ACCADEMIA TEMPLARE – TEMPLAR ACADEMY ATTI DEL CONVEGNO "1800: IL SECOLO DEL PATRIOTTISMO RISORGIMENTALE” PALERMO Villa Niscemi - Sala delle Carrozze 30 novembre 2013 A cura di Filippo Grammauta ACCADEMIA TEMPLARE – TEMPLAR ACADEMY Associazione di Promozione Sociale Roma 1 2 Resoconto del Convegno Sabato 30 novembre 2013, a Palermo, nella Sala delle Carrozze di Villa Niscemi, in occasione della commemorazione di Nicolae Balcescu, eroe risorgimentale rumeno morto e sepolto a Palermo, si è svolto un convegno organizzato dall’Accademia Templare-Templar Academy in collaborazione con il Gran Priorato d’Italia - O.S.M.T.H. (Commenda “Santa Maria Maddalena dei Templari” di Palermo), l’Associazione Antonino Caponnetto ONLUS e l’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano - Comitato di Palermo. Dopo l’introduzione dell’Ing. Filippo Grammauta, che ha esposto l’attività svolta dall’Accademia Templare-Templar Academy, e la presentazione del Dott. Domenico Callea, Grande Ufficiale del Gran Priorato d’Italia - O.S.M.T.H., sono stati trattati i seguenti temi: 1. "Il sostegno inglese alle istanze risorgimentali italiane", a cura del Dott. Claudio Paterna; 2. "Nicolae Balcescu: un patriota europeo", a cura del Prof. Michelangelo Ingrassia; 3. "La reazione al centralismo sabaudo", a cura dell’Arch. Roberto Tripodi; 4. “Le prospettive della società europea- Luci e ombre”, a cura del Dott. Michel Tarlowski. Hanno moderato la Dott.ssa Carmela Bennardo, Direttrice della Sezione “Cagliostro” di Palermo dell’Accademia Templare-Templar Academy, e il Dott. Mario Pavone, Commendatore della Commenda “Santa Maria Maddalena dei Templari” di Palermo. Dopo il convegno, al quale ha partecipato un folto pubblico, è stata inaugurata la sede della Sezione “Cagliostro”, gentilmente messa a disposizione da Carmela Bennardo, Vincenzo Scalia e Guglielmo Corrente, tutti Soci dell’Accademia Templare-Templar Academy. Il Segretario Generale Ing. Filippo Grammauta 3 Il tavolo della Presidenza (Da destra: Domenico Callea, Carmela Bennardo, Mario pavone, Filippo Grammauta e Michel Tarlowski) L’intervento del Segretario Generale, Ing. Filippo Grammauta 4 PRESENTAZIONE Filippo Grammauta È il secondo anno che la figura di Nicolae Balcescu viene commemorata a Palermo, città in cui morì il 29 novembre 1852 a soli 33 anni e dove ancora oggi riposano le sue spoglie. In entrambi i casi l’iniziativa è partita dai membri di Palermo del Gran Priorato d’Italia – O.S.M.T.H., ed ha visto ogni volta la partecipazione di una delegazione appositamente arrivata dalla Romania. Quest’anno si è andati oltre; l’eroe rumeno è stato ricordato con un convegno a lui dedicato e nell’anniversario della sua morte è stata deposta una corona di fiori ai piedi del busto marmoreo che la città gli ha dedicato nella centrale Villa Garibaldi. L’Amministrazione comunale è stata presente alla cerimonia con il suo gonfalone ed ha gentilmente messo a disposizione i locali della prestigiosa Villa Niscemi per la celebrazione del convegno. Il convegno è stato organizzato dall’Accademia Templare-Templar Academy di Roma e dalla Commenda “Santa Maria Maddalena dei Templari” di Palermo, con la preziosa collaborazione dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano – Comitato di Palermo, e dei suoi più importanti esponenti nella qualità di relatori. È la prima volta che un convegno dell’Accademia Templare-Templar Academy affronta temi non direttamente legati al Medioevo; ma la moderna società occidentale è figlia del Medioevo, e pertanto è giusto che i moderni templari si facciano carico di studiarne l’evoluzione sociale e politica. È nel Medioevo che si sono poste le basi per la costituzione degli Stati nazionali, molti dei quali si sono formati nell’800, il secolo delle rivoluzioni, il secolo che volle dare un assetto più democratico all’Europa rispetto a quello uscito dal congresso di Vienna. È nell’800 che l’Italia raggiunse la tanto agognata unità; è nell’800 che la Romania nacque come Stato unitario, grazie anche al sacrificio di Nicolae Balcescu. È nell’800 che, con il contributo di idee di Mazzini e di Balcescu, si posero le basi per una nuova Europa, intesa come 5 “federazione delle nazionalità, alternativa alla vecchia Europa dei governi e degli Stati al servizio del mercato imperialista”. Ma i sogni di Mazzini e di Balcescu si sono veramente e pienamente avverati? In parte sì! L’Italia e la Romania oggi sono Stati nazionali, e sono entrambe membri dell’Unione europea. Ma è questa l’Europa agognata e per la quale milioni di cittadini hanno tifato nell’ultimo mezzo secolo? Dai moti rivoluzionari del 1848, che infiammarono tutta l’Europa, è trascorso un secolo e sono state combattute due terribili guerre mondiali prima che si riuscisse a mettere mano all’Europa del mercato unico. Sono passati altri 50 anni per arrivare all’unione monetaria, e tuttavia, ancora oggi le decisioni sono assunte da una tecnocrazia non eletta e lontana dai bisogni reali dei cittadini europei. Ma quando vedremo l’unione politica dell’Europa, governata da una politica sensibile ai bisogni della gente, alle tradizioni dei popoli e capace di marciare di pari passo con le economie più avanzate del globo? I tempi dell’Europa sono stati fin qui lenti: “l’Inno alla gioia è stato composto da Schiller nel 1786, è stato utilizzato come corale da Beethoven nel 1824, è stato adottato come inno europeo nel 1972”. Se non si fa presto, l’Europa sarà costretta a cambiare musica, e magari dovrà adottare l’Incompiuta di Schubert! ___________ 6 IL SOSTEGNO INGLESE ALLE ISTANZE RISORGIMENTALI ITALIANE Il caso Sicilia: un patrimonio storico da recuperare. Claudio Paterna L’argomento, di per sé molto vasto e complesso, pur prestandosi a una comunicazione di tipo orale-didattica, richiede in sede di relazione scritta un accurato riferimento alle fonti bibliografiche e alle fonti di critica storiografica. Non sembri superfluo indicare la metodologia adottata in questa breve ricerca, che si colloca all’interno di un convegno dedicato agli Eroi risorgimentali e alle problematiche europee emerse dai movimenti di liberazione nazionale nel XIX secolo. Titolo del convegno è, infatti, “L’Ottocento, secolo del patriottismo risorgimentale” e va a merito dell’Accademia Templare-Templar Academy e del Gran Priorato d’Italia - O.S.M.T.H., aver dedicato uno spazio storico ai “cavalieri” della libertà d’ogni tempo, segnatamente gli eroi risorgimentali come Nicolae Balcescu, patriota rumeno, morto a 7 Palermo nel 1852, simbolo di tutte le lotte risorgimentali d’Europa in quella fase storica non sempre analizzabile col solo aiuto delle fonti storiche ufficiali. Oltrepassare la soglia delle “fonti” storiche ufficiali rientra appunto nella scelta adottata già all’atto di assumere l’incarico di Presidente del Comitato di Palermo dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, cioè quella di porre in rilievo il contributo di altre discipline quali le fonti “orali”, cioè quella quelle iconografiche e storico-artistiche, letterarie, statistiche, demografiche ed etnoantropologiche. Ciò consente di sfuggire ai giudizi storiografici parziali delle cosiddette fonti storiche “egemoni” attraverso il collegamento ad un tipo di storia più antropologica, più fondata sulle fonti “subalterne”, senza per questo tralasciare l’indagine diretta delle testimonianze del tempo, attraverso una visione didattica basata sulle cosiddette “storie di vita” dei protagonisti e delle loro vicende umane, così come l’esperienza di docente di Storia e Filosofia nei Licei mi aveva consigliato. PREMESSA STORIOGRAFICA Il Gruppo di studi britannici sul Risorgimento italiano. Devo parte degli stimoli offerti da questo studio all’attività condotta in seno all’Istituto Centrale per la Storia del Risorgimento Italiano, dal gruppo estero, segnatamente quello britannico diretto da Andrea Ciampani, Romano Ugolini e John A. Davies, che - in occasione del LXVI congresso nazionale di Firenze del 2011, dal titolo “L’unità d’Italia in Europa” hanno elaborato una serie di relazioni storiche fondamentali per chiunque si voglia cimentare sull’argomento. Va detto in proposito che già nella stessa città di Firenze nel 1956 si era svolto il XXV congresso dell’Istituto e la tematica riguardava lo stesso argomento:”Il problema italiano nella politica europea 1849-1856”, i cui Atti sono stati curati da F. Valsecchi. Ma adesso faccio riferimento al saggio di J. A. Davies “The risorgimento: from national to trasnational perspectives”1. L’autore muove dalle considerazioni storiografiche dei maggiori studiosi britannici contemporanei della storia italiana (Lucy Ryall, Stuart Woolf, Cristopher Duggan, Adrian Lyttelton, Bruce Haddock, Jonathan Keates, Mark Seymour, Oswain Wright), mettendo in rilievo le tematiche 1 Atti del LXVI congresso, pag.129. 8 che più hanno coinvolto l’opinione pubblica britannica sull’argomento, ovvero: le origini del Fascismo dal Risorgimento alla prima guerra mondiale, il ruolo delle donne italiane nell’emancipazione, il liberalismo e il federalismo risorgimentale, il ruolo delle “arti” italiane nella crescita della coscienza nazionale, i movimenti religiosi non cattolici dell’ottocento italiano. Queste solo alcune delle tematiche affrontate nel saggio di Davies, che presenta, a suo merito, una sconfinata bibliografia. Ma per tornare alla nostra ricerca storica sull’ottocento va subito posta in evidenza la complessa politica estera delle potenze europee e degli stati preunitari italiani, segnatamente l’esperienza delle guerre antinapoleoniche e del Parlamento siciliano del 1812, in cui i britannici ebbero un ruolo decisivo sul piano militare e non solo. La recente mostra inaugurata all’Assemblea regionale siciliana in occasione del bicentenario del Parlamento siciliano (Parlamento riformato, fortemente voluto da lord Bentick e dall’ambasciatore britannico), ha posto in rilievo personaggi e vicende di un periodo poco studiato per via dell’egemonia culturale del riformismo franco-bonapartista sugli storici risorgimentalisti italiani. È evidente dalla ricerca storica britannica (Trevelyan, Mack Smith, Cole, Hobsbawn, Greenfield), ma anche da quella italiana (Amari, Ferrara, Villari, Alatri, Romeo, Morelli ed altri) che il contributo della diplomazia e dell’esercito britannico in questa prima fase delle vicende risorgimentali italiane fu decisivo e lasciò tracce tangibili sul pensiero politico liberalriformista degli anni preunitari, ma anche del periodo postunitario, creando le premesse di una visione alternativa alle scelte “centraliste” di tipo francese, operate dai governi sabaudi. È da queste premesse che nasce la curiosità britannica per il nazionalismo italiano, poi in parte tragicamente sfociato nel Fascismo, con la rottura di equilibri diplomatici e storici consolidati per tutto l’ottocento tra Gran Bretagna e patrioti italiani. Con troppa fretta si è cancellato, da parte di storici e studiosi del calibro di Croce, Salvemini, Momigliano e altri, l’alternativa liberal-riformista proposta dal pensiero anglosassone in luogo delle soluzioni giacobinobonapartiste proposte per il programma del nuovo stato nazionale italiano, quasi interamente fatte proprie, prima dalla breve esperienza riformista borbonico-murattiana, poi dallo stato sabaudo divenuto stato italiano. 9 A. La posizione britannica nel primo trentennio dopo il congresso di Vienna (1815-1845) Fu certamente un calice amaro per lord Bentick, luogotenente generale delle truppe britanniche in Sicilia, e poi in Italia, accettare le risoluzioni del congresso di Vienna, che vedeva un sostanziale accordo tra Gran Bretagna e paesi assolutisti nel richiedere le spoglie degli stati già occupati dai bonapartisti in Italia (Napoli, Roma, Genova, Venezia, Modena, Milano), ora ritornati ai vecchi sovrani, ma senza alcuna garanzia di riforme in senso parlamentare. Quanto era stato tentato con le armi tra il 1813 e il 1815, con la costituzione dell’esercito anglo-siculo per liberare l’Italia dal dominio napoleonico ma istaurando regimi costituzionali, andava perso. Bentick, da buon militare, veniva “spedito” in India e non batteva ciglio agli ordini dei superiori, come si conveniva per un rampollo dell’aristocrazia. Ma le cose non durarono a lungo in questo modo e già dopo la soppressione del Parlamento siciliano e la creazione del Regno delle Due Sicilie (1816), l’ambasciatore britannico a Napoli iniziava una fitta e critica corrispondenza col governo britannico dei Toryes, dov’era prevalente la linea conservatrice del Castlereagh2. Già nel 1815 il primo ministro inglese negò che la quadruplice alleanza tra le nazioni vincitrici (G. Bretagna, Prussia, Russia, Austria) potesse interpretarsi come impegno a intervenire ovunque si manifestassero mutamenti istituzionali interni all’assetto stabilito dalla Restaurazione. Già diversi mesi prima che la conferenza di Troppau3 emanasse la solenne dichiarazione sul principio d’intervento, l’Inghilterra di Castlereigh, pur da posizioni conservatrici, contrappose il principio del 2 3 Robert Stewart (Dublino, 18 giugno 1769 - Loring Hall, 12 agosto 1822), meglio noto come Lord Castlereagh, fu un politico anglo-irlandese, ministro degli esteri dal 1812. Rappresentò il Regno Unito al Congresso di Vienna. La conferenza di Troppau si svolse, dal 23 ott. al 17 dic. 1820, nella città ceca di Opava (in tedesco Troppau). Fu indetta dalle potenze della Santa alleanza – con la partecipazione della Francia e della Gran Bretagna – che intendevano così opporsi alla minaccia liberale. Voluta dal cancelliere austriaco Klemens von Metternich dopo la rivoluzione napoletana del 1820, la conferenza sancì il principio generale dell’intervento militare dovunque si manifestassero rivoluzioni, limitandolo per il momento alla questione di Napoli. 10 “non intervento”, e dal 1820 la posizione fu di dissidenza dalle antiche alleate. Questa posizione, pur non avendo effetti immediati, si rivelò utile alle sorti del liberalismo in Portogallo, Spagna e America latina, e tale posizione fu accentuata dal 1822 con il nuovo primo ministro George Canning, anch’egli tory, ma aperto a orizzonti d’intesa con gli stessi USA. Erano scoppiati già i moti del 1820-21 nel regno di Napoli, in Spagna e nelle Americhe, e si richiedevano a gran voce le costituzioni del 1812. Un certo tipo di assolutismo bigotto, rapace e aristocratico, aveva perso consensi nell’emisfero di lingua ispanica. Il Principe di Metternich Quanto di sopito e celato era rimasto nei rapporti diplomatici tra Gran Bretagna e stati assolutisti italiani veniva ora alla luce, soprattutto in forma di rottura eclatante nei confronti dei Borbone di Napoli, accusati, oltre che 11 di ottusa repressione dei moti riformisti, anche di subdole alleanze militari, talvolta con i Francesi, talvolta con gli austro-asburgici, arrivati fino a Palermo con truppe e cannoni, laddove i britannici erano lì per lì per fare della Sicilia un loro protettorato nel Mediterraneo, poi “ceduto” alla corona borbonica, ancora una volta irriverente e non rispettosa dei patti. Lord Palmerston nel 1855 Dal 1815, e per circa un trentennio, la posizione della Gran Bretagna verso le istanze nazionali in Europa non si distaccò da quella tradizionale dei conservatori, che preferivano la status quo nell’area mediterranea e la non prevalenza francese nei confronti dell’Austria. Fu spesso una politica di fiancheggiamento a quest’ultima, e al Metternich in particolare, ma non sul piano delle riforme liberali, dove ebbe sempre una sostanziale coerenza nel rilanciare il liberalismo e il costituzionalismo in tutti gli Stati4. L’Inghilterra di quegli anni era un fiume in piena di movimenti di riforma sociale: nel 1832 si arriva a una sostanziale riforma elettorale dopo 4 Si veda P. Silva, “Il Mediterraneo”, Milano, 1924; A. Signoretti: “Italia e Inghilterra durante il risorgimento”, Milano, 1941; N. Bianchi: “Storia documentata della diplomazia europea dal 1814 al 1861”, Torino, 1872. 12 una serie di governi riformatori guidati da personalità come Huskisson e Peel. Nelle elezioni del 1830 la nuova maggioranza del partito Whigs, con i radicali rovesciò il governo Tory del duca di Wellington e mise mano alla grande riforma elettorale (Reform Act). Spetterà al nuovo ministro degli esteri Palmerston5 avviare una nuova politica con gli stati liberali e costituzionali nati in quegli anni. Nel 1834 si crea una nuova Quadruplice alleanza, l’Entente Cordiale, costituita da Gran Bretagna, Spagna, Francia e Portogallo, ora in opposizione alla “santa” alleanza, e in particolare contro l’Austria e la Russia. Si stravolgono le alleanze tradizionali in Europa proprio per l’atteggiamento ambiguo del Metternich6, ora vicino alla Francia. Palmerston, divenuto Primo Ministro, invia l’ambasciatore lord Minto in Italia proprio in funzione antiaustriaca e i movimenti di indipendenza vengono incoraggiati anche nella penisola, com’era già avvenuto in Sicilia. Dal 1846 vengono incoraggiate le riforme di Pio IX, vengono condannati i tentativi di intervento austriaco, si esortano i principi italiani a seguire la via delle riforme costituzionali. Anche la più retriva e arretrata monarchia, quella di Ferdinando II, viene esortata verso il cambiamento, e la Gran Bretagna garantisce per una mediazione nella controversia indipendentista siciliana7. B. Gli imprenditori e i tecnici britannici in Sicilia Ma i mutamenti riguardano anche un nuovo tipo di presenza britannica, con la creazione del “secondo” impero, prima caratterizzato 5 6 7 Terzo visconte Palmerston, Henry John Temple (Westminster, 29 ottobre 1784 18 ottobre 1865) è stato un politico inglese. Lord Palmerston viene soprattutto ricordato per la direzione della politica estera del Regno Unito in un periodo in cui la Gran Bretagna si trovava al massimo della sua potenza, in qualità di Segretario di Stato per gli Affari Esteri prima e di Primo Ministro poi. Klemens Wenzel Nepomuk Lothar von Metternich-Winneburg-Beilstein, conte e, dal 1813, principe di Metternich-Winneburg (Coblenza, 15 maggio 1773 Vienna, 11 giugno 1859), è stato un importante diplomatico e politico austriaco, dal 1821 cancelliere di Stato. È stato al centro di tutte le trattative diplomatiche che hanno caratterizzato lo svolgimento del congresso di Vienna. B. Zumbini: “Gladstone nelle sue relazioni con l’Italia, Bari, 1914; A. Colombo: “L’Inghilterra nel risorgimento italiano”, Milano, 1917; G. Volpe: “L’Italia del risorgimento e l’Europa”, Milano, 1951. 13 dall’abolizione della schiavitù (1833), ma anche dalla paradossale “guerra dell’oppio”; poi sotto l’egida della regina Vittoria, una nuova concezione imperiale e non coloniale, con la promozione del Commonwealth delle nazioni, che favorirà un intensa attività commerciale messa in crisi solo agli inizi del XX secolo. Venendo più specificamente alle questioni relative all’indipendenza italiana, in particolare a quella della Sicilia, visualizziamo ora alcuni dati economici e statistici sui benefici della presenza britannica, dati che rientrano in quella storiografia non ufficiale, e tuttavia frutto di ricerche negli archivi notarili, nei “riveli”, nelle corrispondenze private, nelle gazzette economiche e commerciali d’epoca, tra cui la famosa Gazzetta Britannica stampata a Messina, recentemente messa a disposizione, durante il bicentenario all’Assemblea regionale siciliana, dati che raccolgono quantitativamente informazioni preziose da sistemare organicamente. Antica immagine dell’Orto Botanico di Palermo Tralasciamo l’aspetto specificamente statistico-demografico di cui ha trattato ampiamente Orazio Cancila nel suo saggio del 1995 “Storia dell’industria in Sicilia” (parte prima, pagg. 5-133) e ci dedichiamo alle corrispondenze private, tra cui i diari di viaggio. 14 Una fonte certamente inusuale è quella dei diari dell’architetto francese Leon Dufourny, che trascorre a Palermo cinque anni intensi (1789-1793), durante i quali progetta l’Orto Botanico, ma annota nel suo “Diario di un giacobino” la vita dei salotti aristocratici palermitani del tempo, che pullulano di ambasciatori, uomini d’affare, antiquari, viaggiatori, militari soprattutto inglesi e francesi - stabilitisi a Palermo in un momento di grandi cambiamenti determinati in Europa dalle vicende rivoluzionarie francesi. Altra fonte d’interesse sui modi e costumi degli imprenditori britannici in Sicilia è quella fornita da I. D. Neu ne “Un uomo d’affari inglese in Sicilia”, in “Nuovi Quaderni del Meridione n° 91, luglio-settembre 1985”, che analizza le vicende commerciali individuali dal 1806 al 1861. Orazio Nelson Ma sono soprattutto le innovazioni tecniche e le attività imprenditoriali che rendono protagonisti i sudditi di Sua Maestà in Sicilia, tra la fine del XVIII sec. e la metà del XIX sec., e di cui abbiamo riscontri in innumerevoli resoconti, gazzette, atti notarili, regolamenti di istituti nautici e agrari; e soprattutto và dato atto agli studiosi Rosario Lentini e Mario 15 D’Angelo, di avere fatto luce, prima di Cancila, sul primato britannico in Sicilia8. Iniziamo col dire che gli Inglesi avevano creato la prima carta idrografica delle acque territoriali: era stato il luogotenente della Regia Marina Smyth che tra il 1814-16, assieme allo scienziato Piazzi, avevano realizzato quella mappa che evitava l’affondamento dei vascelli vicino le coste9. Sempre gli Inglesi, per venire incontro alle esigenze dell’esercito britannico, a partire dal 1815 avevano sviluppato in Sicilia l’industria del cuoio, della seta e del cotone. I bacini di carenaggio di Palermo e Messina furono totalmente rinnovati all’epoca di Nelson e fu fondata pure una scuola nautica ad opera di monsignor Gioeni, filantropo alla scuola dei fisiocrati britannici. Orazio Cancila dedica un capitolo del suo libro (pag. 121) all’attività cantieristica e armatoriale sostenuta dagli inglesi fin dagli inizi del XIX secolo. Così, tra il 1810 e il 1830, il tonnellaggio della marina mercantile siciliana raddoppiò, e non certamente per la benevolenza del re di Napoli, che ostacolava soprattutto la costruzione di navi a vapore nei bacini siciliani. Solo nel 1841 fu varata la prima nave a vapore siciliana, la “Palermo” di costruzione scozzese, 150 cavalli vapore, e per i commerci c’erano già 20 piccoli transatlantici siciliani in giro nel mondo10. Gli inglesi, almeno fino al 1840, trasportavano nel resto del mondo quasi la metà delle merci siciliane. Questo successo era dovuto soprattutto alla sconfitta definitiva, ad opera di una manovra navale congiunta di americani e britannici nel 1816, della pirateria degli stati barbareschi di Tunisi, Tripoli e Algeri. Poi, a partire dal 1830, questa “pulizia” dei mari fu rafforzata dalle manovre continue della flotta francese verso l’Algeria. La prima macchina da stampa Stanhope fu importata a Palermo da imprenditori britannici nel 1830, così come gli impianti a vapore per la tessitura e il filtraggio dello zolfo. Il commercio fu galvanizzato dall’ingegno della famiglia Florio a partire dal 1840, ma loro stessi erano stati agenti commerciali dei Rothschild per i vini e lo zolfo siciliani. Quando Ingham decise di aprire il primo stabilimento enologico, anche Ignazio Florio si unì, e fondò con lui una società di navigazione (1839-40). 8 Rosario Lentini ne “La presenza degli Inglesi nell’economia siciliana”, in R. Trevelyan ”La storia dei Whitaker”, Palermo, 1988 e Mario D’Angelo ne “Mercanti inglesi in Sicilia 1806-1815”, Milano, 1988. 9 Denis Mack Smith, ”Il Risorgimento”, pag. 497. 10 Denis Mack Smith, op. cit., pag. 500. 16 La qualità della seta siciliana nel 1818 migliorò con l’arrivo dall’Inghilterra di Jaeger di Hannover e di Thomas Hallam, che introdussero gli impianti meccanici Jacquard. Così come i filatoi Arkwright nei dintorni di Palermo e Messina. La fabbrica Synder nel 1837 portava a 80 i suoi telai a Messina, mentre i due setifici Hallam di Gazzi e Faro si espandevano anche a Villa San Giovanni e nella stessa Inghilterra. La corsa agli investimenti nel settore solfifero iniziò a partire dal 1815, dopo la guerra, utilizzando il metodo di estrazione Leblanc11, proprio vicino alle zone portuali dell’agrigentino (Sciacca, Porto Empedocle, Licata ecc.) e nel 1834 la produzione di acido solforico raggiunse l’apice. Impiantarono loro stabilimenti George Wood, Edmund Hardman, gli stessi Ingham, William Sanderson, l’impresa Morrison-Valentine e Gardner-Thurnbur-Rose12, impresa anglo-americana quest’ultima, che dal 1854 investiva anche nel settore della molitura del sommacco, materia prima per la concia delle pelli. Vi era uno scambio di tecnici per la manutenzione delle pompe di estrazione, e venivano dalla Scozia e dalla Cornovaglia: nel 1837 un tecnico gallese, Giorgio Mosder, sostituì con pompe a vapore le pericolose pompe a mano necessarie a mantenere le miniere libere dall’acqua. Ma tutto questo ebbe una brusca svolta involutiva a partire dal 1836, e vedremo più avanti perché. Nel campo energetico spetta a John George Skurray, un anglomessinese, il merito di avere installato a Palermo, nel 1837, la prima fabbrica di carbon coke. A Fiumedinisi, in provincia di Messina, zona mineraria scoperta dagli asburgici, l’impresa di Donald Mc Leon curava un’attività estrattiva di pietre minerali, di piombo e rame fino al 1850. A Palermo la Fonderia Oretea dei Florio si avvalse della presenza del tecnico inglese Gill. il meccanico più competente intorno al 1856. Il sig. Hood, commerciante di fiducia di Sua Maestà, importa 14 cannoni da 32 e uno da 84, che dovevano servire ad armare una fregata a vapore nel porto di Palermo (1848). Questi cannoni erano depositati nei magazzini del governo inglese e Palmerston non ebbe alcuna remora a venderli ai rivoltosi siciliani13. 11 Metodo messo a punto alla fine del XVIII sec. in Francia per ottenere la soda dal salmarino. 12 Cancila, op. cit. pag. 24. 13 Si veda A. Rotolo: “La cultura meccanica siciliana dal XVII al XIX secolo”, Palermo, 2009. 17 Altri importatori di armi e revolver erano i Knesevik, che avevano botteghe in corso Vittorio Emanuele a Palermo14. Tra le fonderie ottocentesche si ricorda lo stabilimento Panzera di Palermo, in via Buonriposo, diretto dai tecnici inglesi J. Rueben e E. Spengler nel momento di massima attività dello stabilimento, e la già menzionata concorrente Fonderia Oretea. I resti della Fonderia Oretea Generi per casalinghi, oltre le cucine economiche Rumford, erano importati dai sigg. Dicson, Garder, Wood e Morrison, così come li descrive il “Giornale del Commercio” nel 1838. I commercianti inglesi si stabilirono prevalentemente a Messina, dove attorno al 1842 vi erano ben 14 “case mercantili”. Altre 13 di queste case Inglesi si trovavano sparse tra Palermo (con bel 6 case), Catania, Marsala, Mazara, Girgenti e Licata. I loro empori principali erano nel quartiere Kalsa a Palermo (di cui si notano gli avanzi dell’antica vetriera in via Spasimo). A Messina presso la Palizzata. Naturalmente era l’industria enologica del Marsala a figurare tra le voci più produttive nell’esportazione, e spetta a John Woodhouse il merito di avere introdotto nel 1773 l’uso di preparare il vino alla maniera di Madera15. Lo seguì il fratello William. Poi vennero Joseph Payne e James Hopps. A Marsala Thomas Corlett otteneva in enfiteusi, e poi acquistava, il baglio al Boeo. Poi approdavano Benjamin Ingham e Lee Brown (successivamente in società col principe di Partanna alla tenuta Lo Zucco). Quest’ultimo nel 1820 fu rimpiazzato da Rickard Stephens, con l’apertura 14 Rotolo, op. cit., pag. 126. 15 O. Cancila, “Storia dell’industria in Sicilia”, Palermo, 1995. 18 di nuovi stabilimenti a Castelvetrano, Campobello, Balestrate e Vittoria. Da Palermo partivano i vini imbottigliati dalla Wood, e da Castellammare quelli di Benjamin Gardner. Joseph Gill risultava il maggiore esportatore di vino Marsala in USA, assieme al Woodhouse. Intorno al 1845, altri piccoli stabilimenti erano gestiti dalle famiglie Corlett, Whyte e Clarkson. Joseph Smithson da Messina esportava in Gran Bretagna i vini siciliani. Anche nella produzione della liquirizia gli imprenditori inglesi fanno da battistrada a Mazara del Vallo, e nel settore dell’inscatolamento della carne (in salamoia) ad uso di navigazione, spetta a Rickard Poppleton il merito di avere creato uno stabilimento a Messina nel 1841. Nel settore agrumario, altra voce attiva nell’esportazione, James Power, titolare della Unett di Messina, inizia a produrre acido citrico intorno al 1838. Lo seguirà poco dopo William Sanderson con uno stabilimento all’avanguardia in Europa, che sopravvisse fino agli inizi del novecento. Tecniche di costruzioni stradali erano state progettate dal De Weltz sulla base dei sistemi Mc Adam, ma il governo “centrale” borbonico guardava anche qui con sospetto. Macchine idrauliche ed ausiliarie per l’edilizia venivano importate da August Achralt (1826). Una macchina aerea, con motore a vapore del tipo scozzese Geolls, fu inventata dal sig. Helson nel 1843. I Whitaker, oltre che in campo enologico, operavano anche in campo tessile con uno stabilimento a vapore a Villa Sofia di Palermo. Ma in questo settore emergeva Guglielmo Solter, con una prodigiosa macchina che avvolgeva la seta (1826), e Samuel Lopkins, che nel 1829 si adopera ad ottenere trattamenti industriali per i cuoi siciliani. Contro le pretese assolutiste e religiose di Austria, Prussia e Russia, la miccia del contrasto covava da tempo e le rivoluzioni del 1830-31 non erano che l’anticipazione di quello che sarebbe accaduto nel 1848-49, quando la Santa Alleanza fu messa veramente alle corde, con la Gran Bretagna che non stava certamente a guardare gli avvenimenti. C. Il degrado dei rapporti diplomatici tra Gran Bretagna e stati italiani filo-asburgici: il caso dei Borbone di Napoli. Non vi erano solo cause politiche alla base del deterioramento dei rapporti, anzi le cause economiche funsero da esplosivo: quando nel 1836 re Ferdinando diede il monopolio degli zolfi siciliani alla ditta francese Taix & Aycard, il governo Palmerston minacciò addirittura un intervento 19 armato per salvaguardare gli interessi britannici, e ciò perché gli imprenditori inglesi erano stati i primi investitori in questo campo, ma anche perché la rivale di sempre, la Francia, acquisiva nella penisola insperate chance di dominio. Alla fine il monopolio fu revocato, ma delle promesse di ammodernamento degli impianti chimici non fu fatto nulla da parte dei governi borbonici, mentre in campo agricolo era avvenuta qualche timida riforma del latifondo, come del resto era stata suggerita dal Parlamento anglo-siculo del 1812. In quel tempo era già iniziata a fiorire a Marsala l’industria enologica dei Woodhouse e degli Ingham, e l’ambasciatore Gladstone16 decantava le riforme fondiarie portate avanti a Licata dal principe di Raffadali, definendole analoghe a quelle che stava facendo l’utopista Owen in Scozia17. La generale avversione dei siciliani verso il governo di Napoli tuttavia si concretizzò a partire dal 1847 con la sfortunata e sanguinosa rivolta di Messina, che generò una rivolta ben più complessa (1848-49), che - senza soluzione di continuità - perdurò endemicamente fino al 1860. Sulle repressioni, gli imprigionamenti senza processo e le torture, più volte intervenne l’ambasciatore Gladstone. Più famosa di quest’ultimo fu la frase scritta a lord Aberdeen, in cui si definiva Ferdinando II “la negazione di Dio” per le terribili repressioni che ricordavano quelle sanfediste del generale Del Carretto nel 1837. E con lui l’ambasciatore John Hudson da Torino, e l’ambasciatore John Perry da Napoli sulle torture inferte ai prigionieri napoletani nel ‘48. Sicuramente il presidio britannico di Malta fu una delle basi più sicure dei ribelli antiborbonici, ma nacque anche una sorta di partito filo britannico, con a capo Ruggero Settimo18, Mariano Stabile19 e Francesco 16 William Ewart Gladstone (Liverpool, 29 dicembre 1809 – Castello di Hawarden, 19 maggio 1898) è stato un importante esponente del Partito Liberale inglese. È stato Primo Ministro del Regno Unito quattro volte: dal 3 dicembre 1868 al 20 febbraio 1874, dal 23 aprile 1880 al 23 giugno 1885, dal 1º febbraio al 25 luglio 1886 e dal 15 agosto 1892 al 5 marzo 1894. 17 Non vanno dimenticati gli elogi simili al principe di Castelnuovo, che aveva fondato una scuola agraria e un orto botanico per la cura delle piante commestibili. 18 Ruggero Settimo (Palermo, 19 maggio 1778 - Malta, 12 maggio 1863) è stato ammiraglio della flotta borbonica e politico italiano. Sotto i Borbone di Napoli caldeggiò la promulgazione della costituzione del 1812 e fu ministro del Regno 20 Ferrara20, che rappresentò una continuità tra la fase rivoluzionaria del 1812-15 e quella più matura del 1848-60. Ruggero Settimo delle Due Sicilie. Si dimise subito dopo l'abrogazione della Costituzione siciliana. Durante la rivoluzione siciliana del 1848 fu capo del governo. 19 Mariano Stabile (Palermo, 1806 - Palermo, 1863), esponente di una nobile famiglia palermitana e intransigente antiborbonico, fu segretario generale del Comitato che promosse l'insurrezione palermitana del gennaio 1848, che diede il via alla cosiddetta Primavera dei popoli. Fu ministro degli Esteri, Agricoltura e Commercio del Regno di Sicilia durante la rivoluzione siciliana del 1848, e nel 1849 guidò il dicastero della Guerra. Esiliato con il ritorno dei Borbone, ritornò in Sicilia dopo la spedizione dei Mille. Il 19 ottobre 1860, durante la dittatura di Garibaldi in Sicilia, fu nominato vice presidente del "Consiglio straordinario di Stato". Fu anche Sindaco di Palermo dal 1862 alla morte. 20 Francesco Ferrara (Palermo, 7 dicembre 1810 - Venezia, 22 gennaio 1900) è stato un economista e politico italiano. Fu senatore del Regno d'Italia nella XIV legislatura. 21 Ma la posizione ufficiale della Gran Bretagna sulla prima guerra d’indipendenza italiana, comprese le rivolte quarantottiste, non fu comunque favorevole, e ciò si spiega con la paura della diffusione delle idee rivoluzionarie francesi in Italia21. Tuttavia l’atto più importante contro il permanere dell’assolutismo, dopo i fatti del 1836 e la frase di Gladstone nel 1850 (atti che di per sé mostrano il deterioramento completo dei rapporti con i Borbone di Napoli), è la rottura dei rapporti diplomatici di Francia e Inghilterra nei confronti della casata delle Due Sicilie, rea di non avere attuato le riforme promesse (1856). Questo atto, decisivo nella promozione del moto rivoluzionario al Sud e il sostanziale appoggio iniziale alla politica di riforme avviata da Cavour e lo stato sabaudo22, ha pure delle premesse importanti nelle comuni aspirazioni di movimenti internazionali che sposano la causa delle libertà costituzionali e democratiche. Non si può sottacere in questo senso l’apporto dato dalla Gran Bretagna al sorgere delle logge massoniche in tutta Europa, e soprattutto in Italia, logge clandestine per il clima repressivo presente, che tuttavia creeranno una rete cospirativa a cui si richiameranno prima le vendite “carbonare” di espressione giacobina e filo-francese, poi le società segrete repubblicane e mazziniane operanti oltre il 1860. E Hudson, malgrado i tentennamenti britannici manifestati alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza, sarà sostenitore della politica cavouriana nei primi mesi di vita del nuovo stato, ma non risparmierà dure critiche agli atti repressivi del nuovo governo, soprattutto al Sud, repressione equiparata ad una guerra civile. Nella lettera a lord Russell si esprime dissenso dalla politica “centralista”, che preoccupa anche i connazionali presenti in Sicilia, soprattutto i Whitaker, ma si esprime fiducia nella corona sabauda, che alla fine saprà prevalere sui militari poco adusi alla tolleranza23. Si può parlare di “splendido isolamento” della Gran Bretagna della regina Vittoria rispetto ai fatti d’Italia? Di certo quanto accadde nei 21 W. Spencer: “The life of lord J. Russell – Memorandum”; G. M. Trevelyan: “Storia d’Inghilterra nel secolo XIX”, Torino, 1948; P. Silva: “La politica di Napoleone III in Italia”, N.R.S., 1927. 22 Si consulti la lettera di James Hudson a lord George Clarendon del 1854, nel perorare la guida sabauda nel movimento di indipendenza italiano. 23 Denis Mack Smith,”Il Risorgimento”, pag. 548. 22 Balcani, prima contro l’impero ottomano che segregava i Greci (1827) e poi le vicende della guerra di Crimea contro l’assolutismo russo, non lasciano pensare a un disinteresse britannico per le libertà nazionali. Le notizie di seguito riportate dimostrano il contrario sia nel difendere gli interessi delle famiglie inglesi in Italia, e nel sud Italia in particolare, sia nel difendere gli ideali di libertà del Risorgimento italiano. L’esilio “dorato” di Mazzini a Londra è sicuramente uno degli atti di maggiore rilievo della politica britannica a favore del Risorgimento italiano. La presenza dei numerosi esuli italiani a Londra (tra cui Saffi, Gayazzi, Crispi) attrasse visitatori affascinati da quella stimolante effervescenza di idee. Ovviamente il tradizionale antipapismo inglese si fuse con l’orientamento liberale dell’opinione pubblica, soprattutto a partire dal quel 1832 in cui si creò l’alleanza politica radical-Whigs. Il suo arrivo, nel 1837, è circondato da un aureola di romantica battaglia politica. Londra farà di Mazzini un personaggio di primo piano - come ha dimostrato lo storico Salvo Mastellone24, e il milieu inglese nel quale l’esule si distinse lo propose come interlocutore politico, quasi fosse egli stesso un governo risorgimentale in esilio. Mazzini a Londra intrecciò rapporti con tutti i ceti sociali, e riscosse successi in ambiti non solo politici ma anche religiosi, e mentre di lui in Italia si sono studiate le congiure e i gruppi segreti, nei paesi anglosassoni si è studiata soprattutto la carica morale e ideale del patriota, che segue di poco la grande personalità di Foscolo e preannuncia l’epoca di Garibaldi, altro mito di liberatore esaltato soprattutto in Gran Bretagna25. Anche in chiave diplomatica Inghilterra e Francia tentano di salvare le riforme del 1848-49 con una nota del 16 dicembre 1848 con cui la Sicilia, pur riconoscendo la sovranità di Ferdinando II, voleva a sua volta riconosciute le prerogative autonomiste. Ma la risposta negativa del 28 febbraio 1849, l’Atto di Gaeta, gela ogni speranza. L’ultimo tentativo è quello del 1859, alla morte di Ferdinando e l’avvento di Francesco II: il Foreign Office26 riallaccia le relazioni 24 Si veda M. Finelli, “Mazzini e il mondo anglosassone”, Roma, 2007. 25 Su tutta questa tematica si consulti il ponderoso saggio di Roland Sarti “Mazzini in Europa e negli USA”, pubblicato nel volume già citato “L’Unità d’Italia in Europa”, a cura dell’Istituto Centrale del Risorgimento. 26 Foreign Office è il dicastero del Regno Unito responsabile della promozione degli interessi del Paese all'estero. Il Foreign Office venne creato nel 1782 dall'unione della Segreteria di Stato per i Dipartimenti Meridionali e la Segreteria di Stato per 23 diplomatiche col nuovo re, ma questi guarda con maggiore interesse all’Austria della giovane consorte Sofia, e il tentativo ancora una volta non va a buon fine. Tuttavia la flotta britannica seguirà tutti gli avvenimenti del 1860 da una distanza troppo ravvicinata, tanto da far pensare a una protezione “parallela” della Sicilia, almeno fino al 2 giugno 1860, con la conquista di Palermo e la partenza delle truppe borboniche dalla capitale. Poi nell’agosto 1860 sarà pure protagonista del passaggio dello Stretto. Sulla posizione favorevole della Gran Bretagna alla spedizione dei Mille non ci sono dubbi, e non solo per motivi di affinità ideale all’eroe dei due mondi, osannato e portato in trionfo dall’opinione pubblica britannica durante gli anni d’esilio post ‘49. La posizione favorevole nasce dalle esitazioni sabaude dopo gli accordi filo-francesi di Plombières, e l’occasione di stravolgere le ipotesi di ritorno di un Murat a Napoli con la conseguente egemonia francese nella penisola. L’adesione all’impresa viene rafforzata quando Palmerston il 22 maggio 1860 apprende direttamente da Cavour che il Piemonte volentieri si sarebbe sganciato dalla Francia dopo i miserevoli accordi di Villafranca. La Gran Bretagna non esitò a favorire l’impresa garibaldina oltre lo Stretto e questo la dice lunga sul successo della spedizione viste le titubanze - se non le avversioni - del La Farina e dei filo sabaudi, che avevano paura di un Sud repubblicano, e comunque federalista27! Ma questo non preoccupava Palmerston, che comunque conosceva Garibaldi e gli ispiratori della spedizione. D. Oltre la storiografia ufficiale e la storia diplomatica. Vogliamo ora andare oltre la storiografia ufficiale e condire con un pò di revisionismo storico la vicenda degli inglesi in Sicilia? Beh, intanto i giudizi sarcastici di Giovanni Meli28 sul Parlamento del 1812 sono tutt’una cosa col populismo tradizionale che vede qualsiasi riforma appannaggio delle classi dominanti, e in questo caso anche i Dipartimenti Settentrionali, ognuno dei quali si occupava degli affari interni ed esteri delle rispettive aree del regno loro assegnate. 27 Vedi Signoretti, op. cit.; Silva, op. cit.; Volpe ecc. 28 Giovanni Meli (Palermo 1740 - ivi 1815), medico e poeta, passò 5 anni (1767-72) nel quieto borgo di Cinisi, presso Palermo. Nel 1787 ebbe la cattedra di chimica all'Accademia degli studî di Palermo; nello stesso anno pubblicò in 5 volumi la sua opera poetica (ripubblicata, accresciuta di varî componimenti, nel 1814, in 7 volumi). 24 l’Ingrisi (gli Inglesi, in dialetto siciliano) sono visti come conquistatori, al pari di francesi e spagnoli. L’abate Giovanni Meli Si rifletta sul seguente sonetto popolare, raccolto da Cesare Cantù nella “Cronistoria d’Italia” e inviatogli da Salvatore Salomone Marino29: “A la guaddara ci misinu l’unguentu, Palermu lu jittau l’anticu mantu; ora c’avemu novu Parramentu (quello del 1812), mettiti n’cacaticchiu ca un ccè scantu: e si la panza l’hai china di ventu, diccillu un patrinnostru a lu to santu, fatti nzignari lu midicamentu ca Lonnira (Londra, N.d.A) nunn’havi pani biancu (ovvero gli inglesi non ti danno pane buono).” Ancora più pesanti i giudizi della storiografia di Corte (borbonica), dal Buttà fino ai nostri giorni, che vedono l’avversione britannica nei confronti dei Borbone di Napoli come fatto esclusivamente collegato ai loro interessi economici nel monopolio dello zolfo. Dulcis in fundo, il finanziamento e 29 Salvatore Salomone Marino (1847-1916) nacque e morì nel paese di Borgetto, in provincia di Palermo. Scrisse molti compendi sul folklore e le tradizioni dei contadini siciliani, fra i quali La omnipotenza dei proverbi dimostrata da una novelletta popolare siciliana e La rivoluzione siciliana del 1848-1949 nei canti popolari). La sua opera più nota è La Baronessa di Carini. 25 l’armamento della spedizione garibaldina, la sua protezione, la copertura dell’eventuale “fuga” verso l’interno, i legami massonici internazionali. A questo proposito le opinioni revisioniste e antigaribaldine fanno tutte riferimento a un presunto finanziamento della massoneria inglese attraverso denaro sonante proveniente dalla Turchia, ma - come nelle opinioni precedenti - mancano testimonianze e riferimenti certi (come ad esempio la mancanza di qualsiasi riferimento a questi fondi nei diari di Ippolito Nievo, il cassiere dei Mille), così come nel caso dei generali borbonici corrotti dal soldo sabaudo o della sparizione senza documentazione di ingenti somme dal Banco di Sicilia (a parte le somme rendicontate per pagare il soldo giornaliero dell’esercito meridionale). Che poi le navi britanniche, come quelle borboniche e quelle francesi (che difesero la reggia di Gaeta fino al dicembre 1860) abbiano seguito la rotta dei due bastimenti garibaldini, e solo a Marsala i primi abbiano ostacolato il bombardamento sulle truppe che sbarcavano, questo è un dato di fatto, anche perché proprio a Marsala erano concentrati gli interessi delle famiglie britanniche e ne avrebbero avuto scarso giovamento dai bombardamenti indiscriminati, come poi accadde a Palermo a fine maggio 1860, provocando l’esecrazione di tutta l’Europa per le centinaia di vittime civili. Anche per i fatti di Bronte la storiografia revisionista addossa le colpe della repressione indiscriminata di Bixio all’ostentata prepotenza dei proprietari inglesi della ducea di Nelson. Ci si dimentica tuttavia delle esecuzioni sommarie perpetrate dai contadini e della legittima paura di tutti i proprietari terrieri, compresi i britannici della ducea, che già da giugno avevano chiesto la protezione della guardia nazionale. Ma sulle jaqueries contadine del 1860 esiste una vastissima letteratura che non risparmia né giustizieri né giustiziati, compresi eroi romantici come Santo Meli, accusati d’essere ricattatori e sequestratori ancor prima d’essere patrioti guerriglieri30. Per chi volesse invece approfondire le fonti alternative alla storiografia ufficiale ricordo anzitutto i proverbi popolari che descrivono la presenza britannica e borbonica in Sicilia, dalla cui lettura non sfugge l’avversione popolare verso i Borbone di Napoli e un sostanziale afflato amichevole verso i sudditi di Sua Maestà; anzi, nel 1848, a questi ultimi è rivolta una vera adulazione. 30 Si veda Dumas e altri. 26 Quanto ha scoperto A. Uccello nei canti popolari siciliani, da me citati in un recente lavoro31 dimostra l’avversione popolare all’assolutismo dei principi di Napoli e una sostanziale continuità con gli ideali riformisti anglo-siculi del 1812. Oppure si leggano le lettere autografe dei condannati alle galere e alla fucilazione, e dei partecipanti alla spedizione dei Mille32. Non mi sembra indifferente a sua volta rilevare i giudizi della letteratura inglese sulla Sicilia - a partire dai grandi viaggiatori del settecento, come Berkeley, Brydone, Drydone, Brewal, Hobwart, Hamilton, e poi quelli ottocenteschi come Swinburne, Payne Knight, Beckford, Hill ed Hellis Cornelia Knight - “terra del mito” in primo luogo, dai confini aridi del sud Europa, del mare pittoresco, dei paesaggi estesi e animati, dalla primogenitura normanna nei commerci e nello spirito di tolleranza, delle leggende di Artù sull’Etna, del sacro Graal ecc., tutte pagine interessanti che offrono una immagine probabilmente aristocratica dell’isola, lontana dai drammi esistenziali vissuti dalla classe operaia inglese di quegli anni. Nelle arti figurative non sono pochi gli artisti britannici a cimentarsi sul paesaggio siciliano (si vada alla Galleria d’arte moderna di Palermo, o alla Zelantea di Acireale per ammirare queste opere). Così come sono interessanti i commenti sarcastici della stampa inglese sull’aristocrazia siciliana, sulla corte borbonica e sugli stessi costumi popolari dei siciliani33. Tali pregiudizi verso taluni costumi popolari siciliani (e non dimentichiamo il fenomeno mafia, ma anche il delitto d’onore, ecc.) si sono mantenuti fino agli anni sessanta del secolo scorso, con l’indagine dell’antropologo americano Edward Banfield sul “familismo amorale”, definito come “chiusura del gruppo familiare al senso civico”. Questa concezione è stata fortemente criticata dalla sociologia contemporanea, e lo stesso storico inglese Paul Ginsborg, ma anche Eric Hobsbawn e Lucy Ryall, hanno ridimensionato quel concetto in 31 Claudio Paterna, “Ideali e valori risorgimentali nell’emigrazione italiana 18701900”, Lecce, 2013, 32 Un lavoro certosino è stato condotto dal Centro internazionale di studi risorgimentali e garibaldini di Marsala in questi anni ad opera soprattutto di Elio Piazza. 33 Su questo aspetto Denis Mack Smith è stato esemplare, anche se si è attirato non poche antipatie tra gli storici isolani, a partire dal più noto d’essi: Santi Correnti. 27 “familismo positivo”, essenziale per la creazione dell’impresa familiare su cui si regge gran parte dell’economia locale. A sua volta, da Gentile in poi, è sorta una corrente antibritannica che punta a cogliere gli aspetti più sarcastici e vistosi del comportamento inglese, ”La perfida Albione”, ma questa “corrente” ha trovato seguaci soprattutto durante il periodo della propaganda fascista prebellica (19361945). E. Le famiglie britanniche in Sicilia e le loro residenze, patrimonio di beni culturali. Non poteva mancare in questo breve studio un accenno al patrimonio delle famiglie britanniche in Sicilia, tutt’oggi rappresentate dagli eredi degli imprenditori venuti nell’isola fin dalla fine del XVIII secolo; mi riferisco ai Rickards, agli Hopps, agli Ingham, ai Rose, agli Harrison e a tanti altri illustri cognomi. Immagine ottocentesca della Cattedrale di Palermo Ma il vero patrimonio ereditato è quello delle opere d’arte e architettoniche, oltre che dall’archeologia industriale che le famiglie britanniche hanno lasciato in Sicilia, e che la Regione siciliana tenta di gestire al meglio. Mi riferisco anzitutto al patrimonio della famiglia Whitaker a Palermo e a Marsala, in particolare la villa Malfitano (ubicata in via Dante, a Palermo), con annesso parco ricco di specie arboree esotiche. 28 All’interno di questa villa, parquet, arazzi, suppellettili, porcellane cinesi, opere d’arte varie riassumono in un contesto ideale il gusto e la raffinatezza di queste famiglie. Una Fondazione privata gestisce le proprietà residue della grande famiglia di imprenditori, unico esempio di gestione produttiva dei beni culturali siciliani, comprendenti l’area archeologica di Mozia sull’isola di san Pantaleo a Marsala. Un grande sforzo gestionale malgrado le esigue risorse economiche messe a disposizione della Regione. Ma i Whitaker a Palermo hanno lasciato anche la villa liberty di via Cavour, oggi sede della Prefettura, e la villa Ada Whitaker, oggi sede del Centro Studi Ignaziano, in via Antonio Ugo. A loro volta gli Ingham, oltre lo stabilimento e la cantina di Marsala, ci hanno lasciato l’Hotel delle Palme in via Roma a Palermo, che per il lusso d’epoca e le presenze internazionali ospitate rappresenta un caposaldo del turismo siciliano, anche se nella versione persistente del “Gran Tour”. La crisi economica purtroppo colpisce questo tipo di turismo, che comunque va salvaguardato anche con la presenza di capitali internazionali. Agli Ingham si deve anche la chiesa anglicana di via Roma, che tutt’ora rimane un gioiello d’epoca per i frequenti ricordi dell’arte anglo-normanna in Sicilia, richiamati dall’architetto Henry Christian. Prima di lui altri architetti e storici dell’arte britannici erano venuti in Sicilia e, insieme a Viollett-le-Duc34, avevano rivalutato la stagione del medioevo arabo-normanno, soprattutto Payne Knight, con lo studio del portico settentrionale della Cattedrale di Palermo, ritenuto a quel tempo il primo esempio di arco a sesto acuto in Europa. Meno conosciuto è il cimitero inglese all’Acquasanta, che la nuova Amministrazione comunale sta tentando di salvaguardare dopo anni di oblio. È una testimonianza delle culture succedutesi nel tempo a Palermo, e le lapidi, talune riferibili fino al XVII sec., lo attestano. Altre testimonianze di monumentalità funeraria anglosassone si trovano al cimitero dei Rotoli, nell’area acattolica. Splendido esempio di dimora rurale e gusto artistico è la cosiddetta Ducea di Nelson all’abbazia di Maniace, nel territorio del comune di 34 Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc (Parigi, 27 gennaio 1814 - Losanna, 17 settembre 1879) è stato un architetto francese, conosciuto soprattutto per i suoi restauri degli edifici medioevali. Fu una figura centrale tanto nell'architettura neogotica in Francia, quanto nel pubblico dibattito sull'autenticità in architettura. 29 Bronte. La Regione ha gestito questo bene fino agli anni novanta; poi la gestione è stata trasferita al Comune. Da non sottovalutare i resti dell’industria agrumaria Sanderson a Messina, area soggetta a speculazione edilizia se le istituzioni non interverranno per tempo. Ma questo vale per i resti della zolfara dei Rose a Cianciana35, della tenuta agricola dei Leckie di Siracusa (famosa per l’allevamento dei purosangue)36, di edifici nel centro storico di Catania o dei resti della piccola sinagoga di Messina, nella zona alta, dove sono ancora visibili i resti del terremoto e dei bombardamenti della più recente guerra mondiale. Per chi volesse sbirciare tra i ricordi della presenza britannica nell’ottocento siciliano ricordo di fare una capatina al museo del Risorgimento di Palermo, ma anche al Museo delle uniformi di Acireale. _____________ 35 Comune in provincia di Agrigento. 36 Si ricordi a questo proposito la Società di Incremento Ippico di Catania, presso Fortino, fondata con il concorso degli inglesi. 30 LA REAZIONE AL CENTRALISMO SABAUDO Roberto Tripodi La condizione del Regno delle due Sicilie preliminare all’Unità. Il 1860 è certo l’anno nel quale si decide l’Unità d’Italia. È una unità che appare impossibile: gli accordi conseguenti al congresso di Vienna si oppongono, la Francia di Napoleone III è fortemente ostile, la Spagna appoggia Francesco II, lo Stato Pontificio e l’impero Asburgico proteggono il Regno delle Due Sicilie, persino la Russia afferma la sua contrarietà. Ma due uomini riescono a concepire e realizzare l’impossibile: un mitico condottiero che aveva anche combattuto con successo in America Latina e un sottile uomo di Stato, laico e borghese, che aveva trascorso la gioventù a studiare le economie e i sistemi produttivi di Francia e Gran Bretagna. Ma per comprendere come fosse stata possibile l’impresa dei Mille e la costruzione dell’Italia Unita, seppur tra molti errori e notevoli 31 contraddizioni, è necessario analizzare il contesto nel quale l’impresa fu condotta. Ferdinando II delle Due Sicilie regnò dal 1830 al 1859. Salì al trono appena ventenne l’8 novembre 1830. Iniziò il suo regno con un'austera riforma finanziaria ed amministrativa [cfr. Atto Sovrano 11 gennaio 1831]. Sostituì i ministri, diminuì notevolmente le spese di Corte, concesse una larga amnistia ai detenuti politici e agli esuli, richiamò in servizio gli ufficiali murattiani sospesi a seguito dei moti del 1820. La politica adottata dal sovrano diede al commercio la possibilità di espandersi e favori l'iniziativa artigianale. Il suo grande limite fu di privilegiare l’economia campana rispetto a quella siciliana, e di questa condizione fu sempre rimproverato dall’aristocrazia dell’Isola. Ferdinando II cercò di favorire il commercio e l'industria locale agevolando la più valida ed esclusiva risorsa mineraria della Sicilia, quella dello zolfo (all'epoca indispensabile per la produzione degli esplosivi). Ferdinando II di Borbone Fu stipulata una convenzione con ditte francesi più vantaggiosa di quella in vigore con gli inglesi. Le relazioni con l'Inghilterra ne risultarono compromesse e Ferdinando si preparò alla guerra inviando in Sicilia 32 12.000 soldati mentre denunciava alle corti europee la condotta della Gran Bretagna. La vertenza per lo zolfo influì molto sulle relazioni tra regno delle Due Sicilie e Regno Unito, attento a conservare il monopolio dello strategico minerale siciliano. I britannici avviarono una politica destabilizzante nei confronti del Regno delle Due Sicilie, che culminerà con l'appoggio alla spedizione dei Mille nel 1860. Nel 1837 scoppiò l'epidemia di colera che era stata prevista: l'epidemia ebbe inizio ad Ancona ed il re dispose che venissero sospesi i traffici con lo Stato Pontificio, e fissò delle pene molto severe per tutti coloro che avessero trasgredito alle disposizioni sanitarie e di igiene che erano state già emanate. Ma le misure di prevenzione non ebbero successo. Quando in ottobre il colera invase Napoli e i comuni vicini, diede disposizioni affinché venissero distribuiti gratuitamente il maggior numero di medicinali atti a frenare la malattia, cosa che certamente non doveva essere facile a quei tempi. Con l'inverno il male terminò, dopo aver provocato circa 6.200 vittime. Napoli ebbe poi a subire una seconda epidemia di colera. Questa volta il colera invase tutto il regno, raggiungendo anche Palermo e diverse città della Sicilia. Le vittime di questo secondo colera furono a Napoli circa 14.000, ma in Sicilia ve ne furono oltre 65.000. I proclami rivoluzionari aprirono il 1848: “Siciliani! Il tempo delle preghiere inutilmente passò. Inutili le proteste, le suppliche, le pacifiche dimostrazioni. Ferdinando II tutto ha disprezzato; e noi, popolo libero, ridotto nelle catene e nella miseria, tarderemo ancora a riconquistare i nostri legittimi diritti? All'armi, figli di Sicilia, allarmi! La forza di tutti è onnipossente: l'unione dei popoli è la caduta dei re. Il giorno 12 gennaio, all'alba, comincerà l'epoca gloriosa dell'universale rigenerazione. Palermo accoglierà con trasporto quanti Siciliani armati si presenteranno al sostegno della causa comune, a stabilire riforme e istituzioni analoghe al progresso del secolo, volute dall'Europa, dall'Italia e da Pio IX. Unione, ordine, subordinazione ai capi, rispetto a tutte le proprietà; il furto sia dichiarato tradimento della Patria e, come tale, punito. Chi mancherà di mezzi ne sarà provveduto. Con questi principi il Cielo asseconderà la giustissima impresa. Siciliani, all’armi!" I comunicati dell’esercito borbonico cercarono di placare gli animi: "… che per terminare al più presto le ostilità era necessario che il re sapesse che cosa il popolo di Palermo desiderava; senza di che era impossibile 33 trattare: nel frattempo i suoi uomini non avrebbero sparato neppure un colpo d'archibugio, ma i rivoltosi dovevano fare lo stesso". La risposta del Comitato fu la seguente: "Il popolo coraggiosamente insorto non poserà le armi e non sospenderà la guerra, se non quando la Sicilia riunita in un generale Parlamento qui a Palermo, accomoderà ai tempi quella Costituzione, che, giurata dai suoi re, riconosciuta da tutte le potenze, e che non si è mai osato apertamente togliere all'isola: senza di questo è inutile qualunque negoziato". Palermo 1848 – Rivoltosi davanti al Palazzo di Giustizia Ferdinando II si guadagnò l’appellativo di “Re Bomba” perché consentì il bombardamento di Messina del 5 settembre 1848. La città, come l’intera isola, era insorta con l'appoggio discreto dell'Inghilterra, interessata alla Sicilia, isola strategica per il controllo del Mediterraneo, e desiderosa di ostacolare la politica di Ferdinando II, a cui non aveva mai perdonato la questione degli zolfi siciliani. La squadra navale napoletana era costituita da tre fregate a vela, 6 fregate a vapore, 5 piroscafi armati, 20 cannoniere, 24 scorridoie ed altri legni sottili. Il 1° settembre 1848 ancorò al largo di Catona, presso Reggio e nella notte si avvicinò alla costa dell’isola per impadronirsi di una batteria degli insorti, detta delle “Moselle”, situata a fior d’acqua nei pressi del villaggio di Contessa, fuori Messina, forte di 12 cannoni. La flotta iniziò il bombardamento alla mattina del 2 settembre e poco dopo dal 34 bastione Blasco della Cittadella di Messina, nelle mani dell’esercito regolare, effettuarono una sortita quattro compagnie di pionieri che, coperti dal fuoco navale, incendiarono gli affusti dei cannoni. Nel pomeriggio del 4 settembre si imbarcarono a Reggio 250 ufficiali e 6.400 uomini di truppa. Lo sbarco delle truppe regie in terra siciliana iniziò alla mattina del 5 settembre a tre miglia da Messina, protetto dal fuoco delle pirofregate e delle cannoniere. È bene ricordare che i primati del Regno (la prima ferrovia, il primo ponte sospeso in ferro, ecc.) non trovarono sviluppo programmato e continuità di investimenti. La macchina industriale riguardava il napoletano, e le disparità con le Province restarono intatte. All'atto dell'annessione al Piemonte, questo aveva una rete ferroviaria di circa 900 km, contro i 124 km (tutti in Campania) del Sud, che pure aveva visto la realizzazione della prima linea d'Italia. Dopo la conquista angioina e la rivolta del Vespro del 1282, sia Napoli che Palermo avevano rivendicato, attraverso una guerra secolare, il predominio sul regno, che restò diviso in due parti indipendenti fino all'unificazione attuata con decreto nel 1816 da Ferdinando I. Palermo 1848 – Rivoltosi davanti la Cattedrale L'atto era avvenuto sotto gli auspici dell'Austria e del Congresso di Vienna, ma aveva risvegliato l'antico spirito del Vespro, anche perché la Sicilia nel 1812 era riuscita a ottenere da Ferdinando I la costituzione. Con la proclamazione del Regno delle Due Sicilie le potenze europee, in primis l'Inghilterra, iniziarono a fomentare lo scontento dei Siciliani e 35 appoggiarono le rivolte del 1820, del 1848 e l'ultima, fatale per il regno, del 1860. Un altro punto dolente della politica ferdinandea fu la gestione del rapporto con il ceto borghese che Ferdinando II chiamava sprezzantemente «paglietti» e «pennaruli». Il re cercò di corrispondere anche alle attese di questo ceto, verso il quale per la verità non nutriva grande stima, e ad aprirsi a quelle libertà che altri stati incominciavano a riconoscere, ma la frattura verificatasi tra corona e liberali a seguito della rivolta di Napoli del 1848 non fu mai sanata: da un lato, Ferdinando si rinchiuse nell'assolutismo; dall'altro, molti intellettuali si votarono definitivamente alla causa di uno stato italiano unico. Il Regno delle Due Sicilie di allora, che era lo Stato più florido d'Italia, avrebbe tratto vantaggio dalla costituzione di una ipotetica Confederazione Italiana, ma Ferdinando, specie dopo gli accadimenti del 1848 e la controversa partecipazione alla guerra contro l'Austria, non fece nulla per promuoverla. Il Regno di Ferdinando manifestò un eccesso di stato confessionale, che pesò sullo sviluppo e sulle possibilità di modernizzazione. Sotto la pressione determinata dalla rivolta siciliana, Ferdinando II concesse la Costituzione, che fu promulgata il 10 febbraio 1848. Essa conteneva caratteri comuni allo Statuto Albertino, ma rifletteva l’eccesso di clericalismo. La religione cattolica, oltre ad essere quella di Stato, era l’unica ammessa, vietandosi la professione di culti diversi: l’anti-ebraismo veniva eletto alla dignità di articolo costituzionale. Non c’è da stupirsi se gli Ebrei italiani si schiereranno a favore del movimento unitario a guida sabauda, e dei finanziamenti a tale causa concessi dalle Banche internazionali. A causa del suo temperamento conservatore e del contrasto con la borghesia liberale, che culminò nei moti rivoluzionari del 1848, il suo regno, dopo un breve esperimento costituzionale, fu segnato da una stretta in senso assolutista, che lo portò ad accentrare su di sé il peso dello Stato, oltre ad attuare una politica economica parsimoniosa e paternalista che lasciò il reame, negli ultimi anni, in una fase statica. Alla sua morte, il Regno delle Due Sicilie passò al figlio Francesco II, che lo avrebbe perso in seguito alla spedizione dei Mille. 36 Fallisce il tentativo borbonico di modernizzare l’agricoltura Il riformismo borbonico era nato con il decreto 621 dell’11 novembre 1831 che istituiva in Palermo il Reale Istituto d’Incoraggiamento e nei Capoluoghi delle Provincie le Società economiche. La corruzione dilagante nella burocrazia e gli interessi della rendita fondiaria costituirono un ostacolo che né Ferdinando II, e tanto meno Francesco II, riuscirono a superare. Negli anni dal 1831 al 1848 il malumore crebbe tra i ceti produttivi. Gli inglesi, con il sostegno dei baroni siciliani, furono abili a cogliere l'opportunità di forzare i Borbone a promulgare una costituzione per la Sicilia, basata sul sistema Westminster del governo parlamentare, e fu una costituzione liberale per quei tempi. Dopo il Congresso di Vienna, Ferdinando, IV di Napoli e III di Sicilia, appena ritornato alla corte reale di Napoli, abolì immediatamente la costituzione. Vi è una connessione tra questa azione e le rivolte popolari, sobillate dagli stessi baroni, che ebbero luogo in Sicilia, dai moti del 18201821, con le prime sommosse antiborboniche. L'isola si dichiarò, seppur per breve tempo, indipendente da Napoli, nei tumulti del 1837 e nell’insurrezione del 1848. Nel 1848 i tempi non erano ancora maturi per parlar d'unità e, quanto alla federazione, bisognava incominciare con il mettersi prima in stato d'uguaglianza con Napoli, sciogliere il Regno delle Due Sicilie e far dell'isola un corpo indipendente, padrone dei suoi destini all'interno e all'esterno. Nel 1859 il regno meridionale era ancora lo Stato più esteso e, teoricamente, più potente della penisola. Esso, infatti, poteva fare affidamento su un esercito (il più numeroso d'Italia) di 93.000 uomini (oltre a quattro reggimenti ausiliari di mercenari) e sulla flotta più potente di stanza nel Mediterraneo (11 moderne fregate, 5 corvette e 6 brigantini a vapore, oltre a vari tipi di navi a vela). Infine, come ammoniva Ferdinando II, era difeso "dall'acqua salata e dall'acqua benedetta", cioè dal mare e dalla presenza dello Stato della Chiesa, che, protetto dalla Francia, avrebbe impedito ogni invasione via terra verso il sud. Rosolino Pilo ebbe un preciso ruolo nel porre le basi per una sollevazione in Sicilia. Nel mese di marzo, intenzionato a salpare alla volta dell'isola, si era rivolto a Garibaldi, prima chiedendo armi e poi invitando il nizzardo ad un intervento diretto. 37 Garibaldi si era tirato indietro, ritenendo inopportuno qualsiasi moto rivoluzionario che non avesse avuto buone probabilità di successo. Il nizzardo avrebbe guidato una rivoluzione solo se a chiederglielo fosse stato il popolo ed il tutto fosse avvenuto in nome di Vittorio Emanuele II. Con il contributo delle popolazioni locali e l'appoggio del Piemonte Garibaldi avrebbe contenuto il rischio di un fallimento, evitando risultati simili a quelli avuti dai fratelli Bandiera o da Carlo Pisacane. Non avendo ottenuto l'immediato sostegno di Garibaldi, il 25 marzo Rosolino Pilo partì per la Sicilia con l'intento di preparare il terreno per la futura spedizione. Accompagnato da Giovanni Corraro, anch'egli mazziniano, il Pilo giunse nel messinese e prese contatti con gli esponenti delle famiglie più importanti. I baroni, infatti, una volta sbarcato il corpo di spedizione, avrebbero rese disponibili le bande che erano al loro servizio, i cosiddetti picciotti. Palermo – Insurrezione della Gancia 38 Nella notte tra il 3 e il 4 aprile 1860, una sessantina circa di rivoltosi si introdussero nel convento dei Frati Minori della Gancia, dove attesero il mattino per dare inizio all'insurrezione. Alle 5,00 il suono a stormo delle campane della chiesa, che avrebbe dovuto fungere da segnale anche per i gruppi armati appostati sulle montagne, diede avvio ai primi colpi d'arma da fuoco. Il capo della polizia di Palermo, Salvatore Maniscalco, non si fece, però, trovare impreparato. Egli, informato il giorno prima da uno dei frati, Padre Michele da Sant'Antonino, aveva fatto appostare i militari borbonici del 6º Reggimento nei pressi del convento. I soldati penetrarono nel convento soffocando sul nascere l'insurrezione: tra i rivoltosi si contarono 20 vittime, tra cui un frate. Francesco Riso, ferito, morì in ospedale. Il 4 aprile 1860, alla Gancia, sono arrestati il barone Riso, il principe di Giardinelli, l’abate Ottavio Lanza di Trabia, il cavaliere di S. Giovanni, il duca dell’Arenella, figlio del principe di Niscemi, il futuro Tancredi del Gattopardo. Altri 13 uomini furono tratti in arresto. Nei giorni successivi, in città, si fecero preoccupanti le avvisaglie di una nuova sollevazione e ciò contribuì a rendere esemplare la sentenza per i rivoltosi della Gancia: sarebbero stati condannati alla fucilazione come monito. L'episodio della Gancia diede il via ad una serie di manifestazioni ed insurrezioni che interessarono in particolar modo l'entroterra siciliano. La Chiesa esercitava nel regno un potere incondizionato e possedeva la gran parte dei terreni. La stessa educazione fatta impartire a Francesco, si dimostrò imperniata su di una religiosità di stampo bigotto. Francesco dimostrò, nel corso della spedizione di Garibaldi, limiti caratteriali esaltati dall’educazione ricevuta. Questo processo involutivo trova conferma nel decreto del 10 gennaio del 1843, con il quale Ferdinando II consegnava l’istruzione primaria alla esclusiva direzione dei Vescovi, autorizzandoli "a destituire i maestri e le maestre delle scuole primarie, a sospenderli e a rimuoverli …". Il decreto stabiliva inoltre: "Art. 2 - Le scuole saranno di preferenza stabilite pe’ fanciulli ne’ Conventi e Monasteri, e per le fanciulle ne’ Ritiri e ne’ Conservatori di donne. Art. 3 - Saranno stabilite altresì scuole primarie, con il metodo di mutuo insegnamento, ne’ Capoluoghi di Provincia ed in tutti gli altri comuni che ne avranno i mezzi. Queste scuole saranno nello stesso modo affidate a’ Vescovi e da loro dirette per ciò che riguarda la disciplina, cò metodi e libri elementari approvati dalla Pubblica Istruzione". 39 “I miei affetti sono qui. Io sono napoletano, né potrei senza grave rammarico dirigere parole d'addio ai miei amatissimi popoli, ai miei compatrioti.” Francesco II di Borbone Figlio di Ferdinando II, uomo mite, timido e dubbioso, a ventitré anni sposò Maria Sofia di Baviera e il 22 maggio 1859 salì al trono. Continuò le direttive del padre Ferdinando II nella politica interna ed estera, mantenendo la neutralità durante la guerra del 1859. Conquistata da Garibaldi la Sicilia, Francesco II cercò di salvare il trono con una costituzione e l'alleanza al Piemonte (giugno-luglio 1860). Fallito l'estremo rimedio, abbandonò la capitale e si rinchiuse a Gaeta, che difese per tre mesi; si rifugiò poi a Roma (febbraio 1861), donde i suoi fedeli alimentarono per alcuni anni il brigantaggio nel regno. Costretto ad abbandonare anche Roma nel 1870, si stabilì a Parigi. Il malessere delle campagne e degli intellettuali Il 30 aprile 1845 il Governo Borbonico richiedeva alle Società Economiche provinciali una relazione sulle pratiche di agricoltura in uso in agricoltura. Dalle relazioni emerge una Sicilia prevalentemente agricola, con un’alta percentuale di superficie agrario-forestale destinata ai seminativi e ai pascoli, ove stentavano a penetrare quelle novità produttive in atto nelle regioni più progredite, come Piemonte e Campania. Non erano decollati la diffusione delle foraggere, l’incremento del patrimonio zootecnico, l’introduzione di nuove tecniche. Il grano era ormai per lo più destinato al consumo interno, in quanto se ne esportavano solo 8.000 cantari, per un valore di 80.000 ducati. Le tecniche di coltivazione, gli avvicendamenti, il modo di spargere il frumento nel terreno, la quantità di concime impiegato, rimanevano arcaici nonostante la presenza delle prime macchine agricole di limitata diffusione. Gli strumenti per la lavorazione del terreno erano sempre gli stessi,: lo zappone, la zappetta a mano per sarchiare e l’aratro a trazione animale. Le trebbiatrici rimasero rare a causa dell’elevato prezzo e della specializzazione richiesta al contadino per l’uso. Determinante fu la prevalenza dei contratti a colonia parziaria e a terratico, che scaricavano sul colono gli oneri per l’acquisto. I concimi chimici erano sconosciuti. L’unico usato era il letame, alla cui scarsa e insufficiente produzione si sommava la preparazione irrazionale: i letamai infatti erano all’aperto e soggetti all’azione disgregatrice del sole e della pioggia. 40 Nei primi anni quaranta l’economia siciliana visse una fase di depressione molto acuta, cui corrispose l’esplosione del pauperismo e della miseria. Nonostante la Sicilia avesse ampie possibilità nella produzione e nella esportazione, oltre che dello zolfo, dei vini, dell’olio e degli agrumi, anche del sommacco, dell’orzo, della canapa e del cotone, la mancata nascita di una borghesia imprenditoriale provocò la riduzione della domanda di lavoro e la riduzione dei salari a livelli insufficienti alla stessa sopravvivenza. Il controllo della produzione di prodotti agricoli e di manufatti rimase nelle mani della aristocrazia, che aveva come obiettivo quello di vivere di rendita, più che di profitto. Secondo Emerico Amari e Vito D’Ondes Reggio, l’errore di Ferdinando II fu di aver separato l’economia politica dalle leggi morali: lo sviluppo industriale senza una più giusta redistribuzione della ricchezza: “le classi infime e misere hanno diritto all’esistenza ed al bene essere ugualmente che coloro cui assai spesso le fortuna ha collocato in un lusso insultante”. Il 1848 siciliano segna quindi il punto di non ritorno della crisi di legittimazione della monarchia borbonica, già messa alla prova dai moti del 1820 e del 1837. Il fallimento del progetto borbonico di modernizzazione delle strutture economiche era anche stato causato dall’esilio forzato di molti intellettuali e dalla chiusura del governo a ogni forma di decentramento, aggravando la rottura tra monarchia e siciliani e avvicinando culturalmente democratici e moderati al progetto sabaudo. L’ormai sfiduciato Ferdinando II si attribuì tutti i ministeri e sostituì i ministri con direttori di scarsa levatura culturale, ma fedeli ai suoi ordini. Consiglio di Stato, Corte dei Conti, Consigli provinciali, Intendenze, Decurionati, Istituti d’Incoraggiamento, Società Economiche, vennero svuotate di compiti e poteri, dando luogo a malumori e ostruzionismi che bloccarono la macchina amministrativa in Sicilia all’arrivo di Garibaldi. Fu per questi motivi che l'unica delle forze opposte ai Borbone che mostrasse la volontà di scendere in armi, in quel 1860, era l'autonomismo siciliano. I ricordi della rivoluzione del 1848 erano ancora vividi, la repressione borbonica era stata dura e nulli i tentativi del governo napoletano di giungere ad un accomodamento politico. Inoltre, l'insofferenza non era limitata alle classi dirigenti, ma coinvolgeva, anche se con motivazioni ed obiettivi differenti, una larga fascia della popolazione cittadina e rurale: congiuntura pressoché unica nel 41 corso dell'intero Risorgimento. A dimostrazione di ciò, infatti, vi sono le adesioni di volontari alle schiere garibaldine da Marsala a Messina, sino al Volturno. Non era quindi naturale che i Borbone, che si proclamavano sovrani per diritto divino, che avevano ignorato la Costituzione affermando la supremazia del potere assoluto, che non indissero mai elezioni, potessero ridurre in angusti confini l’aristocrazia parassitaria e far crescere la borghesia imprenditoriale e commerciale. Il confronto col Piemonte, che si reggeva su una monarchia costituzionale, con un Parlamento eletto (sebbene a suffragio limitato) e con i poteri autonomi e indipendenti, era destinato a far pendere la bilancia a favore di quest’ultimo e a far nascere nel Paese quello spirito unitario e risorgimentale che si indirizzerà verso Casa Savoia. Il 5 maggio 1860 due piroscafi, il Piemonte e il Lombardo, salparono da Quarto, presso Genova. Garibaldi aveva raccolto un migliaio di volontari, metà dei quali lombardi. Alcune soste, e l’11 maggio i Mille sbarcarono, non senza sfruttare abilmente la “copertura” assicurata da vascelli inglesi, a Marsala. Il risultato dell'antagonismo siculo-partenopeo fu ben sintetizzato da Francesco II nel proclama dell'8 dicembre 1860: "Sparisce sotto i colpi dei vostri dominatori l'antica monarchia di Ruggiero e di Carlo III; e le due Sicilie sono state dichiarate province d'un Regno lontano. Napoli e Palermo son governati da prefetti venuti da Torino". Eppure, nel primo decennio del regno di Ferdinando, la Sicilia non rivendicava l'indipendenza, né l'unità politica con l'Italia, ma rifiutava la sottomissione a Napoli, aspirando ad un assetto statale di tipo federativo. L’Unità d’Italia portò allo scioglimento delle Società Economiche e dell’Istituto di Incoraggiamento con decreto del 1864. Con la legge del 6 luglio 1862, n° 680, erano state costituite le Camere di Commercio ed Arti sul modello delle Camere Napoleoniche. La Società di Scienze Naturali ed Economiche si assunse il compito di diffondere e far progredire le scienze che insegnano presso l’Istituto Tecnico di Palermo. I fatti di Bronte e di Alcara Li Fusi e di Palermo. Il 15 maggio 1860 a Calatafimi i garibaldini si scontrarono con l’esercito borbonico: restarono sul campo di battaglia 127 garibaldini e 111 borbonici. Garibaldi proseguiva per Alcamo attestandosi sopra Monreale. In quei momenti i Nebrodi si infiammano: il 13 maggio a Mistretta era 42 stato dato alle fiamme il municipio ed era stato devastato il Casino dei Nobili e tutti i paesi furono in subbuglio. Ad Alcara il 16 maggio sera, nella chiesa di S. Michele, i sacerdoti Di Bartolo e Cozzo presiedevano una riunione di braccianti, pastori, contadini e artigiani, per discutere di problemi locali. Il giorno dopo accadde la tragedia: dopo la messa la piazza della matrice si riempì di gente vociferante, mentre per la strada avanzava il popolo diretto al Casino di Compagnia, riservato a “galantuomini e civili”, al grido di “W Garibaldi! W l’Italia! W Vittorio Emanuele! Morte ai cappeddi!”. Il dato certo è il risultato di 11 morti ammazzati ed il paese in subbuglio fino al 24 giugno. Nell'entroterra siciliano si erano accese molte speranze di riscatto sociale da parte della media borghesia e delle classi meno abbienti. Ad Alcara Li Fusi, così come a Bronte, sulle pendici dell'Etna, la contrapposizione era forte fra la nobiltà latifondista rappresentata dalla britannica Ducea di Nelson, proprietà terriera, e la società civile. Alcara Li Fusi (ME) – Fucilazione di alcuni insorti Il 16 maggio del 1860 in Alcara Li Fusi, arrivò la notizia del vittorioso inizio dell'impresa dei mille in Sicilia per abbattere il Regno Borbonico dell'Italia meridionale e costruire l'unico Stato italiano. E subito un folto 43 gruppo organizzò per il giorno seguente 17 un'esaltante manifestazione preceduta dalla bandiera tricolore, nottetempo preparata. Al termine alcuni congiurati eliminarono tutti gli amministratori che avevano aderito al corteo, ma erano filo borbonici: undici morti ammazzati, sindaco in testa. I fatti di Alcara Li Fusi sono stati attentamente analizzati dal prof. Pietro Siino nel suo saggio storico “Una oscura pagina della Rivoluzione Siciliana del 1860”. Il professore, anche sulla base di documenti autentici dell’epoca, finisce per condannare la dura repressione operata da Nino Bixio, e tale atteggiamento revisionista è oggi utilizzato per rivalutare la monarchia borbonica e condannare la costituzione dello stato unitario sotto la guida di Casa Savoia. Nino Bixio 44 In realtà una valutazione oggettiva dei fatti evidenzia come gli eccidi perpetrati dai rivoltosi fossero di gran lunga più cruenti delle punizioni decise nei processi. La sentenza della Gran Corte Civile della Valle di Messina, facente funzione di G. Corte Criminale, il 24 novembre 1869 giudicava innocenti i rivoltosi di Alcara, ribaltando il precedente verdetto che aveva portato all’esecuzione di 13 dei 27 imputati. A Bronte, sulle pendici dell'Etna, la contrapposizione era forte fra la nobiltà latifondista rappresentata dalla britannica Ducea di Nelson, proprietà terriera, e la società civile. Il 2 agosto al malcontento popolare si aggiunsero diversi sbandati e persone provenienti dai paesi limitrofi, tra i quali Calogero Gasparazzo e scattò la scintilla dell'insurrezione sociale. Vennero appiccate le fiamme a decine di case, al teatro e all'archivio comunale. Quindi iniziò una caccia all'uomo e ben sedici furono i morti fra nobili, ufficiali e civili, tra cui anche il barone del paese con la moglie e i due figlioletti, il notaio e il prete, prima che la rivolta si placasse. Il Comitato di guerra, creato in maggio per volere di Garibaldi e Crispi, decise di inviare a Bronte un battaglione di garibaldini agli ordini del genovese Nino Bixio per sedare la rivolta e fare giustizia in modo esemplare. Gli intenti di Garibaldi non erano solo volti al mantenimento dell'ordine pubblico, ma anche a proteggere gli interessi commerciali e terrieri dell'Inghilterra (Bronte apparteneva agli eredi di Nelson), che aveva favorito lo sbarco dei Mille, e soprattutto a calmare l'opinione pubblica. Quando Bixio iniziò la propria inchiesta sui fatti accaduti larga parte dei responsabili era fuggita altrove, mentre alcuni ufficiali colsero l'occasione per accusare gli avversari politici. Il tribunale misto di guerra, in un processo durato meno di quattro ore, giudicò 150 persone e condannò alla pena capitale l'avvocato Nicolò Lombardo (che, acclamato sindaco dopo l'eccidio, venne additato come capo rivolta), insieme ad altre quattro persone: Nunzio Ciraldo Fraiunco, Nunzio Longi Longhitano, Nunzio Nunno Spitaleri e Nunzio Samperi. La sentenza venne eseguita mediante fucilazione l'alba successiva: per ammonizione, i cadaveri furono lasciati esposti al pubblico insepolti. Anche in questo caso, mentre i rivoltosi avevano ucciso sedici persone indifese, tra cui donne e bambini, la pena di morte fu eseguita solo nei confronti di sei rivoltosi. 45 Mancarono in questi casi le avanguardie capaci di orientare le insurrezioni dei contadini, la loro sete di violenza. Far credere ai braccianti che fosse possibile occupare le terre di Nelson, quando proprio la Gran Bretagna aveva sostenuto l’impresa di Garibaldi, fu un grave errore destinato a produrre tragedie. All'indomani della spedizione dei mille e della conseguente annessione del Regno delle Due Sicilie al nuovo Regno d'Italia, diverse fasce della popolazione meridionale cominciarono ad esprimere il proprio malcontento verso il processo di unificazione. Questo malcontento era generato innanzitutto da un improvviso peggioramento delle condizioni economiche dei braccianti della provincia meridionale, che, abituati ad una condizione economica povera ma sopportabile (caratterizzata da un costo della vita moderato, da una bassa pressione fiscale e dalla libera vendita dei prodotti agricoli), si ritrovarono a dover fronteggiare un nuovo regime fiscale per loro insostenibile e una regolamentazione del mercato agricolo svantaggiosa per loro sotto ogni aspetto. Un altro importante motivo che spinse alla rivolta i contadini fu la privatizzazione delle terre demaniali a vantaggio dei vecchi e nuovi proprietari terrieri, che così ampliarono legalmente i loro possedimenti in cambio di un maggior controllo del territorio e della fedeltà al nuovo governo. La Rivolta del sette e mezzo fu la sollevazione popolare avvenuta a Palermo dal 16 al 22 settembre 1866. Chiamata del "sette e mezzo" perché durò sette giorni e mezzo nel contesto storico delle sommosse popolari e della guerriglia del Sud Italia. Ma perché Palermo, una delle città più importanti d’Italia, una delle città che avevano anche favorito i sabaudi, consentendo lo sbarco di Garibaldi e favorendone l’avanzata, dopo solo cinque anni di governo si ribellò? Ed è questo un evento da considerare come regionale ed isolato o espressione di un malessere più diffuso? Certamente un peso notevole l’ebbe la nascita di un mercato nazionale e l’estensione su tutto lo Stato unificato delle rigide leggi di Torino. A Palermo esplose quel fenomeno dovuto alla difficoltà di passare da una economia di tipo feudale, campagnola e assistita, al capitalismo. Il ruolo di Cavour Nasce il 10 agosto 1810 a Torino. Lascia nel 1831 la vita militare e per quattro anni viaggia in Europa, studiando particolarmente gli effetti della 46 rivoluzione industriale in Gran Bretagna, Francia e Svizzera e assumendo i principi economici, sociali e politici del sistema liberale britannico. Importante possidente terriero, Camillo Benso, Conte di Cavour, contribuì, già nel maggio 1842, alla costituzione dell'Associazione agraria, che si proponeva di promuovere le migliori tecniche e politiche agrarie, per mezzo anche di una Gazzetta che fin dall'agosto 1843 pubblicava un articolo del Conte. Impegnato nell'attività di gestione soprattutto della sua tenuta di Leri, Cavour nell'autunno 1843, grazie alla collaborazione di Giacinto Corio, iniziò un'attività di miglioramenti nei settori dell'allevamento del bestiame, dei concimi e delle macchine agricole. In sette anni (dal 1843 al 1850) la sua produzione di riso, frumento e latte crebbe sensibilmente, e quella di mais addirittura risultò triplicata. Ad integrare le innovazioni della produzione agricola, Camillo Benso intraprese anche delle iniziative di carattere industriale con risultati più o meno buoni. Fra le iniziative più importanti, la partecipazione alla costituzione della Società anonima dei molini anglo-americani di Collegno nel 1850, di cui il Conte divenne successivamente il maggiore azionista e che ebbe dopo l'unità d'Italia una posizione di primo piano nel Paese. Camillo Benso, Conte di Cavour 47 Nel 1850, essendosi messo in evidenza nella difesa delle leggi Siccardi (promosse per diminuire i privilegi riconosciuti al clero, prevedevano l'abolizione del tribunale ecclesiastico, del diritto d'asilo nelle chiese e nei conventi, la riduzione del numero delle festività religiose e il divieto per le corporazioni ecclesiastiche di acquistare beni, ricevere eredità o donazioni senza il consenso del Governo), Cavour viene chiamato a far parte del gabinetto D'Azeglio come ministro dell'agricoltura, del commercio e della marina. Successivamente viene nominato ministro delle Finanze. Con tale carica assume ben presto una posizione di primo piano, fino a diventare presidente del Consiglio il 4 novembre 1852. Prima della nomina Cavour aveva già in mente un programma politico ben chiaro e definito ed era deciso a realizzarlo, pur non ignorando le difficoltà che avrebbe dovuto superare. L'ostacolo principale gli derivava dal fatto di non godere la simpatia dei settori estremi del Parlamento, in quanto la sinistra non credeva alle sue intenzioni riformatrici, mentre per le Destre egli era addirittura un pericoloso giacobino, un rivoluzionario demolitore di tradizioni ormai secolari. In politica interna mira innanzitutto a fare del Piemonte uno Stato costituzionale, ispirato ad un liberismo misurato e progressivo, nel quale è la libertà a costituire la premessa di ogni iniziativa. Convinto che i progressi economici sono estremamente importanti per la vita politica di un paese, Cavour si dedica ad un radicale rinnovamento dell'economia piemontese. L'agricoltura viene modernizzata grazie ad un sempre più diffuso uso dei concimi chimici e ad una vasta opera di canalizzazione destinata ad eliminare le frequenti carestie (dovute a mancanza d'acqua per l'irrigazione), e a facilitare il trasporto dei prodotti agricoli; l'industria viene rinnovata ed irrobustita attraverso la creazione di nuove fabbriche e il potenziamento di quelle già esistenti, specialmente nel settore tessile. Fonda un commercio basato sul libero scambio interno ed estero che, agevolato da una serie di trattati con Francia, Belgio e Olanda (18511858), subisce un forte aumento. Cavour provvede a rinnovare il sistema fiscale, basandolo non solo sulle imposte indirette, ma anche su quelle dirette, che colpiscono i grandi redditi; provvede al potenziamento delle banche con l'istituzione di una "Banca Nazionale" per la concessione di prestiti ad interesse non molto elevato. 48 Il progressivo consolidamento politico, economico e militare, spinge Cavour verso un'audace politica estera, capace di far uscire il Piemonte dall'isolamento. «La storia di tutti i tempi prova che nessun popolo può raggiungere un alto grado di intelligenza e di moralità senza che il sentimento della sua nazionalità sia fortemente sviluppato: in un popolo che non può essere fiero della sua nazionalità il sentimento della dignità personale esisterà solo eccezionalmente in alcuni individui privilegiati. Le classi numerose che occupano le posizioni più umili della sfera sociale hanno bisogno di sentirsi grandi dal punto di vista nazionale per acquistare la coscienza della propria dignità» Il 17 marzo 1861 il Parlamento subalpino proclamò Vittorio Emanuele, non “Re d’Italia per grazia di Dio”, ma «re d'Italia per grazia di Dio e volontà della nazione». Quindi Vittorio Emanuele II, non V. Emanuele I, a sottolineare la continuità con il passato, che era anche il modo di evidenziare che l'Italia si era fatta ad opera della casa Savoia, e che essa si poneva come garante dell'ordine e della stabilità sociale. L’azione della Francia e lo scacchiere internazionale. Le gesta di Napoleone III miravano a ripristinare il primo impero, quello di Napoleone I, a riportare cioè sotto la Francia, oltre che la contea di Nizza e la Savoia, anche le regioni che erano state inglobate nel territorio metropolitano francese, cioè Liguria, Toscana e Stato Pontificio. Il Piemonte in epoca napoleonica aveva fatto parte della Francia e il Cavour temeva che l'alleato potesse trasformarsi in padrone: "Non voglio assolutamente ch'egli regni in Piemonte come in Francia, poiché, dopo averlo qui chiamato, io debbo più d'ogni altro essere geloso dei diritti del nostro Re e salvaguardarli da ogni usurpazione" (dal diario di Salmour all'epoca dell'alleanza franco-piemontese nel 1859). Leggiamo ancora dalle memorie di Salmour: "Debbo ricordare un fatto, per provare che fino dal 1859 Cavour pensava seriamente all'annessione del Reame di Napoli. Nell'ottobre di quell'anno 1859, in seguito ad alcune lettere ricevute da Napoli, mi recai da Cavour per dirgli che se egli obbligava il Ministero a mandare a Napoli Sclopis o un altro ministro di polso e di opinioni non troppo spiccate, facilmente avrebbero indotto il Re di Napoli a dare una costituzione al suo popolo. "Ma come? mi rispose - tu che sei di spirito così fine, hai potuto pensare un istante che 49 noi vogliamo che il Re di Napoli dia una costituzione? Ciò che noi vogliamo e ciò che faremo è di prenderci i suoi Stati". In data 2 giugno 1860 aveva scritto al Nigra a Parigi: "In un dispaccio ufficiale che oggi invio a Parigi e a Londra io protesto contro ogni intervento armato negli affari delle Due Sicilie [l'intervento degli altri no, ma il suo sí, ndr]. Se, come voi mi comunicate, la Francia e l'Inghilterra non s'opporrebbero all'annessione della Sicilia, io son deciso a marciare dritto alla meta. So perfettamente che (per quanto riguarda le risorse materiali) l'annessione di un'isola lontana avrebbe più svantaggi che vantaggi. Ma questo sarebbe un altro grande passo, un altro picchetto per l'unificazione definitiva dell'Italia. Vogliate sondare il terreno e dirmi se devo andare a tutto vapore o arrestare la locomotiva” (lettera n. 878, 2 giugno, Carteggio Cavour - Nigra, vol. IV). Il giorno prima (1 giugno 1960) il ministro degli esteri delle Due Sicilie, Carafa di Traetto, aveva invocato la intangibilità del territorio dei Borbone: "Villamarina comunica che Carafa ha invocato la garanzia del territorio e l'intervento marittimo delle Potenze rappresentate a Napoli. Noi gli abbiamo ordinato di protestare in anticipo contro ogni intervento basandosi sul principio di non intervento in Italia adottato dalla Francia e dall'Inghilterra” (lettera n. 874, stesso Carteggio). Ecco il memorandum con cui Carafa si rivolgeva alle Case Regnanti europee: "In vista delle gravi circostanze nelle quali la rivoluzione ha immerso la Sicilia, S.M. ne appella a tutta l'Europa per provocare dalle varie Potenze che i loro rappresentanti siano autorizzati ad officialmente e solennemente dichiarare di voler garentire, con la Dinastia, l'integrità del Regno delle Due Sicilie ed a chiedere che con le loro forze marittime concorrano le stesse Potenze ad impedire qualunque invasione nei Reali Domini" (A.S.N., Aff. Est., Arch. Stor., busta n. 12). I rappresentanti diplomatici di Francia, Inghilterra e Prussia mantennero un atteggiamento neutrale, favorevoli furono il Nunzio pontificio e l'ambasciatore spagnolo, ma l'ambasciatore piemontese, Villamarina, prospettò una guerra generale in Europa se il principio di non intervento fosse stato disatteso. Lo zar Alessandro, invece, all'ambasciatore delle Due Sicilie, Duca di Regina, accreditato nella lontana Pietroburgo, faceva sapere che non riconosceva quel principio: parole al vento, ché egli non poteva dare forza concreta allo sfogo, data la lontananza della Russia dallo scacchiere di crisi: "... Circa le pratiche fatte verso il Gabinetto di Turino, esse non sono meno energiche, ed il Principe 50 di Gortchakow in una recente conversazione tenuta col Marchese Sauli (ambasciatore piemontese a Pietroburgo, ndr) l'incaricò di scrivere al Conte Cavour che l'Imperatore Alessandro provava tale e tanta indignazione per ciò che accadeva in Sicilia, per l'attitudine che serbava il Gabinetto Sardo, che se la posizione geografica della Russia fosse stata diversa, egli sarebbe intervenuto materialmente, malgrado e contro i principii di non intervenzione che le Potenze Occidentali tengono in forza contro il diritto e rilasciano in favore della rivoluzione" (dispaccio n. 135 dell'11 giugno 1860, Regina a Carafa, Carteggi di Cavour, La Liberazione del Mezzogiorno, vol. V, appendice IIB). Le esatte parole di Gortchakow al Sauli furono: "Ove la giacitura geografica della Russia nol vietasse, lo Czar interverrebbe con le armi a difendere i Borboni di Napoli, senza curarsi del non intervento proclamato dalle Potenze occidentali" (A. Zazo, La politica estera del Regno delle Due Sicilie nel 1859-60, pag. 288), da cui traspare a chiare lettere l'impotenza della Russia ad agire in scacchieri geopolitici lontani dal suo territorio. Napoleone fu dunque impotente a contrastare la convergenza anglopiemontese: la situazione gli era sfuggita completamente di mano. Pur tuttavia ancora il 4 settembre 1860, al Duca di Caianiello, recatosi in missione a Chambery, assicurò che egli "portava grande interesse al re di Napoli ed aveva tutto il desiderio di sostenerlo; che già lo aveva fatto per mezzo di Thouvenel e specialmente verso l'Inghilterra e il Piemonte, ed anche ultimamente nel colloquio avuto col ministro piemontese Farini a Chambery", ma stava barando, come barava tre anni dopo anche il ministro Thiers, che ebbe a dire alla camera francese, millantando un inesistente credito di benemerenza politica: "siamo noi, noi soli che abbiamo fatto l'Italia" e che l'unità d'Italia era stata conseguita "col sangue della Francia" (Discours parlamentaires de M. Thiers, vol. XI, pagg. 46), svalutando con ciò anche qualunque italico patriottismo. Per tutto il tempo della crisi l'azione diplomatica del Quai d'Orsay ebbe di mira l'inglobamento della penisola in orbita francese, contrastando la costituzione di un forte Stato unitario ostile alla Francia. La linea politica di quel governo era stata ben delineata da Thouvenel, ministro degli esteri francese, a Gramont, ministro a Roma, in data 18 marzo 1860: “Si le Pape et le Roi de Naples avaient l'intelligence de leurs intèrets, ils comprendraient bien vite que ces intèrets sur un point capital, sont connexes avec les notres. L'unitè de l'Italie nous dèplait autant qu'à eux- 51 memes”. La Gran Bretagna, che nel 1815 aveva avversato l’unità d’Italia sotto l’egemonia francese combattendo Gioacchino Murat, nel 1860 la favorisce aiutando il Piemonte per fini opposti.. La diplomazia Inglese nel Mediterraneo Alla base della mutevole politica seguita dal governo britannico nei mesi decisivi della crisi, fu il timore di ulteriori ampliamenti territoriali della Francia, esploso dopo l'annessione della Savoia e Nizza. Il governo di Londra incaricò l’ambasciatore Hudson di chiedere a Cavour un impegno formale a non fare alcuna ulteriore concessione territoriale alla Francia. Nel mese di maggio, quando la Sicilia poteva dirsi ormai piemontese, il governo di Londra aveva il sospetto che il Cavour si apprestasse ad effettuare la cessione di Genova alla Francia qualora la Sicilia fosse annessa al Piemonte. Che gli inglesi sospettassero una concorrenza sleale di Napoleone nella impresa dei Mille, ne parla pure l'ambasciatore inglese a Napoli in una sua relazione a Lord Russell (Public Record Office London, Foreign Office 70/316, Elliot a Russell, Napoli 13 maggio 1860 n. 712, citata da A. Zazo pag. 289). La diagnosi di Carafa era esatta: “Se la spedizione fosse stata offensiva alla Francia, essa non avrebbe avuto luogo" (Carafa ad Elliot). Già da alcuni anni la consumata diplomazia inglese si era messa all'opera per sventare i lacci napoleonici. Il successo che le arrise conservò all'Inghilterra il dominio del Mediterraneo, che le consentirà poi di vincere anche la seconda guerra mondiale. Come corollario a questo studio possiamo affermare, senza tema di essere smentiti, che l'errore principe commesso da Ferdinando II, che pur non difettava di acume politico, fu quello di non aver saputo trarre le logiche conseguenze dalla guerra di Crimea: tale terribile, anche se circoscritto, conflitto aveva messo in luce tutta la debolezza dell'alleata Austria, la sua pochezza industriale rispetto a Francia e Inghilterra e la sua incapacità di intervenire militarmente lontano dalle proprie frontiere. L'asse politico del mondo si era spostato definitivamente sulle rive dell'Atlantico. Il Congresso di Vienna, con l'Austria egemone, era ormai perso nella nebbia dei ricordi. Il Cavour giocava con abilità su più tavoli e l'unità della penisola fu creazione della volontà inglese e non della Francia di Napoleone III, attestata sempre sugli accordi di Plombières. Dopo i plebisciti in Emilia e 52 in Toscana, Cavour aveva suggerito alla Gran Bretagna che, “se la Francia non desiderava andare al di là della creazione di uno Stato dell'Italia settentrionale che facesse da contrappeso all'Austria, poteva invece essere nell'interesse inglese che si formasse un'Italia più grande per far fronte alla Francia nel Mediterraneo" (in Vittorio Emanuele II, Laterza). L’azione di Garibaldi e Cavour si inquadra nel timore che la Gran Bretagna nutriva per la politica espansionistica di Napoleone III: Sardegna, Liguria, Toscana diventare territori metropolitani francesi, e il Regno delle Due Sicilie, pur formalmente indipendente, diventare un protettorato napoleonico retto da Luciano Murat o da Gerolamo Napoleone. Si sarebbero ripresentate, aggravate, le condizioni geopolitiche del primo impero: il Mediterraneo lago francese, cosa che l'Inghilterra non avrebbe mai potuto tollerare. Nel dossier diplomatico inglese urgeva inoltre una altro gravissimo problema: già da un anno erano cominciati i lavori per il canale di Suez da parte di una società francese. L'Inghilterra temeva che Napoleone III invadesse quel pezzo di impero turco impadronendosene. A tali problemi se ne aggiungeva un altro: la Russia zarista lavorava per portare l'impero turco alla dissoluzione. Questa eventualità avrebbe reso la Russia "padrona del Mar Nero e capace di minacciare a poco a poco l'India". Era quindi vitalissima necessità per la diplomazia inglese contenere l'espansionismo di Napoleone III, allentare o spezzare l'alleanza franco-piemontese e sostenere l'impero turco in funzione antirussa. Il decennio 1860/70, fino alla disfatta di Sedan (dove Napoleone III fu preso prigioniero dai prussiani), fu per l'Inghilterra un decennio di passione e di febbrile attività politico-diplomatica. Il problema Suez fu risolto nel 1869 dal governo presieduto da Disraeli con l'acquisto del pacchetto di maggioranza delle azioni della Società del Canale. Superata la fase di incertezza relativa all'impresa di Giuseppe Garibaldi, in un primo tempo definito da Lord Russell "gent out of law", cioè fuorilegge, il governo inglese sacrifica, per i suoi interessi di egemonia geopolitica, il Regno delle Due Sicilie concedendolo al Piemonte, contraddicendo l'opinione generale che questo considerasse la Sicilia un compenso della Savoia perduta. L’evolversi degli eventi bellici e politici è analizzato con attenzione e chiarezza dal principe di Carini, ministro di Francesco II di Borbone, accreditato presso il governo prussiano a Berlino, che trasmetteva in data 7 agosto 1860 al ministro degli esteri a Napoli, De Martino, il seguente riservatissimo dispaccio: "Diviene ormai inutile ogni insistenza più diretta 53 per sormontare le teorie ed assurde considerazioni affacciate dal Gabinetto Inglese per opporsi e per paralizzare le proposizioni dell'Imperador Napoleone in favor nostro. Anzi nelle più recenti comunicazioni incalza in tal modo e con tale quasi minacciosa energia che difficilmente possono conservarsi in dubbio non solo la molesta politica di lord Palmerston, quella anche peggiore di Lord John Russell e tutta la malevolenza che ci han fabbricata in Inghilterra, ma altresì la connivenza e complicità di quel Governo negli attentati intrapresi contro la R. Nostra Dinastia e contro il nostro Regno. Gettando la maschera dell'umanità e delle filantropie che vanta colle labbra e smentisce coi fatti, esigge per noi le pruove del sangue, le pruove delle armi, per poi concedere le simpatie della Gran Bretagna o al Monarca che proditoriamente inceppa e lascia aggredire, o alla rivoluzione, che fomenta e protegge". Si stringe, quindi, attorno al Regno delle Due Sicilie la ragnatela che Cavour andava tessendo e che portava all’isolamento di Francesco II nel contesto delle potenze europee. La gravità della situazione è avvertita dal Ministro degli Esteri delle Due Sicilie, Carafa, che aveva scritto al suo ambasciatore a Londra, Ludolf: "Il modo di vedere del ministro inglese non poteva essere diverso dai principi che, tranne qualche variazione inerente all'epoca, sono professati sempre da tutti i gabinetti inglesi, i quali principi devono, come i fatti costantemente lo provano, trovarsi falsati nella loro applicazione, così è che lord J. Russell nel tenere per fondamentale il diritto delle nazioni, ne ammette e ne tollera la violazione nella guerra civile che in uno Stato costituito porta una masnada di gente pagata da un partito che non ha governo legale. Ammetterebbe lord Russell simili dimostrazioni nei Regi Stati per effettuare una spedizione in altri, amici, dove si professano dal Governo diversi principi politici? I fatti non corrispondono alle teorie specialmente quando sono nel proprio senso". Il realtà, fino al giugno 1860, per motivi di liberalizzazione, o meglio di globalizzazione economica, la Gran Bretagna era stata ostile al governo borbonico che, con alti dazi, contrastava in difesa della propria economia le merci straniere, segnatamente le merci di Sua Maestà britannica. Purtroppo per lui, i servizi di informazione di Francesco II non furono all’altezza della situazione nell’interpretare la politica inglese, tanto che, all'inizio dell’impresa dei Mille, il 23 maggio, il Console Borbonico a Washington informava il Carafa col seguente dispaccio: "Lord Lyons (ambasciatore britannico a Washington, ndr) diceva ieri sera in piena 54 riunione sociale che, se il legno che porta Garibaldi potesse essere mandato a picco, la sarebbe una vera fortuna e per lui e per l'Italia" (A.S.N. America, fasc. 3), in perfetta sintonia con le vecchie vedute di Lord Russell. Evidentemente una parte del corpo diplomatico napoletano non riusciva ad interpretare gli eventi e il Regno precipitava nella confusione politica e nel disorientamento. La morte di Cavour L’uscita nel 1861 dalla scena politica di Giuseppe Garibaldi e Camillo Benso, privava il processo unitario dei due leaders carismatici che avrebbero potuto indirizzare lo sviluppo del Paese, in particolare del Meridione, verso una direzione industriale e produttiva, sul modello di quanto avvenuto in Piemonte dal 1852 al 1861. Il primo veniva allontanato dall’esercito regio e non inserito in compiti governativi, ma nominato senatore perché potesse essere neutralizzato, il secondo moriva il 6 giugno 1861. Vittorio Emanuele II, distratto da battute di caccia e amori extraconiugali, non fu capace di sostenere i ceti produttivi della Sicilia, condannandola a un sottosviluppo assistito di cui ancora sono evidenti le conseguenze. Gli artefici principali del Risorgimento furono quindi due nobili: Vittorio Emanuele II di Savoia e Camillo Benso conte di Cavour, e due borghesi: Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi. Il 17 marzo 1861 solo tre di loro erano a Torino a celebrare l’avvenuta unificazione, Giuseppe Mazzini era in esilio a Londra. Questi quattro personaggi erano sulla cinquantina, in piena maturità, tranne il re che era più giovane. Avevano davanti un discreto numero d’anni, ma per uno di loro la morte era vicina. Cavour, il grande tessitore, quando proclamava che Roma e solo Roma, la città eterna, poteva essere la capitale d’Italia, non sapeva che la fine fosse prossima. Camillo Benso dedicò la propria vita all’Unità d’Italia, alle cure del Governo, agli affari della propria famiglia. Non si sposò mai, ma ebbe alcuni amori. L’ultima donna di cui si innamorò fu Bianca Ronzani, la ballerina di origine magiara o forse prussiana, con cui dal 1856 intratteneva una relazione sentimentale. Bianca era giunta a Torino al seguito del marito, il triestino Domenico Ronzani, ballerino, mimo, coreografo e impresario prima del Teatro Nazionale e poi del Teatro Regio. Cavour conobbe la Ronzani al suo ritorno dal Congresso di Parigi del 1856. La giovane e piacente ballerina aveva chiesto udienza al Presidente del Consiglio per 55 implorare sovvenzioni statali per risollevare le esauste finanze del Teatro Regio, amministrato dal marito. Gli argomenti della signora furono convincenti, da indurre Cavour, in qualità di ministro delle Finanze, a concedere le sovvenzioni richieste. La generosità del conte non fu sufficiente a salvare Domenico Ronzani dalla bancarotta. Nel 1858, per sottrarsi ai creditori e alle azioni giudiziarie, il Ronzani riparò a Genova e qui si imbarcò su un piroscafo diretto in Sudamerica. Bianca invece rimase a Torino. Della relazione tra il conte di Cavour e Bianca Berta di Valentino Sevierz-Ymar in Ronzani sappiamo poco. Una parte del carteggio tra i due amanti, forse quella più rivelatrice, è andata perduta. Nel 1894 Costantino Nigra acquistò a Vienna, presso l'antiquario Alessandro Posonyi, 24 lettere indirizzate da Cavour alla Ronzani e le distrusse con l'assenso degli eredi e del re d'Italia, ritenendole scandalose, poiché «ispirate da una violenta passione, scritte con imprevidente abbandono, piene di particolari del carattere più intimo». Nel maggio 1860 Cavour le fece dono di una proprietà del valore di 23.000 lire e di un ricco mobilio. Dopo la morte del conte, la Ronzani vendette i doni dell'amante e con il denaro racimolato si trasferì, in compagnia di un giovane magiaro, a Parigi, dove morì in miseria nel 1863. Nei due testamenti di Cavour non c'è traccia di alcun lascito alla Ronzani. Documenti storici di autore anonimo, celato sotto lo pseudonimo di “Ingrato”, furono pubblicati per la prima volta a Torino, presso l’editore Domenico Cena. Il libricino intitolato: “Cavour avvelenato da Napoleone III", racconta una storia che circolava nei pettegolezzi di palazzo. Questa storia attribuiva a Napoleone III – che vedeva nello statista piemontese un suo irriducibile nemico – la responsabilità della morte di Cavour, che sarebbe stato avvelenato da una sua emissaria in casa dell’amante. L’autore si sarebbe deciso a mettere per scritto e a divulgare la storia solo nel 1871, proprio perché, dopo la guerra franco-prussiana che aveva segnato la fine del II impero, Napoleone III era ormai uscito di scena. Il volumetto sostiene la tesi del Cavour ucciso, o meglio fatto avvelenare, da Napoleone III tramite "una giovane donna, d'un viso piacevole" moglie di un commissario di polizia (di Parigi), la quale, in cambio di un sostanzioso premio (500.000 lire), si sarebbe prestata allo "scellerato progetto". Costei si porta a Torino, riesce a diventare intima dell'amante del Cavour, Bianca Ronzani. Informatasi con molta cautela delle abitudini del 56 Cavour, l'agente segreto riesce a dare pratica attuazione al piano. In un momento di distrazione della Ronzani, versò veleno nella "tazza di porcellana bianca filettata in oro" da cui il ministro piemontese sorbiva il suo caffè. "Cavour bevve, bevve... e non s'accorse che egli, col caffè, succhiava la morte" che lo rapì cinque giorni dopo. Su chi fosse l’anonimo autore del libretto si è a lungo discusso. Una delle ipotesi più accreditate è che sia stato un ufficiale di polizia, il maggiore Domenico Cappa, figura popolare e benvoluta della Milano umbertina. Assegnato nel 1859 alla persona del presidente del Consiglio, Cappa gli fu vicino, in pratica, fino alla morte, ne conobbe la personalità e i segreti. Altre ipotesi individuano l’anonimo autore del racconto in Isacco Artom, segretario copista di Cavour. Il libretto contiene elementi e particolari che potevano essere noti solo a persona in confidenza o in contatto con Cavour. Il libretto di autore anonimo riporta tre documenti che appaiono determinanti per fare luce sulla morte di Cavour e che riportiamo integralmente: Dispaccio n° 1: "Acquisto terreno - Non dispero più - notificherete a lui una nuova strada apertami - É fedelissima al conte Cavour la servitù che lo circonda - Tentarla sarebbe stato un compromettere il piano. Il ministro italiano è ritiratissimo e viene, può dirsi ingolfato giorno e notte nei molteplici ed infiniti suoi affari - la sera dopo il pranzo, lavora - dopo va in via Nuova (alcune volte in vettura ed altre volte a piedi) da certa signora Bianca, prussiana, della quale, se non è innamorato, è certamente affezionatissimo - » col mezzo di lei che riuscirò nello scopo - Ho preso in affitto un alloggio sullo stesso piano di lei - Procuro di trovarmela di fronte quando ella discende le scale - Prima con impercettibile segno del capo, dopo più spiccatamente cominciai a salutarla. - Ella mi corrisponde il saluto. Presto vi darò altri ragguagli. M.S.". Dispaccio n° 2: "Le cose sono a buon punto - Quasi giornalmente sono nella casa di lei - Si mostra molto affezionata a me - Il ministro italiano continua a recarsi da lei tutte le sere - Vi resta per parecchie ore - Egli è all'oscuro della mia relazione colla signora Bianca - Mi sono informata delle abitudini del conte - Seppi ch'egli prima di lasciare quella casa beve una tazza di caffè - Pare che il caso favorisca i miei disegni - Il conte ha un'apposita tazza di capacità maggiore a quelle comuni - A cosa fatta vi comunicherò il resto. Torino, 22 maggio 1861". 57 Dispaccio n° 3: "Tra due ore avrò lasciata Torino. Il mio compito è finito. Tutto andò felicemente. Per la città si conosce l'indisposizione del conte Cavour. Nessuno dubita. La prudenza non mi abbandonò un solo istante. Fra quattro o cinque giorni sarà affar finito. Raggiungo il suolo francese lieta e soddisfatta d'avere obbedito l'imperatore, reso un servizio alla mia patria. Lo saranno del pari gli altri...? Torino, 2 giugno, 1861. N.N". Secondo l’anonimo le ultime parole pronunciate da Camillo Benso a "persona di sua grandissima confidenza" che lo assisteva e che "la delicatezza" gli vietava di nominare furono queste: "...sento di essere avvelenato... conosco donde mi viene il colpo ... i medici negarono dinanzi me ch'io fossi vittima di un veleno propinatomi ... Sai tu a chi debbo dire grazie?... Sai tu chi mi fece avvelenare? Napoleone III!". Identiche le parole ripetute all'amante Bianca Ronzani, accorsa a visitarlo. Il veleno utilizzato fu forse "un estratto di cicuta polverizzato ... che s'infiltra nella massa del sangue e provoca una congestione cerebrale molto affine alla febbre tifoidea". Domenico Cappa (o Isacco Artom) narra che quel 29 maggio 1861, dopo una giornata fitta di impegni, Cavour cenò come al solito con il fratello Gustavo e con il nipote Ainardo. Il resoconto della nipote Giuseppina Alfieri ci informa che: «mangiò di buon appetito, parlò della discussione del giorno, si intrattenne di affari di famiglia, e, fra le altre cose, raccomandò a mio padre di restaurare il castello di Santena. "È là soggiunse - dove voglio riposare un giorno, vicino ai miei». Dopo cena andò a fumare un sigaro sul terrazzo, ma preso da leggeri brividi, preferì rientrare in salotto e presto si ritirò nel suo appartamento per la notte. Secondo Michelangelo Castelli, dopo cena Cavour avrebbe fatto visita a Bianca Ronzani, sistemata, a spese del conte, in una graziosa villetta ai piedi della collina torinese. Si trattenne pochi minuti, si mostrò di umore nero, era nervoso e soprattutto accaldato. Si fece servire una bibita gelata e si congedò per tornare in carrozza a palazzo Cavour. Secondo la nipote Giuseppina, nella notte del 29 maggio, a un malessere indefinito del conte seguirono prima un vomito violento, poi acuti dolori intestinali. Temendo un attacco apoplettico, Cavour mandò immediatamente a chiamare il dottor Rossi, allievo del dottor Tarella, che per più di vent'anni aveva curato la famiglia. Rossi cercò prima di tutto di fermare il vomito, ma non ebbe successo. Ordinò quindi un primo salasso, 58 che parve sortire benefici effetti. Il mattino seguente ne fu applicato un secondo e il pomeriggio un terzo. La pratica del salasso era comune a tutta la medicina del tempo, ogni qual volta si sospettava che un eccesso di sangue opprimesse il malato oppure fosse in corso un attacco di apoplessia, cioè una emorragia a carico di organi interni. La scuola medica torinese aveva fatto del salasso il suo credo, come ci informa l'arguta madame d'Agoult, più nota con il nom de plume di Daniel Stern che, durante il suo soggiorno a Torino, conobbe il dottor Alessandro Riberi, medico di corte e luminare subalpino, lasciandocene un ritratto professionale eloquente: «salassava magistralmente, salassava ancora e sempre». La febbre, alta per tutto il giorno, svanì nel corso della notte. Venerdì 31 maggio Cavour si svegliò lucido e in forze; contro il parere del dottor Rossi volle convocare i ministri per definire le questioni più urgenti. Dopo il consiglio dei ministri, si trattenne con Nigra e con Artom e trovò un pò di tempo da dedicare alla nipote Giuseppina. Nella notte tornarono i brividi, poi la febbre alta e il delirio. All'alba il dottor Rossi tentò di contrastare la febbre somministrando il chinino, ma il conte non riuscì a trattenerlo. Il giorno successivo, 1 giugno, Rossi praticò due nuovi salassi che contribuirono a debilitare il fisico già provato del conte. La mattina del 2 giugno, nonostante la febbre fosse calata, il più cupo pessimismo si impossessò dei familiari e dei domestici del conte. La nipote Giuseppina trovò lo zio «pallido, abbattuto, assorto», le mani fredde «come marmo». Qualche ora più tardi la febbre tornò violentissima e con essa il delirio. Con il respiro affannato, bruciante di febbre, Cavour ripercorreva con voce stentorea i momenti cruciali del Risorgimento, con frasi interrotte esponeva i suoi progetti per il futuro, in preda all'angoscia esprimeva il timore che la notizia della sua malattia potesse danneggiare il successo del prestito di 500 milioni che lo Stato era sul punto di contrarre. Il lunedì mattina il delirio perdurava, il respiro del conte era sempre più breve, la sua sete implacabile, nonostante il ghiaccio tritato che gli veniva somministrato. Il precipitare della situazione convinse il dottor Rossi a chiedere un consulto. Venne convocato il dottor Maffoni. Nel frattempo, su insistenza dello stesso Cavour, fu praticato l'ennesimo salasso. Il chirurgo praticò una nuova incisione «ma il sangue non sgorgò: a forza di comprimere la vena, giunsero ad estrarre due o tre once di sangue nero e coagulato». 59 Inizialmente Cavour rifiutò con decisione l'ipotesi di ascoltare il parere del dottor Maffoni, poi però finì per cedere alla suppliche dei familiari. Accolse i medici al suo capezzale esortandoli a guarirlo in fretta; «Ho l'Italia sulle braccia - aggiunse in preda al delirio - il tempo è prezioso. Domani debbo essere a Bardonecchia, per visitare, col signor Bixio e con altri amici di Parigi, i lavori del Moncenisio». Rossi e Maffoni convennero sulla diagnosi: «congestione con minaccia di versamento al cervello»; e sulla terapia: salassi per scongiurare il rischio di emorragie interne e chinino per contrastare la febbre. Dato l'evidente stato confusionale del conte, prescrissero una forte dose di solfato di chinino liquido da somministrare in tre volte nell'arco della giornata. Un vomito violento si presentò a ogni tentativo di somministrazione del chinino. La febbre e il delirio pertanto rimasero incontrastati. In serata, quando ormai le condizioni di Cavour apparivano disperate, giunse in visita l'erede al trono, il principe di Carignano, che tentò con frasi di circostanza di infondere ottimismo nei familiari. All'alba i medici, non potendo contare sugli effetti benefici del chinino, ricorsero agli impacchi: senape alle gambe, per riattivare la circolazione, e ghiaccio sul capo per alleviare la febbre. Rimedi esterni poco efficaci, adottati per dare un pò di sollievo al moribondo e lasciare qualche spiraglio di speranza ai familiari. Anche Luigi Carlo Farini, che in passato si era preso cura della salute del conte, fu consultato, ma non seppe proporre rimedi che non fossero già stati sperimentati senza successo. Nel corso della giornata di martedì 4 giugno la notizia della malattia del conte si diffuse in tutta la città. Una folla cupa, silenziosa, desolata di torinesi si strinse attorno a palazzo Cavour, ma nessuna buona notizia poté confortarla. Come precedentemente richiesto dallo stesso Cavour, fu mandato a chiamare padre Giacomo da Poirino della Chiesa della Madonna degli Angeli. Subito dopo il colloquio con padre Giacomo, Cavour chiese di parlare con Farini a cui, come rivela la nipote Giuseppina, confidò a futura memoria: «Mi sono confessato ed ho ricevuto l'assoluzione, più tardi mi comunicherò. Voglio che si sappia; voglio che il buon popolo di Torino sappia che io muoio da buon cristiano. Sono tranquillo e non ho mai fatto male a nessuno». La morte da buon cristiano di Cavour non mancò di irritare papa Pio IX che convocò a Roma padre Giacomo e lo sospese a divinis per aver assolto 60 senza ritrattazione lo statista che era stato colpito dalla scomunica del 26 marzo 1860 contro gli usurpatori degli Stati pontifici. Giuseppina supplicò lo zio di accettare un ulteriore consulto medico e questi, per non dispiacerla, acconsentì. Il dottor Riberi, luminare per antonomasia della medicina subalpina, fu mandato a chiamare alle otto del mattino; si presentò a palazzo soltanto alle cinque del pomeriggio per confermare con tutta la sua autorevolezza la diagnosi dei colleghi: «infiammazione alla base del cervello, prodotta da afflussi di sangue alla testa». In quanto alla terapia, Riberi si limitò a consigliare di somministrare al conte un pò di brodo, poiché il polso era debolissimo. Verso le nove di sera giunse a palazzo Vittorio Emanuele II. Nonostante la febbre altissima Cavour riconobbe il suo re, ma non riuscì a formulare un discorso coerente. Gli ultimi mesi di governo affiorarono in modo convulso: «Oh sire! Io ho molte cose da comunicare a V.M., molte carte da mostrarle: ma son troppo ammalato; mi sarà impossibile di recarmi a visitare la V.M.; ma io le manderò Farini domani, che le parlerà di tutto in particolare. V.M. ha ella ricevuta da Parigi la lettera che aspettava? L'Imperatore è molto buono per noi ora, sì, molto buono. E i nostri poveri Napoletani così intelligenti! Ve ne sono che hanno molto ingegno, ma ve ne sono altresì che sono molto corrotti. Questi bisogna lavarli. Sire, sì, sì, si lavi, si lavi». Dopo essersi congedato dal suo primo ministro con una stretta di mano, il re chiese al dottor Riberi di tentare «una cavata di sangue alla jugulare, o di mettere alcune sanguisughe dietro le orecchie per liberare il cervello», ma ricevette un dotto rifiuto: il conte era ormai troppo debole anche per i più strenui sostenitori del salasso terapeutico. Cavour continuò a parlare in tono concitato con voce alta, come se tenesse un immaginario discorso di fronte al Parlamento. Così Michelangelo Castelli descrive in una lettera a Massimo d'Azeglio le ultime ore di agonia dell'artefice dell'Unità d'Italia: «Riconosceva le persone, rispondeva giusto, ma dopo poche parole divagava subito. Si alzava, sedeva sul letto con la più grande sveltezza, sempre rivoltandosi; i suoi atteggiamenti erano quelli che aveva abituali, rideva spesso, alito fresco, fisionomia non alterata, e faceva gesto corrispondente, ma sempre frasi tronche parlò sino ad un'ora prima della morte. Aveva voce alta e limpida, l'ultima notte i suoi discorsi erano più seguitati, sempre politici; nessuno lo intese mai pronunziare una parola di odio, di rancore; tutti i 61 sentimenti suoi erano di amicizia, di stima, di compatimento, di speranza!». Dall'imperativo di "fare gli italiani", educandoli alla libertà, senza cadere nella tentazione di ricorrere allo stato d'assedio, al compiacimento di aver ottenuto con l'unificazione un risultato che sembrava impossibile, dal ruolo della Prussia di Bismarck nella politica europea, alla previsione del tramonto della casa d'Asburgo, fino agli interrogativi sulla guerra civile americana: questi erano, secondo il resoconto della nipote Giuseppina, i pensieri che affollavano il cervello di Cavour nelle sue ultime ore. Non un'unica drammatica sentenza politica come lascito ai posteri, ma una folla di interrogativi, di problemi aperti da affrontare, l'ultimo estremo riflesso di una mente brillante e curiosa. Nel delirio spaziava dai grandi temi della politica nazionale ed internazionale fino alle minuzie dell'amministrazione. Giuseppina Alfieri annota: «Poi mio zio mi domandò dove erano alloggiati i diversi corpi del nostro esercito, dove si trovavano parecchi militari suoi amici; ed io, disfatta dalla commozione, risposi male alle sue domande. Egli mi guardò con affetto e tristezza e mi disse: "Piccina, tu non sai quello che mi dici: un momento fa mi dicevi che il generale P. comandava a Parma: come è che adesso è a Bologna?" Soffocata, uscii dalla camera per piangere». Verso l'alba di giovedì 6 giugno 1861 la voce del conte che sino ad allora era stata alta e limpida incominciò ad affievolirsi. Un sudore freddo gli ricoprì il corpo e la fronte, un insistente dolore si manifestò al braccio sinistro. Il dottor Maffoni tentò di rinfrancare il malato prima somministrandogli una tazza di brodo e un bicchiere di vino, poi applicando sul suo corpo impiastri e pezze scottanti. Nessun rimedio sortì qualche effetto, il polso rimase debolissimo e la sua facoltà di parola divenne ancora più difficoltosa. Fu mandato a chiamare padre Giacomo che gli somministrò l'estrema unzione. Giuseppina afferma che suo zio ebbe la forza di accogliere il religioso pronunciando le sue ultime parole: «Frate, Frate, libera Chiesa in libero Stato!». Intorno alle sette del mattino, due rantoli annunciarono la morte di Cavour. __________ 62 NICOLAE BALCESCU PATRIOTA EUROPEO Michelangelo Ingrassia Il fiume e il mare Capita poche volte d’incontrare, nell’eterno ritorno della storia, una vita tanto breve e tanto intensa quale fu quella di Nicolae Balcescu37: vissuta nella lotta materiale e spirituale dell’essere contro il tempo, dell’uomo contro la sua epoca. Nato a Bucarest il 29 giugno 1819, con gli occhi aperti sul bel Danubio, Balcescu muore a Palermo il 29 novembre 1852, con lo sguardo posato sul Mediterraneo tirrenico. Iniziato il suo cammino nell’Europa della quiete viennese, sopraggiunta alla tempesta d’acciaio scatenata da Napoleone Bonaparte, Balcescu termina i suoi passi mentre si estinguono gli ultimi fuochi della rivoluzionaria primavera dei popoli. Due date espressive, il 1819 e il 1852, che evocano due epoche e due epiche culminanti della storia europea: il Congresso di Vienna del 1815 e 37 Nato da Barbu Petrescu e da Zinca Petrusca-Balcescu, Nicolae prese il cognome della madre 63 le rivoluzioni del 1848-49. Se le due epoche hanno il medesimo finale politico della Restaurazione del vecchio potere costituito, le due epiche sono invece radicalmente diverse. L’epica del 1848 è letteratura dei popoli, contrapposta frontalmente all’epica del 1815 che è letteratura dei governi. Il 1848 allarga il fossato tra popoli e governi e il nuovo solco, arato dalla rivoluzione, apre la via alle nuove geografie politiche ed economiche che rinnoveranno il vecchio Continente con le grandi unificazioni nazionali e con l’avvento delle grandi ideologie che sospingeranno il mondo oltre l’Ottocento. Nicolae Balcescu Tra le due epoche, e le due epiche, una generazione di eroi getta la semente del mutamento e inizia l’epoca dei Risorgimenti: è l’aurora del Risorgimento danubiano, che illumina il fiume che attraversa la Romania; è l’alba del Risorgimento mediterraneo, che illumina il mare che bagna l’Italia. Nicolae Balcescu, la cui energia politica e intellettuale si sprigiona come un soffio di slancio vitale tra il fiume dell’Europa orientale e il mare dell’Europa meridionale, è un eroe europeo; eroe nel senso che attribuiva Thomas Carlyle a questa nobile parola oggi decaduta: iniziatore di un nuovo tempo, di una nuova fede, di un nuovo movimento, di una nuova 64 storia38. Un eroe ingiustamente dimenticato, Balcescu; ignorato dai libri della storia e dai libri del pensiero; confinato, nella migliore delle ipotesi, in quelle note a piè di pagina spesso sorvolate39. Nicolae Balcescu, però, non fu per niente marginale. Egli è un capitolo vivace e sorprendente nella storia politica europea; un capitolo esaltante e tormentato nella storia romena; un capitolo avventuroso e decisivo nella storia del rapporto tra Italia e Romania; un capitolo inquieto e appassionante nella storia delle relazioni tra la Sicilia, isola italiana del mondo mediterraneo, e la Romania, isola latina del mondo slavo; un capitolo coraggioso e originalissimo nella storia che ancora oggi vuol risorgere libera, percorrendo la via alternativa del sud est dopo secoli di dominio politico, economico e culturale del nord ovest. Balcescu pensa e agisce contro il suo tempo, contro l’ordine mondiale stabilito a Vienna nel 1815, contro le vecchie famiglie politiche che hanno riconquistato il potere in Europa. Si batte con tutte le sue forze - pur minate dalla tisi che lo travolgerà a soli trentatre anni - per una nuova epoca, per un ordine nuovo che tenta di risorgere dalle rivoluzioni del 1848, per la Romania Patria e Nazione nell’Europa dei popoli. Ecce Homo! Ecco l’uomo! Ora è tempo di esplorare la sua storia con un rapidissimo viaggio tra il fiume e il mare della sua esistenza politica e intellettuale. L’essere e il tempo La prima questione da affrontare è quella di collocare l’essere nel tempo, Balcescu nella sua epoca e nella storia della sua epoca. È una condizione essenziale della breve ricerca che s’intende svolgere poiché non si vuole qui ricostruire la biografia dell’uomo ma la biografia della lotta politica e culturale combattuta dall’uomo. Non la vita ma la lotta di Balcescu è la meta di questo viaggio; non l’opera ma le questioni e le sfide culturali e politiche agitate da Balcescu si esploreranno. L’immensa scena della storia è stata calcata da personaggi che vanno collocati nel loro 38 Cfr T. Carlyle, Gli Eroi, Milano 1981 39 Più che rari gli studi italiani su Nicolae Balcescu, dovuti soprattutto allo storico palermitano Gaetano Falzone la cui bibliografia è consultabile in G. Tricoli, Studi in memoria di Gaetano Falzone, Palermo 1993; per un approccio biobibliografico alla figura del patriota romeno si veda P. Iroaie, Per un profilo di Nicolae Balcescu maestro, eroe e scrittore del Risorgimento romeno, A. Vento, Trapani 1959 65 tempo per avere dato un notevole e decisivo contributo alla convivenza umana senza tuttavia mutare l’esistente; vi sono poi esseri eccezionali che invece vanno collocati contro il loro tempo perché hanno tentato di trasformare il mondo. Balcescu appartiene a questa seconda schiera di esseri storici. Balcescu è nella storia in quanto ha agito contro il suo tempo. È necessario, dunque, conoscere innanzitutto il tempo contro di cui ha lottato l’essere Balcescu. Il tempo di Balcescu è l’Ottocento e quella del diciannovesimo secolo è una storia eurocentrica: l’Europa, divisa in Stati nazionali, è il centro di gravità permanente del mondo intero. Asia e Africa sono ancora continenti invisibili nei quali presto si proietterà la volontà di potenza imperialista delle nazioni europee. L’America, presa in se stessa, incuriosisce gli europei per la sua organizzazione politica ed economica ma non esiste ancora una politica americana in Europa né una politica europea in America. Nonostante Alexis de Tocqueville e la sua famosa opera La democrazia in America, uomini e popoli d’Europa guardano ancora ai modelli politici teorizzati e praticati nel passato europeo e da esso principalmente attingono le nuove idee, le nuove visioni politiche e sociali, le nuove filosofie del potere. Sarà più tardi, quando Gran Bretagna e America s’incontreranno nel Pacifico, davanti ai porti cinesi e giapponesi, che si svilupperà una cultura politica ed economica non più europea o americana ma occidentale, fondata sull’individuo e sul libero mercato, distante e distinta dalla tradizione culturale europea sedimentatasi con la Polis, con l’Urbe, con i Fueros spagnoli, con i Comuni italiani, con le Corporazioni di arti e mestieri, con una filosofia universale e comunitaria che si estende nell’Europa dell’Impero e del Papato dall’Atlantico al Mediterraneo e dai Pirenei agli Urali. L’Europa di Balcescu è nata dalle ceneri del bonapartismo e l’ordine europeo è stato disegnato a Vienna nel 1815. Il vecchio Continente è dominato da una pentarchia formata da Austria, Prussia, Russia, Inghilterra e Francia. Fra queste cinque potenze vi è una tregua armata che separa le prime tre, a regime politico assolutista, dalle altre due, a regime politico costituzionale. Le differenze politiche riflettono la condizione economica; con le potenze costituzionali che si scoprono liberiste, e con quelle assolutiste che si mantengono protezioniste: i due volti del capitalismo che ormai domina la scena economica europea ottocentesca. 66 Il paesaggio europeo che fa da sfondo al giovane Balcescu è cambiato rispetto al passato: accanto ai Castelli e alle Cattedrali ecco le ciminiere delle industrie e gli uffici delle banche; attorno ai centri storici delle grandi capitali ecco le periferie povere e straccione abitate da un’umanità dolente fatta di operai malpagati, disoccupati, braccianti sradicati, donne e bambini sfruttati, tutti elementi del circuito produzione-consumo e tutti in preda all’alcol, alla prostituzione, all’accattonaggio, al degrado morale raccontato dalla letteratura critica del romanticismo, prima, e del verismo, poi. Il Congresso di Vienna Accanto alle cinque potenze si forma lentamente una sesta potenza, quella della rivoluzione: socialista con Karl Marx, liberale con Constant, conservatrice con Bismarck e Napoleone III, democratica con Giuseppe Mazzini. Marx teorizza la rivoluzionaria lotta di classe tra proletariato e borghesia e l’avvento della società senza classi e senza Stato; i liberali teorizzano la rivoluzionaria estensione del capitalismo attraverso l’allargamento del mercato, che dovrebbe rendere liberi e autosufficienti gli individui; Bismarck e Napoleone III teorizzano un capitalismo sociale sottoposto al controllo dello Stato; Mazzini teorizza la sovranità popolare: in politica con la partecipazione di tutto il popolo alla vita dello Stato, in economia con il cooperativismo e il mutualismo come alternativa al collettivismo marxista e al capitalismo liberale. 67 Nicolae Balcescu appartiene a quella minoranza cui non piace l’Europa così com’è. E’ animato dall’ansia romantica di trasformare il mondo. Il suo romanticismo letterario, fondato sullo spirito del popolo, sul carattere nazionale, sul ruolo delle personalità storiche individuali o collettive nella vita della nazione, si trasfonde in un romanticismo politico che lo oppone all’ordine europeo voluto da Metternich e Talleyrand e a tutte le teorie politico-economiche fondate sui diritti individuali o di classe a discapito dei diritti e dei doveri sociali e nazionali40. Giuseppe Mazzini A contagiare Balcescu è la febbre rivoluzionaria di Giuseppe Mazzini. Non il seducente Karl Marx, non l’avvincente liberalismo europeo, non l’originale rivoluzione conservatrice ma la democrazia di Mazzini che, in quell’Europa, è il solo a ritenere decisiva la presenza di Dio nella storia dei popoli associando «Dio e popolo» nel suo pensiero e nella sua azione. Mazzini che agita il mito della Terza Roma, quella del popolo dopo quella dei Cesari e dei Papi, assegnandole quella missione universale di 40 Testimonianze di questo romanticismo letterario e politico del Balcescu sono l’opera rimasta incompiuta: La storia dei Romeni sotto il voivoda Michele il Bravo, a cui accenna S. Delureanu nel suo saggio: La Sicilia nell’immagine degli scrittori Romeni dell’Ottocento, in G. Tricoli, op. cit.; e i due saggi: La campagna dei romeni contro i turchi del 1595, e I diritti dei romeni nei riguardi della Sublime Porta, citati da G. Falzone, Il Risorgimento a Palermo, Palermo 1971 68 riferimento per un nuovo ordine europeo e mondiale. Mazzini che lega la questione nazionale alla questione sociale. Mazzini che proprio tra il 1846 e il 1847 scrive i suoi Pensieri sulla democrazia in Europa alternativi al socialismo e al liberalismo, a Marx e a Tocqueville, al classismo e all’individualismo41. E del resto il cristiano ortodosso Balcescu non poteva rimanere insensibile allo spirito profondamente religioso dell’intellettuale genovese che, peraltro, appellandosi al mito di Roma, richiamava un elemento identitario fortemente presente nella cultura della Romania, isola latina del mondo slavo. In questo parallelismo tra il patriota romeno e il patriota italiano è possibile scorgere non soltanto il parallelismo storico tra Risorgimento romeno e Risorgimento italiano42, ma anche le ragioni politiche e culturali che pongono Balcescu contro il suo tempo e spiegano la lotta da lui intrapresa contro l’Europa della sua epoca. Si potrebbe dire che Balcescu agitava il problema della crisi spirituale, sociale, politica in cui si dibattevano uomini e popoli nell’Europa del suo tempo logorata dal materialismo, afflitta dalle ingiustizie sociali, dominata da una classe politica che escludeva le masse dalla partecipazione alla vita dello Stato e non riconosceva il destino nazionale di quei popoli alla ricerca della nazione perduta. Vittorie transitorie e sconfitte apparenti Questi legami tra Mazzini e Balcescu, Risorgimento italiano e Risorgimento romeno, si rafforzano con le piccole rivoluzioni degli anni venti e trenta che precedono l’incendio rivoluzionario del 1848. La diaspora dei patrioti romeni, dopo il fallimento del moto di Tudor Vladimirescu nel 1821, contribuisce a intensificare le relazioni. Le rivoluzioni che si accendono in Sicilia e in varie parti d’Italia sono percepiti, da Balcescu e dagli intellettuali romeni, come un’esortazione ad agire anche in Romania. La fondazione della Giovane Italia ispira la 41 Cfr. G. Mazzini, Pensieri sulla democrazia in Europa, a cura di S. Mastellone, Milano 1997; su questi aspetti del pensiero mazziniano si veda M. Ingrassia, La democrazia dei doveri. Giuseppe Mazzini nel XXI secolo, «Rassegna Storica del Risorgimento», ottobre – dicembre 2005 42 Sul tema si vedano: E. Di Nolfo, Europa e Italia nel 1855 – 1856, Roma 1967; M. Leporetti, Nicolae Balcescu e il risorgimento nazionale in Romania, Roma 1971; S. Delureanu, Risorgimento italiano e Risorgimento romeno, La Città del Sole, 2006 69 formazione di una Giovane Romania e getta le basi di quel Comitato Democratico Europeo che, per opera di Mazzini, vedrà la luce soltanto nel 1851 quando Balcescu, in esilio dopo i fatti del ’48, è già distrutto dal male che senza fretta ma senza tregua lo divora. Il giovane romeno non sarà tra i rappresentanti del suo paese nel Comitato e al suo posto segnalerà Dimitrie Bratianu, con grave dispiacere del Mazzini ormai affezionato allo sfortunato Nicolae. Mazzini, del resto, era convinto che la libertà d’Italia doveva essere parallela alla libertà dei Balcani43, una convinzione condivisa dal patriota romeno. Le rivoluzioni del 1848 rendono per un momento concreto il parallelismo che si snoda attorno alle figure di Mazzini e Balcescu in Italia e in Romania. Con il quarantotto romeno il pensiero di Balcescu diventa azione. Esponente di primo piano del governo rivoluzionario che s’insedia a Bucarest, Balcescu s’impegnerà attivamente nella questione sociale e nella politica estera. Egli, che aveva già pubblicato il saggio intitolato Sulla situazione sociale dei lavoratori agricoli nei principati romeni in vari periodi, poneva in evidenza che la massa dei lavoratori costituiva «l’unico serbatoio di energie rivoluzionarie della Romania»44. Traspare da questo saggio un importante concetto politico che appartiene alla tradizione mazziniana, e che sarà successivamente enunciato anche da Antonio Gramsci: il Risorgimento della nazione non poteva non essere anche il Risorgimento delle masse. Risorgimento nazionale e popolare costituivano il fulcro di quella democrazia sociale che sarebbe dovuta sorgere dalla rivoluzione. Se Mazzini, nella Repubblica Romana, emana quella Costituzione basata sulla democrazia sociale, nazionale e popolare, Balcescu, nella Repubblica Romena, si batte per attuare quella rivoluzione agraria che avrebbe dovuto abolire le corvée e concedere la proprietà agricola ai contadini. Una riforma sociale coraggiosa, se si tiene conto che Balcescu proveniva dalla nobiltà terriera. Una riforma che incontrò la gattopardesca resistenza di altri rivoluzionari, nobili al pari di Balcescu ma che non intendevano attuare una rivoluzione sociale ma volevano fermarsi alla sola Rivoluzione politica. 43 Sul parallelismo mazziniano tra Risorgimento italiano antiaustriaco e Risorgimento balcanico antiaustriaco e antiottomano cfr. G. Falzone, Ricerche mazziniane, Palermo 1976 44 G. Falzone, Il Risorgimento a Palermo, cit., p. 83 70 Altro momento nodale del pensiero e dell’azione del giovane romeno è la politica estera. Egli “mazzinianamente” crede alla federazione delle nazionalità come organizzazione della nuova Europa alternativa alla vecchia Europa dei governi e degli Stati al servizio del mercato imperialista. Ispirato da questo principio, si batte per la normalizzazione dei rapporti tra Romania e Ungheria e per la costituzione della confederazione danubiana, che forse avrebbe potuto garantire la pacificazione nei Balcani ed evitare la guerra mondiale. Così non fu. La sconfitta della rivoluzione e la restaurazione del 1849 bloccheranno l’ipotesi di un’Europa delle nazionalità legata dalle confederazioni che avrebbero potuto vedere la luce attorno al Danubio, al Reno, al Tevere, al Po, al Mediterraneo e all’Atlantico. Potrebbe sembrare che Balcescu sia uscito sconfitto dal clamore del 1848, così come il Mazzini. Ma se si abbandona la cronologia degli eventi e si considera la storia come analisi dei problemi, allora è possibile affermare che Nicolae Balcescu, con Giuseppe Mazzini, non sono sconfitti. Di fronte all’Europa di oggi essi indicano un’uscita di sicurezza dalla crisi odierna in quel disegno unitario delle nazionalità, e in quella necessità di far risorgere i popoli come soggetto storico della vita politica ed economica attraverso la partecipazione politica costituente e attraverso la partecipazione economica fondata sul principio di «capitale e lavoro» nelle stesse mani, riconosciuto dalla Costituzione italiana e mai applicato. Ha lasciato scritto Giuseppe Mazzini: «la Democrazia non è la libertà di tutti, ma il governo liberamente consentito da tutti e operante per tutti (…). La borghesia ha combattuto solamente per i diritti; è rimasta fedele al suo principio; e una volta conquistati i suoi propri diritti, non ha sentito bisogno di estenderli. Le masse sono rimaste escluse da tale conquista. Che cosa diventano i diritti per quelli che non hanno potere di esercitarli? Che cosa diventa la libertà di istruzione per chi non ha il tempo di apprendere? Che cosa è il libero commercio per chi non ha né capitale né credito? (…) la classe media avrebbe dovuto pensare a diminuire le ore di lavoro, ad aumentare i salari, a dare un’uniforme e gratuita educazione alle moltitudini, a mettere gli strumenti di lavoro alla portata di tutti, a creare un sistema di crediti per i lavoratori onesti e dotati di talento. Le classi medie, però, non hanno pensato a tutto ciò. E perché avrebbero dovuto farlo? Perché avrebbero dovuto limitare l’esercizio dei loro diritti a beneficio degli altri?»45. 45 G. Mazzini, op. cit., p. 93 e p. 100 71 Si rileggano queste parole pensando al tempo odierno, all’Europa oggi, alla storia attuale; si vedranno, allora, i vincitori e i vinti; e si vedrà avanzare silenziosamente, più attuale e necessaria che mai, la figura nobile di Nicolae Balcescu: il “Mazzini” di Romania. Appendice: Balcescu a Palermo Sulle due permanenze di Balcescu a Palermo molto ha scritto lo storico palermitano Gaetano Falzone, al cui saggio intitolato: Nicolae Balcescu e l’Occidente. Un grande romeno sepolto a Palermo, pubblicato nella sua opera già citata Il Risorgimento a Palermo, si rimanda. Si preferisce qui segnalare, invece, la bibliografia su Balcescu disponibile a Palermo e comprendente testi in lingua romena; si premette che purtroppo è una bibliografia limitata a pochissimi testi, dei quali si forniscono anche le collocazioni. È auspicabile che la lacuna su questo straordinario esponente della cultura politica balcanico-mediterranea sia presto colmata da studi più vasti e numerosi, possibilmente anche italiani. • Berindei Dan, Pe urmele lui Nicolae Balcescu, Bucaresti 1984; Biblioteca provinciale dei Cappuccini di Palermo; collocazione: LTT 2295 • Stan Valerin, Nicolae Balcescu: 1819 – 1852, Bucarest 1977; Biblioteca Centrale della Regione Siciliana; collocazione: 3. 1. 6. 32 • Balcescu Nicolae, Puterea armata si arta militara la Romani, Studiu introductivi, selectia textelor si glosar Anator Ghermaneschi, Bucarest 1990; Biblioteca Centrale della Regione Siciliana; collocazione: 3. 22. A. 69 • Balcescu Nicolae, Scrieri alese, Bucaresti, 1973; Biblioteca Centrale della Regione Siciliana; collocazione 4. 71. B. 76; Biblioteca provinciale dei Cappuccini di Palermo; collocazione: LTT2294 • Horia Nestorescu – Balcesti, Dorasul Palermo: cercetari privind descoperirea si aducerea in tara a ramasitelor parmantesti ale lui Nicolae Balcescu, Bucaresti 2011; Biblioteca provinciale dei Cappuccini di Palermo; collocazione SCL8947 ___________ 72 LE PROSPETTIVE DELLA SOCIETÁ EUROPEA Luci e ombre Michel Tarlowski. Europa, dal mito alla realtà. Questa sarebbe la questione da porre per gettare luce sull’ombra della prospettiva futura della nostra Società. Chi è Europa? All’inizio, secondo Omero, era una regina mitologica di Creta; nell’Iliade, dello stesso autore, è la figlia di Fenice, il capostipite del popolo Fenicio. Presso i Greci è una principessa fenicia, rapita e violentata da un toro. Molte sono le interpretazioni; a ciacuno la sua. La leggenda dice che il toro era Zeus, capo degli Dei dell’Olimpo, che si era travestito da toro. Guardando bene, il toro è una forma di abuso, che si è espressa nella Storia, ed Europa rappresenta la bellezza, che è stata ugualmente rivelata dalla Storia. Qualcuno direbbe forse: «il riposo del guerriero!» Cos’è l’Europa? Considerando l'area geografica che occupa, è evidente che esiste una grande diversità di radici; questa diversità, che ha contribuito alla creazione di una unità fondante dell'Europa politica e 73 multiculturale, non è facile da mettere insieme. La storia ce lo ha dimostrato in parecchie occasioni, anche attraverso movimenti di popolazioni generati da idee forti e bellicose. All'ombra dei miti e alla luce della realtà, la società europea è comunque in marcia. Le reali esigenze dei gruppi che costituiscono l’Europa d’oggi dimostrano che, in passato, tali esigenze venivano soddisfatte con l'annessione di un paese confinante secondo un rituale consolidato. Guardando più da vicino le fasi che caratterizano l’inizio e la fine della prima e della seconda guerra mondiale, emerge che, prima dell'inizio della Prima Guerra Mondiale, l'esercito era a cavallo, e alla fine era dotato di carri armati e di aerei; all’inizio della Seconda Guerra mondiale l'esercito aveva carri armati e aerei, e alla fine aveva in aggiunta anche armi nucleari. Per il resto, fin da 1964, Stanley Kubrick ha portato sullo schermo una riflessione. É chiaro che la ricerca si è concentrata sulle scienze, scienze dei materiali, delle comunicazioni, scienze mediche e sociali in particolare. Guardandole tali scienze come un progetto sociale, deve essere preso in considerazione l’apetto visionario e le sue conseguenze. La visione alla quale si fa riferimento tiene conto di tutte le conoscenze acquisite dalla ricerca e messe in pratica. Questa visione ci impone d’ascoltare e di fidarci delle nuove generazioni di giovani, quelle che non hanno abbastanza esperienza e che espongono le loro opinioni, il loro modo di intendere le cose, e di comprendere la loro visione delle cose. La visione delle vecchie generazioni sembra più limitata a causa delle esperienze maturate durante la loro vita sociale, familiare e professionale. Le modalità di trasferimento delle conoscenze è cambiata, si è evoluta, nel senso che le conoscenze del passato non possono più essere trasmesse alle generazioni successive senza che queste generazioni utilizzatrici, queste giovani generazioni, le aggiornino, trasferendole alle generazioni successive, ai propri figli. Esaminando le attuali condizioni con un occhio al passato, bisognerebbe ricordarsi di ciò che disse il defunto Presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy quand’era candidato alla Casa Bianca: "E’ necessario mettere piede sulla Luna entro la fine del decennio". Non bisogna cercare di provare se Mrs. William Sheppard ha messo o no piede sulla Luna; il futuro lo dirà, ma il futuro che ci darà la risposta proviene da questa innocua piccola frase, generando il mondo in cui 74 viviamo: microprocessori, energia, organizzazione di progetti di ricerca a breve, medio e lungo termine, formazione, ricerca, comunicazione, ….. Questa frase ha permesso di dotare la NASA di risorse colossali per attuare i suoi obiettivi, generando il mondo in cui viviamo. Si ricorda che il defunto presidente John Fitzgerald Kennedy fu il primo Presidente che nacque nel suo secolo! [1917-1963]. In questo inizio del XXI secolo disponiamo di una mole di conoscenze di cui le giovani e le giovanissime generazioni potranno beneficiare. Questa conoscenza apre un mondo, nel quale le vecchie generazioni hanno deciso di cedere il passo. È vero, si profila un conflitto tra generazioni, ma in che modo, e sulla base di che cosa?. Utilizzando la transizione per riflettere, è possibile percepire che questa transizione non è un trasferimento di conoscenze generazionale di tipo genitori-figli, ma di tipo nonni-nipoti, in un contesto in cui si affermano sempre di più le Nanotecnologie, l’Informatica, i Computer (Intelligenza Artificiale) e la Biologia . Questi segmenti dello sviluppo tecnologico potranno spingere i limiti della conoscenza filosofica, obbligando tutti ad una pausa di riflessione, di adattamento, di comprensione, di ri-adattamento. Così, allo stato attuale, dovrebbe posizionarsi la prospettiva della Società europea. Buona riflessione. _____________ 75 ACCADEMIA TEMPLARE – TEMPLAR ACADEMY Associazione di Promozione Sociale Viale Regina Margherita, 140 – 00198 Roma C.F. 97656900582; 97656900582; Tel. ++39.06/88 48 530; Cell. ++39.346/850 22 30; www.accademiatemplare.it - E-mail: [email protected] 76