolo,
la produzione di tavoli-campionario risulta molto limitata: GonzalesPalacio (1982), è l’unico a riportare una coppia di tavoli realizzati in pietre dure siciliane attualmente presso la Reggia di Caserta e datati, in base
ad una precisa nota di spesa al maggio 1808. Questi ultimi tavoli vennero
realizzati a Napoli presso il “Real laboratorio delle pietre dure” fondato da
Carlo di Borbone nel 1738.
Una ricostruzione su precise fonti documentali delle vicissitudini che
hanno portato all’attuale collocazione dei tavoli, rende ragionevolmente
credibile una manifattura di area palermitana. L’ipotesi viene avanzata,
oltre che sulla base dei riscontri letterari noti per queste tipologie di lavorazione, anche per la puntigliosa localizzazione delle varie litologie utilizzate e per il confronto di tali litologie con quelle ampiamente diffuse, in
opera, nei manufatti di gusto barocco che decorano gli interni delle più
318
Montana, Triscari
importanti chiese siciliane edificate dalla fine del Cinquecento a tutto il
XVIII secolo.
Oltre al valore intrinseco dell’inedito rinvenimento, dalla presente nota
deriva anche un’ulteriore conferma del largo impiego di materiali lapidei
siciliani nella pratica decorativa a “marmi mischi” ed un’importante chiave di lettura nella oggettiva identificazione delle numerose tipologie di
marmi e diaspri, estensivamente in opera anche in diverse altre regioni italiane (v. Fig. 1).
Fig. 1.
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L. Lazzarini. (2004) Pietre e marmi antichi. CEDAM, Padova pp. 194.
Conoscenza, progetto e tutela del complesso «Castello di Pitino»
319
CONOSCENZA, PROGETTO E TUTELA DEL COMPLESSO EDILIZIO
FORTIFICATO “CASTELLO DI PITINO” SITO
NEL COMUNE DI SAN SEVERINO MARCHE (MC)
MOTTANA A.(1), MASSACCI G.A.M.(2)
(1)Dipartimento
di Scienze Geologiche Università Degli Studi Roma Tre, Largo S. Leonardo
Murialdo I-00146 Roma, Tel. 06 54888019, Fax. 06 54888201 [email protected].
(2)Libero Professionista e Docente A Contratto Presso la Facoltà Di Scienze MM.FF.NN.
Dell’università Di Camerino Via XXIV Maggio, 11 – 60035 Jesi (AN); Tel. E Fax. 0731 58456,
[email protected]
1. Introduzione
Il progetto di valorizzazione dell’impianto edilizio ha come elementi
caratterizzanti il restauro conservativo, il recupero funzionale, la ristrutturazione e l’adeguamento funzionale dell’insediamento fortificato
“Castello di Pitino” (v. Fig. 1) sito nel comune di San Severino Marche
(MC) e rientrante nell’ambito del piano di area vasta come contemplato
nel progetto pilota denominato “Asse viario Marche Umbria e Quadrilatero di penetrazione interna”. Il territorio di San Severino Marche
(MC) è fittamente interessato dalla presenza di ben tredici castelli “opera
di difesa” per popolazioni riunite sotto l’insegna delle libertà comunali o
sotto il dominio di qualche signorotto. Secondo i documenti del medioevo, gli storici locali datano questi castelli tra l’XI e il XIII secolo: essi
erano dislocati sul territorio in modo da organizzarne la difesa militare,
controllarne le strade principali, le valli ed i fiumi. È evidenziabile, tra la
tarda antichità e l’alto medioevo, una tendenza all’accentramento insediativo precastrale, suggerendo l’ipotesi di una tendenza all’agglomerazione
che avrebbe posto le basi per le successive fondazioni dei castelli di prima
generazione o delle torri di avvistamento (Aliforni1, Isola, Colleluce2,
1 Aliforni. Si trova al confine fra il territorio di San Severino e quello di Apiro. Nel
1257 fu venduto dal vescovo di Camerino al Comune di San Severino. Del castello resta-
320
Mottana, Massacci
Serralta, Castel San Pietro, Carpignano3, la Roccacia – Monteacuto, ecc.)
sparse in tutto il territorio di San Severino Marche; alcuni oggi in stato di
rudere ed altri in ottime condizioni e ben conservati.
Tant’è che il complesso fortificato “Castello di Pitino” e l’annessa area
archeologica “Monte Penna” si trovano compresi nella realizzazione dell’intervalliva Tolentino - San Severino Marche. In tale contesto, e congiuntamente alla Regione Marche, il Comune di San Severino Marche (MC)
ha realizzato un progetto di sosta, servizio e interscambio merci in prossimità dell’intervalliva San Severino Marche – Tolentino. Il sistema di trasporti per il collegamento con San Severino Marche e con il Parco archeologico di Septempeda e il Museo archeologico “Giuseppe Moretti” risulterà quindi un’infrastruttura moderna ed efficiente per la presenza di una
rete di trasporto veloce: tutto ciò costituirà chiaramente un vantaggio per
lo sviluppo turistico dell’area.
In particolare questo strumento “disciplina” ulteriori forme di tutela,
valorizzazione e riqualificazione del territorio anche grazie all’esperienza
di collaborazione instauratasi tra l’Amministrazione Comunale della città
di San Severino Marche e il Dipartimento di Scienze Geologiche
dell’Università degli Studi Roma TRE, nella persona del Prof. Annibale
Mottana (Ordinario di “Georisorse e Mineralogia e Petrologia applicata
all’Ambiente e ai Beni Culturali”).
no la torre principale di pietra arenaria come le mura, alta circa 25 metri, quasi intatta;
parte della cinta muraria e alcune abitazioni medievali. La torre conserva ancora i beccatelli che reggevano la merlatura.
2 Colleluce. Sulla strada per Serrapetrona si trovano due Castelli, quello di Colleluce,
488 metri, e quello di Carpignano. Il primo fu costruito alla fine del XII secolo, forse
sulle rovine di un tempio pagano. Oggi restano parti della cinta muraria che gli conferiscono l'aspetto di luogo fortificato, dominato dal campanile della Chiesa di San Giovanni
Battista che conserva un pregevole Crocifisso dipinto su tela, del XIII secolo e affreschi
votivi di scuola sanseverinate.
3 Carpignano. Esisteva già nei primi anni del Mille, probabilmente come dimora di
qualche signore. Dopo alterne vicende, nel 1471, divenne definitivamente possesso di
San Severino e fu ampliato e rafforzato. È uno dei più importanti esempi di architettura
militare del territorio; oggi restano parti delle mura, con torri circolari agli angoli, la
porta d'accesso con arco a tutto sesto, e, nell'angolo nord - ovest, il cassero pentagonale
sovrastato da un'alta torre quadrata.
Conoscenza, progetto e tutela del complesso «Castello di Pitino»
321
2. Discussione delle fonti per la storia del territorio
Il progetto di valorizzazione del complesso fortificato del Castello di
Pitino mira non soltanto a restituire questa area alla fruizione degli abitanti di San Severino Marche (MC) e dei turisti tutti, ma anche a creare - grazie appunto all’utilizzo di nuove tecnologie per l’elaborazioni delle conoscenze interdisciplinari - il collegamento infrastrutturale tra l’area
archeologica dell’antica città romana di Septempeda (v. Fig. 2) - ora corrispondente alla moderna città di San Severino Marche -, le necropoli
Fig. 1. Veduta generale
del Borgo fortificato –
Castello di Pitino.
Fig. 2. Planimetria rappresentante l’insediamento romano di Septempeda.
322
Mottana, Massacci
picene di Monte Penna, quelle con corredi orientalizzanti scoperte nella
frazione Pitino, quelle d’età arcaica del Ponte di Pitino, d’età classica del
Frustellano di Pitino e l’attuale complesso fortilizio del Castello di Pitino
(XIII sec.) (tutti nel circondario e nel comune di San Severino Marche) (v.
Fig. 3). Il valore aggiunto del progetto è che esse hanno offerto l’occasione di maturare l’idea di un piano organico del progetto per focalizzare i
principali avvenimenti storici del territorio nei vari aspetti della “cultura
materiale”, senza preconcette limitazioni temporali e d’importanza. Il
tema principale – “Il Castello di Pitino” – prende, quindi, le mosse dal
quadro cronologico e storico che focalizzano i principali avvenimenti storici di San Severino Marche, attraverso la trama delle fonti antiche e le
tappe salienti della ricerca archeologica.
Fortemente significativo è il ricordare che le tracce dell’antico tessuto
viario sono osservabili nell’entrare a San Severino Marche da una qualsiasi delle sue strade d’accesso “diverticolo della via Flaminia che da
Nuceria giungeva a Recina”. Grazie alle strade romane delle province, si
resero possibili spostamenti assai più rapidi da un capo all’altro d’Italia e
d’Europa che si mantennero poi nel tempo fino all’età moderna. Queste
strade erano fornite di “stationes” dove si poteva riposare e ristorarsi; tramite queste strade si potevano inviare le legioni là dove se ne fosse presen-
Fig. 3. Monte Penna e altri
siti piceni individuati nel territorio di S.Severino Marche.
Conoscenza, progetto e tutela del complesso «Castello di Pitino»
323
tata la necessità e, infine, era attraverso queste vie che, alla fin fine, si potevano mantenere i rapporti con le altre popolazioni dell’impero.
Per recarsi in uno dei tanti insediamenti romani nel Piceno, o per intraprendere un viaggio per mare verso l’oriente a partire dai porti adriatici, vi
erano a disposizione due guide stradali: la Istitutio provinciarum Antonini
Augusti (nota come Itinerarium Antonini) del II-III secolo d.C. e, posteriormente, la cosiddetta Tabula Peutingeriana. Molti comuni marchigiani
hanno trovato nella via Settempedana la strada per il loro sviluppo sociale,
culturale ed economico. La pax romana aveva sempre assicurato agli abitanti un’esistenza libera dalle preoccupazioni di improvvisi attacchi dai
nemici e dei conseguenti cambi di dimora. Successivamente gli insediamenti si spostarono in luoghi più difendibili e, pur tuttavia, le grandi vie di
comunicazione rimasero quelle comode di fondovalle come la via
Settempedana, tracciata dagli ingegneri romani. La quarta strada, definita
come “Flaminia”, dopo aver lasciato l’Umbria a Dubios presso Nocera, raggiungeva le seguenti località: Prolaquae (Pioraco), Septempedana (San
Severino), Trea (Treia), Auximum (Osimo) e Ancona, per poi proseguire
verso Nord. È evidente che non si tratta della via Flaminia dell’omonimo
console, cioè quella che univa Roma a Rimini, ma c’é da rilevare come questa denominazione sia stata attribuita nell’antichità a numerose strade che
erano spesso solo diverticoli della consolare. Le notizie storiche a noi pervenute documentano la primaria importanza dell’attuale S.S. 361 (anticamente dette Flaminia, diverticolo della Flaminia, Flaminia Orientale e
Settempedana) nel tessuto viario del centro Italia, non soltanto come antica
via commerciale e militare, ma anche come itinerario dello spirito, per l’esistenza, a pochissimi chilometri di distanza dai due centri terminali (Nocera
ed Osimo), di due dei maggiori centri della religiosità cristiana sviluppatisi
nel basso Medioevo: Assisi e Loreto.
Ciò è percepibile al visitatore per il fatto che la città di San Severino
Marche è relazionabile con le più antiche e remote forme di vita associata, dai ritrovamenti attribuibili al Paleolitico e al Neolitico, ai cimeli dell’età del bronzo e del ferro che avvalorano la presenza di antichissime
comunità preromane della zona, le quali diedero origine alla città di
“Septempeda”. Delle sue origini si trovano notizie in scritti di geografia
come quelli di Strabone (V 4, 2), di Plinio (Nat. Hist. III 13, 111), di
Tolomeo (III 1, 52) e nel medievale Liber Colonarium (240, 258).
Soprattutto, però, ce ne parlano gli scavi di Giuseppe Moretti (noto
archeologo sanseverinate che fu negli anni trenta e quaranta del novecen-
324
Mottana, Massacci
to Soprintendente di Roma e del Lazio) eseguiti in prossimità della pieve
vecchia lungo la strada per Macerata. Perfino lo studio della documentazione archeologica ricavata dai sepolcreti, considerata la scarsità delle
fonti degli autori classici e dei dati desunti dalle evidenze archeologiche
pertinenti agli abitati e ai luoghi di culto, ha un valore importante per
conoscere gli aspetti della civiltà picena.
Le sepolture monumentali datate fra il VII e l’inizio del VI sec. a.C.,
delimitate da circoli di pietre, rinvenute nell’abitato di Pitino di S.
Severino Marche, del Monte Penna e del Ponte di Pitino, rendono note la
ricchezza delle tombe e la raffinatezza delle scelte di vita delle élites
dominanti, il ruolo importante nella gestione e nel controllo delle attività
commerciali che si svolgevano lungo la vallata del Potenza. Alcune di queste sepolture sono, inoltre, ricoperte da un piccolo tumulo di pietre.
La “via Flaminia” è denominata nell’Itinerarium Antonini come riferimento all’odonimo della via principale, per divenire poi a tutti gli effetti una
via maestra, che agli inizi del Cinquecento veniva chiamata ancora “strada
regale”. Questa antica strada di fondovalle entra a far parte a pieno titolo del
sistema viario di collegamento interregionale, probabilmente relativamente
alla costruzione della Protoflaminia. Un tratto del diverticolo della via
Flaminia è stato attestato in località Ponte di Pitino e come le altre vie (ad
esempio, via Salaria) venne mantenuta come direttrice viaria principale nel
medioevo: è la nascita della “via Carolingia”, attiva ancora oggi.
La storia delle rocche signorili italiane iniziò all’epoca di Carlo
Magno, in condizioni simili a quelle degli altri paesi dell’impero. Carlo
Magno, infatti, dopo aver diviso il suo vasto impero in contee e marche,
le aveva affidate ai nobili della sua corte, ricevendone giuramento di fedeltà. Oltre a ripristinare l’unità territoriale della regione, Carlo Magno avviò
così una significativa ripresa costruttiva. Tra l’VIII e il X secolo nacquero
numerosi castelli feudali e, tra questi, il Castello di Pitino, sorto in cima al
colle di Montenero. Di questo complesso fortificato, oggi, sono ben visibili i ruderi ed una torre di forma quadrata, alta 23 metri, risalente agli
inizi del XIII secolo e in ottimo stato di conservazione.
3. Obiettivi tecnico-scientifici
Obiettivo generale del progetto è stato quello di voler definire i caratteri
degli interventi di conservazione e valorizzazione del borgo fortificato –
Conoscenza, progetto e tutela del complesso «Castello di Pitino»
325
Castrum Pitino4 - con edifici annessi ridotti allo stato di rudere. Il sito pur
collegandosi alla confluenza di due arterie commerciali importantissime: la
via Flaminia detta Prolaquanese-Settempedana e il ramo viario del periodo
medioevale oggi detta via “Carolingia”; diede un preciso incremento alla
sequenza insediativa evidenziata da meritare l’appellativo di “chiave della
Marca” e di interpretare il Castello di Pitino, come un insediamento medievale fortificato, sorto a difesa del territorio di San Severino Marche con funzione di controllo e dominio dell’antico asse viario, rappresentato dalla valle
del fiume Potenza.
La particolarità fondamentale nella città fu la concentrazione - recinzione e il collegamento interno - esterno tramite la porta principale, attraverso la quale si materializzava l’asse longitudinale dell’antica via
Flaminia e successivamente della via carolingia. Fu proprio sul rapporto
dell’antica città romana di “Septempeda” che si articolarono tutti gli insediamenti del territorio. Il perimetro difensivo del Castello di Pitino, era
rafforzato con muri in opera quadrata in pietra arenaria, mentre nel lato
meno protetto, in corrispondenza del passaggio interno – esterno, erano
scavati profondi fossati artificiali anch’essi rafforzati da mura.
Prospettive interpretative e focalizzazione:
– Valorizzare e rendere fruibile il patrimonio archeologico - architettonico del
territorio sanseverinate posti in aderenze o in prossimità di infrastrutture.
– Definire gli strumenti di valutazione per quanto concerne la vulnerabilità
dell’edificato storico, con particolare riguardo alle modalità di prevenzione
e di restauro.
– Caratterizzare i materiali lapidei naturali ed artificiali e il loro stato di conservazione.
– Definire un programma di interventi tecnici di bonifica e risanamento (pulitura, rimozione dei biodeteriogeni, preparazione delle murature per interventi successivi) e determinare i trattamenti consolidanti e protettivi dei
materiali e delle superfici (incollaggi e stuccature); sistemi di raccolta e
smaltimento delle acque di copertura nonché adeguate tecniche di protezione dall’umidità di risalita.
4 I documenti pervenuti recitano che il castello doveva essere fortificato già ben prima
del mille. La cinta fortificata, costituita da settori di muraglia a piombo, originariamente assai alta (otto metri e più), è interrotta da torri rompitratta.La torre maestra è posta nel
punto più alto del sito e, da sola, supera i venti metri.
326
Mottana, Massacci
4. Metodologia operativa e diagnosi
Nel dopo-sisma Umbria-Marche del 26 settembre 1997 l’indagine
conoscitiva, la diagnostica dei danni e del degrado tende a ottimizzare gli
interventi di consolidamento e di restauro necessari per raggiungere livelli di sicurezza in ottemperanza alle normative vigenti e nel rispetto della
concezione originaria dell’opera fortificatoria.
L’intero borgo fortificato – Castello di Pitino fu realizzato in pietra “arenaria”. La caratterizzazione della pietra prelevata dal perimetro della muratura in conci (v. Fig. 4 e 5) squadrate e lavorate, e della relativa malta sono stati
definiti in questa prima fase solo tramite lo studio in sezione sottile.
A livello petrografico la pietra arenaria campionata risulta costituita da
un materiale coerente a tessitura clastica e grana medio-fine, con granuli
da angolosi ad arrotondati, e cemento da sparitico a microsparitico. La
Fig. 4. Particolare della
porta con forma ad arco in
conci di arenaria giustapposti a secco.
Fig. 5. Particolare della
sezione muraria in ciottoli e
pietrame legati con malta di
calce e sabbia, con paramento esterno di pietra (arenaria)
grossolanamente
squadrata.
Conoscenza, progetto e tutela del complesso «Castello di Pitino»
327
colorazione giallastra omogenea è dovuta alla presenza uniforme degli
ossidi di ferro contenuti nel cemento (v. Fig. 6).
Mineralogicamente è caratterizzabile come un’arcosa litica essendo
costituita da cristalli di quarzo, feldspato alcalino e plagioclasio, calcite,
biotite, muscovite, frammenti di roccia e resti di bioclasti. Il campione di
“malta” è paragonabile ad un calcestruzzo fine, realizzato con inerte in
parte sabbioso e in parte ghiaioso. Gli elementi ghiaiosi, d’origine alluvionale, sono costituiti in gran prevalenza da elementi calcarei a buon arrotondamento nei quali si riconoscono: micriti con bioclasti tipo Scaglia,
calcari a peloidi (riferibili ai livelli sommitali del Calcare Massiccio),
micriti finissime, torbide, con rari microfossili; infine un elemento molto
appiattito, lungo circa 13 mm, di biomicrite a piccoli foraminiferi.
Subordinatamente sono presenti frammenti subangolosi di selce (v. Fig.
7). La componente sabbiosa nelle sue frazioni più grossolane, comprende
Fig. 6. Veduta generale del campione, costituito da cristalli di quarzo,
feldspati, lamelle di mica ed abbondanti ossidi di ferro in un cemento
micritico (microfotografia in sezione
sottile, Nicol +; x 45).
Fig. 7. Strato di spessore irregolare,
piuttosto poroso, nel quale si individuano microcristalli di gesso, quarzo e calcite. Fra i granuli sabbiosi si
nota un microfossile isolato e un
frammento di selce (microfotografia
in sezione sottile, Nicol +; x 45).
328
Mottana, Massacci
elementi calcarei e selciosi del tipo sopra descritto, vi si nota anche un
frammento di quarzo policristallino di circa 2 mm; le frazioni più fini sono
composte da quarzo mono e policristallino, rari feldspati e numerosi granuli calcarei di vario tipo, tra cui i microfossili e frammenti organogeni. Il
legante appare omogeneo, moderatamente torbido e in quantità attorno al
30% da cui risulta un rapporto (in volume) inerte/legante =2,3 : 1.
Lo stato di conservazione dei conci in pietra arenaria e delle malte è
buono anche se sono presenti alcuni vuoti irregolari chiaramente originatisi per dissoluzione del legante da parte delle acque d’imbibizione.
5. Descrizione sintetica degli interventi di conservazione, tutela e valorizzazione
Il lavoro di restauro sarà inizialmente concentrato su alcuni tratti fondamentali del perimetro murario dove si è riscontrata la mancanza di malta
e di conci e un’accentuata presenza vegetativa cresciuta tra gli interstizi
dei giunti/malta, che sta provocando sgretolamenti e fessurazioni. In alcuni punti l’insediamento murario è privo di sistemi per lo smaltimento delle
acque e quindi sono state previste delle canalizzazione in prossimità dei
tratti murari per allontanare le acque piovane superficiali. Obiettivo principale della pulitura dei conci in pietra “arenaria” e delle malte sarà
l’asportazione delle microvegetazioni tramite biocida dato a spruzzo. La
rimozione della biomassa devitalizzata sarà effettuata con spazzole di saggina e successivo lavaggio con acqua deionizzata a bassa pressione per
ottenere un effetto emolliente dello sporco depositato e si prevederà
l’asportazione di tutte le porzioni non conservabili e dei giunti di malta
troppo degradati. Sulle aree dove i giunti presentano una condizione conservativa disomogenea sarà effettuato un lavoro di microstuccature, avendo già effettuato su di essi l’operazione di pulitura con malte dalla composizione simile all’esistente. In particolare si utilizzerà un impasto dove
l’inerte individuato rispecchi le caratteristiche degli inerti del maceratese
e quindi sarà impiegata una sabbia, prevalentemente silicatica, e un granulato artificiale (pietrisco) ottenuto per macinazione di rocce calcaree compatte, a condizione che entrambe siano state correttamente depurate del
materiale a grana inferiore a 0,06 mm. La sabbia dovrà avere una granulometria opportunamente distribuita nell’intervallo fra 0,08 e 2,0 mm; la
ghiaia (o il pietrisco) fra 2 e 15 mm. Per quanto concerne il legante, date
Conoscenza, progetto e tutela del complesso «Castello di Pitino»
329
le odierne condizioni ambientali, si prevede l’impiego di una calce moderatamente idraulica della quale siano stati garantiti i requisiti composizionali e di purezza chimica. I rapporti quantitativi ottimali espressi come
parti in volume dei tre componenti saranno ghiaia:sabbia:legante =
3,5:3,5:3,0.
Infine, si eseguirà il consolidamento delle superfici lapidee con applicazione a pennello del TEGOVAKON V. Per garantire la protezione dei
materiali si applicherà un apposito prodotto idrorepellente come il TEGOSIVIN HL 100 in quantità mediamente di 300 gr/mq.
Ulteriori interventi post-sismici saranno la ricostruzione degli immobili ridotti allo stato di rudere (v. Fig. 8) con tecniche e materiali conformi
all’originaria struttura. I lavori saranno articolati in più lotti e interesseranno ai fini degli aspetti architettonici la definizione dei materiali conformi
agli originari, con un intervento di restauro eseguito nel rispetto delle tecniche costruttive comuni alla zona interessata. Per i solai si provvederà alla
realizzazione di una struttura lignea portante con sovrastante manto in pianelle di recupero, mentre per la muratura si provvederà al ripristino dell’esistente con integrazioni ove necessario e riprese a cuci-scuci.
Fig. 8. Pianta topografica relativa al Borgo fortificato - Castello di Pitino.
330
Mottana, Massacci
Obiettivo fondamentale è quello di attuare un programma orientato non
solo alla conservazione del patrimonio culturale sanseverinate ma anche di
sviluppare attività culturali ed istituzionali attraverso un piano di interventi multisettoriale, un recupero ambientale dell’area circostante con la
messa a dimora di essenze autoctone e la realizzazione di un percorso
infrastrutturale di visita e di fruizione del contesto circostante. Per il conseguimento di tale finalità e per una adeguata trasmissibilità dei risultati
ottenuti, si ricorrerà a ricostruire il rapporto interrotto tra archeologia e
architettura, partendo dalla concretezza dei casi urbani visti nella loro singolarità sia sotto l’aspetto formale e tipologico-funzionale che costruttivo,
per giungere alla definizione delle migliori indicazioni operative attraverso la conservazione e la trasformazione compatibile degli edifici (v. Fig. 9
e 10). Si creerà una sorta di “cittadella museale” in appoggio ed ampliamento del circuito turistico riguardante il Parco archeologico di
“Septempeda” e il Museo Civico Archeologico di San Severino Marche
(MC). Sarà favorita la ricerca tecnica-scientifica tramite l’Accordo di
Collaborazione Quadro sottoscritto con l’Università degli Studi di
Fig. 9. Edificio collocato all’interno della
cinta muraria del fortilizio.
Fig. 10. Ex edificio di culto, sito all’interno dell’antico impianto castrense.
Conoscenza, progetto e tutela del complesso «Castello di Pitino»
331
RomaTre attraverso l’istituzione di Corsi di laurea, saranno altresì favoriti i processi di valorizzazione dell’area sotto il profilo culturale, archeologico, tecnologico, ambientale e produttivo, mediante lo sviluppo di una
nuova imprenditorialità giovanile al fine di creare le basi per uno sviluppo
socio-economico compatibile con il territorio sanseverinate.
BIBLIOGRAFIA
1.
2.
3.
G. Adani. (a cura di) Rocche, fortilizi, castelli in Emilia Romagna, Marche, saggio introduttivo R. Greci; testi G. Adani [et al.]; fotografie M. Mantovani, M.
Ravenna. Cinisello Balsamo: Pizzi, [1988].
G. Alessandrini et al. «Manufatti artistici in “pietra”: proposta per uno schema
metodologico di studio della degradazione e di controllo dei metodi di conservazione». In: Atti convegno restauro opere d’arte. Firenze, 2-7 novembre 1976.
Redazione A.M. Giusti. Firenze, Polistampa, 1981, vol. I, pp. 29-51.
M. Foschi. «I beni culturali ed il recupero edilizio in zona sismica». In: “Rischio
sismico e pianificazione nei centri storici”. A cura I. Cremonini. Firenze, 1994.
332
BIODETERIOGENI VEGETALI
DELLA CHIESA DI S. NICOLÒ L’ARENA (CATANIA)*
POLI MARCHESE E., GRILLO M., STAGNO F.
Sez. di Biologia ed Ecologia vegetale D.A.C.P.A. Università di Catania
via Valdisavoia, 5 (Catania). Tel. 095.234310, Fax. 095.234320,
[email protected], [email protected], [email protected] **
1. Introduzione
Le superfici lapidee esposte all’aperto offrono una grande varietà di
ambienti ad organismi e microrganismi, che ne determinano il deterioramento, diffondendosi ampiamente anche in condizioni ambientali avverse
(Accardo et al. 2003, Altieri 2003, Urzì et al. 2001). Fra tutti ruolo rilevante
assumono gli organismi vegetali (Giacobini 1983, Caneva et al. 1994 e 1996).
Sull’argomento sono state compiute diverse indagini, soprattutto negli ultimi anni, considerata la sempre crescente necessità di risolvere urgenti problemi di salvaguardia di considerevoli patrimoni artistici. In diversi Paesi sono
stati compiuti numerosi studi (cfr. Jain et al. 1993, Krumbein et al. 1991,
Mishra et al. 1995, ecc.), in Italia e in modo particolare in Sicilia le conoscenze in merito sono incomplete e frammentarie. Fra i vari studi finora compiuti
alcuni sono stati dedicati alla Sicilia occidentale (Mannino 1991, Dia & Not
1991, Lo Giudice et al. 1992, Not & Lo Campo 1995, Raimondo et al. 1995,
Aiello et al. 2003, ecc.), altri a quella orientale (Poli Marchese et al. 1990,
1997, 2001, Lo Giudice & Polizzi 1997, Caniglia & Grillo 2001,Grillo &
Stagno 2005, Stagno & Poli Marchese 2005, ecc.). Degli studi condotti nella
* Lavoro realizzato nell’ambito del progetto “Il recupero e la valorizzazione del patrimonio architettonico della Sicilia orientale: l’emerga architettonica urbana e l’edilizia
rurale. Conoscenza, interventi e formazione (T3 CLUSTER C29), finanziato dal
Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica”.
** Si ringraziano sentitamente il prof. Giuseppe Patti e il per. agr. Rosario E. Turriti
per la preziosa collaborazione prestata per la raccolta e rappresentazione dei dati di cui
alla figura 6.
Bioteriogeni vegetali della Chiesa di S. Nicolò L’Arena (Ct)
333
città di Catania alcuni sono stati ultimati (Poli Marchese et al. 1995, Poli
Marchese & Occhino 2002, Di Benedetto & Grillo 1995, Di Benedetto et al.
2000), altri sono in corso di attuazione. Da recente abbiamo preso in considerazione il complesso monumentale dei Benedettini anche nell’ambito del
C.R.I.Be.Cu.M. (Centro di ricerche sulle cause di degrado per il recupero dei
beni ambientali dell’Università di Catania) e in particolare in riferimento al
progetto MIUR: CLUSTER 29.
Il presente studio, che fa seguito a nostre precedenti indagini (Poli Marchese et al. 1995), è stato compiuto nell’ambito di tale progetto. Esso è dedicato alla chiesa del complesso monumentale S. Nicolò l’Arena ed ha come
obiettivo l’indagine sulla flora tracheofitica insediatasi sulle facciate del
monumento, con rilevazione della distribuzione nello spazio e nel tempo
della colonizzazione vegetale e con evidenziazione delle caratteristiche biologiche ed ecologiche delle specie colonizzatrici. Ciò al fine di trarre utili
indicazioni per interventi volti alla salvaguardia del monumento stesso.
2. Area di studio
L’intero complesso dei Benedettini, ubicato nel centro storico di
Catania, è uno dei più importanti monumenti del barocco catanese. È stato
edificato su un substrato polimorfo, costituito in parte da materiali detritici, in parte da lave antiche, per lo più non datate. La chiesa risulta essere
costituita prevalentemente da roccia calcarea che, essendo facilmente
degradabile, presenta sulla superficie visibili segni di deterioramento sotto
forma di crepe, fessure e scabrosità; queste, insieme alle superfici orizzontali dove si depositano terriccio e guano, costituiscono habitat idonei alla
vita degli organismi biodeteriogeni. Il clima, con cinque-sei mesi di siccità estiva, è di tipo termomediterraneo secco, con temperature medie annue
di 18,2 °C e precipitazioni medie annue di circa 600 mm.
3. Materiali e metodi
L’indagine, rivolta ai vegetali superiori (tracheofite), è stata condotta in
campo negli anni 1997-1998 e 2000-2002 con rilievi stagionali e osservazioni periodiche onde prelevare dati sulla biologia ed ecologia dei vegetali e sulla relativa localizzazione.
334
Poli Marchese, Grillo, Stagno
Per l’identificazione del materiale floristico raccolto si è fatto riferimento
alla “Flora d’Italia” di Pignatti (1982). Nei casi in cui non è stato possibile
raccogliere campioni si è proceduto con l’identificazione in situ della specie.
Della florula censita sono stati considerati spettro biologico e spettro
corologico. Per evidenziare il significato ecologico delle specie sono stati
considerati gli indici ecologici di Ellenberg (1974) modificati da Pignatti
(2005) relativi ai parametri di luminosità, temperatura, continentalità,
umidità, pH e nutrienti del suolo; il valore x indica comportamento indifferente per il fattore, il valore 0 comportamento non precisato. I valori
medi ottenuti sono stati utilizzati per costruire il relativo ecogramma
secondo la metodologia proposta dallo stesso Pignatti.
È stato inoltre considerata la pericolosità delle singole specie nella loro
azione biodeteriogena. A tal fine è stato calcolato l’Indice di Pericolosità
(I.P., Signorini 1996) basato su invasività, habitus e caratteristiche dell’apparato radicale delle singole specie e indicato con valori compresi tra 0 e
10; i valori più alti corrispondono ad indici di pericolosità più elevati (cfr.
Signorini 1996).
La distribuzione quali-quantitativa sulla facciata delle specie individuate è stata effettuata con l’ausilio di un automezzo dotato di apposito braccio di sollevamento, che ha consentito di rilevare da vicino anche i siti
posti nella porzione più alta della facciata. I dati raccolti sono stati riportati su apposite mappe.
4. Risultati
Dai risultati ottenuti si rileva una variabilità della colonizzazione vegetale nel corso del periodo considerato. La ricchezza in specie tracheofitiche è variata da un minimo di 15 entità, rilevate nel 1997-1998, ad un massimo di 43, nel 2002 (v. Tab. 1); si è avuto pertanto negli anni, un notevole incremento della ricchezza floristica. Tale incremento è dovuto soprattutto all’aumento di specie annue (terofite), a ciclo breve, particolarmente
adatte ad insediarsi sui substrati più poveri e capaci di reinsediarsi rapidamente in seguito ad interventi di diserbo. Detta pratica, operata con interventi di ripulitura, estirpazione manuale e taglio dei vegetali, ha certamente favorito il variare della colonizzazione.
Le variazioni stagionali sono soprattutto da attribuire al variare delle condizioni climatiche; queste favoriscono una maggiore ricchezza floristica in
Bioteriogeni vegetali della Chiesa di S. Nicolò L’Arena (Ct)
335
Valori bioindicazione
Forma
Biologica
I.P.
Corotipo
L
T
C
U
R
N
S
Acanthus mollis L.
H Scap
W-Stenomedit.
7
8
4
3
5
4
0
5
Ailanthus altissima (Miller) Swingle
P Scap
Avv. Naturalizz.
6
7
5
5
5
5
0
10
Amaranthus viridis L.
T Scap
Avv. Naturalizz.
Antirrhinum siculum Miller.
Ch Frut
Endem.
Arenaria leptoclados (Reichb.) Guss.
T Scap
Aster squamatus (Sprengel) Hieron
T Scap
Bromus madritensis L.
Campanula erinus L.
8
8
5
4
6
8
0
1
11
10
4
2
x
1
0
6
Paleotemp.
9
9
5
2
3
1
0
0
Avv. Naturalizz.
8
8
5
4
7
7
0
2
T Scap
Eurimed.
8
7
5
3
x
1
0
0
T Scap
Stenomedit
7
8
4
2
x
1
0
2
Capparis spinosa L.
Np (Sv)
Eurasiat.
9
10
5
2
5
1
1
6
Cheilantes pteridioides (Reichard) C. Chr.
H Ros
Stenomedit.Turan
8
8
4
1
3
1
0
1
Conyza bonariensis (L.) Cronq.
T Scap
Avv. Naturalizz.
8
8
5
3
x
7
0
4
Daucus carota L.
H Bienn
Paleotemp.
8
6
5
4
5
4
0
3
Ficus caricaL.
P Scap
Eurimedit. Turan.
7
8
6
x
5
x
0
10
Fumaria officinalis L.
T Scap
Paleotemp.
7
7
5
4
5
6
0
1
Geranium rotundifolium L.
T Scap
Paleotemp.
7
8
5
3
6
3
0
1
Inula viscosa(L.) Aiton
H Scap
Eurimedit.
11
8
5
3
7
9
0
5
Lobularia maritima (L.) Desv.
H Scap
Stenomedit.
8
9
4
2
x
1
0
4
Melilotus indica (L.) All.
T Scap
Eurimedit-Turan.
7
7
4
4
5
5
0
2
Melilotus segetalis (Brot.) Ser.
T Scap
S.-Stenomedit.
8
11
5
3
5
3
0
2
Nicotiana glauca Graham
Np (Sv)
Avv. Naturalizz.
8
11
4
2
5
1
0
7
Ornithopus compressus L.
T Scap
Eurimedit.
11
9
5
2
2
1
0
0
Oryzopsis miliacea (L.) Asch. et Schweinf.
H Caesp
Stenomedit.
5
7
4
4
7
5
0
3
Oxalis corniculata L.
Ch Rept
Eurimedit.
7
7
0
4
x
6
0
5
Oxalis pes-caprae L.
G Bulb
Avv. Naturalizz.
8
10
4
3
x
5
0
5
Parietaria diffusa M.et K.
H Scap
Eurimedit.Macaron.
7
8
5
3
x
6
0
5
Parietaria lusitanica L.
T Rept
Stenomedit.
7
10
4
3
4
6
0
2
Phagnalon saxatile (L.) Cass.
Ch Suffr
W-Stenomedit.
7
9
4
2
x
1
0
5
Phagnalon rupestre (L.) DC.
Ch Suffr
W-Stenomedit.
7
8
4
2
x
1
0
5
Plantago major L.
H Ros
Euriasiat.
8
x
x
5
x
7
0
1
Plantago psyllium L.
T Scap
Stenomedit.
11
6
4
3
7
2
0
2
Polygonum aviculare L.
T Rept
Cosmopol.
7
7
5
3
6
1
0
1
Tab. 1. Dati biologici, ecologici e corologici delle specie rilevate. Forma biologica: T
terofite, H emicriptofite, Ch camefite, G geofite, Np nanofanerorite, P fanerofite. Valori di
bioindicazione relativi a: L luce; T temperatura; C continentalità; U umidità; R pH; N
nutrienti; S salinità. I.P. indice di pericolosità: 0-3 specie poco pericolose; 4-6 mediamente pericolose; 7-10 molto pericolose. (segue a pag. successiva)
Poli Marchese, Grillo, Stagno
336
Valori bioindicazione
Forma
Biologica
I.P.
Corotipo
L
T
C
U
R
N
S
11
10
4
2
0
1
0
5
4
9
5
2
4
4
0
7
Prasium majus L.
Ch Frut
Stenomedit.
Rhamnus alaternus L.
P Caesp
Eurimedit
Reseda albaL.
T Scap
Stenomedit.
11
8
4
3
7
1
0
4
Silene nocturna L.
T Scap
S-Stenomedit.
7
8
5
3
5
3
0
1
Sisymbrium officinalis (L.) Scop.
T Scap
Paleotemp.
1
1
1
0
6
1
0
4
Solanum luteum Miller
T Scap
Eurimedit.
7
6
5
3
5
7
0
1
Solanum nigrum L.
T Scap
Cosmopol.
7
6
5
3
5
7
0
1
Sonchus asper (L.) Hill
T Scap
Eurasiat.
7
5
6
4
7
7
0
4
Sonchus oleraceus L.
T Scap
Eurasiat.
7
5
6
4
8
8
0
4
Stellaria media (L.) Vill.
T Rept
Cosmopol.
6
x
x
4
7
8
0
2
Urtica membranacea Poiret
T Scap
S-Stenomedit.
7
8
5
3
6
3
0
1
Verbena officinalis L.
H Scap
Paleotemp.
9
5
5
4
x
6
0
4
Tab. 1. Dati biologici, ecologici e corologici delle specie rilevate. Forma biologica: T
terofite, H emicriptofite, Ch camefite, G geofite, Np nanofanerorite, P fanerofite. Valori di
bioindicazione relativi a: L luce; T temperatura; C continentalità; U umidità; R pH; N
nutrienti; S salinità. I.P. indice di pericolosità: 0-3 specie poco pericolose; 4-6 mediamente pericolose; 7-10 molto pericolose.
primavera, stagione adatta alla vita delle terofite, determinando una riduzione della colonizzazione vegetale in estate, stagione calda e secca (v. Fig.1).
Circa le caratteristiche biologiche delle specie censite si rileva che per la
maggior parte (per il 53%) esse sono costituite da terofite, cioè da specie
annuali, per il 21% da emicriptofite e per il 12% da camefite; le altre forme
biologiche sono rappresentate con bassi valori (v. Fig. 2). La prevalenza
delle terofite è da correlare oltre che con le particolari condizioni edafo-climatiche a cui sono sottoposte le piante che vivono sui monumenti, anche
con la provenienza delle medesime, prevalentemente dalla flora urbica cir-
Fig. 1. Andamento stagionale della colonizzazione ( %) :a-i autunno-inverno; p primavera; e estate.
Bioteriogeni vegetali della Chiesa di S. Nicolò L’Arena (Ct)
337
costante (Raimondo et al. 1995). Ciò viene confermato dal fatto che buona
parte delle specie biodeteriogene sono elementi della vegetazione nitrofiloruderale dei Brometalia rubenti-tectori, ampiamente diffusa in ambiente
urbano e ricca in terofite. Ben rappresentate sono anche alcune specie perennanti fra cui Antirrhinum siculum, Capparis spinosa e Parietaria diffusa,
localizzate soprattutto sulle superfici verticali e nelle fessure tra i lastroni di
roccia calcarea della facciata della chiesa. Sulle superfici orizzontali più o
meno aggettanti, ove si verifica più facilmente accumulo di terriccio, polveri e guano di uccelli, si rinvengono, accanto a specie a ciclo breve come
Sonchus oleraceus, Reseda alba, Solanum nigrum, entità perennanti come
Lobularia maritima e Ailanthus altissima, quest’ultima a carattere arboreo.
In riferimento alla corologia si rileva (v. Fig. 3) che i biodeteriogeni
individuati sono costituiti per il 54 % da specie mediterranee fra cui il
gruppo delle specie Stenomediterranee (33%) è il più abbondante; ciò,
insieme alla prevalenza delle terofite, è conforme alle caratteristiche del
clima caldo e secco tipico della regione mediterranea. L’alta percentuale
(21%) di “elementi multizonali” (avventizie naturalizzate e cosmopolite)
è indice della presenza di attività antropiche nell’area, che favoriscono
l’insediarsi di elementi della vegetazione sinantropica, ad ampia distribuzione (cfr. Goede 1982, Sukopp 1987).
Le principali caratteristiche ecologiche delle specie, considerate nel
loro insieme, sono rilevabili dal grafico della figura 4, ottenuto sulla base
degli indici ecologici (Ellenberg 1974, Pignatti 2005) riportati nella tabella 1. Da tale grafico si evidenzia che le specie riscontrate presentano il loro
optimum ecologico in ambienti luminosi e caldi, essendo prevalentemente eliofile (valore medio di L=6) e termofile (valore medio di T=6). Esse
Fig. 2. Spettro biologico (cfr. Tab.1).
Fig. 3. Spettro corologico (cfr. Tab.1).
338
Poli Marchese, Grillo, Stagno
sono inoltre per la maggior parte indicatrici di suoli prevalentemente poveri di nutrienti ( valore medio di N= 3).
Si tratta di specie capaci di insediarsi su tutti i tipi di substrati presenti: pietra calcarea, malte cementizie, terriccio e guano. Questi ultimi due
substrati, più sciolti, ospitano un maggior numero di specie, con prevalenza di emicriptofite e in minor misura di terofite, mentre substrati come la
malta tra i lastroni di calcare o i lastroni di calcare sono scarsamente colonizzati. Il processo di colonizzazione biologica è strettamente collegato
con lo stato di conservazione delle superfici litiche, in generale sono totalmente colonizzati i siti più usurati e meno quelli più integri, di solito interessati dalla colonizzazione fino a non oltre il 40%. Nel caso in specie lo
stato di conservazione dei siti risulta essere alquanto critico per la presenza di numerose crepe e fessure, che consentono una più facile colonizzazione e una maggiore crescita delle piante. Detto stato di conservazione
influenza i meccanismi di alterazione biologica messi in atto dai vari organismi dipendenti a loro volta, oltre che dalle caratteristiche biologiche ed
ecologiche delle specie colonizzatrici, anche dal tipo di substrato e dalle
condizioni ambientali a cui il monumento è sottoposto.
Applicando gli indici di pericolosità (I.P.) definiti da Signorini (1996) si
rileva (v. Tab.1 e Fig. 5) che la maggior parte dei biodeteriogeni rilevati appartiene alle categorie delle piante “poco pericolose” (51%) e “mediamente pericolose” (39%). Le specie “altamente pericolose”, pur essendo rappresentate
con bassa percentuale (10%), sono da considerare con particolare attenzione
Fig. 4. Ecogramma (cfr. Tab.1).
Fig. 5. Indice di Pericolosità (cfr. Tab.1)
Bioteriogeni vegetali della Chiesa di S. Nicolò L’Arena (Ct)
339
in quanto, essendo costituite spesso da elementi ad habitus arboreo o arbustivo, con radici a fittone, sono capaci di penetrare tra le fessure dei lastroni calcarei e di espandersi esercitando una notevole azione meccanica con disgregazione e fessurazione del substrato (cfr. Caneva & Roccardi 1991).
Inoltre esse sono rappresentate ciascuna da numerosi individui che si insediano isolatamente tra i lastroni in pietra e tra le crepe ove possono essere
causa di danni notevoli, comportando spesso problemi per la stabilità di parti
della facciata. Fra le più frequenti sono da ricordare Ficus carica e Ailanthus
altissima, specie arboree aventi robuste radici. Le specie poco o mediamente
pericolose possono risultare dannose se presenti in colonie o in popolamenti,
come spesso si verifica nei piani aggettanti. Qui la presenza di numerosi apparati radicali, con la relativa azione chimica e meccanica sulle superfici litiche
e il continuo accumulo di materiale organico ed inorganico contribuiscono a
facilitare e accelerare il deterioramento dei siti.
Osservando nel suo complesso il monumento e in particolare la facciata principale (v. Fig. 6), se ne rileva la densa colonizzazione. La frequenza delle singole specie sulla facciata è risultata elevata con un massimo di
circa 200 siti puntiformi colonizzati. Si tratta di una colonizzazione più
densa rispetto a quella rilevata in precedenza da Poli Marchese & Occhino
(2002) che hanno individuato 134 siti, di cui 118 sulla facciata principale.
Dei 200 siti rilevati la maggior parte è colonizzata da emicriptofite e terofite, forme biologiche che, come già evidenziato, si sono rivelate le più
idonee alla colonizzazione. Osservando attentamente la localizzazione dei
siti si rileva che essi sono maggiormente addensati nelle parti basse e nell’intero lato sinistro della facciata. Ciò, notato anche in precedenza (cfr.
Poli Marchese & Occhino l.c.), pare si possa mettere in relazione con la
presenza o meno di alberature negli spazi circostanti.
5. Considerazioni conclusive
I risultati conseguiti hanno consentito di pervenire ad una serie di conoscenze sul popolamento vegetale che si insedia sulla facciata della chiesa e
quindi sugli organismi responsabili del biodeterioramento. I dati acquisiti
sulla florula tracheofitica rinvenuta (43 entità), soprattutto in riferimento alle
variazioni quali-quantitative della stessa negli anni e nelle stagioni, hanno consentito di evidenziare la precarietà della colonizzazione vegetale del monumento, soggetta a continui cambiamenti.
340
Poli Marchese, Grillo, Stagno
Le conoscenze sul diversificarsi delle specie per forma biologica, corologia e caratteristiche ecologiche, sul diverso comportamento delle stesse
in riferimento sia all’azione biodeteriogena esercitata sia alla pericolosità
potenziale nei confronti dei siti colonizzati, consentono di disporre di elementi utili per la scelta degli interventi volti alla manutenzione e alla salvaguardia del monumento stesso.
Fig. 6. Principali specie vegetali rilevate nell’anno 2002.
Bioteriogeni vegetali della Chiesa di S. Nicolò L’Arena (Ct)
341
La localizzazione dei numerosi siti colonizzati consente di conoscere la
frequenza della colonizzazione delle singole specie e quindi di poter scegliere i mezzi di rimozione più idonei in funzione, oltre che della forma biologica e dell’habitus, anche delle superfici da ciascuna specie occupate.
Pertanto, onde poter meglio controllare l’azione biodeteriogena delle specie colonizzatrici, sarà necessario compiere rilievi periodici per un attento
monitoraggio del biodegrado del monumento. Ulteriori accurate indagini
sugli aspetti biologici ed ecologici delle varie specie, sulle loro capacità di
espansione nonché sulle relazioni delle singole entità con i fattori ambientali
e con il substrato, potranno fornire utili indicazioni per un adeguato controllo
del processo del biodeterioramento.
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COLONIZZAZIONE VEGETALE IN MONUMENTI E SITI ARCHEOLOGICI
DELLA SICILIA ORIENTALE
POLI MARCHESE E., GRILLO M., STAGNO F.
Sez. di Biologia ed Ecologia vegetale D.A.C.P.A. Università di Catania
e-mail: [email protected]; [email protected]; [email protected]
L’esigenza della salvaguardia del patrimonio artistico ha spinto a rivolgere una sempre maggiore attenzione verso gli organismi biodeteriogeni,
agenti fra i più rilevanti del deterioramento delle opere d’arte, dei monumenti in particolare (Caneva et al. 1996, Giacobini 1983).
Allo scopo di poter disporre di conoscenze in merito sono state condotte da diversi anni indagini in vari siti della Sicilia orientale localizzati
rispettivamente a: Taormina (Stagno & Poli Marchese 2005), Nicolosi
(Poli Marchese et al. 1990), Catania (Poli Marchese et al. 1995, Poli
Marchese & Occhino 2002, Di Benedetto & Grillo 1995, Di Benedetto et
al.2000), Acireale (Stagno 2001), Adrano (Grillo & Stagno 2005), Megara
Iblea (Caniglia & Grillo 2001, Poli Marchese et al. 2002), Donnafugata
(Grillo et al. 2001), Ragusa Ibla (Poli Marchese et al. 2001). Alcune di tali
ricerche sono state condotte nell’ambito di programmi del Cri.Be.CuM
(Centro di ricerche sulle cause di degrado per il recupero dei beni ambientali e monumentali dell’Università di Catania).
Le ricerche sono state dedicate alla conoscenza degli agenti biologici
(individui e/o comunità) responsabili del biodeterioramento, prendendo in
considerazione i vegetali superiori (tracheofite) e spesso anche i licheni.
Alcune indagini sono state condotte sui fattori che influenzano l’insediamento e la diffusione dei biodeteriogeni, sui fattori ambientali e microambientali e sulle caratteristiche dei siti.
In questa nota vengono riportati i risultati riguardanti alcuni dei siti
indagati, oggetto di comunicazioni scientifiche a congressi e incontri ufficiali. Dai risultati degli studi qui riportati, si rileva che sui monumenti la
colonizzazione dei vari siti si attua con una presenza di specie variabile
che è compresa tra 60 (Taormina) e 160 entità (Ragusa Ibla). Tale diversi-
Bioteriogeni vegetali della Chiesa di S. Nicolò L’Arena (Ct)
345
tà è da collegare oltre che alla variabilità delle condizioni microclimatiche
e microedafiche dei siti anche alla diversa manutenzione dei monumenti
stessi e al loro stato di conservazione.
Circa il comportamento ecologico delle specie si rileva che in tutti i siti
prevalgono le specie termofile e xerofile a ciclo breve (terofite); sulla base
degli indici ecologici di Ellenberg (1974, 1979) ampliati da Pignatti, si
rileva che nei vari siti è ampiamente rappresentato il contingente di specie
aventi un optimum ecologico per ambienti con elevata luminosità, termicità e xericità. Ciò è conforme, oltre che alla localizzazione dei siti, alle
specifiche condizioni ambientali e microambientali che i monumenti
offrono ai vegetali. Attraverso l’indice di pericolosità (I.P., Signorini 1996)
è stato evidenziato che le specie della categoria delle fanerofite e nanofanerofite, anche se meno rappresentate, risultano le più pericolose e pertanto necessitano un continuo monitoraggio per idonei interventi.
Lo studio della colonizzazione vegetale dei siti archeologici ha consentito di pervenire a conoscenze oltre che sulla flora anche sulla vegetazione dell’area su cui sorge il sito. Ne è un esempio lo studio condotto a Megara Iblea
qui riportato. I risultati ottenuti: ricchezza floristica (oltre 90 specie tracheofitiche e 51 licheniche), caratteristiche ecologiche delle varie entità (indici
ecologici), diversità della vegetazione consentono di fornire elementi per
interventi volti ad un restauro ambientale dell’intero sito.
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I materiali lapidei utilizzati nei monumenti del centro storico di Catania
347
I MATERIALI LAPIDEI UTILIZZATI NEI MONUMENTI
D’EPOCA TARDO BAROCCA DEL CENTRO STORICO DI CATANIA:
CARATTERIZZAZIONE E STATO DI DEGRADO
PUNTURO R.(1), RUSSO L.G.(1), LO GIUDICE A. (1), MAZZOLENI P. (1),
PEZZINO A.(1), TROVATO C. (2), VINCIGUERRA S.(3)
Dipartimento di Scienze Geologiche, Corso Italia 55, I-95129 Catania
Dipartimento di Fisica e Astronomia, Via S. Sofia 64, I-95123 Catania
(3) Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Via di Vigna Murata 605, 00143 Roma
(1)
(2)
1. Introduzione
Nelle città della Val di Noto come Siracusa, Avola, Noto, Palazzolo
Acreide e Catania (UNESCO World Heritage List: “Late Baroque Towns
of the Val di Noto) esiste un forte legame tra materiali lapidei da costruzione e territorio. In particolare l’architettura tardo barocca di tali città è
profondamente influenzata dalla presenza della “Pietra bianca di
Siracusa” e/o della “Pietra Nigra”. La “Pietra bianca di Siracusa” rappresenta un’insieme di rocce di natura carbonatica affioranti nei Monti
Iblei, mentre la Pietra Nigra è una vulcanite etnea.
Il centro storico della città di Catania, è il luogo ideale per lo studio di questi materiali qui infatti, rispetto alle altre città della Val di Noto, si trovano
ampiamente utilizzate sia la “Pietra di Siracusa” che la “Pietra Nigra”.
La città di Catania ha avuto nei tempi una storia complessa e travagliata che ne ha cambiato più volte l’aspetto. Osservando oggi il suo centro
storico si direbbe che è una città settecentesca, ma in realtà, la città ha una
storia molto più antica come testimoniato dalla presenza di resti di edifici
monumentali d’epoca greca e romana che emergono dalle colate laviche
che hanno più volte investito la città (l’ultima volta nel 1669). L’ultimo
evento catastrofico che colpì Catania, distruggendola quasi completamente, fu il terremoto del 1963. Dopo tale evento ebbe inizio la ricostruzione,
sotto la guida di grandi architetti come il Vaccarini, che contribuirono, con
la scelta sapiente dei materiali a comporre la raffinata bicromia bianconera, data dall’accostamento della “Pietra bianca di Siracusa” e della
348
Punturo, Russo, Lo Giudice, Mazzoleni, Pezzino, Trovato, Vinciguerra
Formazione
Litotipo o Lithofacies
Età
Calcareniti bianco crema
Serravaliano - Tortoniano.
Palazzolo
Calcareniti giallastre
Calcari a lumachella
Monte Carrubba
Tortoniano sup.
Messiniano
Calcari oolitici
Calcareniti di Melilli
Monti Climiti
Oligocene med. Tortoniano
Calcari di Siracusa
Tab. 1. Rocce carbonatiche utilizzate come materiale da costruzione.
“Pietra Nigra”, che costituisce una delle caratteristiche più evidenti dell’architettura settecentesca catanese.
In particolare, in questo lavoro, l’attenzione è stata focalizzata sulla
Pietra bianca di Siracusa. È stata quindi eseguita la caratterizzazione petrografica e geochimica, e lo studio delle caratteristiche del degrado delle
diverse litologie afferenti alla pietra bianca di Siracusa presenti nelle facciate d’alcuni monumenti d’età tardo barocca rappresentativi del centro
storico di Catania: Monastero dei Benedettini, Palazzo Tezzano, Chiesa di
S. Agata La Vetere e Chiesa di S. Nicolò L’Arena.
2. Materiali e metodi
La “pietra bianca di Siracusa” ampiamente utilizzata nei monumenti
del centro storico di Catania comprende un insieme di litotipi sedimentari di natura carbonatica coltivati nel bacino estrattivo della Provincia di
Siracusa. Tali rocce affioranti nel Plateau Ibleo, sebbene molto simili dal
punto di vista cromatico appartengono a formazioni geologiche e di conseguenza presentano caratteri tessiturali e compositivi diversi (v. Tab.1).
La produzione di tali calcari, in provincia di Siracusa, avveniva nelle
cave storiche di Capo S. Croce, Melilli, Siracusa, Ortigia, Penisola della
Maddalena, Cassibile, Capo Ognina, Cassibile e Noto [1]. La pietra che
veniva cavata nelle due cave storiche ubicate sotto l’abitato del paese di
I materiali lapidei utilizzati nei monumenti del centro storico di Catania
349
Melilli è un calcare oligo-miocenico appartenente alla formazione dei
Monti Climiti, che si presenta in due varietà: una di colore bianco gessoso a granulometra ruditica fine, e un’altra di colore variabile dal bianco al
crema a granulometria calcarenitica fine.
Dalle cave di Capo S. Croce, Siracusa, Ortigia e da quelle della Penisola della Maddalena veniva estratto un calcare bianco di età miocenica
a grana fine, tenero e facilmente lavorabile appena cavato. Tale calcare è
geologicamente ascrivibile alla formazione Monte Carrubba di età
Tortoniano superiore Messiniano inferiore. Nelle cave nei pressi di Noto
veniva estratta la Pietra di Noto, un altro calcare di colore variabile dal
bianco crema al giallastro, a grana fine tenero e facilmente lavorabile.
Come si può osservare dallo schema riportato in Fig. 1 la coltivazione
della Pietra di Siracusa era localizzata lungo la costa del siracusano e insisteva su unità litostratigrafiche differenti.
Il campionamento dei materiali in opera è stato preceduto da un rilievo
litologico che ha permesso l’identificazione dei litotipi e la realizzazione
di mappe tematiche per tutti i monumenti in studio. I campioni da analiz-
Fig. 1. Schema geologico dell’area Iblea e siti d’estrazione (Sicilia Sud Orientale).
350
Punturo, Russo, Lo Giudice, Mazzoleni, Pezzino, Trovato, Vinciguerra
zare sono stati prelevati dalle facciate dei monumenti, dove possibile, e
dalle antiche cave storiche segnalate in letteratura. Tutti i campioni prelevati sono stati sottoposti ad analisi petrografica in sezione sottile mediante microscopio polarizzatore e ad analisi geochimiche degli elementi maggiori (Spettrometro XRF Philips PW2404) ed in traccia (SF-ICP-MS;
Element 2, ThermoFinningan). Per lo studio del comportamento al degrado è stata eseguita la prova UNI EN 12370 [2] per la determinazione della
resistenza alla cristallizzazione dei sali (Na2SO4 . 10H2O).
3. Analisi dei materiali lapidei: risultati e discussione
3.1 Analisi autoptica e rilievo litologico
I monumenti del centro storico di Catania scelti per questo studio sono
stati selezionati in base di diversi criteri quali: la rappresentatività in termini
di varietà di materiali lapidei utilizzati, l’importanza storico artistica e il
periodo di costruzione. I monumenti studiati sono: il Palazzo Tezzano (v.
Fig.2a) costruito nel 1724; la chiesa di S. Agata la Vetere (v. Fig. 2b) costruita nel III secolo D.C, distrutta in seguito al terremoto del 1693 e ricostruita
nel diciottesimo secolo [3]; la chiesa di S. Nicolò l’Arena che fa parte del
complesso del Monastero dei Benedettini (v. Fig. 2c e 2d), entrambi ricostruiti per due volte: dopo il 1669 in seguito alla colata lavica che seppellì l’antica chiesa e parte del monastero e dopo il 1693 in seguito al terremoto [4].
L’analisi autoptica condotta sui monumenti, supportata da adeguata
bibliografia [5-6] ha portato alla distinzione di sei litotipi carbonatici (tab.
1), differenti tra loro per età (compresa tra l’Oligo-Miocene ed il Pleistocene), e caratteristiche tessiturali. I risultati ottenuti da tale indagine sono
illustrati nei seguenti rilievi litologici.
3.2 Descrizione petrografica
Tutti i campioni sono stati sottoposti ad analisi petrografica integrata
con l’analisi modale per l’individuazione dei seguenti componenti: abbondanza relativa e differenti tipi di allochimici; tipo e percentuale di matrice
e/o cemento; tessitura deposizionale e diagenetica. Sono state riconosciute sei tipologie di calcari appartenenti a diverse formazioni geologiche:
– Calcareniti bianco crema e calcareniti giallastre - F.ne Palazzolo (Serravaliano-Tortoniano).
I materiali lapidei utilizzati nei monumenti del centro storico di Catania
Fig. 2. Rilievi litologici dei monumenti.
351
352
Punturo, Russo, Lo Giudice, Mazzoleni, Pezzino, Trovato, Vinciguerra
Ambedue i litotipi sono dei bioclastic wackestone con microfauna costituita principalmente da foraminiferi di tipo planctonico. La granulometria
è variabile da calcarenite finissima (calcareniti bianco crema) a calcarenite media (calcareniti giallastre). La composizione della matrice è costituita da micrite e cemento microsparitico in proporzioni variabili.
– Calcari a lumachella e calcari oolitici - F.ne Monte Carrubba (Messiniano inferiore);
I calcari a lumachella presentano al microscopio una tessitura fango sostenuta e una componente allochimica costituita per lo più da gusci di
molluschi. La matrice è costituita principalmente da micrite. Tale litotipo
secondo Dunham [7] è un bioclastic wackestone. I calcari oolitici sono
caratterizzati da una tessitura grano sostenuta e da una componente allochimica costituita da ooliti. La granulometria è arenitica e la matrice è
costituita da cemento spatico. Secondo la classificazione di Dunham [7]
tale litotipo è un grainstone.
– Calcari di Siracusa e calcareniti di Melilli – F.ne dei Monti Climiti
(Burdigaliano-Tortoniano).
I Calcari di Siracusa sono caratterizzati da: una struttura grano sostenuta; una
componente allochimica costituita da bioclasti (foraminiferi bentonici e planctonici, alghe coralligene); una matrice costituita da sparite neomorfica e da
micrite in proporzioni variabili. Le calcareniti di Melilli presentano una struttura di tipo fango sostenuta, una componente allochimica caratterizzata dalla
presenza di foraminiferi di tipo planctonico e bentonico, e da alghe coralligene. La matrice è costituita principalmente da sparite neomorfica (v. Fig. 3).
a
b
Fig. 3. Microfotografie di alcuni litotipi studiati: a) Calcare oolitico; b) Calcare di
Siracusa.
I materiali lapidei utilizzati nei monumenti del centro storico di Catania
353
3.3 Analisi Geochimiche
La caratterizzazione geochimica dei litotipi studiati è stata effettuata
mediante l’analisi degli elementi legati alla frazione detritica e di quelli
presenti nella componente carbonatica (CaO, Sr, Mn e Zn). Le rocce delle
tre formazioni geologiche mostrano contenuti in Sr diversi; in particolare
le calcareniti della f.ne Palazzolo mostrano i valori medi compresi tra
1282 ppm (calcareniti giallastre) e 1157 ppm (calcareniti bianco crema), i
calcari della F.ne Monte Carrubba hanno valori medi del contenuto in Sr
compresi tra 812 ppm (calcari oolitici) e 462 ppm (calcari a lumachella),
mentre per i calcari della F.ne dei monti Climiti i tenori medi in Sr si attestano intorno a 256 ppm (v. Fig. 4).
3.4 Studio dei processi di degrado
sr (ppm)
Per lo studio dei processi di degrado di tipo fisico è stato eseguito il test
di resistenza all’invecchiamento mediante cristallizzazione dei sali
(EN12370) al fine studiare il comportamento al degrado e le conseguenti
morfologie di alterazione generatesi durante il test.
Dai risultati del test (v. Tab. 2), si è constatato che le tipologie di materiale in studio sono abbastanza sensibili al degrado indotto dalla cristallizzazione dei sali (Na2SO4 . 10H2O). In particolare, i litotipi più resistenti sono i
Fig. 4. Diagramma di variazione vs SrAl2O3 per i litotipi in studio.
Punturo, Russo, Lo Giudice, Mazzoleni, Pezzino, Trovato, Vinciguerra
354
calcari oolitici della F.ne Monte Carrubba, mentre le calcareniti della F.ne
Palazzolo hanno mostrato le più consistenti perdite di materiale. Le forme
di alterazione dominanti sono: l’alterazione differenziale nelle calcareniti
bianco crema e nel calcare di Siracusa, l’alveolinizzazione nelle calcareniti
giallastre e la scagliatura nelle calcareniti di Melilli. Infine i test di cristallizzazione dei sali, eseguiti su tutte le tipologie di calcare, hanno messo in
evidenza un differente comportamento in termini di durabilità dei diversi
litotipi. In particolare, la migliore risposta al degrado è quella mostrata dei
calcari oolitici della F.ne Monte Carrubba. Infatti, la tessitura di tipo grain
supported insieme alla presenza di una matrice costituita da cemento spatico conferisce a questo litotipo un ottima resistenza al degrado dovuto alla
cristallizzazione dei sali. Inoltre confrontando le forme d’alterazione presenti sui monumenti con quelle sviluppatesi durante il test di cristallizzazione (v. Fig. 5 e 6) è stato osservato che il degrado prodotto artificialmente in
laboratorio sviluppa forme molto simili a quelle osservate in situ, il che
F.ne
Palazzolo
Litotipi
Calcareniti
bianco
crema
EN 12370
Am
36,18%
Calcareniti
giallastre
Monte
Carrubba
Monti
Climiti
Calcari
oolitici
Calcari a
lumachella
Fig. 5. Calcare a lumachella: confronto tra le
4,66% forme di alterazione sviluppatesi in laboratorio e
quelle presenti nei monumenti.
15,55
Calcari di
Siracusa
18,91%
Calcareniti
di Melilli
17,61%
Tab. 2. Perdita di massa dei litotipi Fig. 6. Calcarenite giallastra: confronto tra le
al termine della prova di cristalliz- forme di alterazione sviluppatesi in laboratorio e
quelle presenti nei monumenti.
zazione dei sali (XV cicli)
I materiali lapidei utilizzati nei monumenti del centro storico di Catania
355
porta a concludere che il principale meccanismo di degrado dei calcari iblei
è legato al fenomeno della cristallizzazione dei sali.
3.5 Analisi petrofisica
vp [km/s]
Un aspetto fondamentale per la valutazione della stabilità dei materiali
lapidei riguarda il comportamento meccanico degli stessi e la tendenza
alla fratturazione per azione meteorica, che determina un indebolimento
nel tempo, favorendo la formazione di piani preferenziali di instabilità e
crolli. Sulle calcareniti di Melilli, sono state effettuate analisi petrofisiche,
quali la misura della velocità delle onde elastiche compressionali (Vp),
volte all’identificazione di presenza di sistemi di microfratture ed eventuale orientazioni preferenziali (anisotropia). È quindi stata determinata la
porosità ed il comportamento sismico dei materiali in presenza di fluidi.
Per generare e ricevere le onde P è stata utilizzata una coppia di trasduttori di ceramica piezoelettrici (PZT), che convertono il segnale elettrico in
meccanico e viceversa con frequenza di risonanza di 1MHz. Ai fini di analizzare la presenza di anisotropia sismica, le misure sono state effettuate
secondo tre direzioni mutuamente ortogonali, sia in assenza di fluidi che
in condizioni di saturazione. La porosità connessa è stata stimata (~ 20%)
dopo aver rimosso l’umidità interstiziale sotto vuoto e aver pesato due
volte la roccia, in assenza di fluido e in condizioni di saturazione.
La velocità delle onde compressionali P varia tra i 3.2 e 3.4km/s (errori sperimentali ~2-3%) (v. Fig. 7). Non si riscontrano variazioni significa-
Fig. 7. Vp misurata per diversi blocchi di calcareniti di Melilli sia in condizioni di assenza di fluidi che sature, secondo le 3 direzioni.
356
Punturo, Russo, Lo Giudice, Mazzoleni, Pezzino, Trovato, Vinciguerra
tive sia durante la misura in assenza di fluidi che in condizioni di saturazione. Questo comportamento è ascrivibile all’elevata porosità (~20%) ed
all’assenza di campi di microfratture nella matrice. Come conseguenza
non si riscontra un aumento di velocità come in rocce più compatte e meno
porose, dove le fratture saturate da fluidi migliorano la trasmissività’.
Inoltre, i calcari studiati presentano caratteri isotropi (anisotropia < 3%)
che denotano l’assenza di campi di microfratture orientati o di tessiture
orientate. Ci si propone, in futuro, di effettuare le indagini anche sulle altre
tipologie di rocce carbonatiche utlilizzate nei monumenti.
BIBLIOGRAFIA
1.
2.
3.
4.
5.
F. Rodolico. Le pietre delle città d’Italia. Le Monnier. Firenze, 1952.
UNI EN 12370, Determination of resistance to crystallisation of salts, p. 6.
S. Barbera. Recuperare Catania, Gangemi Edt, 1995, Rome, Italy.
G. Gaudioso. «L’Abbazia di S. Nicolò L’Arena di Catania». Archivio Storico per
la Sicilia Orientale 2, 1929, pp. 227-243.
S. Carbone, M. Grasso, F. Lentini, «Considerazioni sull’evoluzione geodinamica
della Sicilia sud-orientale dal Cretaceo al Quaternario».
357
DISEGNO E PITTURA NELLA FISIOGNOMICA DEL SEICENTO
IN SICILIA: MARIO MINNITI E FILIPPO PALADINI
ROMANO M.
Accademia di Belle Arti “Val di Noto”
Nei trattati di Leonardo da Vinci si intravedono le prime indicazioni a uso
degli artisti nel come rappresentare l’efficacia delle emozioni umane, sacre e
profane. Nel suo Libro di Pittura si legge: “…quell’anima che regge e governa ciascun corpo si è quella che fa il nostro giudizio innanzi sia il proprio
giudizio nostro”.
Nella Testa d’uomo urlante, sempre Leonardo denuncia il suo costante
interesse per la fisionomia umana,un attento studio della veridicità,un giusto
equilibrio tra follia psicologica e fisiognomica, una variazione dinamica delle
forme e i suoi corrispondenti “moti dell’anima”.
Quindi, nella teoria artistica del maturo e tardo rinascimento manierista il
concetto e la pratica del disegno assumono un certo fondamento dell’arte
come discorso mentale, come strumento di indagine della natura umana, e
secondo il Vasari, è fondamentale far procedere il disegno dall’intelletto, idea
e forma delle cose.
Il disegno, da Michelangelo in poi, rievoca nella riforma della Maniera
tosco-romana una pratica sperimentale e di bottega di ogni singolo artista,
che secondo l’abate Lanzi, dopo il Sacco di Roma, “…pochi han merito nel
colore, molti nel disegno; pochi vanno immuni del tutto dal Manierismo…”.
Da questa regola, di fare buon uso del disegno, sia in forma autonoma o
come fase preparatoria ai grandi dipinti o pale d’altare, nasce un dialogo di
analogie fisiognomiche tra la produzione iconografica del toscano Filippo
Paladini (Casi, Val di Sieve, Firenze, 1544–Mazzarino o Palermo 1614) e il
siracusano Mario Minniti (Siracusa, 1577–1640). Questa attenta analisi tra i
due artisti si sviluppa grazie alla presenza in Sicilia, alla fine del
Cinquecento, dell’artista toscano che sicuramente introdusse nell’isola, dopo
una prima esperienza a Malta, un corpus di disegni (oggi,ospitati in due taccuini presso la Galleria Regionale di Palazzo Bellomo a Siracusa).
358
Romano
Questi disegni, quasi trecento, mostrano un attento studio preparatorio alle
grandi pale siciliane dello stesso Paladini e suscitano un certo interesse per
un’analisi comparata alle opere del Minniti. Il corpus di disegni paladineschi
documentano la lezione dei grandi maestri toscani: il Cigoli, l’Empoli e di
quell’Accademia fiorentina del Disegno, alla quale era iscritto dal 1578 lo
stesso Paladini. Da questi disegni si evince l’ideazione completa e suggestiva della ricostruzione plastica di un drappeggio, lo studio analitico e accurato di una mano, di un volto e di un gesto nello loro diversificazioni luministiche, dalla sanguigna, alla matita o dalle lumeggiature a biacca.
Da un attento studio condotto da Cesare Brandi, l’iter progettuale e artistico del Paladini si concentra agli inizi della sua attività nella scuola della
Maniera di Andrea del Sarto,dove si evidenzia un certo patetismo sorretto da
una forza costruttiva del disegno e da una monumentalità di carattere naturalistico. Ma è l’influenza di Federico Barocci a ridare all’opera di del Paladini
una sicura poetica degli affetti, dove l’ingegno iconografico, apparentemente
semplice, si riavviva attraverso un attento studio dei personaggi, una posa, un
gesto o la semplice inclinazione di un volto segnano quella forte e intima teatralità di un messaggio devozionale controriformato.
Un accademico gesto di pura devozione, la pietas di una vergine che
incrocia le mani al petto, opera fiorentina di Jacopo Cimenti detto l’Empoli,
riscontrabile in alcuni disegni di Andrea del Sarto e dello stesso Pontormo, e
presente nei taccuini del Paladini, in particolare in un foglio di studi preparatori , dove una ipotetica vergine e martire documenta il gesto di estrema devozione di una figura orante o in intima religiosità. In parallelo, il siciliano
Minniti, rievoca nel Martirio di Santa Lucia , della Galleria Regionale di
Palazzo Bellomo a Siracusa, un incrocio delle mani al petto che denuncia
forti richiami alla lezione devozionale manierista, una certa apertura anatomica delle mani, che deve rafforzare l’andamento inclinato del volto della
martire aretusea, una diafana visione del martirio, un’estasi devozionale
segno di un messaggio sovrannaturale.
Questa breve indagine di un particolare parallelismo fisiognomico-devozionale tra il disegno preparatorio del Paladini e l’opera pittorica del Minniti
si dirige verso una possibile rilettura dell’arte preseicentesca in Sicilia, in particolare quella produzione che risente dell’influenza disegnativa della maniera tosco-romana e quel realismo lombardo-fiammingo dell’ombrosità caravaggesca, artista presente in Sicilia nella primo decennio del Seicento.
In un’altra opera del Paladini, la Pietà e san Giacomo, dipinto presente
nella chiesa del Collegio di Caltagirone e dal disegno preparatorio, sem-
Disegno e Pittura nella fisiognomica del Seicento in Sicilia
359
pre nella collezione aretusea, è chiara l’influenza reciproca tra gl’artisti
operanti in Sicilia. Infatti, a parte il richiamo iniziale ai toscani Frà Bartolomeo e Bronzino, si ravviva un certo naturalismo caravaggesco, una
lumeggiatura trasversale che valorizza il corpo in diagonale del Cristo e
l’inclinazione della testa, una accentuata pietas devozionale ancora di
maniera controriformata, tanto cara ai Gesuiti e alla committenza isolana.
Non a caso, in una Deposizione del Minniti, della Galleria Regionale di
Palazzo Bellomo, un Cristo privo di sensi, lumeggiato nel volto e nel braccio, che segue il modello paladinesco, così come la caduta cruciforme dell’intero corpo è motivo centrale dell’estrema emozione e devozione della
passio divina.
Una parallelismo fisiognomico che attesta la chiara presenza, nella produzione pittorica del Seicento in Sicilia, di una rilettura classica e devozionale nel diffuso realismo d’influenza caravaggesca. Un linea intuitiva che fa
intravedere, nel fruitore attento e nel ricercatore, un percorso di studi che già
dal disegno, non più solo preparatorio ma autonomo, documenta l’origine
delle commistioni stilistiche, dal tardomanierismo del toscano Paladini, a
quel naturalismo caravaggesco vicino all’esperienza romana del Minniti.
Questa ricerca, apparentemente ermetica, tenta una rilettura della produzione stilistica isolana, dove formule apparentemente codificate da quel classicismo accademico e controriformato valorizzano la sperimentazione dinamica barocca, un percorso introspettivo e patognomico che conduce, grazie
alla pratica del disegno, a delle soluzioni di pacata devozione conciliare.
Per quanto riguarda l’indagine interpretativa dell’opera, attraverso la dinamica del gesto e della posa, di quella fisiognomica sorta dagli studi leornadeschi, è fondamentale lo studio delle passioni come espressioni dell’agire
umano di Charles Le Brun (1790), che analizza le passioni composte: la
venerazione, il disprezzo, il pianto, la collera, la disperazione estrema, che
hanno sicuramente affermato nella comunicazione artistica la ricercatezza
dell’anima e del suo esprimersi attraverso l’azione umana
Questa nostra ricerca o particolare indagine ha permesso, sia allo scrivente che a un gruppo di studio scientifico, di riscoprire e attestare i pentimenti
pittorici dell’artista aretuseo, che grazie al corpus iconografico del Paladini
non è più iscrivibile come un umile e semplice seguace del Caravaggio, ma
soprattutto un attento osservatore di quella commistione stilistica tra la grande scuola della maniera toscana e il naturalismo seicentesco.
360
I MUSEI
NELLA PROVINCIA DI
CATANIA
RUSSO M.
II Edizione Master in “Economia del recupero e della valorizzazione dei beni culturali” – Scuola
Superiore dell’Università di Catania Via Mollica, 8 – 95021 Acicastello (CT),
Tel. 095 7124931; 338 1441760 [email protected]
1. Introduzione
Dalla fine degli anni Novanta si è registrato un crescente interesse nei
confronti dei musei, che a livello istituzionale ha generato nuove leggi che
ne regolano l’attività. A livello generale ciò è corrisposto ad una maggiore domanda che ha portato all’apertura di nuovi musei, al moltiplicarsi dei
servizi offerti e ad un costante aumento di visitatori.
A fronte di questo trend in atto a livello internazionale, questo contributo illustra i risultati di una ricerca condotta dal Dipartimento di
Economia e Metodi Quantitativi dell’Università di Catania, volta ad analizzare la struttura organizzativa dei musei della provincia di Catania. I
dati relativi all’organizzazione e al funzionamento di tali musei durante il
periodo 1985-2004, rilevati durante diverse campagne d’indagine condotte dal DEMQ e dall’Ufficio Speciale per il Polo Museale di Catania, sono
stati raccolti in un database che ne rendesse facilmente accessibili e consultabili i risultati.
Dopo aver seguito il moltiplicarsi degli istituti museali nel ventennio
considerato, dei 65 istituti attualmente presenti nel territorio della provincia di Catania sono stati analizzati e riportati graficamente l’assetto istituzionale, la tipologia, gli orari d’apertura al pubblico, le modalità d’ingresso, la diffusione sul territorio, gli assetti organizzativi e gestionali, il
numero dei visitatori.
Quest’ultimo dato è stato messo a confronto con i flussi turistici nella
provincia e nei comuni interessati, al fine di valutare l’impatto dei musei
sul turismo locale.
Infine sono stati analizzati i servizi offerti dai musei, il loro inserimen-
I musei della Provincia di Catania
361
to in reti museali o biglietti cumulativi, la cura dell’allestimento e le attività culturali ed educative svolte.
In tal modo si è cercato di verificare lo stato dell’offerta museale nella
provincia di Catania e le sue possibilità di sviluppo.
2. Il museo: definizione e applicazioni
“Istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società
e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che compie ricerche sulle testimonianze materiali e immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, le comunica e soprattutto le espone a fini di studio, di
educazione e di diletto”. Pietra miliare della museologia moderna, questa
è la definizione di museo contenuta nell’articolo 2 dello statuto dell’International Council of Museums (ICOM), organizzazione non governativa che riunisce più di 15.000 membri in 109 nazioni allo scopo di promuovere e sviluppare i musei e le professionalità museali.
Tale definizione è citata anche negli atti legislativi che diverse nazioni
hanno dedicato al tema dei musei e fra questi, per l’Italia, anche l’importante “Atto d’Indirizzo sui criteri tecnico scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei”, emanato nel 2001. In tale fondamentale documento vengono definite norme tecniche e linee guida che i musei
devono seguire in materia di: status giuridico, assetto finanziario, strutture, personale, sicurezza, gestione delle collezioni, rapporti con il pubblico
e relativi servizi, rapporti con il territorio.
Tale atto, tuttavia, non è cogente per la Sicilia poiché, in virtù del suo
statuto speciale, la Regione esercita sul proprio territorio “tutte le attribuzioni delle amministrazioni centrali e periferiche dello Stato” in materia di
“antichità, opere artistiche e musei” (D.P.R. 637/1975, art. 1); attualmente in tema di standard museali esiste solo un disegno di legge (DDL
868/2004, “Nuove norme per la valorizzazione dei Beni Culturali”).
L’urgenza di precise norme in merito emergerà dall’analisi condotta sui
musei presenti nel territorio della provincia di Catania.
Gli illustri visitatori che nel XVIII e XIX secolo, durante il loro Grand
Tour, giungevano a Catania da tutta Europa, portarono ovunque la fama
delle Wunderkammern del principe Ignazio Paternò Castello di Biscari e
delle collezioni dei Padri Benedettini. Figlio di questo glorioso passato, il
panorama museale catanese è oggi fatto di luci ed ombre.
Russo
362
1985
1995
2004
Comune
11
19
29
Provincia
0
0
10
Chiesa
3
4
7
Università
4
4
4
Regione
3
3
3
Privati/Altri enti
7
9
12
28
39
65
TOTALE
Tab.1. Proprietà dei musei. Dati storici. Elaborazione personale, fonte: DEMQ.
2.1 Assetto istituzionale dei musei
Nel corso del ventennio considerato il numero dei musei presenti nel
territorio della provincia di Catania è cresciuto notevolmente, ma con ritmi
diversi per i vari regimi proprietari (v. Tab. 1).
Alla regolare progressione di crescita per i musei civici, ecclesiastici e
privati si contrappone da un lato la fioritura dei musei di proprietà della
Provincia Regionale di Catania, dall’altro la stabilità dei dati sui musei
universitari e quelli regionali.
Questi ultimi sono forse quelli che sorprendono di più. Nonostante,
infatti, le LL.RR. 17/1991, 6/2001 e 9/2002 abbiano istituito nel capoluogo etneo il Museo archeologico e quello interdisciplinare, e altri nel territorio provinciale, questi rimangono ancora solo sulla carta. La seconda
città della Sicilia è a tutt’oggi priva di musei regionali autonomi, condizione che nella provincia ha solo il Museo della ceramica di Caltagirone (la
Casa museo Verga e il Museo archeologico di Adrano dipendono dalla
Soprintendenza).
Per risolvere questa incredibile situazione è stato recentemente istituito l’Ufficio speciale per il Polo Museale di Catania, che ha fra i suoi scopi
statutari proprio quello di “ottimizzare la gestione e i servizi dei musei
istituiti e non attivati, o ancorché attivati non autonomi”.
I musei della Provincia di Catania
363
Passando ora all’analisi degli aspetti organizzativi e gestionali degli
stessi musei, essendo come abbiamo visto per il 72% di proprietà pubblica, la forma prevalente è quella di “museo-ufficio”, assimilato cioè ad un
ufficio comunale, con l’inevitabile conseguenza di godere un’autonomia
molto limitata in termini organizzativi e finanziari. In particolare il museo
manca di un bilancio autonomo, ma rientra in quello comunale, con le lentezze e i limiti che questo comporta.
In questi casi, i musei sono organizzati con un dirigente impiegato dell’ente di appartenenza, e lavoratori delle categorie ASU e PUC o cooperative di servizi, per un numero complessivo che comunque non supera mai
le 30 unità nei casi dei musei più grandi, ma che in media si mantiene
molto più basso, sulle 8 unità.
L’istituto della Fondazione è presente solo in due casi, entrambi di museo ecclesiastico (Museo diocesano di Catania e San Nicolò di Militello).
2.2 Distribuzione geografica
Interessante è verificare la distribuzione di questi musei nel territorio
provinciale.
Sui 58 comuni che compongono la provincia di Catania, 27 possiedono almeno un museo; per quanto riguarda la distribuzione geografica, la
maggior concentrazione si ritrova a Catania (27%) e nel calatino (21%),
ma possiamo dire che in tutta la parte meridionale e sulla costiera ionica
vi è una notevole diffusione dei musei sul territorio (v. Tab. 2).
Legato alla distribuzione sul territorio è anche la tipologia degli istituti, fra i quali prevalgono quelli ad indirizzo storico–artistico (32%), ma
con una notevole presenza di quelli etno-antropologici (18%), in crescita;
oltretutto anche quelli che abbiamo classificato come “specializzati”
(17%) possono essere ricondotti a queste due categorie (es. i musei sui
pupi siciliani o sui presepi) (v. Tab. 3).
2.3 Flussi di visitatori
La Tabella 2 mostra come la situazione peggiore sia quella del capoluogo,
dove la metà dei musei esistenti, quelli più importanti, sono chiusi. Una chiusura a volte motivata da lavori di riallestimento o restauro, fattori naturalmente non negativi di per sé, ma il fatto che queste chiusure avvengano contemporaneamente e spesso si prolunghino ben oltre i tempi previsti, reca un forte
Russo
364
Zona
N° musei
Catania e l’entroterra
N° musei aperti
18
8
La riviera dei ciclopi e dei limoni
9
9
Le falde meridionali dell’Etna
1
1
Le falde orientali dell’Etna
2
2
La valle dell’Alcantara
1
1
I Nebrodi catanesi
5
4
La media valle del Simeto
6
3
Gli Erei catanesi
14
14
Gli Iblei catanesi
9
9
Tab.2. Distribuzione geografica dei musei. Elaborazione personale, fonte: (6).
Tipologia
Archeologici
1985
1995
2004
3
4
8
14
15
21
Etno-antropologici
2
8
12
Specializzati
3
5
12
Scienze
3
4
8
Musei multipli
1
1
1
Spazi espositivi
2
2
3
Storico-artistici
Tab. 3. Tipologia dei musei: dati storici. Elaborazione personale, fonte: DEMQ.
danno all’immagine culturale e turistica della città. Caso a sé quello del
Museo civico del Castello Ursino, chiuso da decenni, precludendo al pubblico godimento le preziose collezioni Biscari e Benedettini. Più preoccupante
il fatto che i siti archeologici e i musei gestiti dalla Soprintendenza ciclicamente chiudano per la cronica mancanza di fondi.
I musei della Provincia di Catania
365
Non meraviglia dunque, stando questa situazione, che i dati sui flussi di
visitatori nei musei catanesi siano complessivamente scarsi.
L’analisi dei dati raccolti, nonché della nostra esperienza di visita, ci
porta a dire che si tratta di musei prevalentemente di piccola e media
dimensione: più della metà degli istituti per i quali abbiamo dati disponibili, infatti, contano meno di 5.000 visitatori l’anno, numero che quasi nel
40% dei casi è addirittura inferiore a 2000; i dati più alti riguardano il
Castello Ursino di Catania, che fra il 1997 e il 2002 è stato costantemente sui 60.000 visitatori, ma il dato comprende gli ingressi alle importanti
mostre temporanee ospitate in quegli anni nelle sale del castello; gli altri
musei di Catania (Belliniano, Diocesano e dello Sbarco), e quelli di
Caltagirone (Musei civici e regionale) e Acicastello si attestano invece
costantemente fra i 15.000 e i 40.000 visitatori annui (Fonti: DEMQ e
Ufficio speciale per il Polo Museale di Catania).
A questo punto è interessante operare un riscontro fra questi dati e
quelli dei flussi turistici. La provincia catanese vanta un movimento turistico che è il terzo in Sicilia, dopo Palermo e Messina, ed ha un andamento altalenante, come si nota nella tabella 4.
Su questi numeri il capoluogo incide per circa il 50%, con una media
di circa 300.000 arrivi ma solo 600.000 presenze che determinano una
permanenza media totale molto bassa e in diminuzione (2,89 giorni nel
2001, 2,31 nel 2002, 2,23 nel 2003). Il calo riguarda però soprattutto gli
italiani, mentre per quanto riguarda gli stranieri il dato, storicamente altalenante, è attualmente in crescita (2,25 giorni nel 2002, 2,53 nel 2003).
Una permanenza media bassa significa poco tempo da spendere in città,
dunque la necessità di scegliere cosa visitare, e i dati ci dicono che pochi
turisti scelgono di visitare i nostri musei. Non solo. Che l’offerta museale
catanese non riesca ad intercettare, se non in minima parte, questi flussi
inoltre, lo dicono anche i responsabili dei musei, che nelle interviste condotte a tal riguardo sono stati concordi nell’affermare che il movimento
maggiore è quello costituito dalle scolaresche, tant’è che osservando i dati
si nota che il picco si verifica in inverno e in primavera mentre in estate
molti musei riducono gli orari (in media 7 ore di apertura giornaliera, in
inverno) o addirittura chiudono, perché i ricavi non bastano per coprire i
costi di gestione.
Il problema dunque è: perché i turisti non visitano i musei catanesi?
Questo può essere determinato da diversi fattori: 1) i musei non sono
conosciuti; 2) i musei non attirano e/o il biglietto costa troppo per il bene-
Russo
366
Anno
Arrivi
italiani
Presenze
italiani
Perm.
media it.
1998
369.657
1.127.282
3,05
1999
399.720
1.133.088
2000
430.698
2001
Presenze
stranieri
Perm.
media str.
135.368
401.844
2,97
2,83
150.353
463.653
3,08
1.210.015
2,81
168.596
495.367
2,94
418.879
1.209.651
2,89
177.423
571.115
3,22
2002
421.882
1.114.642
2,64
174.998
479.121
2,74
2003
455.338
1.121.166
2,46
175.009
570.015
3,26
2004
495.536
1.192.055
2,41
178.616
497.398
2,78
Anno
Arrivi totali
Arrivi
stranieri
Presenze totali
Perm. media tot.
1998
505.025
1.529.126
3,03
1999
550.073
1.596.741
2,90
2000
599.294
1.705.382
2,85
2001
596.302
1.780.766
2,99
2002
596.880
1.593.763
2,67
2003
630.347
1.691.181
2,68
2004
674.152
1.689.453
2,51
Tab. 4. Movimento turistico nella provincia di Catania. Elaborazione personale, fonte: (6).
ficio che si pensa di ricavare dalla visita; 3) i turisti sono solo di passaggio e non hanno il tempo per fermarsi a visitare i musei. Che siano queste
oppure ci siano altre motivazioni, i responsabili dei singoli musei, o ancora meglio del sistema museale provinciale in via di definizione, per incrementare la domanda, dovranno curare molto l’aspetto della comunicazio-
I musei della Provincia di Catania
367
ne e dei rapporti con i tour operators, magari prospettando la possibilità di
inserire i biglietti dei musei direttamente nei pacchetti turistici.
Per quanto riguarda i comuni della provincia oggetto di rilevamento
turistico, i dati più alti sono quelli di Acireale, con un movimento che in
media conta circa 150.000 arrivi e 400.000 presenze per una permanenza
media superiore ai 3 giorni. Su questi dati incide molto soprattutto la presenza delle terme. I musei di Acireale dunque avrebbero un ampio bacino
di utenza, che attualmente va disperso.
Allo stesso modo il Museo vulcanologico di Nicolosi, per il quale non
abbiamo dati sui visitatori, per la sua posizione lungo la strada dell’Etna e per
la sua specializzazione avrebbe grandi potenzialità di sviluppo, se riuscisse
ad intercettare il movimento turistico, che nella zona supera i 20.000 arrivi,
con più di 50.000 presenze e una permanenza media superiore ai due giorni.
Diverso, in positivo, il caso di Caltagirone, che ha un movimento intorno ai 20.000 arrivi e 40.000 presenze e una permanenza media di poco
meno di 2 giorni, ma in crescita. L’offerta museale calatina come abbiamo
visto, è molto ricca, comprendendo un museo regionale e diversi musei
civici e privati. Il Museo regionale della ceramica ha in media 30.000 visitatori l’anno, il Museo civico L. Sturzo circa 20.000: se consideriamo che
gli arrivi annui sono circa 20.000, in questo caso possiamo invece affermare che questi due musei rappresentano una meta obbligata per chi visita Caltagirone.
2.4 Servizi offerti
Passiamo adesso all’analisi “qualitativa”, cioè dei servizi offerti dai musei.
Come detto, oggi la qualità è la discriminante fondamentale del “successo” di un museo e uno degli elementi principali per attirare i visitatori.
La nuova concezione che, in tutto il mondo, guida i responsabili delle istituzioni museali grandi e piccole è, infatti, quella di invitare il pubblico ad
una fruizione didatticamente completa e stimolante e allo stesso tempo
piacevole, arricchita da mostre e rassegne, oltre ad eleganti caffetterie,
librerie specializzate e laboratori per bambini. E’ questo il nuovo modo di
vivere il museo e i suoi spazi, che sempre più spesso si aprono alla città
per offrire occasioni di svago “intelligente” per tutta la famiglia.
La legislazione nazionale ha accolto queste indicazioni, oltre che nel
già citato Atto d’Indirizzo del 2001, nella Legge Ronchey (L. 4 Gennaio
1994, n° 4) sui servizi aggiuntivi, la cui applicazione oggi è ancora abba-
368
Russo
stanza limitata, e comunque concentrata prevalentemente nelle grandi città
d’arte dell’Italia centrale.
E in Sicilia?
Le informazioni sui servizi museali attivati e sulle eventuali collaborazioni instaurate, sono state desunte dai questionari inviati dal DEMQ tra il
2001 e il 2004, dai siti web e da interviste telefoniche con i responsabili
dei musei stessi.
Dalla nostra ricerca emerge anzitutto come non esistano sul territorio
provinciale delle “reti museali” vere e proprie, ma semmai solo forme di
biglietto cumulativo fra musei della stessa città, come a Caltagirone o
Randazzo, oppure forme di collaborazione fra Musei, Università,
Soprintendenze e altri Enti finalizzate principalmente alla ricerca o all’organizzazione di mostre temporanee.
Per quanto riguarda i servizi museali li abbiamo distinti, seguendo
modello del questionario proposto dal DEMQ, in due categorie.
La prima, “Servizi all’interno del museo”, comprende tutte quelle attività caratteristiche del museo e necessarie al suo corretto funzionamento,
cioè da un lato le attività di conservazione, restauro, inventariazione, ricerca etc. e dall’altro i servizi di manutenzione, sicurezza e pulizia. Le informazioni raccolte hanno mostrato come i musei considerati nella presente
ricerca siano abbastanza attenti ed attivi in questo campo.
La seconda categoria, “Servizi per il pubblico”, comprende le attività
di didattica e informazione (visite guidate, audioguide, cataloghi a stampa, guide, pannelli esplicativi nelle sale, didattica per le scuole etc.), attività di ristorazione, l’attivazione di punti vendita e infine le attività di marketing e comunicazione.
In questo campo i nostri musei, comunemente dotati di servizio visite
guidate e di cataloghi a stampa, si sono negli ultimi anni aggiornati anche
nel campo della didattica, delle attività ricettive e di punti vendita; le attività di ristorazione sono presenti solo in pochi casi, e comunque mai come
servizio fisso, ma che viene attivato su richiesta in occasione di mostre,
convegni o simili.
Molti musei, infatti, hanno stretto accordi con associazioni e club service per l’organizzazione di attività culturali: si tratta di eventi che favoriscono il museo poiché ne fanno luogo vivo, dove si fa cultura, poi sono
ottime occasioni per farsi conoscere e per invogliare a visitare il museo e,
infine, creano quel legame con il territorio e con la comunità di riferimento tanto raccomandata dalle normative nazionali e dall’ICOM. In partico-
I musei della Provincia di Catania
369
lare i musei etno-antropologici, per loro natura legati al territorio e ai suoi
prodotti, sono spesso coinvolti nelle manifestazioni durante le sagre che
affollano i paesi della provincia di Catania soprattutto in estate e autunno.
Quasi assente invece il ricorso alle tecniche del marketing e alle nuove
strategie di comunicazione; limitata l’attivazione di siti web, spesso
demandata alle pagine sui siti del Comune o dell’AAPIT, abbastanza complete ed esaurienti ma non facilmente raggiungibili; a livello mediatico
poi, i musei catanesi sono poco conosciuti, forse perché mancano di pezzi
“famosi”, gli Antonello da Messina o Caravaggio che possono vantare
Siracusa, Messina o Palermo, mancanza che potrebbe essere più che compensata se le preziosissime collezioni settecentesche e i reperti archeologici fossero finalmente esposti.
Infine per quanto riguarda gli allestimenti museali anche in questo caso
il panorama museale catanese offre luci ed ombre. Un buon allestimento
museale è quello che soddisfa le necessità di ognuna delle varie classi di
studiosi o di visitatori che vi si recano, da quelle a scopo di studio a quelle puramente di svago, e che fornisce ai visitatori le informazioni più utili
per capire l’oggetto che hanno davanti in tutti i suoi aspetti, e guida il visitatore nel percorso fra le varie sale.
Questa è la direzione seguita dal Museo Belliniano di Catania ed altri
attualmente in fase di ristrutturazione, così come da alcuni musei di recente
costituzione, in particolare quelli della Provincia Regionale di Catania (es. il
“Museo storico dello sbarco in Sicilia del 1943” con interessanti ricostruzioni, fra cui quella di un rifugio antibombardamento realizzato dallo stesso progettista dell’Imperial War Museum di Londra). In questa stessa direzione è
andata la Galleria d’Arte Moderna di Paternò, interessantissimo spazio che
unisce un allestimento accurato ed intelligente ad una collezione di tutto
rispetto…quanta rabbia però nel vederla chiusa e dimenticata!
Il contraltare è rappresentato da quegli spazi per i quali vale ancora
appieno il vecchio pregiudizio di museo come luogo polveroso e opprimente, anche se per fortuna però sono ormai in minoranza.
3. Conclusioni
La conclusione che possiamo trarre da quest’analisi è che nella provincia di Catania un immenso patrimonio culturale è frammentato in una
miriade di musei che vivono in uno “splendido” isolamento, ognuno con-
370
Russo
tento di esporre le proprie collezioni, con pochissime occasioni di scambi
e contatti, in perenne conflitto con gli amministratori pubblici avari di
fondi, e quasi sconosciuti non solo ai turisti, ma spesso anche ai residenti,
se si eccettuano i bambini che li visitano con le scuole e rappresentano
anzi la voce più numerosa fra i visitatori.
Questo quadro può sembrare sconsolante. Naturalmente è un po’ estremizzato, e non mancano le realtà in controtendenza, tuttavia è davvero
urgente la necessità di ripensare questo sistema museale in termini di una
maggiore efficienza operativa.
In particolare l’ipotesi che, sulla base di analoghe esperienze in Italia e
all’estero, può dare i migliori risultati è quella della costituzione di Reti o
Sistemi museali che permettano di ridurre i costi realizzando economie di
scala, di migliorare le dotazioni e le prestazioni grazie alla possibilità di
conseguire collettivamente obiettivi difficili da perseguire singolarmente,
migliorando anche la possibilità di raggiungere finanziamenti e migliorando l’immagine, magari attraverso il ricorso a forme di sponsorizzazione.
La realtà attuale dimostra, infatti, che i fondi pubblici sono in costante
diminuzione e non sono sufficienti per i musei che spesso sono costretti a
chiudere. Una tale situazione svilisce il nostro immenso patrimonio culturale e danneggia l’immagine della città e del territorio.
BIBLIOGRAFIA
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2.
3.
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«Primo rapporto Nomisma sull’applicazione della Legge Ronchey», 1999.
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Assessorato regionale al Turismo, «Rapporto sul turismo in Sicilia 2000–2001.
Scenari italiani ed internazionali 2002. Analisi, riflessioni, commenti»,
http://www.regione.sicilia.it/turismo/web_turismo/dipartimento/risorse/studi_rice
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Azienda Autonoma Provinciale per l’Incremento Turistico di Catania, dati tratti
dal sito http://www.apt.catania.it/aptctnew/home.asp, 2005.
371
L’APPROCCIO MULTIDISCIPLINARE COME ATTO PRELIMINARE PER
LA SALVAGUARDIA DEI BENI CULTURALI:
LA CHIESA DI SAN NICOLÒ L’ARENA*
SALEMI A.
Osservatorio delle Patologie Edilizie, D.A.U., Facoltà di Ingegneria, Università di Catania.
Quando si affrontano le problematiche legate alla conservazione, valorizzazione e fruizione dei beni culturali, in rari casi la comunità scientifica, ed in generale quella più ampia costituita da tutti gli individui che
hanno a cuore le memorie dell’uomo, si trova su una posizione unanime
nel definire le attività più opportune per la salvaguardia del bene o nel
commentare i risultati raggiunti da un intervento già effettuato in quanto,
l’emissione di un giudizio su una qualunque azione, inevitabilmente risulta sempre rapportata e filtrata dall’insieme delle proprie conoscenze, dalle
esperienze compiute, in definitiva dal personale back ground culturale.
Conseguentemente, accostarsi ad un oggetto preesistente, fa quindi
nascere quasi sempre un dibattito che risulterà tanto più ampio quanto
maggiore sarà il suo valore documentale.
Ma se è veramente così difficile districarsi all’interno del percorso
della salvaguardia o della conservazione di un bene, su un aspetto operativo preliminare tutta la società civile oggi concorda: prima di intervenire
occorre conoscere.
Per raggiungere una reale conoscenza però, qualunque sia l’oggetto delle
attenzioni, è necessario mettere a punto una sistematica attività di apprendimento supportata da un sufficiente numero di indagini che ci permetta di
capire quando e da chi esso sia stato ideato, come sia stato realizzato, le trasformazioni sia fisiche che di utilizzo avvenute dal momento della sua crea* Lavoro realizzato nell’ambito del progetto “Il recupero e la valorizzazione del patrimonio architettonico della Sicilia orientale: l’emerga architettonica urbana e l’edilizia
rurale. Conoscenza, interventi e formazione (T3 CLUSTER C29), finanziato dal
Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica”.
372
Salemi
zione ad oggi, il suo corpus, ovvero le parti che lo formano ed i relativi materiali costitutivi, le relazioni che ha scambiato con l’intorno, ecc..
È chiaro quindi che l’azione conoscitiva preliminare costituisce una
premessa molto complessa che necessiterà d’approfondimenti proporzionati all’istanza culturale dell’oggetto e dell’apporto di sempre più ampie
conoscenze multidisciplinari afferenti, frequentemente, ad ambiti estremamente eterogenei che operano e si esprimono con metodiche e linguaggi
molto diversificati fra di loro.
Da ciò scaturisce uno dei problemi più delicati: l’esistenza di un terreno culturale comune che consenta la corretta trasmissione delle informazioni (esatta formulazione dei quesiti, finalità dell’azione, significatività
dei risultati, ecc...) tra gli addetti ai lavori e, quindi, di una medesima
struttura lessicale.
La mancanza di un humus comune, purtroppo, costituisce di solito una
delle cause che rende disagevole lavorare in gruppo e, spesso, è proprio il
principale fattore limitativo che, negli interventi sui bb.cc., rende difficile
il raggiungimento dei più alti risultati.
Prima di ogni attività pertanto, per comprendere con sufficienza l’oggetto delle nostre attenzioni, sulla scorta di una filosofia progettuale ed un linguaggio condiviso tra tutti gli operatori, sarà necessario mettere a punto ed
eseguire un progetto indagativo preliminare (necessariamente multidisciplinare ed intersettoriale) il cui espletamento fornirà tutte quelle informazioni
della più svariata natura che, lette sincronicamente, saranno indispensabili
per ricostruire la vera conoscenza oggettuale e pertanto la sua vera natura
per poi individuare il percorso conservativo più opportuno da perseguire.
Assunta una fabbrica ad alta istanza culturale come campione emblematico, la chiesa di San Nicolò l’Arena, si tratteggerà quindi una complessa esperienza multidisciplinare condotta insieme a numerosi studiosi del
Cri.Be.Cum (Centro di Ricerche sui Beni Culturali e Monumentali)
dell’Università di Catania che, si ritiene, sia per i suoi specifici obiettivi
prefissati (messa a punto di un protocollo operativo valido nei percorsi
conoscitivi ad alta valenza culturale, definizione di un linguaggio comune
tra le differenti professionalità afferenti all’azione, studio delle eventuali
correlazioni tra i risultati delle diverse indagini condotte sul medesimo
materiale, ecc..), per le modalità di svolgimento nonché per i risultati ottenuti, possa essere indicata come una corretta indicazione metodologica da
seguire prima di ogni azione operativa.
373
L’ATHENAION DI SIRACUSA E IL SUO DUOMO,
UNA STORIA DI PIETRA.
METODOLOGIE VERSO LA CONOSCENZA
SGARIGLIA S.
Architetto, libero professionista
Il tema di questa ricerca riguarda il Duomo di Siracusa, di come nel
corso del tempo il tempio greco dorico, l’Athenaion, inglobato in esso, sia
stato trasformato da tempio pagano a chiesa cristiana. Tramite il rilevamento architettonico e l’indagine grafica, che si basa sulla storia e i segni
sottesi al monumento, si tende a una lettura stratigrafica.
Lo studio si è interessato al prospetto sulla via Minerva, assumendo
l’apparato murario come palinsesto di tutta l’articolata evoluzione del
manufatto architettonico.
L’interesse per questa parte di edificio è stato inoltre determinato dalla
constatazione scaturita dall’analisi iconografica. Valutando l’opera grafica,
costituita da incisioni, stampe e dipinti, prodotta tra il 1717 e la fine del 1874
si è notato che le rappresentazioni mongiane dell’edificio sono rarissime a
differenza delle viste prospettiche. Si è voluto, così contribuire a scrivere e
interpretare una pagina grafica che rappresentasse il prospetto sulla via
Minerva da un altro punto di vista e con un’altra metodologia. Si è operato
nell’ambito del rilievo architettonico, supportato dalle metodologie fotogrammetriche, topografiche e laser scanner 3D per restituire un disegno di
facciata non più scorciato ma perpendicolare all’osservatore.
Lo studio, condotto per fasi, che hanno cercato di interpretare l’evoluzione storica degli eventi, è stato sostenuto dalla descrizione delle fonti
letteraria e dall’iconografia.
Tutti questi elementi insieme hanno consentito la scissione delle parti
del manufatto architettonico, e hanno permesso la classificazione di tutte
le componenti che si sono state aggiunte sul “corpo originario”.
Sono state effettuate le riprese fotografiche, il rilievo diretto e strumentale, attraverso l’applicazione delle tecniche e i principi della topografia,
fotogrammetria e laser scanner 3D.
374
Sgariglia
La topografia, è stata ottenuta come la risultante di una campagna di
rilievo topografico che ha rilevato un insieme di punti emblematici, appartenenti al prospetto.
La fotogrammetria è stata eseguita tramite fotografie mosaicate che
hanno consentito di disegnare l’intero prospetto in modo da ottenere tutta
l’orditura muraria in proiezione ortogonale munita di informazioni tridimensionali e metriche.
È così attribuito al segno grafico la peculiarità di essere lo strumento
d’indagine della storia che ci restituisce la trama dei segni, visibili e sottesi, che nel tempo si sono stratificati nella struttura del monumento.
La storia e la materia testimoniano che ogni intervento sull’architettura ha trovato riscontro in una fase della successione stratigrafica, che
documenta adattamenti del manufatto a nuove funzioni e problematiche di
cantiere. La ricerca delle fonti documentative contribuisce alla verifica
delle ipotesi cronologiche e precisa il rapporto tra l’edificio e le vicende
storiche, definendo la conoscenza complessiva del manufatto.
Nel caso della presente ricerca è stato studiato il processo che descrive
la trasformazione dall’Athenaion alla cattedrale barocca ponendosi il dubbio di come rappresentare lo spazio che muta ma «Malgrado tutte le differenze nei modi di pensare tra il pensiero greco e quello moderno, lo spazio viene rappresentato nello stesso modo, cioè a partire dal corpo. Spazio
è l’estensione tridimensionale, extensio. In essa i corpi e i loro movimenti hanno il loro percorso, il loro tempo, le loro distanze percorribili e quegli intervalli di tempo…» [1]. Lo studio di un’architettura così sedimentata pone il dubbio della ‘rappresentazione della memoria’; come rappresentare e interpretare l’architettura che si concretizza al nostro sguardo mentre la nostra ragione innesca meccanismi di memoria o di immaginazione?
Come possiamo riuscire a tradurre graficamente il logorìo che il tempo ha
sottratto ‘a quelle pietre’?
Attraverso l’acquisizione degli studi di archeologi, architetti e storici è
stata ipotizzata la ricostruzione, tramite il modello digitale, dell’
Athenaion per confrontarlo con le rappresentazioni dell’odierna chiesa
barocca. Le immagini delle superfici della chiesa barocca sono stati estrapolate dai dati acquisiti con il laser scanner 3D. Sono state selezionate le
viste prospettiche più opportune dell’odierno Duomo, che riguardano solo
i due prospetti. Queste che sono state sovrapposte alle immagini dell’ipotetico modello tridimensionale.
L’Athenaion di Siracusa e il suo duomo. Una storia di Pietra
BIBLIOGRAFIA
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2.
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S.L. Agnello, Il duomo di Siracusa e i suoi restauri, a cura di, Siracusa 1996.
M. Fondelli, Trattato di fotogrammetria urbana e architettonica, Bari 1992.
375
376
MARIO MINNITI TRA MANIERA
E NATURALISMO CARAVAGGESCHI IN SICILIA
SPAGNOLO D.
Dirigente Soprintendenza BB.CC.AA. di Messina
La figura di Mario Minniti (Siracusa, 1577–1640), a detta delle fonti
storiografiche amico e collega del Caravaggio a Roma negli anni a cavallo tra Cinque e Seicento, costituisce uno dei rari casi, tra gli artisti di epoche lontane, ad aver suscitato l’interesse degli studiosi più per le proprie
vicende personali, così strettamente legate alla vita sregolata e avventurosa del Caravaggio, che per il peso artistico dei suoi dipinti, ritenuti fortemente dipendenti dalle creazioni del maestro. Del suo stile, apprezzato nei
testi storiografici siciliani del Sette e Ottocento più per la verosimiglianza
e la morbidezza della stesura che per la drammaticità del chiaroscuro ispirato al Caravaggio, abbiamo numerosi esempi in opere che lo mostrano
sensibile anche ad altri indirizzi pittorici precedenti alla venuta del
Caravaggio in Sicilia (1608-1609) e fortemente radicati nell’isola tra
Cinque e Seicento, soprattutto nell’area orientale. Questi indirizzi proponevano, nell’ambito della corrente artistica del tardo manierismo, un naturalismo più discreto e “domestico”, consono nei quadri sacri ai dettami
della Controriforma e sostenuto dagli ordini religiosi. Minniti riesce dunque a creare una commistione tra questo tipo di naturalismo di marca
“riformata” e il caravaggismo vero e proprio, più aderente al reale, in una
formula che sarà accolta con favore in Sicilia sia dalla committenza che da
altri artisti, che in parte, a quanto comincia ad emergere dagli studi, da
essa trassero spunto anche come mezzo di conoscenza e di assimilazione
del difficile linguaggio del Caravaggio.
Nel Minniti l’influenza caravaggesca è evidente soprattutto nelle opere
datate o databili entro il 1625 circa, successivamente il suo stile appare
condizionato da correnti di gusto che lo indirizzano verso un diverso senso
del colore, adesso utilizzato in una gamma più ampia e dalle tonalità tendenzialmente chiare, ed una pennellata più mossa ed audace.
Mario Minniti tra maniera e naturalismo caravaggeschi in Sicilia
377
Minniti visse e operò tra Siracusa e Messina, ma dovette risiedere per
qualche tempo anche nell’isola di Malta e a Palermo. Tra le opere più antiche ricordiamo la Decollazione del Battista (Messina, Museo Regionale),
il San Carlo Borromeo (Enna, Palazzo Comunale), il Cristo portacroce e
la Flagellazione (Milazzo, Fondazione Lucifero). Verso il 1620 dovrebbe
datarsi il Miracolo della vedova di Naim (Messina, Museo Regionale); del
1624 e 1625 sono rispettivamente il Miracolo di Santa Chiara (Siracusa,
Galleria Regionale di Palazzo Bellomo) e San Benedetto che predispone
la propria sepoltura (Siracusa, chiesa di San Benedetto). In un periodo
successivo dovrebbe invece collocarsi l’Immacolata Concezione del
Museo Regionale di Messina. Tra le ultime opere sono l’altra Immacolata
Concezione del Museo di Messina, proveniente dalla chiesa di Porto
Salvo, del 1637, e la Scena allegorica (Catania, Museo Civico di Castello
Ursino), secondo le fonti bibliografiche del 1639.
378
UTILIZZO DI TECNICHE DI CAMPIONAMENTO NON DISTRUTTIVE
PER LO STUDIO DI MICRORGANISMI BIODETERIOGENI
DA SUPERFICI DI INTERESSE STORICO-ARTISTICO*
URZÌ C., DE LEO F.
Dipartimento di Scienze Microbiologiche, Genetiche e Molecolari – Università degli Studi di
Messina. e-mail: [email protected]; [email protected]
La conoscenza dello stato di conservazione e deterioramento di un’opera d’arte non può prescindere dal campionamento del substrato per le successive indagini di laboratorio.
Trattandosi tuttavia, di superfici di così importante valore, non sempre
è possibile prelevare rilevanti quantità di materiale, per cui, i metodi non
distruttivi sono ovviamente da preferirsi rispetto a quelli che presuppongono il prelievo di quantità discrete del campione stesso.
Diversi AA. [1] [2] hanno proposto differenti metodi di campionamento per il rilevamento dei biodeteriogeni microbici; i vantaggi e svantaggi
dei diversi metodi di campionamento (non distruttivi e distruttivi) utilizzati nel campo del biodeterioramento sono stati riportati da Urzì e collaboratori [3] [4].
In questo lavoro, vengono presentati i risultati ottenuti dallo studio
del biodeterioramento di differenti superfici in ambienti ipogei e non,
utilizzando opportunamente metodi di campionamento in relazione al
tipo di alterazione e allo stato di conservazione del materiale oggetto di
studio.
In particolare, i campioni sono stati prelevati in corrispondenza di alterazioni associabili alla microflora cosi come riportato dal Normal 1/90 [5].
In presenza di patine e di biomassa ben evidente sulla superficie e facil-
* Le ricerche sono state effettuate con il contributo P.R.A. 2003 e 2004 e della
Comunità Europea, network “COALITION, n° EVK4 1999-20001” e progetto “CATS,
n° EVK4-2000-00028”.
Utilizzo di tecniche di campionamento non distruttive
379
mente staccabili dal substrato è stato utilizzato il prelievo con bisturi che
ha permesso l’analisi quali-quantitativa dei microrganismi coltivabili, come pure l’applicazione di tecniche di biologia molecolare per lo studio del
profilo microbico dell’intera popolazione, coltivabile e non, associabile al
biodeterioramento. Il metodo non distruttivo del nastro adesivo ha permesso il campionamento dalla superficie interessata dall’alterazione senza
danneggiare il substrato. Sono stati studiati i microrganismi presenti, mantenendo i rapporti tra substrato e microrganismi, per determinare i rapporti causa effetto delle alterazioni riscontrate, e tra microrganismi, per la
conoscenza delle relazioni tra i membri della comunità, che determinano
un’ottimizzazione delle condizioni di permanenza sul substrato stesso. I
campioni prelevati con nastro adesivo hanno permesso uno studio più approfondito avvalendosi di tecniche microscopiche (M.O., CLSM, SEM),
colturali di tipo qualitativo e molecolari per lo studio in situ, mediante
sonde fluorescenti (tecnica FISH [6] [7] [8] specifiche per i microrganismi
coinvolti nel biodeterioramento.
BIBLIOGRAFIA
1.
2.
3.
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AREE SCIENTIFICO–DISCIPLINARI
Area 01 – Scienze matematiche e informatiche
Area 02 – Scienze fisiche
Area 03 – Scienze chimiche
Area 04 – Scienze della Terra
Area 05 – Scienze biologiche
Area 06 – Scienze mediche
Area 07 – Scienze agrarie e veterinarie
Area 08 – Ingegneria civile e Architettura
Area 09 – Ingegneria industriale e dell’informazione
Area 10 – Scienze dell’antichità, filologico–letterarie e storico–artistiche
Area 11 – Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche
Area 12 – Scienze giuridiche
Area 13 – Scienze economiche e statistiche
Area 14 – Scienze politiche e sociali
Le pubblicazioni di Aracne editrice sono su
www.aracneeditrice.it
Finito di stampare nel mese di agosto del 2011
dalla « Ermes. Servizi Editoriali Integrati S.r.l. »
00040 Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, 15
per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma
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