LA RICERCA QUALITATIVA - Osservatorio Processi Comunicativi

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Indice
INTRODUZIONE
1. LA RICERCA QUALITATIVA
1. Che cos’è la ricerca qualitativa?
1.1 La ricerca qualitativa si basa sul ricorso a una forma di osservazione ravvicinata…
1.2 … che si declina sintonizzandosi con le caratteristiche degli oggetti cui si applica
2. Perché fare ricerca qualitativa?
3. Isole nell’arcipelago: una mappa delle tecniche di ricerca qualitativa
2. IL DISEGNO DELLA RICERCA QUALITATIVA
1 La prefigurazione
1.1 Domanda e contesto empirico
1.2 Scelta dei casi e campionamento
1.3 Il metodo
2. Ricostruzione
3. L’OSSERVAZIONE PARTECIPANTE
1. Il disegno dell’osservazione partecipante
2. Il lavoro sul campo
2.1 L’accesso
2.2 Partecipazione, osservazione, dialogo
2.3 Euristiche dell’osservazione, trucchi per vedere altrimenti
2.4 Gli informatori e il backtalk
3. La redazione delle note etnografiche
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4. L’INTERVISTA DISCORSIVA
1. Di cosa (autorevolmente) ci parlano le nostre interviste?
2. La traccia d’intervista
3. Il campionamento
4. La costruzione della documentazione empirica
4.1 Il contatto e la presentazione della ricerca
4.2 La conduzione dell’intervista
4.3 La trascrizione dell’intervista
5. IL FOCUS GROUP
1. La progettazione
1.1 Scelta del tipo di focus group
1.2 Le forme di conduzione
1.3 La traccia
2. Il campionamento
3. La costruzione della documentazione empirica
3.1 Il contatto con i partecipanti
3.2 La conduzione del focus group
3.3 La trascrizione delle discussioni
6. L’ANALISI DELLA DOCUMENTAZIONE EMPIRICA
1. I tre passi dell’analisi
1.1 La segmentazione
1.2 La qualificazione
1.3 L’individuazione delle relazioni
2. Analisi primaria, secondaria e metanalisi
3. La scrittura
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Appendici
1. Modulo per il consenso informato
2. Notazione A.T.B. per la trascrizione delle interviste discorsive
3. Traccia di un focus group
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Indice analitico
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INTRODUZIONE
Questo manuale raccoglie un insieme composito di strumenti utili alla realizzazione di una
ricerca qualitativa. I confini del territorio su cui insistono le osservazioni riportate nelle pagine che
seguono sono tracciati considerando quelli che – che come si vedrà meglio di seguito –
costituiscono i tratti distintivi della ricerca qualitativa: il ricorso a una forma di osservazione
ravvicinata1 e la sintonizzazione delle procedure di costruzione del dato alle caratteristiche
dell’oggetto cui si applicano, la sottomissione del metodo alle peculiarità del contesto empirico cui
lo si applica.
L’attenzione cadrà principalmente su tre tecniche di ricerca qualitativa, l’osservazione
partecipante, l’intervista discorsiva e il focus group. Queste tecniche, oltre ad essere le più comuni,
offrono l’opportunità di esaminare le questioni metodologiche ed epistemologiche di maggior
momento con le quali si deve confrontare chi intenda condurre una ricerca qualitativa. Da qui la
convinzione che gli strumenti proposti per l’osservazione partecipante, l’intervista discorsiva e il
focus group possano – debitamente adattati – essere applicati anche con altre tecniche di ricerca,
dall’osservazione naturalistica, allo shadowing, dai giochi all’esperimento sul campo. Ciò discende
anche dalla forma assunta dagli strumenti analitici proposti, costituiti non già da una collezione di
ricette, ma da un insieme di principi generali, illustrati attraverso la presentazione di casi, di
ricerche in vari modi esemplari (nel bene e nel male), che ne mostrano l’impiego.
Il volume muove da una concezione della ricerca qualitativa che individua nella costruzione di
rappresentazioni accurate dei fenomeni sociali la sua principale vocazione e che identifica in questa
accuratezza il principale valore aggiunto che deriva dal ricorso alla ricerca qualitativa2. La
specificità di questo volume tuttavia è un’altra e attiene al tentativo di inscrivere le pratiche della
ricerca qualitativa all’interno della cornice della teoria dell’argomentazione, nei suoi più recenti
sviluppi rappresentati dall’approccio pragma-dialettico (vedi van Eemeren, Grootendorst 1984;
2008; van Eemeren, Houtlosser 1999; Walton 1992; 2001; 2003; 2009; Godden, Walton 2007).
La teoria dell’argomentazione si occupa della natura, della funzione e dei limiti del discorso
persuasivo, che Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca contrappongono al “ragionamento more
geometrico”, al ragionamento dimostrativo proprio delle discipline formali, prime fra tutte la
matematica e la logica (Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca 1958, trad. it. 1989: 3). Persuasione,
dunque, contrapposta a dimostrazione, ma in un registro dialettico che impone alla difesa dei
propri argomenti specifici vincoli di ragionevolezza, che fanno del discorso argomentativo una
“discussione critica” (van Eemeren, Houtlosser 2003: 387-388). Al riguardo Frans van Eemeren e
Rob Grootendorst osservano quanto segue.
L’argomentazione è un’attività verbale, sociale e razionale mirante a convincere un critico ragionevole
dell’accettabilità di una tesi tramite un insieme di proposizioni che vengono avanzate per provare o
confutare la proposizione espressa. (van Eemeren, Grootendorst 2004, trad. it. 2008: 13, enfasi mia)3.
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Con questa scelta metodologica la ricerca qualitativa risponde in modo specifico a un’esigenza generale che investe
l’intero dominio della ricerca sociale, quella di governare la complessità dei fenomeni in studio. Questa complessità viene
di norma governata seguendo due vie, quella della semplificazione dell’oggetto, tipica della ricerca quantitativa, o quella
riduzione dell’estensione del dominio osservato, tipica della ricerca qualitativa (vedi infra cap. 1).
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Ho approfondito questo tema in Cardano (2009a), cui si rimanda.
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Nella medesima direzione le precisazioni di Douglas Walton che definisce la discussione critica come un tipo di dialogo
nel quale l’obiettivo delle parti coinvolte consiste nel «persuadere l’altra parte ad accettare alcune specifiche proposizioni
impiegando come premessa [dei propri argomenti] esclusivamente proposizioni che l’altra parte ha accettato fra i propri
impegni» (Walton 1992: 133-134). Ciò consente a Walton di tracciare in modo netto la distinzione fra l’uso
dell’argomentazione in una discussione critica e il una contesa, in un dialogo eristico, il cui solo scopo è battere
l’avversario, sacrificando a questo scopo verità e ragionevolezza (Walton ibidem 136). A questo modo di intendere
l’argomentazione ha dedicato un interessante volumetto Arthur Schopenhauer che si apre in modo inequivoco: «La
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La peculiarità del modello pragma-dialettico risiede, dunque, nell’impegno a conciliare la
persuasione con la “verità”; le finalità retoriche con quelle dialettiche, facendo davvero
dell’argomentazione «la logica delle scienze non dimostrative» (Bobbio 1989: xiii).
La teoria dell’argomentazione – intesa in questa accezione – può svolgere per la ricerca
qualitativa la medesima funzione che, nel territorio della ricerca quantitativa, viene svolta dalla
teoria della probabilità. Si tratta di una tesi già adombrata nella letteratura metodologica, a
cominciare da I trucchi del mestiere di Howard Becker (1998, trad. it. 2007), sino al più recente
Qualitative Researching di Jennifer Mason (2002); una tesi che attraversa, come un fiume carsico,
molti dei più recenti contributi teorici e metodologici che si ispirano alla musa della ricerca
qualitativa.
Le ragioni che rendono la teoria dell’argomentazione la sintassi che più efficacemente può
contribuire alla costruzione del sapere prodotto dalla ricerca qualitativa hanno a che fare con lo
statuto epistemico dei materiali empirci acquisiti in quest’ambito. La più parte delle tecniche di
costruzione della documentazione empirica impiegate nella ricerca qualitativa, e più in generale
nella ricerca sociale, si basano sulla cooperazione dei partecipanti e – con pochissime eccezioni – si
propongono di rilevare qualcosa che, in prima approssimazione, possiamo definire come “stati
interni”, quali atteggiamenti, credenze, valori, intenzioni e significati riposti nell’azione.
La cooperazione – diversa nel grado – è richiesta ai partecipanti ogni qualvolta il ricercatore
esplicita la propria identità e le proprie intenzioni. Questo di norma accade nell’impiego delle
tecniche di ricerca qualitativa più comuni, l’osservazione partecipante, l’intervista discorsiva, il
focus group, ma anche in altre meno diffuse, quali lo shadowing, l’analisi delle conversazioni, i
giochi e l’osservazione di documenti la cui produzione viene sollecitata dal ricercatore (vedi infra
cap. 1, fig. 1.1). In tutti questi casi la nostra impresa può andare in porto solo se i nostri
interlocutori acconsentono a rispondere alle nostre domande, ci permettono di restare con loro
mentre svolgono le loro attività quotidiane, ci consegnano le tracce (la registrazione di una
conversazione naturale) o il prodotto (un diario sollecitato) delle loro attività4. La lezione di
Goffman dovrebbe ormai averci persuaso di come le performance delle persone cui chiediamo la
collaborazione possano solo accidentalmente avere come scopo quello di facilitare al massimo il
nostro lavoro di interpretazione delle interazioni sociali cui assistiamo. I nostri interlocutori si
preoccupano innanzitutto di “salvare la faccia”, lasciando a noi il compito di leggere fra le righe il
“testo” delle loro azioni. Il carattere necessariamente congetturale di questi processi interpretativi,
dialettica eristica è l’arte di disputare, e precisamente l’arte di disputare in modo da ottenere ragione, dunque per fas e
nefas [con mezzi leciti e illeciti] (…) Ne deriva che, di regola, chi disputa non lotta per la verità, ma per imporre la
propria tesi, come pro ara et focis [per la casa e il focolare], e procede per fas e nefas, perché come si è mostrato, non
può fare diversamente» (Schopenahauer 1864, trad. it. 2009: 15, 17). Non è a questa accezione di retorica che farò
riferimento in queste pagine.
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La cooperazione non è necessaria solo quando il ricercatore ricorra alle cosiddette tecniche non intrusive (Webb,
Campbell, Schwartz, Secherest 1966), che focalizzano l’attenzione sulle tracce o su quei prodotti del comportamento
sulle quali gli agenti rinunciano di esercitare una qualche forma di controllo o, pur non rinunciandovi non hanno modo di
farlo. I segni di usura sul pavimento di una biblioteca che indicano l’itinerario di lettura preferito dai frequentatori, i rifiuti
abbandonati in una discarica pubblica, le riflessioni consegnate a un forum pubblico in internet rientrano in questa
fattispecie. Di questo insieme non fanno invece parte i manufatti, i documenti scritti o quelli visuali conservati e talvolta
protetti dalle persone che li hanno prodotti o acquisiti. Il filmino di un matrimonio, tenuto nascosto per le cadute di stile
che impietosamente documenta, il diario segreto di un adolescente, la più improbabile delle collezioni, occultata in uno
scatolone in soffitta rientrano in quest’ultima fattispecie, costituita da documenti naturali accessibili solo attraverso una
delicata negoziazione con i loro possessori. Un esempio interessante del primo tipo di materiali – accessibili senza la
cooperazione dei soggetti – è costituito dall’University of Arizona’s Garbage Project, un’archeologia del presente,
dedicata all’esame dei processi di produzione di un peculiare “manufatto” prodotto dalla nostra società, la spazzatura
(Rathje, Murphy 2001). Lo studio di Pierluca Birindelli, sull’arredo delle stanze degli adolescenti, cui l’autore ha avuto
accesso con il loro consenso e con la loro presenza, costituisce invece un esempio della seconda fattispecie: documenti
naturali accessibili sono attraverso la negoziazione dei loro custodi.
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basati non di rado sull’attivazione di singolari virtù investigative (sensu Douglas 1976), si
ripercuote sullo statuto epistemico della documentazione empirica acquisita: informazioni incerte.
La rilevazione di stati interni produce, sul piano epistemico, risultati analoghi, ma seguendo un
diverso itinerario. È difficile pensare a una ricerca qualitativa che, almeno in ultima istanza, non si
proponga di dire qualcosa su quel mondo sommerso, fatto per l’appunto di atteggiamenti,
credenze, valori, intenzioni e significati riposti nell’azione. Forse neppure gli analisti delle
conversazioni accettano di restare confinati sulla superficie degli atti linguistici, prendendo nota
esclusivamente dei turni di interlocuzione, senza quantomeno cimentarsi nell’interpretazione del
significato riposto degli atti linguistici anomali, che violano – almeno di primo acchito – le regole
della conversazione. L’accesso a questo mondo sommerso si basa sul ricorso a strategie cognitive
che trovano un’efficace illustrazione nella pratica clinica del vecchio medico di campagna. Questi,
consultato dal proprio paziente, approda alla diagnosi attraverso la meticolosa rilevazione di segni
della malattia accessibili al suo sguardo e dei sintomi denunciati dal sofferente. Prenderà nota, ad
esempio, dello stato della cute e delle mucose, delle eventuali alterazioni posturali, ausculterà il
torace per rilevare la frequenza cardiaca per farsi poi descrivere dal paziente i sintomi che accusa,
ad esempio un senso di persistente oppressione al petto. Segni e sintomi vengono poi accostati
per procedere, per successive esclusioni (diagnosi differenziale) all’individuazione della sindrome,
di quello stato inosservabile, responsabile dei segni e dei sintomi rilevati. Potendo contare solo su
di un insieme decisamente rudimentale di strumenti (un fonendoscopio e un orologio da polso),
ben lontani da quelli offerti dalla medicina tecnologica affermatasi negli ultimi decenni, il medico
approda alla diagnosi attivando una forma di sapere “indiziario” (Ginzburg 1979), che consegna
informazioni plausibili, ma comunque congetturali. Sono molte le somiglianze che legano questo
modus operandi a quello del sociologo che attribuisce uno stato su di una proprietà non
osservabile, ad esempio una credenza (cfr. Sperber 1982, trad. it. 1984), sulla base di un insieme
composito di indizi, più comunemente designati come indicatori. Indizi eloquenti, ma di rado
impiegabili come elementi sufficienti all’imputazione, senza incertezze, dello stato non osservabile.
Accanto alle somiglianze merita segnalare una differenza: di norma la collaborazione del paziente
all’impresa cognitiva del clinico è, se non totale, comunque molto elevata, lasciando in ombra solo i
fatti del corpo che il pudore o le pressioni sociali suggeriscono di occultare. Ebbene questa forma
di compliance viene spesso meno nel nostro lavoro di ricerca che deve fare ben più spesso i conti
con depistaggi e nascondimenti. Dunque tutte le informazioni che acquisiamo lungo questo
itinerario – e sono la più parte di quelle che impieghiamo per i nostri scopi – hanno uno statuto
epistemico incerto, si tratta cioè di una sapere plausibile, ma pur sempre congetturale.
L’uno e l’altro aspetto, la dipendenza dalla cooperazione dei soggetti e la natura congetturale
del legame postulato fra stati osservabili e stati non osservabili, imprimono alla documentazione
empirica che impieghiamo per l’edificazione del nostro sapere uno statuto epistemico che rende le
procedure impiegate per motivare la comunità scientifica alla loro adozione (sensu Goodman ed
Elgin 1988) più simili a un etimema, a un sillogismo retorico, che ai più celebrati modus ponens e
modus tollens (vedi Hempel 1966, trad. it. 1968: cap. 2). Detto altrimenti, le procedure con le
quali diciamo qualcosa del mondo, combinando teoria e documentazione empirica, attivando quel
dialogo ricco fra dati e idee richiamato da Howard Becker (1988, tra. It. 2007: 88), si basano sul
ricorso ad argomenti nei quali almeno una premessa, quella che richiama la documentazione
empirica, ha uno statuto incerto e tale da imporre alle conclusioni uno statuto necessariamente
congetturale, quello del sapere tipicamente consegnato da un sillogismo retorico5.
5
L’idea di una costruzione del sapere basato sull’elaborazione di un argomento che contiene nelle proprie premesse
richiami alla teoria e alla documentazione empirica, è illustrata in modo efficace da Alessandro Bruschi, che, per la
corroborazione di un’ipotesi, propone il seguente schema argomentativo (Bruschi 2005: 25).
L’ipotesi h ha una sufficiente evidenze empirica.
L’ipotesi h ha un sufficiente sostegno teorico.
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Dal canto suo, la teoria dell’argomentazione presenta alcuni tratti che mostrano una rilevante
sintonia con il profilo metodologico della ricerca qualitativa, almeno per come qui è stato
tratteggiato. In entrambi i contesti quello che opera non è esclusivamente un sapere formale, un
insieme di algoritmi astratti e impersonali. Su questo aspetto Aristotele è illuminante.
Anzitutto bisogna ammettere che intorno all’argomento di cui si deve parlare e ragionare, sia esso un
ragionamento politico o di qualsiasi genere, è necessario possedere gli argomenti relativi, o tutti o
parecchi; se infatti non se ne ha nessuno, non si possono trarre conclusioni. (Aristotele, Retorica, II
(B), 21-22, 1395 b – 1396 a).
L’altro luogo di sintonia è costituito dall’equivalente di quanto, nel contesto della metodologia
qualitativa, ho definito context sensitivity. La medesima sensibilità al contesto, la medesima
flessibilità propria della ricerca qualitativa si osserva nelle norme che disciplinano l’uso e la
formulazione dei giudizi nella teoria dell’argomentazione. Esemplare in tal senso è il giudizio sulla
fallacia di un’argomentazione, sempre correlato al contesto di produzione dell’argomento e
dell’uditorio cui si rivolge (vedi Van Eemeren Houtlosser 2003: 394; Walton 1988: 250; 1992: 145).
Ciò detto, occorre comunque osservare come i due contesti accostati, la teoria
dell’argomentazione e la teoria della probabilità, non possano essere considerati come
reciprocamente alieni, come “acqua e olio” (vedi infra par. 2.1.2). Sia la teoria della probabilità, sia
la teoria dell’argomentazione si occupano di mettere in forma un sapere a partire da informazioni
incerte. Tanto la teoria dell’argomentazione quanto la teoria della probabilità offrono una soluzione
convincente all’antitesi fra ricerca di una verità assoluta e rinuncia ad ogni verità, lo statuto
epistemico degli asserti prodotti sarà in un caso probabile, nell’altro verosimile, collocandosi,
ciascuno a proprio modo all’interno di quel continuum ideale i cui estremi definiscono i poli
dell’antitesi. Ciascuna cornice teorica dà il meglio di sé in uno specifico contesto, per la ricerca
qualitativa a dare il meglio di sé è indubbiamente la teoria dell’argomentazione.
A questa impostazione si rifà la struttura del testo, composto a partire dalla mia esperienza di
ricerca e di insegnamento6. Il primo capitolo propone una definizione della ricerca qualitativa,
basata sulla definizione dei tratti – due – che caratterizzano questo territorio della ricerca sociale.
Individuate le ragioni che motivano il ricorso alla ricerca qualitativa, il capitolo si chiude con la
presentazione di una tassonomia delle tecniche di ricerca, che individua quattro raggruppamenti,
quattro isole diverse fra loro in ragione delle condizioni di produzione della documentazione
empirica, del tipo di perturbazione indotta – osservativa o perturbativa – e della misura nella quale
il ricorso all’interlocuzione concorre alla costruzione del dato.
Il cuore del libro è costituito dai capitoli che scandiscono le tre tappe canoniche del lavoro di
ricerca, la progettazione dello studio, il lavoro sul campo e l’analisi della documentazione empirica.
La prima e l’ultima tappa presentano tratti comuni per tutte le tecniche di ricerca qualitativa, per
questa ragioni i due capitoli dedicati, rispettivamente, al disegno della ricerca (cap. 2) e all’analisi
della documentazione empirica (cap. 6), affrontano la materia trattata in un registro generale,
applicabile – con le dovute mediazioni – a tutte le tecniche di ricerca qualitativa. Nei tre capitoli
centrali l’attenzione cade sul lavoro sul campo, considerando separatamente l’osservazione
partecipante (cap. 3), l’intervista discorsiva (cap. 4) e il focus group (cap. 5).
Il disegno della ricerca (cap. 2) viene presentato come il luogo nel quale viene avviato il
processo di costruzione dell’argomentazione persuasiva che, portata a termine nel corso del lavoro
L’ipotesi alternative sono state respinte.
______________________________________
L’ipotesi h è vera.
6
Nel testo non trovano un adeguato sviluppo le procedure di analisi della conversazione e del discorso, sulle quali esiste
comunque un’ampia letteratura richiamata nei due manuali di base tradotti in italiano (Fele 2007; Mantovani 2008).
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di ricerca, consentirà di difendere la plausibilità dei risultati conseguiti e la legittimità
dell’estensione della loro predicabilità. È in questo capitolo che viene affrontato in modo analitico la
questione – particolarmente delicata nel contesto della ricerca qualitativa – della scelta dei casi e
del campionamento e con ciò delle procedure con le quali difendere la legittimità della
“sineddoche” con la quale quanto osservato su di una parte si intende esteso al tutto (vedi Becker
1998, trad. it. 2007: 89). A questo scopo vengono considerati due strutture argomentative basate
sul ricorso all’esempio e dirette ora alla costruzione, ora alla rappresentazione della conoscenza.
Il capitolo dedicato all’osservazione partecipante (cap. 3), così come quelli che gli seguono,
dedicati all’intervista discorsiva e al focus group, si propone di mettere in forma i principali
problemi che si presentano sul campo, prefigurando per ognuno una e spesso più soluzioni,
supportate dal richiamo a specifici esempi di ricerca. Alla ricostruzione del profilo epistemico di
questa tecnica di ricerca, segue la ricostruzione delle principali tappe del lavoro sul campo,
dall’accesso alla forma della partecipazione, dalla stesura delle note etnografiche al ricorso a
procedure di backtalk. Particolare attenzione viene dedicata alle attività di osservazione per le
quali, sulla scia di Becker, vengono proposti alcuni “trucchi” per vedere altrimenti, alcune euristiche
dell’osservazione.
Nel capitolo dedicato all’intervista discorsiva (cap. 4), la ricostruzione del profilo epistemico di
questa tecnica di ricerca viene affrontata di petto nella ricostruzione del dibattito sullo statuto delle
informazioni acquisite con un’intervista discorsiva. Il capitolo prosegue poi con l’esame delle tappe
canoniche del lavoro sul campo, dalla redazione della traccia d’intervista, alla trascrizione dei
colloqui, passando attraverso l’illustrazione di una serie di accorgimenti cui fare ricorso nel lavoro
difficile di conduzione di un’intervista.
Da ultimo, il capitolo sul focus group, si confronta con la letteratura metodologica corrente,
rispetto alla quale propone una decisa liberalizzazione delle forme di conduzione dei gruppi di
discussione e la lettura di quanto accade fra le persone sedute attorno al tavolo in una chiave
prossima a quella dell’esperimento di laboratorio. Comune ai tre capitoli dedicati alle tecniche di
ricerca è la critica alla concezione del lavoro sul campo che con Douglas (1976) e il duo Atkinson,
Silverman (1997) possiamo etichettare “romantica”. Questa concezione, sostenuta da studiosi di
diversa obbedienza epistemologica, assume che l’accesso e la conquista della fiducia dei nostri
interlocutori si traducano immediatamente nella generazione di rappresentazioni o resoconti
autentici della loro vita. L’ottimismo ingenuo di questo orientamento è contestato, ma non sino al
punto di approdare alle forme più radicali di scetticismo, per le quali nulla può essere detto sul
mondo. A questo scopo, in più luoghi del testo, ho fatto riferimento ai metodi di ricerca
“investigativi” che Jack Douglas invita ad affiancare ai più consueti metodi “cooperativi” (Douglas
1976).
Il capitolo con cui si chiude il volume (cap. 6), dedicato all’analisi della documentazione
empirica, muove da due semplificazioni analitiche con la quali mi propongo di riabbracciare
l’insieme delle tecniche di ricerca presentate. La prima raggruppa la documentazione empirica in
tre classi, i reperti, le riproduzioni e le rappresentazioni, riconoscendo ad ognuna – ceteris paribus
– un diverso potere probante, considerandole fonti (come farebbe uno storiografo) cui compete
una diversa “area di autenticità” (Topolski 1973, trad. it. 1975: 501), fonti cioè diverse per la
somma delle domande cui sono in grado di fornire una risposta eloquente. La seconda
semplificazione conduce alla condensazione di tutte le operazioni di analisi a tre passi:
segmentazione, qualificazione e individuazione delle relazioni. Chiude il capitolo una riflessione
sulla scrittura, in particolare sui due dispositivi di configurazione dei risultati più promettenti per la
ricerca qualitativa, la metafora e il tipo ideale.
Alcuni colleghi e amici hanno letto e commentato le prime stesure di questo lavoro, sono: Carlo
Capello, Michele Cioffi, Annalisa Frisina, Michele Manocchi, Antonella Meo, Davide Pellegrino,
Stefano Ramello, Francesca Salivotti, Giovanni Semi, Andrea Sormano e Viviana Sappa. A tutti loro
va il mio ringraziamento, insieme alle scuse per non aver saputo accogliere sempre e per intero le
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loro indicazioni. Nei confronti di Nicola Pannofino ho un debito speciale per la guida che ha saputo
fornirmi nel territorio della teoria dell’argomentazione. Grazie a mia moglie Carla, per tutte le volte
che è accorsa al computer a leggere frasi o pagine sulla cui chiarezza avevo dei dubbi. Grazie,
infine, a Massimo Baldini che ha saputo aspettare la conclusione di questo lavoro, accettando – ma
non troppo – le mie continue richieste di proroga. Va da sé, come ovvio, che gli errori e le
imprecisioni di questo testo devono essere imputate solo a me.
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