ACCADEMIA TEMPLARE – TEMPLAR ACADEMY
ATTI DEL CONVEGNO
"1800: IL SECOLO DEL PATRIOTTISMO
RISORGIMENTALE”
PALERMO
Villa Niscemi - Sala delle Carrozze
30 novembre 2013
A cura di Filippo Grammauta
ACCADEMIA TEMPLARE – TEMPLAR ACADEMY
Associazione di Promozione Sociale
Roma
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Resoconto del Convegno
Sabato 30 novembre 2013, a Palermo, nella Sala delle Carrozze di Villa
Niscemi, in occasione della commemorazione di Nicolae Balcescu, eroe
risorgimentale rumeno morto e sepolto a Palermo, si è svolto un convegno
organizzato
dall’Accademia
Templare-Templar
Academy
in
collaborazione con il Gran Priorato d’Italia - O.S.M.T.H. (Commenda
“Santa Maria Maddalena dei Templari” di Palermo), l’Associazione
Antonino Caponnetto ONLUS e l’Istituto per la Storia del Risorgimento
Italiano - Comitato di Palermo.
Dopo l’introduzione dell’Ing. Filippo Grammauta, che ha esposto
l’attività svolta dall’Accademia Templare-Templar Academy, e la
presentazione del Dott. Domenico Callea, Grande Ufficiale del Gran
Priorato d’Italia - O.S.M.T.H., sono stati trattati i seguenti temi:
1. "Il sostegno inglese alle istanze risorgimentali italiane", a cura del
Dott. Claudio Paterna;
2. "Nicolae Balcescu: un patriota europeo", a cura del Prof.
Michelangelo Ingrassia;
3. "La reazione al centralismo sabaudo", a cura dell’Arch. Roberto
Tripodi;
4. “Le prospettive della società europea- Luci e ombre”, a cura del
Dott. Michel Tarlowski.
Hanno moderato la Dott.ssa Carmela Bennardo, Direttrice della
Sezione “Cagliostro” di Palermo dell’Accademia Templare-Templar
Academy, e il Dott. Mario Pavone, Commendatore della Commenda
“Santa Maria Maddalena dei Templari” di Palermo.
Dopo il convegno, al quale ha partecipato un folto pubblico, è stata
inaugurata la sede della Sezione “Cagliostro”, gentilmente messa a
disposizione da Carmela Bennardo, Vincenzo Scalia e Guglielmo
Corrente, tutti Soci dell’Accademia Templare-Templar Academy.
Il Segretario Generale
Ing. Filippo Grammauta
3
Il tavolo della Presidenza
(Da destra: Domenico Callea, Carmela Bennardo, Mario pavone, Filippo Grammauta
e Michel Tarlowski)
L’intervento del Segretario Generale, Ing. Filippo Grammauta
4
PRESENTAZIONE
Filippo Grammauta
È il secondo anno che la figura di Nicolae Balcescu viene
commemorata a Palermo, città in cui morì il 29 novembre 1852 a soli 33
anni e dove ancora oggi riposano le sue spoglie.
In entrambi i casi l’iniziativa è partita dai membri di Palermo del Gran
Priorato d’Italia – O.S.M.T.H., ed ha visto ogni volta la partecipazione di
una delegazione appositamente arrivata dalla Romania.
Quest’anno si è andati oltre; l’eroe rumeno è stato ricordato con un
convegno a lui dedicato e nell’anniversario della sua morte è stata deposta
una corona di fiori ai piedi del busto marmoreo che la città gli ha dedicato
nella centrale Villa Garibaldi. L’Amministrazione comunale è stata
presente alla cerimonia con il suo gonfalone ed ha gentilmente messo a
disposizione i locali della prestigiosa Villa Niscemi per la celebrazione del
convegno.
Il convegno è stato organizzato dall’Accademia Templare-Templar
Academy di Roma e dalla Commenda “Santa Maria Maddalena dei
Templari” di Palermo, con la preziosa collaborazione dell’Istituto per la
Storia del Risorgimento Italiano – Comitato di Palermo, e dei suoi più
importanti esponenti nella qualità di relatori.
È la prima volta che un convegno dell’Accademia Templare-Templar
Academy affronta temi non direttamente legati al Medioevo; ma la
moderna società occidentale è figlia del Medioevo, e pertanto è giusto che
i moderni templari si facciano carico di studiarne l’evoluzione sociale e
politica. È nel Medioevo che si sono poste le basi per la costituzione degli
Stati nazionali, molti dei quali si sono formati nell’800, il secolo delle
rivoluzioni, il secolo che volle dare un assetto più democratico all’Europa
rispetto a quello uscito dal congresso di Vienna.
È nell’800 che l’Italia raggiunse la tanto agognata unità; è nell’800 che
la Romania nacque come Stato unitario, grazie anche al sacrificio di
Nicolae Balcescu. È nell’800 che, con il contributo di idee di Mazzini e di
Balcescu, si posero le basi per una nuova Europa, intesa come
5
“federazione delle nazionalità, alternativa alla vecchia Europa dei governi
e degli Stati al servizio del mercato imperialista”.
Ma i sogni di Mazzini e di Balcescu si sono veramente e pienamente
avverati? In parte sì! L’Italia e la Romania oggi sono Stati nazionali, e
sono entrambe membri dell’Unione europea. Ma è questa l’Europa
agognata e per la quale milioni di cittadini hanno tifato nell’ultimo mezzo
secolo?
Dai moti rivoluzionari del 1848, che infiammarono tutta l’Europa, è
trascorso un secolo e sono state combattute due terribili guerre mondiali
prima che si riuscisse a mettere mano all’Europa del mercato unico. Sono
passati altri 50 anni per arrivare all’unione monetaria, e tuttavia, ancora
oggi le decisioni sono assunte da una tecnocrazia non eletta e lontana dai
bisogni reali dei cittadini europei.
Ma quando vedremo l’unione politica dell’Europa, governata da una
politica sensibile ai bisogni della gente, alle tradizioni dei popoli e capace
di marciare di pari passo con le economie più avanzate del globo?
I tempi dell’Europa sono stati fin qui lenti: “l’Inno alla gioia è stato
composto da Schiller nel 1786, è stato utilizzato come corale da Beethoven
nel 1824, è stato adottato come inno europeo nel 1972”. Se non si fa
presto, l’Europa sarà costretta a cambiare musica, e magari dovrà adottare
l’Incompiuta di Schubert!
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IL SOSTEGNO INGLESE ALLE ISTANZE
RISORGIMENTALI ITALIANE
Il caso Sicilia: un patrimonio storico da recuperare.
Claudio Paterna
L’argomento, di per sé molto vasto e complesso, pur prestandosi a una
comunicazione di tipo orale-didattica, richiede in sede di relazione scritta
un accurato riferimento alle fonti bibliografiche e alle fonti di critica
storiografica.
Non sembri superfluo indicare la metodologia adottata in questa breve
ricerca, che si colloca all’interno di un convegno dedicato agli Eroi
risorgimentali e alle problematiche europee emerse dai movimenti di
liberazione nazionale nel XIX secolo.
Titolo del convegno è, infatti, “L’Ottocento, secolo del patriottismo
risorgimentale” e va a merito dell’Accademia Templare-Templar
Academy e del Gran Priorato d’Italia - O.S.M.T.H., aver dedicato uno
spazio storico ai “cavalieri” della libertà d’ogni tempo, segnatamente gli
eroi risorgimentali come Nicolae Balcescu, patriota rumeno, morto a
7
Palermo nel 1852, simbolo di tutte le lotte risorgimentali d’Europa in
quella fase storica non sempre analizzabile col solo aiuto delle fonti
storiche ufficiali.
Oltrepassare la soglia delle “fonti” storiche ufficiali rientra appunto
nella scelta adottata già all’atto di assumere l’incarico di Presidente del
Comitato di Palermo dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano,
cioè quella di porre in rilievo il contributo di altre discipline quali le fonti
“orali”, cioè quella quelle iconografiche e storico-artistiche, letterarie,
statistiche, demografiche ed etnoantropologiche. Ciò consente di sfuggire
ai giudizi storiografici parziali delle cosiddette fonti storiche “egemoni”
attraverso il collegamento ad un tipo di storia più antropologica, più
fondata sulle fonti “subalterne”, senza per questo tralasciare l’indagine
diretta delle testimonianze del tempo, attraverso una visione didattica
basata sulle cosiddette “storie di vita” dei protagonisti e delle loro vicende
umane, così come l’esperienza di docente di Storia e Filosofia nei Licei mi
aveva consigliato.
PREMESSA STORIOGRAFICA
Il Gruppo di studi britannici sul Risorgimento italiano.
Devo parte degli stimoli offerti da questo studio all’attività condotta in
seno all’Istituto Centrale per la Storia del Risorgimento Italiano, dal
gruppo estero, segnatamente quello britannico diretto da Andrea Ciampani,
Romano Ugolini e John A. Davies, che - in occasione del LXVI congresso
nazionale di Firenze del 2011, dal titolo “L’unità d’Italia in Europa” hanno elaborato una serie di relazioni storiche fondamentali per chiunque
si voglia cimentare sull’argomento. Va detto in proposito che già nella
stessa città di Firenze nel 1956 si era svolto il XXV congresso dell’Istituto
e la tematica riguardava lo stesso argomento:”Il problema italiano nella
politica europea 1849-1856”, i cui Atti sono stati curati da F. Valsecchi.
Ma adesso faccio riferimento al saggio di J. A. Davies “The
risorgimento: from national to trasnational perspectives”1.
L’autore muove dalle considerazioni storiografiche dei maggiori
studiosi britannici contemporanei della storia italiana (Lucy Ryall, Stuart
Woolf, Cristopher Duggan, Adrian Lyttelton, Bruce Haddock, Jonathan
Keates, Mark Seymour, Oswain Wright), mettendo in rilievo le tematiche
1
Atti del LXVI congresso, pag.129.
8
che più hanno coinvolto l’opinione pubblica britannica sull’argomento,
ovvero: le origini del Fascismo dal Risorgimento alla prima guerra
mondiale, il ruolo delle donne italiane nell’emancipazione, il liberalismo e
il federalismo risorgimentale, il ruolo delle “arti” italiane nella crescita
della coscienza nazionale, i movimenti religiosi non cattolici dell’ottocento
italiano.
Queste solo alcune delle tematiche affrontate nel saggio di Davies, che
presenta, a suo merito, una sconfinata bibliografia.
Ma per tornare alla nostra ricerca storica sull’ottocento va subito posta
in evidenza la complessa politica estera delle potenze europee e degli stati
preunitari italiani, segnatamente l’esperienza delle guerre antinapoleoniche
e del Parlamento siciliano del 1812, in cui i britannici ebbero un ruolo
decisivo sul piano militare e non solo.
La recente mostra inaugurata all’Assemblea regionale siciliana in
occasione del bicentenario del Parlamento siciliano (Parlamento riformato,
fortemente voluto da lord Bentick e dall’ambasciatore britannico), ha posto
in rilievo personaggi e vicende di un periodo poco studiato per via
dell’egemonia culturale del riformismo franco-bonapartista sugli storici
risorgimentalisti italiani.
È evidente dalla ricerca storica britannica (Trevelyan, Mack Smith,
Cole, Hobsbawn, Greenfield), ma anche da quella italiana (Amari, Ferrara,
Villari, Alatri, Romeo, Morelli ed altri) che il contributo della diplomazia e
dell’esercito britannico in questa prima fase delle vicende risorgimentali
italiane fu decisivo e lasciò tracce tangibili sul pensiero politico liberalriformista degli anni preunitari, ma anche del periodo postunitario, creando
le premesse di una visione alternativa alle scelte “centraliste” di tipo
francese, operate dai governi sabaudi.
È da queste premesse che nasce la curiosità britannica per il
nazionalismo italiano, poi in parte tragicamente sfociato nel Fascismo, con
la rottura di equilibri diplomatici e storici consolidati per tutto l’ottocento
tra Gran Bretagna e patrioti italiani.
Con troppa fretta si è cancellato, da parte di storici e studiosi del calibro
di Croce, Salvemini, Momigliano e altri, l’alternativa liberal-riformista
proposta dal pensiero anglosassone in luogo delle soluzioni giacobinobonapartiste proposte per il programma del nuovo stato nazionale italiano,
quasi interamente fatte proprie, prima dalla breve esperienza riformista
borbonico-murattiana, poi dallo stato sabaudo divenuto stato italiano.
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A. La posizione britannica nel primo trentennio dopo il congresso di
Vienna (1815-1845)
Fu certamente un calice amaro per lord Bentick, luogotenente generale
delle truppe britanniche in Sicilia, e poi in Italia, accettare le risoluzioni
del congresso di Vienna, che vedeva un sostanziale accordo tra Gran
Bretagna e paesi assolutisti nel richiedere le spoglie degli stati già occupati
dai bonapartisti in Italia (Napoli, Roma, Genova, Venezia, Modena,
Milano), ora ritornati ai vecchi sovrani, ma senza alcuna garanzia di
riforme in senso parlamentare.
Quanto era stato tentato con le armi tra il 1813 e il 1815, con la
costituzione dell’esercito anglo-siculo per liberare l’Italia dal dominio
napoleonico ma istaurando regimi costituzionali, andava perso.
Bentick, da buon militare, veniva “spedito” in India e non batteva
ciglio agli ordini dei superiori, come si conveniva per un rampollo
dell’aristocrazia.
Ma le cose non durarono a lungo in questo modo e già dopo la
soppressione del Parlamento siciliano e la creazione del Regno delle Due
Sicilie (1816), l’ambasciatore britannico a Napoli iniziava una fitta e
critica corrispondenza col governo britannico dei Toryes, dov’era
prevalente la linea conservatrice del Castlereagh2.
Già nel 1815 il primo ministro inglese negò che la quadruplice alleanza
tra le nazioni vincitrici (G. Bretagna, Prussia, Russia, Austria) potesse
interpretarsi come impegno a intervenire ovunque si manifestassero
mutamenti istituzionali interni all’assetto stabilito dalla Restaurazione.
Già diversi mesi prima che la conferenza di Troppau3 emanasse la
solenne dichiarazione sul principio d’intervento, l’Inghilterra di
Castlereigh, pur da posizioni conservatrici, contrappose il principio del
2
3
Robert Stewart (Dublino, 18 giugno 1769 - Loring Hall, 12 agosto 1822), meglio
noto come Lord Castlereagh, fu un politico anglo-irlandese, ministro degli esteri
dal 1812. Rappresentò il Regno Unito al Congresso di Vienna.
La conferenza di Troppau si svolse, dal 23 ott. al 17 dic. 1820, nella città ceca di
Opava (in tedesco Troppau). Fu indetta dalle potenze della Santa alleanza – con la
partecipazione della Francia e della Gran Bretagna – che intendevano così
opporsi alla minaccia liberale. Voluta dal cancelliere austriaco Klemens von
Metternich dopo la rivoluzione napoletana del 1820, la conferenza sancì il
principio generale dell’intervento militare dovunque si manifestassero
rivoluzioni, limitandolo per il momento alla questione di Napoli.
10
“non intervento”, e dal 1820 la posizione fu di dissidenza dalle antiche
alleate.
Questa posizione, pur non avendo effetti immediati, si rivelò utile alle
sorti del liberalismo in Portogallo, Spagna e America latina, e tale
posizione fu accentuata dal 1822 con il nuovo primo ministro George
Canning, anch’egli tory, ma aperto a orizzonti d’intesa con gli stessi USA.
Erano scoppiati già i moti del 1820-21 nel regno di Napoli, in Spagna e
nelle Americhe, e si richiedevano a gran voce le costituzioni del 1812. Un
certo tipo di assolutismo bigotto, rapace e aristocratico, aveva perso
consensi nell’emisfero di lingua ispanica.
Il Principe di Metternich
Quanto di sopito e celato era rimasto nei rapporti diplomatici tra Gran
Bretagna e stati assolutisti italiani veniva ora alla luce, soprattutto in forma
di rottura eclatante nei confronti dei Borbone di Napoli, accusati, oltre che
11
di ottusa repressione dei moti riformisti, anche di subdole alleanze militari,
talvolta con i Francesi, talvolta con gli austro-asburgici, arrivati fino a
Palermo con truppe e cannoni, laddove i britannici erano lì per lì per fare
della Sicilia un loro protettorato nel Mediterraneo, poi “ceduto” alla
corona borbonica, ancora una volta irriverente e non rispettosa dei patti.
Lord Palmerston nel 1855
Dal 1815, e per circa un trentennio, la posizione della Gran Bretagna
verso le istanze nazionali in Europa non si distaccò da quella tradizionale
dei conservatori, che preferivano la status quo nell’area mediterranea e la
non prevalenza francese nei confronti dell’Austria. Fu spesso una politica
di fiancheggiamento a quest’ultima, e al Metternich in particolare, ma non
sul piano delle riforme liberali, dove ebbe sempre una sostanziale coerenza
nel rilanciare il liberalismo e il costituzionalismo in tutti gli Stati4.
L’Inghilterra di quegli anni era un fiume in piena di movimenti di
riforma sociale: nel 1832 si arriva a una sostanziale riforma elettorale dopo
4
Si veda P. Silva, “Il Mediterraneo”, Milano, 1924; A. Signoretti: “Italia e
Inghilterra durante il risorgimento”, Milano, 1941; N. Bianchi: “Storia
documentata della diplomazia europea dal 1814 al 1861”, Torino, 1872.
12
una serie di governi riformatori guidati da personalità come Huskisson e
Peel.
Nelle elezioni del 1830 la nuova maggioranza del partito Whigs, con i
radicali rovesciò il governo Tory del duca di Wellington e mise mano alla
grande riforma elettorale (Reform Act). Spetterà al nuovo ministro degli
esteri Palmerston5 avviare una nuova politica con gli stati liberali e
costituzionali nati in quegli anni.
Nel 1834 si crea una nuova Quadruplice alleanza, l’Entente Cordiale,
costituita da Gran Bretagna, Spagna, Francia e Portogallo, ora in
opposizione alla “santa” alleanza, e in particolare contro l’Austria e la
Russia. Si stravolgono le alleanze tradizionali in Europa proprio per
l’atteggiamento ambiguo del Metternich6, ora vicino alla Francia.
Palmerston, divenuto Primo Ministro, invia l’ambasciatore lord Minto
in Italia proprio in funzione antiaustriaca e i movimenti di indipendenza
vengono incoraggiati anche nella penisola, com’era già avvenuto in Sicilia.
Dal 1846 vengono incoraggiate le riforme di Pio IX, vengono
condannati i tentativi di intervento austriaco, si esortano i principi italiani a
seguire la via delle riforme costituzionali. Anche la più retriva e arretrata
monarchia, quella di Ferdinando II, viene esortata verso il cambiamento, e
la Gran Bretagna garantisce per una mediazione nella controversia
indipendentista siciliana7.
B. Gli imprenditori e i tecnici britannici in Sicilia
Ma i mutamenti riguardano anche un nuovo tipo di presenza britannica,
con la creazione del “secondo” impero, prima caratterizzato
5
6
7
Terzo visconte Palmerston, Henry John Temple (Westminster, 29 ottobre 1784 18 ottobre 1865) è stato un politico inglese. Lord Palmerston viene soprattutto
ricordato per la direzione della politica estera del Regno Unito in un periodo in
cui la Gran Bretagna si trovava al massimo della sua potenza, in qualità di
Segretario di Stato per gli Affari Esteri prima e di Primo Ministro poi.
Klemens Wenzel Nepomuk Lothar von Metternich-Winneburg-Beilstein, conte e,
dal 1813, principe di Metternich-Winneburg (Coblenza, 15 maggio 1773 Vienna, 11 giugno 1859), è stato un importante diplomatico e politico austriaco,
dal 1821 cancelliere di Stato. È stato al centro di tutte le trattative diplomatiche
che hanno caratterizzato lo svolgimento del congresso di Vienna.
B. Zumbini: “Gladstone nelle sue relazioni con l’Italia, Bari, 1914; A. Colombo:
“L’Inghilterra nel risorgimento italiano”, Milano, 1917; G. Volpe: “L’Italia del
risorgimento e l’Europa”, Milano, 1951.
13
dall’abolizione della schiavitù (1833), ma anche dalla paradossale “guerra
dell’oppio”; poi sotto l’egida della regina Vittoria, una nuova concezione
imperiale e non coloniale, con la promozione del Commonwealth delle
nazioni, che favorirà un intensa attività commerciale messa in crisi solo
agli inizi del XX secolo.
Venendo più specificamente alle questioni relative all’indipendenza
italiana, in particolare a quella della Sicilia, visualizziamo ora alcuni dati
economici e statistici sui benefici della presenza britannica, dati che
rientrano in quella storiografia non ufficiale, e tuttavia frutto di ricerche
negli archivi notarili, nei “riveli”, nelle corrispondenze private, nelle
gazzette economiche e commerciali d’epoca, tra cui la famosa Gazzetta
Britannica stampata a Messina, recentemente messa a disposizione,
durante il bicentenario all’Assemblea regionale siciliana, dati che
raccolgono quantitativamente informazioni preziose da sistemare
organicamente.
Antica immagine dell’Orto Botanico di Palermo
Tralasciamo l’aspetto specificamente statistico-demografico di cui ha
trattato ampiamente Orazio Cancila nel suo saggio del 1995 “Storia
dell’industria in Sicilia” (parte prima, pagg. 5-133) e ci dedichiamo alle
corrispondenze private, tra cui i diari di viaggio.
14
Una fonte certamente inusuale è quella dei diari dell’architetto francese
Leon Dufourny, che trascorre a Palermo cinque anni intensi (1789-1793),
durante i quali progetta l’Orto Botanico, ma annota nel suo “Diario di un
giacobino” la vita dei salotti aristocratici palermitani del tempo, che
pullulano di ambasciatori, uomini d’affare, antiquari, viaggiatori, militari soprattutto inglesi e francesi - stabilitisi a Palermo in un momento di
grandi cambiamenti determinati in Europa dalle vicende rivoluzionarie
francesi.
Altra fonte d’interesse sui modi e costumi degli imprenditori britannici
in Sicilia è quella fornita da I. D. Neu ne “Un uomo d’affari inglese in
Sicilia”, in “Nuovi Quaderni del Meridione n° 91, luglio-settembre 1985”,
che analizza le vicende commerciali individuali dal 1806 al 1861.
Orazio Nelson
Ma sono soprattutto le innovazioni tecniche e le attività imprenditoriali
che rendono protagonisti i sudditi di Sua Maestà in Sicilia, tra la fine del
XVIII sec. e la metà del XIX sec., e di cui abbiamo riscontri in
innumerevoli resoconti, gazzette, atti notarili, regolamenti di istituti nautici
e agrari; e soprattutto và dato atto agli studiosi Rosario Lentini e Mario
15
D’Angelo, di avere fatto luce, prima di Cancila, sul primato britannico in
Sicilia8.
Iniziamo col dire che gli Inglesi avevano creato la prima carta
idrografica delle acque territoriali: era stato il luogotenente della Regia
Marina Smyth che tra il 1814-16, assieme allo scienziato Piazzi, avevano
realizzato quella mappa che evitava l’affondamento dei vascelli vicino le
coste9. Sempre gli Inglesi, per venire incontro alle esigenze dell’esercito
britannico, a partire dal 1815 avevano sviluppato in Sicilia l’industria del
cuoio, della seta e del cotone.
I bacini di carenaggio di Palermo e Messina furono totalmente
rinnovati all’epoca di Nelson e fu fondata pure una scuola nautica ad opera
di monsignor Gioeni, filantropo alla scuola dei fisiocrati britannici. Orazio
Cancila dedica un capitolo del suo libro (pag. 121) all’attività cantieristica
e armatoriale sostenuta dagli inglesi fin dagli inizi del XIX secolo.
Così, tra il 1810 e il 1830, il tonnellaggio della marina mercantile
siciliana raddoppiò, e non certamente per la benevolenza del re di Napoli,
che ostacolava soprattutto la costruzione di navi a vapore nei bacini
siciliani. Solo nel 1841 fu varata la prima nave a vapore siciliana, la
“Palermo” di costruzione scozzese, 150 cavalli vapore, e per i commerci
c’erano già 20 piccoli transatlantici siciliani in giro nel mondo10.
Gli inglesi, almeno fino al 1840, trasportavano nel resto del mondo
quasi la metà delle merci siciliane. Questo successo era dovuto soprattutto
alla sconfitta definitiva, ad opera di una manovra navale congiunta di
americani e britannici nel 1816, della pirateria degli stati barbareschi di
Tunisi, Tripoli e Algeri. Poi, a partire dal 1830, questa “pulizia” dei mari
fu rafforzata dalle manovre continue della flotta francese verso l’Algeria.
La prima macchina da stampa Stanhope fu importata a Palermo da
imprenditori britannici nel 1830, così come gli impianti a vapore per la
tessitura e il filtraggio dello zolfo. Il commercio fu galvanizzato
dall’ingegno della famiglia Florio a partire dal 1840, ma loro stessi erano
stati agenti commerciali dei Rothschild per i vini e lo zolfo siciliani.
Quando Ingham decise di aprire il primo stabilimento enologico, anche
Ignazio Florio si unì, e fondò con lui una società di navigazione (1839-40).
8
Rosario Lentini ne “La presenza degli Inglesi nell’economia siciliana”, in R.
Trevelyan ”La storia dei Whitaker”, Palermo, 1988 e Mario D’Angelo ne
“Mercanti inglesi in Sicilia 1806-1815”, Milano, 1988.
9 Denis Mack Smith, ”Il Risorgimento”, pag. 497.
10 Denis Mack Smith, op. cit., pag. 500.
16
La qualità della seta siciliana nel 1818 migliorò con l’arrivo
dall’Inghilterra di Jaeger di Hannover e di Thomas Hallam, che
introdussero gli impianti meccanici Jacquard. Così come i filatoi
Arkwright nei dintorni di Palermo e Messina. La fabbrica Synder nel 1837
portava a 80 i suoi telai a Messina, mentre i due setifici Hallam di Gazzi e
Faro si espandevano anche a Villa San Giovanni e nella stessa Inghilterra.
La corsa agli investimenti nel settore solfifero iniziò a partire dal 1815,
dopo la guerra, utilizzando il metodo di estrazione Leblanc11, proprio
vicino alle zone portuali dell’agrigentino (Sciacca, Porto Empedocle,
Licata ecc.) e nel 1834 la produzione di acido solforico raggiunse l’apice.
Impiantarono loro stabilimenti George Wood, Edmund Hardman, gli
stessi Ingham, William Sanderson, l’impresa Morrison-Valentine e
Gardner-Thurnbur-Rose12, impresa anglo-americana quest’ultima, che dal
1854 investiva anche nel settore della molitura del sommacco, materia
prima per la concia delle pelli.
Vi era uno scambio di tecnici per la manutenzione delle pompe di
estrazione, e venivano dalla Scozia e dalla Cornovaglia: nel 1837 un
tecnico gallese, Giorgio Mosder, sostituì con pompe a vapore le pericolose
pompe a mano necessarie a mantenere le miniere libere dall’acqua. Ma
tutto questo ebbe una brusca svolta involutiva a partire dal 1836, e
vedremo più avanti perché.
Nel campo energetico spetta a John George Skurray, un anglomessinese, il merito di avere installato a Palermo, nel 1837, la prima
fabbrica di carbon coke. A Fiumedinisi, in provincia di Messina, zona
mineraria scoperta dagli asburgici, l’impresa di Donald Mc Leon curava
un’attività estrattiva di pietre minerali, di piombo e rame fino al 1850. A
Palermo la Fonderia Oretea dei Florio si avvalse della presenza del tecnico
inglese Gill. il meccanico più competente intorno al 1856.
Il sig. Hood, commerciante di fiducia di Sua Maestà, importa 14
cannoni da 32 e uno da 84, che dovevano servire ad armare una fregata a
vapore nel porto di Palermo (1848). Questi cannoni erano depositati nei
magazzini del governo inglese e Palmerston non ebbe alcuna remora a
venderli ai rivoltosi siciliani13.
11 Metodo messo a punto alla fine del XVIII sec. in Francia per ottenere la soda dal
salmarino.
12 Cancila, op. cit. pag. 24.
13 Si veda A. Rotolo: “La cultura meccanica siciliana dal XVII al XIX secolo”,
Palermo, 2009.
17
Altri importatori di armi e revolver erano i Knesevik, che avevano
botteghe in corso Vittorio Emanuele a Palermo14.
Tra le fonderie ottocentesche si ricorda lo stabilimento Panzera di
Palermo, in via Buonriposo, diretto dai tecnici inglesi J. Rueben e E.
Spengler nel momento di massima attività dello stabilimento, e la già
menzionata concorrente Fonderia Oretea.
I resti della Fonderia Oretea
Generi per casalinghi, oltre le cucine economiche Rumford, erano
importati dai sigg. Dicson, Garder, Wood e Morrison, così come li
descrive il “Giornale del Commercio” nel 1838. I commercianti inglesi si
stabilirono prevalentemente a Messina, dove attorno al 1842 vi erano ben
14 “case mercantili”. Altre 13 di queste case Inglesi si trovavano sparse tra
Palermo (con bel 6 case), Catania, Marsala, Mazara, Girgenti e Licata. I
loro empori principali erano nel quartiere Kalsa a Palermo (di cui si notano
gli avanzi dell’antica vetriera in via Spasimo). A Messina presso la
Palizzata.
Naturalmente era l’industria enologica del Marsala a figurare tra le voci
più produttive nell’esportazione, e spetta a John Woodhouse il merito di
avere introdotto nel 1773 l’uso di preparare il vino alla maniera di
Madera15. Lo seguì il fratello William. Poi vennero Joseph Payne e James
Hopps. A Marsala Thomas Corlett otteneva in enfiteusi, e poi acquistava,
il baglio al Boeo. Poi approdavano Benjamin Ingham e Lee Brown
(successivamente in società col principe di Partanna alla tenuta Lo Zucco).
Quest’ultimo nel 1820 fu rimpiazzato da Rickard Stephens, con l’apertura
14 Rotolo, op. cit., pag. 126.
15 O. Cancila, “Storia dell’industria in Sicilia”, Palermo, 1995.
18
di nuovi stabilimenti a Castelvetrano, Campobello, Balestrate e Vittoria.
Da Palermo partivano i vini imbottigliati dalla Wood, e da Castellammare
quelli di Benjamin Gardner.
Joseph Gill risultava il maggiore esportatore di vino Marsala in USA,
assieme al Woodhouse. Intorno al 1845, altri piccoli stabilimenti erano
gestiti dalle famiglie Corlett, Whyte e Clarkson. Joseph Smithson da
Messina esportava in Gran Bretagna i vini siciliani.
Anche nella produzione della liquirizia gli imprenditori inglesi fanno
da battistrada a Mazara del Vallo, e nel settore dell’inscatolamento della
carne (in salamoia) ad uso di navigazione, spetta a Rickard Poppleton il
merito di avere creato uno stabilimento a Messina nel 1841.
Nel settore agrumario, altra voce attiva nell’esportazione, James Power,
titolare della Unett di Messina, inizia a produrre acido citrico intorno al
1838. Lo seguirà poco dopo William Sanderson con uno stabilimento
all’avanguardia in Europa, che sopravvisse fino agli inizi del novecento.
Tecniche di costruzioni stradali erano state progettate dal De Weltz
sulla base dei sistemi Mc Adam, ma il governo “centrale” borbonico
guardava anche qui con sospetto. Macchine idrauliche ed ausiliarie per
l’edilizia venivano importate da August Achralt (1826).
Una macchina aerea, con motore a vapore del tipo scozzese Geolls, fu
inventata dal sig. Helson nel 1843.
I Whitaker, oltre che in campo enologico, operavano anche in campo
tessile con uno stabilimento a vapore a Villa Sofia di Palermo. Ma in
questo settore emergeva Guglielmo Solter, con una prodigiosa macchina
che avvolgeva la seta (1826), e Samuel Lopkins, che nel 1829 si adopera
ad ottenere trattamenti industriali per i cuoi siciliani.
Contro le pretese assolutiste e religiose di Austria, Prussia e Russia, la
miccia del contrasto covava da tempo e le rivoluzioni del 1830-31 non
erano che l’anticipazione di quello che sarebbe accaduto nel 1848-49,
quando la Santa Alleanza fu messa veramente alle corde, con la Gran
Bretagna che non stava certamente a guardare gli avvenimenti.
C. Il degrado dei rapporti diplomatici tra Gran Bretagna e stati
italiani filo-asburgici: il caso dei Borbone di Napoli.
Non vi erano solo cause politiche alla base del deterioramento dei
rapporti, anzi le cause economiche funsero da esplosivo: quando nel 1836
re Ferdinando diede il monopolio degli zolfi siciliani alla ditta francese
Taix & Aycard, il governo Palmerston minacciò addirittura un intervento
19
armato per salvaguardare gli interessi britannici, e ciò perché gli
imprenditori inglesi erano stati i primi investitori in questo campo, ma
anche perché la rivale di sempre, la Francia, acquisiva nella penisola
insperate chance di dominio.
Alla fine il monopolio fu revocato, ma delle promesse di
ammodernamento degli impianti chimici non fu fatto nulla da parte dei
governi borbonici, mentre in campo agricolo era avvenuta qualche timida
riforma del latifondo, come del resto era stata suggerita dal Parlamento
anglo-siculo del 1812.
In quel tempo era già iniziata a fiorire a Marsala l’industria enologica
dei Woodhouse e degli Ingham, e l’ambasciatore Gladstone16 decantava le
riforme fondiarie portate avanti a Licata dal principe di Raffadali,
definendole analoghe a quelle che stava facendo l’utopista Owen in
Scozia17.
La generale avversione dei siciliani verso il governo di Napoli tuttavia
si concretizzò a partire dal 1847 con la sfortunata e sanguinosa rivolta di
Messina, che generò una rivolta ben più complessa (1848-49), che - senza
soluzione di continuità - perdurò endemicamente fino al 1860.
Sulle repressioni, gli imprigionamenti senza processo e le torture, più
volte intervenne l’ambasciatore Gladstone. Più famosa di quest’ultimo fu
la frase scritta a lord Aberdeen, in cui si definiva Ferdinando II “la
negazione di Dio” per le terribili repressioni che ricordavano quelle
sanfediste del generale Del Carretto nel 1837. E con lui l’ambasciatore
John Hudson da Torino, e l’ambasciatore John Perry da Napoli sulle
torture inferte ai prigionieri napoletani nel ‘48.
Sicuramente il presidio britannico di Malta fu una delle basi più sicure
dei ribelli antiborbonici, ma nacque anche una sorta di partito filo
britannico, con a capo Ruggero Settimo18, Mariano Stabile19 e Francesco
16 William Ewart Gladstone (Liverpool, 29 dicembre 1809 – Castello di Hawarden,
19 maggio 1898) è stato un importante esponente del Partito Liberale inglese. È
stato Primo Ministro del Regno Unito quattro volte: dal 3 dicembre 1868 al 20
febbraio 1874, dal 23 aprile 1880 al 23 giugno 1885, dal 1º febbraio al 25 luglio
1886 e dal 15 agosto 1892 al 5 marzo 1894.
17 Non vanno dimenticati gli elogi simili al principe di Castelnuovo, che aveva
fondato una scuola agraria e un orto botanico per la cura delle piante
commestibili.
18 Ruggero Settimo (Palermo, 19 maggio 1778 - Malta, 12 maggio 1863) è stato
ammiraglio della flotta borbonica e politico italiano. Sotto i Borbone di Napoli
caldeggiò la promulgazione della costituzione del 1812 e fu ministro del Regno
20
Ferrara20, che rappresentò una continuità tra la fase rivoluzionaria del
1812-15 e quella più matura del 1848-60.
Ruggero Settimo
delle Due Sicilie. Si dimise subito dopo l'abrogazione della Costituzione siciliana.
Durante la rivoluzione siciliana del 1848 fu capo del governo.
19 Mariano Stabile (Palermo, 1806 - Palermo, 1863), esponente di una nobile
famiglia palermitana e intransigente antiborbonico, fu segretario generale del
Comitato che promosse l'insurrezione palermitana del gennaio 1848, che diede il
via alla cosiddetta Primavera dei popoli. Fu ministro degli Esteri, Agricoltura e
Commercio del Regno di Sicilia durante la rivoluzione siciliana del 1848, e nel
1849 guidò il dicastero della Guerra. Esiliato con il ritorno dei Borbone, ritornò in
Sicilia dopo la spedizione dei Mille. Il 19 ottobre 1860, durante la dittatura di
Garibaldi in Sicilia, fu nominato vice presidente del "Consiglio straordinario di
Stato". Fu anche Sindaco di Palermo dal 1862 alla morte.
20 Francesco Ferrara (Palermo, 7 dicembre 1810 - Venezia, 22 gennaio 1900) è stato
un economista e politico italiano. Fu senatore del Regno d'Italia nella XIV
legislatura.
21
Ma la posizione ufficiale della Gran Bretagna sulla prima guerra
d’indipendenza italiana, comprese le rivolte quarantottiste, non fu
comunque favorevole, e ciò si spiega con la paura della diffusione delle
idee rivoluzionarie francesi in Italia21.
Tuttavia l’atto più importante contro il permanere dell’assolutismo,
dopo i fatti del 1836 e la frase di Gladstone nel 1850 (atti che di per sé
mostrano il deterioramento completo dei rapporti con i Borbone di
Napoli), è la rottura dei rapporti diplomatici di Francia e Inghilterra nei
confronti della casata delle Due Sicilie, rea di non avere attuato le riforme
promesse (1856).
Questo atto, decisivo nella promozione del moto rivoluzionario al Sud
e il sostanziale appoggio iniziale alla politica di riforme avviata da Cavour
e lo stato sabaudo22, ha pure delle premesse importanti nelle comuni
aspirazioni di movimenti internazionali che sposano la causa delle libertà
costituzionali e democratiche.
Non si può sottacere in questo senso l’apporto dato dalla Gran Bretagna
al sorgere delle logge massoniche in tutta Europa, e soprattutto in Italia,
logge clandestine per il clima repressivo presente, che tuttavia creeranno
una rete cospirativa a cui si richiameranno prima le vendite “carbonare” di
espressione giacobina e filo-francese, poi le società segrete repubblicane e
mazziniane operanti oltre il 1860.
E Hudson, malgrado i tentennamenti britannici manifestati alla vigilia
della seconda guerra d’indipendenza, sarà sostenitore della politica
cavouriana nei primi mesi di vita del nuovo stato, ma non risparmierà dure
critiche agli atti repressivi del nuovo governo, soprattutto al Sud,
repressione equiparata ad una guerra civile. Nella lettera a lord Russell si
esprime dissenso dalla politica “centralista”, che preoccupa anche i
connazionali presenti in Sicilia, soprattutto i Whitaker, ma si esprime
fiducia nella corona sabauda, che alla fine saprà prevalere sui militari poco
adusi alla tolleranza23.
Si può parlare di “splendido isolamento” della Gran Bretagna della
regina Vittoria rispetto ai fatti d’Italia? Di certo quanto accadde nei
21 W. Spencer: “The life of lord J. Russell – Memorandum”; G. M. Trevelyan:
“Storia d’Inghilterra nel secolo XIX”, Torino, 1948; P. Silva: “La politica di
Napoleone III in Italia”, N.R.S., 1927.
22 Si consulti la lettera di James Hudson a lord George Clarendon del 1854, nel
perorare la guida sabauda nel movimento di indipendenza italiano.
23 Denis Mack Smith,”Il Risorgimento”, pag. 548.
22
Balcani, prima contro l’impero ottomano che segregava i Greci (1827) e
poi le vicende della guerra di Crimea contro l’assolutismo russo, non
lasciano pensare a un disinteresse britannico per le libertà nazionali.
Le notizie di seguito riportate dimostrano il contrario sia nel difendere
gli interessi delle famiglie inglesi in Italia, e nel sud Italia in particolare,
sia nel difendere gli ideali di libertà del Risorgimento italiano.
L’esilio “dorato” di Mazzini a Londra è sicuramente uno degli atti di
maggiore rilievo della politica britannica a favore del Risorgimento
italiano. La presenza dei numerosi esuli italiani a Londra (tra cui Saffi,
Gayazzi, Crispi) attrasse visitatori affascinati da quella stimolante
effervescenza di idee.
Ovviamente il tradizionale antipapismo inglese si fuse con
l’orientamento liberale dell’opinione pubblica, soprattutto a partire dal
quel 1832 in cui si creò l’alleanza politica radical-Whigs. Il suo arrivo, nel
1837, è circondato da un aureola di romantica battaglia politica.
Londra farà di Mazzini un personaggio di primo piano - come ha
dimostrato lo storico Salvo Mastellone24, e il milieu inglese nel quale
l’esule si distinse lo propose come interlocutore politico, quasi fosse egli
stesso un governo risorgimentale in esilio. Mazzini a Londra intrecciò
rapporti con tutti i ceti sociali, e riscosse successi in ambiti non solo
politici ma anche religiosi, e mentre di lui in Italia si sono studiate le
congiure e i gruppi segreti, nei paesi anglosassoni si è studiata soprattutto
la carica morale e ideale del patriota, che segue di poco la grande
personalità di Foscolo e preannuncia l’epoca di Garibaldi, altro mito di
liberatore esaltato soprattutto in Gran Bretagna25.
Anche in chiave diplomatica Inghilterra e Francia tentano di salvare le
riforme del 1848-49 con una nota del 16 dicembre 1848 con cui la Sicilia,
pur riconoscendo la sovranità di Ferdinando II, voleva a sua volta
riconosciute le prerogative autonomiste. Ma la risposta negativa del 28
febbraio 1849, l’Atto di Gaeta, gela ogni speranza.
L’ultimo tentativo è quello del 1859, alla morte di Ferdinando e
l’avvento di Francesco II: il Foreign Office26 riallaccia le relazioni
24 Si veda M. Finelli, “Mazzini e il mondo anglosassone”, Roma, 2007.
25 Su tutta questa tematica si consulti il ponderoso saggio di Roland Sarti “Mazzini
in Europa e negli USA”, pubblicato nel volume già citato “L’Unità d’Italia in
Europa”, a cura dell’Istituto Centrale del Risorgimento.
26 Foreign Office è il dicastero del Regno Unito responsabile della promozione degli
interessi del Paese all'estero. Il Foreign Office venne creato nel 1782 dall'unione
della Segreteria di Stato per i Dipartimenti Meridionali e la Segreteria di Stato per
23
diplomatiche col nuovo re, ma questi guarda con maggiore interesse
all’Austria della giovane consorte Sofia, e il tentativo ancora una volta non
va a buon fine. Tuttavia la flotta britannica seguirà tutti gli avvenimenti del
1860 da una distanza troppo ravvicinata, tanto da far pensare a una
protezione “parallela” della Sicilia, almeno fino al 2 giugno 1860, con la
conquista di Palermo e la partenza delle truppe borboniche dalla capitale.
Poi nell’agosto 1860 sarà pure protagonista del passaggio dello Stretto.
Sulla posizione favorevole della Gran Bretagna alla spedizione dei
Mille non ci sono dubbi, e non solo per motivi di affinità ideale all’eroe
dei due mondi, osannato e portato in trionfo dall’opinione pubblica
britannica durante gli anni d’esilio post ‘49. La posizione favorevole nasce
dalle esitazioni sabaude dopo gli accordi filo-francesi di Plombières, e
l’occasione di stravolgere le ipotesi di ritorno di un Murat a Napoli con la
conseguente egemonia francese nella penisola.
L’adesione all’impresa viene rafforzata quando Palmerston il 22
maggio 1860 apprende direttamente da Cavour che il Piemonte volentieri
si sarebbe sganciato dalla Francia dopo i miserevoli accordi di Villafranca.
La Gran Bretagna non esitò a favorire l’impresa garibaldina oltre lo Stretto
e questo la dice lunga sul successo della spedizione viste le titubanze - se
non le avversioni - del La Farina e dei filo sabaudi, che avevano paura di
un Sud repubblicano, e comunque federalista27! Ma questo non
preoccupava Palmerston, che comunque conosceva Garibaldi e gli
ispiratori della spedizione.
D. Oltre la storiografia ufficiale e la storia diplomatica.
Vogliamo ora andare oltre la storiografia ufficiale e condire con un pò
di revisionismo storico la vicenda degli inglesi in Sicilia?
Beh, intanto i giudizi sarcastici di Giovanni Meli28 sul Parlamento del
1812 sono tutt’una cosa col populismo tradizionale che vede qualsiasi
riforma appannaggio delle classi dominanti, e in questo caso anche
i Dipartimenti Settentrionali, ognuno dei quali si occupava degli affari interni ed
esteri delle rispettive aree del regno loro assegnate.
27 Vedi Signoretti, op. cit.; Silva, op. cit.; Volpe ecc.
28 Giovanni Meli (Palermo 1740 - ivi 1815), medico e poeta, passò 5 anni (1767-72)
nel quieto borgo di Cinisi, presso Palermo. Nel 1787 ebbe la cattedra di chimica
all'Accademia degli studî di Palermo; nello stesso anno pubblicò in 5 volumi la
sua opera poetica (ripubblicata, accresciuta di varî componimenti, nel 1814, in 7
volumi).
24
l’Ingrisi (gli Inglesi, in dialetto siciliano) sono visti come conquistatori, al
pari di francesi e spagnoli.
L’abate Giovanni Meli
Si rifletta sul seguente sonetto popolare, raccolto da Cesare Cantù nella
“Cronistoria d’Italia” e inviatogli da Salvatore Salomone Marino29: “A la
guaddara ci misinu l’unguentu, Palermu lu jittau l’anticu mantu; ora
c’avemu novu Parramentu (quello del 1812), mettiti n’cacaticchiu ca un
ccè scantu: e si la panza l’hai china di ventu, diccillu un patrinnostru a lu
to santu, fatti nzignari lu midicamentu ca Lonnira (Londra, N.d.A)
nunn’havi pani biancu (ovvero gli inglesi non ti danno pane buono).”
Ancora più pesanti i giudizi della storiografia di Corte (borbonica), dal
Buttà fino ai nostri giorni, che vedono l’avversione britannica nei confronti
dei Borbone di Napoli come fatto esclusivamente collegato ai loro interessi
economici nel monopolio dello zolfo. Dulcis in fundo, il finanziamento e
29 Salvatore Salomone Marino (1847-1916) nacque e morì nel paese di Borgetto, in
provincia di Palermo. Scrisse molti compendi sul folklore e le tradizioni dei
contadini siciliani, fra i quali La omnipotenza dei proverbi dimostrata da una
novelletta popolare siciliana e La rivoluzione siciliana del 1848-1949 nei canti
popolari). La sua opera più nota è La Baronessa di Carini.
25
l’armamento della spedizione garibaldina, la sua protezione, la copertura
dell’eventuale “fuga” verso l’interno, i legami massonici internazionali.
A questo proposito le opinioni revisioniste e antigaribaldine fanno tutte
riferimento a un presunto finanziamento della massoneria inglese
attraverso denaro sonante proveniente dalla Turchia, ma - come nelle
opinioni precedenti - mancano testimonianze e riferimenti certi (come ad
esempio la mancanza di qualsiasi riferimento a questi fondi nei diari di
Ippolito Nievo, il cassiere dei Mille), così come nel caso dei generali
borbonici corrotti dal soldo sabaudo o della sparizione senza
documentazione di ingenti somme dal Banco di Sicilia (a parte le somme
rendicontate per pagare il soldo giornaliero dell’esercito meridionale).
Che poi le navi britanniche, come quelle borboniche e quelle francesi
(che difesero la reggia di Gaeta fino al dicembre 1860) abbiano seguito la
rotta dei due bastimenti garibaldini, e solo a Marsala i primi abbiano
ostacolato il bombardamento sulle truppe che sbarcavano, questo è un dato
di fatto, anche perché proprio a Marsala erano concentrati gli interessi
delle famiglie britanniche e ne avrebbero avuto scarso giovamento dai
bombardamenti indiscriminati, come poi accadde a Palermo a fine maggio
1860, provocando l’esecrazione di tutta l’Europa per le centinaia di vittime
civili.
Anche per i fatti di Bronte la storiografia revisionista addossa le colpe
della repressione indiscriminata di Bixio all’ostentata prepotenza dei
proprietari inglesi della ducea di Nelson. Ci si dimentica tuttavia delle
esecuzioni sommarie perpetrate dai contadini e della legittima paura di
tutti i proprietari terrieri, compresi i britannici della ducea, che già da
giugno avevano chiesto la protezione della guardia nazionale.
Ma sulle jaqueries contadine del 1860 esiste una vastissima letteratura
che non risparmia né giustizieri né giustiziati, compresi eroi romantici
come Santo Meli, accusati d’essere ricattatori e sequestratori ancor prima
d’essere patrioti guerriglieri30.
Per chi volesse invece approfondire le fonti alternative alla storiografia
ufficiale ricordo anzitutto i proverbi popolari che descrivono la presenza
britannica e borbonica in Sicilia, dalla cui lettura non sfugge l’avversione
popolare verso i Borbone di Napoli e un sostanziale afflato amichevole
verso i sudditi di Sua Maestà; anzi, nel 1848, a questi ultimi è rivolta una
vera adulazione.
30 Si veda Dumas e altri.
26
Quanto ha scoperto A. Uccello nei canti popolari siciliani, da me citati
in un recente lavoro31 dimostra l’avversione popolare all’assolutismo dei
principi di Napoli e una sostanziale continuità con gli ideali riformisti
anglo-siculi del 1812.
Oppure si leggano le lettere autografe dei condannati alle galere e alla
fucilazione, e dei partecipanti alla spedizione dei Mille32.
Non mi sembra indifferente a sua volta rilevare i giudizi della
letteratura inglese sulla Sicilia - a partire dai grandi viaggiatori del
settecento, come Berkeley, Brydone, Drydone, Brewal, Hobwart,
Hamilton, e poi quelli ottocenteschi come Swinburne, Payne Knight,
Beckford, Hill ed Hellis Cornelia Knight - “terra del mito” in primo luogo,
dai confini aridi del sud Europa, del mare pittoresco, dei paesaggi estesi e
animati, dalla primogenitura normanna nei commerci e nello spirito di
tolleranza, delle leggende di Artù sull’Etna, del sacro Graal ecc., tutte
pagine interessanti che offrono una immagine probabilmente aristocratica
dell’isola, lontana dai drammi esistenziali vissuti dalla classe operaia
inglese di quegli anni.
Nelle arti figurative non sono pochi gli artisti britannici a cimentarsi sul
paesaggio siciliano (si vada alla Galleria d’arte moderna di Palermo, o alla
Zelantea di Acireale per ammirare queste opere).
Così come sono interessanti i commenti sarcastici della stampa inglese
sull’aristocrazia siciliana, sulla corte borbonica e sugli stessi costumi
popolari dei siciliani33.
Tali pregiudizi verso taluni costumi popolari siciliani (e non
dimentichiamo il fenomeno mafia, ma anche il delitto d’onore, ecc.) si
sono mantenuti fino agli anni sessanta del secolo scorso, con l’indagine
dell’antropologo americano Edward Banfield sul “familismo amorale”,
definito come “chiusura del gruppo familiare al senso civico”.
Questa concezione è stata fortemente criticata dalla sociologia
contemporanea, e lo stesso storico inglese Paul Ginsborg, ma anche Eric
Hobsbawn e Lucy Ryall, hanno ridimensionato quel concetto in
31 Claudio Paterna, “Ideali e valori risorgimentali nell’emigrazione italiana 18701900”, Lecce, 2013,
32 Un lavoro certosino è stato condotto dal Centro internazionale di studi
risorgimentali e garibaldini di Marsala in questi anni ad opera soprattutto di Elio
Piazza.
33 Su questo aspetto Denis Mack Smith è stato esemplare, anche se si è attirato non
poche antipatie tra gli storici isolani, a partire dal più noto d’essi: Santi Correnti.
27
“familismo positivo”, essenziale per la creazione dell’impresa familiare su
cui si regge gran parte dell’economia locale.
A sua volta, da Gentile in poi, è sorta una corrente antibritannica che
punta a cogliere gli aspetti più sarcastici e vistosi del comportamento
inglese, ”La perfida Albione”, ma questa “corrente” ha trovato seguaci
soprattutto durante il periodo della propaganda fascista prebellica (19361945).
E. Le famiglie britanniche in Sicilia e le loro residenze, patrimonio di
beni culturali.
Non poteva mancare in questo breve studio un accenno al patrimonio
delle famiglie britanniche in Sicilia, tutt’oggi rappresentate dagli eredi
degli imprenditori venuti nell’isola fin dalla fine del XVIII secolo; mi
riferisco ai Rickards, agli Hopps, agli Ingham, ai Rose, agli Harrison e a
tanti altri illustri cognomi.
Immagine ottocentesca della Cattedrale di Palermo
Ma il vero patrimonio ereditato è quello delle opere d’arte e
architettoniche, oltre che dall’archeologia industriale che le famiglie
britanniche hanno lasciato in Sicilia, e che la Regione siciliana tenta di
gestire al meglio. Mi riferisco anzitutto al patrimonio della famiglia
Whitaker a Palermo e a Marsala, in particolare la villa Malfitano (ubicata
in via Dante, a Palermo), con annesso parco ricco di specie arboree
esotiche.
28
All’interno di questa villa, parquet, arazzi, suppellettili, porcellane
cinesi, opere d’arte varie riassumono in un contesto ideale il gusto e la
raffinatezza di queste famiglie. Una Fondazione privata gestisce le
proprietà residue della grande famiglia di imprenditori, unico esempio di
gestione produttiva dei beni culturali siciliani, comprendenti l’area
archeologica di Mozia sull’isola di san Pantaleo a Marsala. Un grande
sforzo gestionale malgrado le esigue risorse economiche messe a
disposizione della Regione.
Ma i Whitaker a Palermo hanno lasciato anche la villa liberty di via
Cavour, oggi sede della Prefettura, e la villa Ada Whitaker, oggi sede del
Centro Studi Ignaziano, in via Antonio Ugo.
A loro volta gli Ingham, oltre lo stabilimento e la cantina di Marsala, ci
hanno lasciato l’Hotel delle Palme in via Roma a Palermo, che per il lusso
d’epoca e le presenze internazionali ospitate rappresenta un caposaldo del
turismo siciliano, anche se nella versione persistente del “Gran Tour”. La
crisi economica purtroppo colpisce questo tipo di turismo, che comunque
va salvaguardato anche con la presenza di capitali internazionali. Agli
Ingham si deve anche la chiesa anglicana di via Roma, che tutt’ora rimane
un gioiello d’epoca per i frequenti ricordi dell’arte anglo-normanna in
Sicilia, richiamati dall’architetto Henry Christian.
Prima di lui altri architetti e storici dell’arte britannici erano venuti in
Sicilia e, insieme a Viollett-le-Duc34, avevano rivalutato la stagione del
medioevo arabo-normanno, soprattutto Payne Knight, con lo studio del
portico settentrionale della Cattedrale di Palermo, ritenuto a quel tempo il
primo esempio di arco a sesto acuto in Europa.
Meno conosciuto è il cimitero inglese all’Acquasanta, che la nuova
Amministrazione comunale sta tentando di salvaguardare dopo anni di
oblio. È una testimonianza delle culture succedutesi nel tempo a Palermo,
e le lapidi, talune riferibili fino al XVII sec., lo attestano. Altre
testimonianze di monumentalità funeraria anglosassone si trovano al
cimitero dei Rotoli, nell’area acattolica.
Splendido esempio di dimora rurale e gusto artistico è la cosiddetta
Ducea di Nelson all’abbazia di Maniace, nel territorio del comune di
34 Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc (Parigi, 27 gennaio 1814 - Losanna, 17
settembre 1879) è stato un architetto francese, conosciuto soprattutto per i suoi
restauri degli edifici medioevali. Fu una figura centrale tanto nell'architettura
neogotica in Francia, quanto nel pubblico dibattito sull'autenticità in architettura.
29
Bronte. La Regione ha gestito questo bene fino agli anni novanta; poi la
gestione è stata trasferita al Comune.
Da non sottovalutare i resti dell’industria agrumaria Sanderson a
Messina, area soggetta a speculazione edilizia se le istituzioni non
interverranno per tempo. Ma questo vale per i resti della zolfara dei Rose a
Cianciana35, della tenuta agricola dei Leckie di Siracusa (famosa per
l’allevamento dei purosangue)36, di edifici nel centro storico di Catania o
dei resti della piccola sinagoga di Messina, nella zona alta, dove sono
ancora visibili i resti del terremoto e dei bombardamenti della più recente
guerra mondiale.
Per chi volesse sbirciare tra i ricordi della presenza britannica
nell’ottocento siciliano ricordo di fare una capatina al museo del
Risorgimento di Palermo, ma anche al Museo delle uniformi di Acireale.
_____________
35 Comune in provincia di Agrigento.
36 Si ricordi a questo proposito la Società di Incremento Ippico di Catania, presso
Fortino, fondata con il concorso degli inglesi.
30
LA REAZIONE AL CENTRALISMO SABAUDO
Roberto Tripodi
La condizione del Regno delle due Sicilie preliminare all’Unità.
Il 1860 è certo l’anno nel quale si decide l’Unità d’Italia. È una unità
che appare impossibile: gli accordi conseguenti al congresso di Vienna si
oppongono, la Francia di Napoleone III è fortemente ostile, la Spagna
appoggia Francesco II, lo Stato Pontificio e l’impero Asburgico
proteggono il Regno delle Due Sicilie, persino la Russia afferma la sua
contrarietà. Ma due uomini riescono a concepire e realizzare l’impossibile:
un mitico condottiero che aveva anche combattuto con successo in
America Latina e un sottile uomo di Stato, laico e borghese, che aveva
trascorso la gioventù a studiare le economie e i sistemi produttivi di
Francia e Gran Bretagna.
Ma per comprendere come fosse stata possibile l’impresa dei Mille e la
costruzione dell’Italia Unita, seppur tra molti errori e notevoli
31
contraddizioni, è necessario analizzare il contesto nel quale l’impresa fu
condotta.
Ferdinando II delle Due Sicilie regnò dal 1830 al 1859. Salì al trono
appena ventenne l’8 novembre 1830. Iniziò il suo regno con un'austera
riforma finanziaria ed amministrativa [cfr. Atto Sovrano 11 gennaio 1831].
Sostituì i ministri, diminuì notevolmente le spese di Corte, concesse una
larga amnistia ai detenuti politici e agli esuli, richiamò in servizio gli
ufficiali murattiani sospesi a seguito dei moti del 1820. La politica adottata
dal sovrano diede al commercio la possibilità di espandersi e favori
l'iniziativa artigianale.
Il suo grande limite fu di privilegiare l’economia campana rispetto a
quella siciliana, e di questa condizione fu sempre rimproverato
dall’aristocrazia dell’Isola. Ferdinando II cercò di favorire il commercio e
l'industria locale agevolando la più valida ed esclusiva risorsa mineraria
della Sicilia, quella dello zolfo (all'epoca indispensabile per la produzione
degli esplosivi).
Ferdinando II di Borbone
Fu stipulata una convenzione con ditte francesi più vantaggiosa di
quella in vigore con gli inglesi. Le relazioni con l'Inghilterra ne risultarono
compromesse e Ferdinando si preparò alla guerra inviando in Sicilia
32
12.000 soldati mentre denunciava alle corti europee la condotta della Gran
Bretagna.
La vertenza per lo zolfo influì molto sulle relazioni tra regno delle Due
Sicilie e Regno Unito, attento a conservare il monopolio dello strategico
minerale siciliano. I britannici avviarono una politica destabilizzante nei
confronti del Regno delle Due Sicilie, che culminerà con l'appoggio alla
spedizione dei Mille nel 1860.
Nel 1837 scoppiò l'epidemia di colera che era stata prevista: l'epidemia
ebbe inizio ad Ancona ed il re dispose che venissero sospesi i traffici con
lo Stato Pontificio, e fissò delle pene molto severe per tutti coloro che
avessero trasgredito alle disposizioni sanitarie e di igiene che erano state
già emanate. Ma le misure di prevenzione non ebbero successo.
Quando in ottobre il colera invase Napoli e i comuni vicini, diede
disposizioni affinché venissero distribuiti gratuitamente il maggior numero
di medicinali atti a frenare la malattia, cosa che certamente non doveva
essere facile a quei tempi. Con l'inverno il male terminò, dopo aver
provocato circa 6.200 vittime. Napoli ebbe poi a subire una seconda
epidemia di colera. Questa volta il colera invase tutto il regno,
raggiungendo anche Palermo e diverse città della Sicilia. Le vittime di
questo secondo colera furono a Napoli circa 14.000, ma in Sicilia ve ne
furono oltre 65.000.
I proclami rivoluzionari aprirono il 1848: “Siciliani! Il tempo delle
preghiere inutilmente passò. Inutili le proteste, le suppliche, le pacifiche
dimostrazioni. Ferdinando II tutto ha disprezzato; e noi, popolo libero,
ridotto nelle catene e nella miseria, tarderemo ancora a riconquistare i
nostri legittimi diritti? All'armi, figli di Sicilia, allarmi! La forza di tutti è
onnipossente: l'unione dei popoli è la caduta dei re. Il giorno 12 gennaio,
all'alba, comincerà l'epoca gloriosa dell'universale rigenerazione. Palermo
accoglierà con trasporto quanti Siciliani armati si presenteranno al
sostegno della causa comune, a stabilire riforme e istituzioni analoghe al
progresso del secolo, volute dall'Europa, dall'Italia e da Pio IX. Unione,
ordine, subordinazione ai capi, rispetto a tutte le proprietà; il furto sia
dichiarato tradimento della Patria e, come tale, punito. Chi mancherà di
mezzi ne sarà provveduto. Con questi principi il Cielo asseconderà la
giustissima impresa. Siciliani, all’armi!"
I comunicati dell’esercito borbonico cercarono di placare gli animi: "…
che per terminare al più presto le ostilità era necessario che il re sapesse
che cosa il popolo di Palermo desiderava; senza di che era impossibile
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trattare: nel frattempo i suoi uomini non avrebbero sparato neppure un
colpo d'archibugio, ma i rivoltosi dovevano fare lo stesso".
La risposta del Comitato fu la seguente: "Il popolo coraggiosamente
insorto non poserà le armi e non sospenderà la guerra, se non quando la
Sicilia riunita in un generale Parlamento qui a Palermo, accomoderà ai
tempi quella Costituzione, che, giurata dai suoi re, riconosciuta da tutte le
potenze, e che non si è mai osato apertamente togliere all'isola: senza di
questo è inutile qualunque negoziato".
Palermo 1848 – Rivoltosi davanti al Palazzo di Giustizia
Ferdinando II si guadagnò l’appellativo di “Re Bomba” perché consentì
il bombardamento di Messina del 5 settembre 1848.
La città, come l’intera isola, era insorta con l'appoggio discreto
dell'Inghilterra, interessata alla Sicilia, isola strategica per il controllo del
Mediterraneo, e desiderosa di ostacolare la politica di Ferdinando II, a cui
non aveva mai perdonato la questione degli zolfi siciliani.
La squadra navale napoletana era costituita da tre fregate a vela, 6
fregate a vapore, 5 piroscafi armati, 20 cannoniere, 24 scorridoie ed altri
legni sottili. Il 1° settembre 1848 ancorò al largo di Catona, presso Reggio
e nella notte si avvicinò alla costa dell’isola per impadronirsi di una
batteria degli insorti, detta delle “Moselle”, situata a fior d’acqua nei pressi
del villaggio di Contessa, fuori Messina, forte di 12 cannoni. La flotta
iniziò il bombardamento alla mattina del 2 settembre e poco dopo dal
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bastione Blasco della Cittadella di Messina, nelle mani dell’esercito
regolare, effettuarono una sortita quattro compagnie di pionieri che,
coperti dal fuoco navale, incendiarono gli affusti dei cannoni. Nel
pomeriggio del 4 settembre si imbarcarono a Reggio 250 ufficiali e 6.400
uomini di truppa. Lo sbarco delle truppe regie in terra siciliana iniziò alla
mattina del 5 settembre a tre miglia da Messina, protetto dal fuoco delle
pirofregate e delle cannoniere.
È bene ricordare che i primati del Regno (la prima ferrovia, il primo
ponte sospeso in ferro, ecc.) non trovarono sviluppo programmato e
continuità di investimenti. La macchina industriale riguardava il
napoletano, e le disparità con le Province restarono intatte. All'atto
dell'annessione al Piemonte, questo aveva una rete ferroviaria di circa 900
km, contro i 124 km (tutti in Campania) del Sud, che pure aveva visto la
realizzazione della prima linea d'Italia.
Dopo la conquista angioina e la rivolta del Vespro del 1282, sia Napoli
che Palermo avevano rivendicato, attraverso una guerra secolare, il
predominio sul regno, che restò diviso in due parti indipendenti fino
all'unificazione attuata con decreto nel 1816 da Ferdinando I.
Palermo 1848 – Rivoltosi davanti la Cattedrale
L'atto era avvenuto sotto gli auspici dell'Austria e del Congresso di
Vienna, ma aveva risvegliato l'antico spirito del Vespro, anche perché la
Sicilia nel 1812 era riuscita a ottenere da Ferdinando I la costituzione. Con
la proclamazione del Regno delle Due Sicilie le potenze europee, in primis
l'Inghilterra, iniziarono a fomentare lo scontento dei Siciliani e
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appoggiarono le rivolte del 1820, del 1848 e l'ultima, fatale per il regno,
del 1860.
Un altro punto dolente della politica ferdinandea fu la gestione del
rapporto con il ceto borghese che Ferdinando II chiamava sprezzantemente
«paglietti» e «pennaruli». Il re cercò di corrispondere anche alle attese di
questo ceto, verso il quale per la verità non nutriva grande stima, e ad
aprirsi a quelle libertà che altri stati incominciavano a riconoscere, ma la
frattura verificatasi tra corona e liberali a seguito della rivolta di Napoli del
1848 non fu mai sanata: da un lato, Ferdinando si rinchiuse
nell'assolutismo; dall'altro, molti intellettuali si votarono definitivamente
alla causa di uno stato italiano unico.
Il Regno delle Due Sicilie di allora, che era lo Stato più florido d'Italia,
avrebbe tratto vantaggio dalla costituzione di una ipotetica Confederazione
Italiana, ma Ferdinando, specie dopo gli accadimenti del 1848 e la
controversa partecipazione alla guerra contro l'Austria, non fece nulla per
promuoverla.
Il Regno di Ferdinando manifestò un eccesso di stato confessionale,
che pesò sullo sviluppo e sulle possibilità di modernizzazione.
Sotto la pressione determinata dalla rivolta siciliana, Ferdinando II
concesse la Costituzione, che fu promulgata il 10 febbraio 1848. Essa
conteneva caratteri comuni allo Statuto Albertino, ma rifletteva l’eccesso
di clericalismo. La religione cattolica, oltre ad essere quella di Stato, era
l’unica ammessa, vietandosi la professione di culti diversi: l’anti-ebraismo
veniva eletto alla dignità di articolo costituzionale. Non c’è da stupirsi se
gli Ebrei italiani si schiereranno a favore del movimento unitario a guida
sabauda, e dei finanziamenti a tale causa concessi dalle Banche
internazionali.
A causa del suo temperamento conservatore e del contrasto con la
borghesia liberale, che culminò nei moti rivoluzionari del 1848, il suo
regno, dopo un breve esperimento costituzionale, fu segnato da una stretta
in senso assolutista, che lo portò ad accentrare su di sé il peso dello Stato,
oltre ad attuare una politica economica parsimoniosa e paternalista che
lasciò il reame, negli ultimi anni, in una fase statica.
Alla sua morte, il Regno delle Due Sicilie passò al figlio Francesco II,
che lo avrebbe perso in seguito alla spedizione dei Mille.
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Fallisce il tentativo borbonico di modernizzare l’agricoltura
Il riformismo borbonico era nato con il decreto 621 dell’11 novembre
1831 che istituiva in Palermo il Reale Istituto d’Incoraggiamento e nei
Capoluoghi delle Provincie le Società economiche. La corruzione
dilagante nella burocrazia e gli interessi della rendita fondiaria costituirono
un ostacolo che né Ferdinando II, e tanto meno Francesco II, riuscirono a
superare. Negli anni dal 1831 al 1848 il malumore crebbe tra i ceti
produttivi.
Gli inglesi, con il sostegno dei baroni siciliani, furono abili a cogliere
l'opportunità di forzare i Borbone a promulgare una costituzione per la
Sicilia, basata sul sistema Westminster del governo parlamentare, e fu una
costituzione liberale per quei tempi.
Dopo il Congresso di Vienna, Ferdinando, IV di Napoli e III di Sicilia,
appena ritornato alla corte reale di Napoli, abolì immediatamente la
costituzione. Vi è una connessione tra questa azione e le rivolte popolari,
sobillate dagli stessi baroni, che ebbero luogo in Sicilia, dai moti del 18201821, con le prime sommosse antiborboniche. L'isola si dichiarò, seppur
per breve tempo, indipendente da Napoli, nei tumulti del 1837 e
nell’insurrezione del 1848.
Nel 1848 i tempi non erano ancora maturi per parlar d'unità e, quanto
alla federazione, bisognava incominciare con il mettersi prima in stato
d'uguaglianza con Napoli, sciogliere il Regno delle Due Sicilie e far
dell'isola un corpo indipendente, padrone dei suoi destini all'interno e
all'esterno.
Nel 1859 il regno meridionale era ancora lo Stato più esteso e,
teoricamente, più potente della penisola. Esso, infatti, poteva fare
affidamento su un esercito (il più numeroso d'Italia) di 93.000 uomini
(oltre a quattro reggimenti ausiliari di mercenari) e sulla flotta più potente
di stanza nel Mediterraneo (11 moderne fregate, 5 corvette e 6 brigantini a
vapore, oltre a vari tipi di navi a vela). Infine, come ammoniva Ferdinando
II, era difeso "dall'acqua salata e dall'acqua benedetta", cioè dal mare e
dalla presenza dello Stato della Chiesa, che, protetto dalla Francia, avrebbe
impedito ogni invasione via terra verso il sud.
Rosolino Pilo ebbe un preciso ruolo nel porre le basi per una
sollevazione in Sicilia. Nel mese di marzo, intenzionato a salpare alla volta
dell'isola, si era rivolto a Garibaldi, prima chiedendo armi e poi invitando
il nizzardo ad un intervento diretto.
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Garibaldi si era tirato indietro, ritenendo inopportuno qualsiasi moto
rivoluzionario che non avesse avuto buone probabilità di successo. Il
nizzardo avrebbe guidato una rivoluzione solo se a chiederglielo fosse
stato il popolo ed il tutto fosse avvenuto in nome di Vittorio Emanuele II.
Con il contributo delle popolazioni locali e l'appoggio del Piemonte
Garibaldi avrebbe contenuto il rischio di un fallimento, evitando risultati
simili a quelli avuti dai fratelli Bandiera o da Carlo Pisacane. Non avendo
ottenuto l'immediato sostegno di Garibaldi, il 25 marzo Rosolino Pilo partì
per la Sicilia con l'intento di preparare il terreno per la futura spedizione.
Accompagnato da Giovanni Corraro, anch'egli mazziniano, il Pilo
giunse nel messinese e prese contatti con gli esponenti delle famiglie più
importanti. I baroni, infatti, una volta sbarcato il corpo di spedizione,
avrebbero rese disponibili le bande che erano al loro servizio, i cosiddetti
picciotti.
Palermo – Insurrezione della Gancia
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Nella notte tra il 3 e il 4 aprile 1860, una sessantina circa di rivoltosi si
introdussero nel convento dei Frati Minori della Gancia, dove attesero il
mattino per dare inizio all'insurrezione. Alle 5,00 il suono a stormo delle
campane della chiesa, che avrebbe dovuto fungere da segnale anche per i
gruppi armati appostati sulle montagne, diede avvio ai primi colpi d'arma
da fuoco. Il capo della polizia di Palermo, Salvatore Maniscalco, non si
fece, però, trovare impreparato. Egli, informato il giorno prima da uno dei
frati, Padre Michele da Sant'Antonino, aveva fatto appostare i militari
borbonici del 6º Reggimento nei pressi del convento. I soldati penetrarono
nel convento soffocando sul nascere l'insurrezione: tra i rivoltosi si
contarono 20 vittime, tra cui un frate. Francesco Riso, ferito, morì in
ospedale. Il 4 aprile 1860, alla Gancia, sono arrestati il barone Riso, il
principe di Giardinelli, l’abate Ottavio Lanza di Trabia, il cavaliere di S.
Giovanni, il duca dell’Arenella, figlio del principe di Niscemi, il futuro
Tancredi del Gattopardo.
Altri 13 uomini furono tratti in arresto. Nei giorni successivi, in città, si
fecero preoccupanti le avvisaglie di una nuova sollevazione e ciò contribuì
a rendere esemplare la sentenza per i rivoltosi della Gancia: sarebbero stati
condannati alla fucilazione come monito. L'episodio della Gancia diede il
via ad una serie di manifestazioni ed insurrezioni che interessarono in
particolar modo l'entroterra siciliano.
La Chiesa esercitava nel regno un potere incondizionato e possedeva la
gran parte dei terreni. La stessa educazione fatta impartire a Francesco, si
dimostrò imperniata su di una religiosità di stampo bigotto. Francesco
dimostrò, nel corso della spedizione di Garibaldi, limiti caratteriali esaltati
dall’educazione ricevuta. Questo processo involutivo trova conferma nel
decreto del 10 gennaio del 1843, con il quale Ferdinando II consegnava
l’istruzione primaria alla esclusiva direzione dei Vescovi, autorizzandoli "a
destituire i maestri e le maestre delle scuole primarie, a sospenderli e a
rimuoverli …". Il decreto stabiliva inoltre: "Art. 2 - Le scuole saranno di
preferenza stabilite pe’ fanciulli ne’ Conventi e Monasteri, e per le
fanciulle ne’ Ritiri e ne’ Conservatori di donne. Art. 3 - Saranno stabilite
altresì scuole primarie, con il metodo di mutuo insegnamento, ne’
Capoluoghi di Provincia ed in tutti gli altri comuni che ne avranno i mezzi.
Queste scuole saranno nello stesso modo affidate a’ Vescovi e da loro
dirette per ciò che riguarda la disciplina, cò metodi e libri elementari
approvati dalla Pubblica Istruzione".
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“I miei affetti sono qui. Io sono napoletano, né potrei senza grave
rammarico dirigere parole d'addio ai miei amatissimi popoli, ai miei
compatrioti.” Francesco II di Borbone
Figlio di Ferdinando II, uomo mite, timido e dubbioso, a ventitré anni
sposò Maria Sofia di Baviera e il 22 maggio 1859 salì al trono. Continuò le
direttive del padre Ferdinando II nella politica interna ed estera,
mantenendo la neutralità durante la guerra del 1859. Conquistata da
Garibaldi la Sicilia, Francesco II cercò di salvare il trono con una
costituzione e l'alleanza al Piemonte (giugno-luglio 1860). Fallito l'estremo
rimedio, abbandonò la capitale e si rinchiuse a Gaeta, che difese per tre
mesi; si rifugiò poi a Roma (febbraio 1861), donde i suoi fedeli
alimentarono per alcuni anni il brigantaggio nel regno. Costretto ad
abbandonare anche Roma nel 1870, si stabilì a Parigi.
Il malessere delle campagne e degli intellettuali
Il 30 aprile 1845 il Governo Borbonico richiedeva alle Società
Economiche provinciali una relazione sulle pratiche di agricoltura in uso in
agricoltura. Dalle relazioni emerge una Sicilia prevalentemente agricola,
con un’alta percentuale di superficie agrario-forestale destinata ai
seminativi e ai pascoli, ove stentavano a penetrare quelle novità produttive
in atto nelle regioni più progredite, come Piemonte e Campania.
Non erano decollati la diffusione delle foraggere, l’incremento del
patrimonio zootecnico, l’introduzione di nuove tecniche. Il grano era
ormai per lo più destinato al consumo interno, in quanto se ne esportavano
solo 8.000 cantari, per un valore di 80.000 ducati.
Le tecniche di coltivazione, gli avvicendamenti, il modo di spargere il
frumento nel terreno, la quantità di concime impiegato, rimanevano arcaici
nonostante la presenza delle prime macchine agricole di limitata
diffusione. Gli strumenti per la lavorazione del terreno erano sempre gli
stessi,: lo zappone, la zappetta a mano per sarchiare e l’aratro a trazione
animale. Le trebbiatrici rimasero rare a causa dell’elevato prezzo e della
specializzazione richiesta al contadino per l’uso.
Determinante fu la prevalenza dei contratti a colonia parziaria e a
terratico, che scaricavano sul colono gli oneri per l’acquisto. I concimi
chimici erano sconosciuti. L’unico usato era il letame, alla cui scarsa e
insufficiente produzione si sommava la preparazione irrazionale: i letamai
infatti erano all’aperto e soggetti all’azione disgregatrice del sole e della
pioggia.
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Nei primi anni quaranta l’economia siciliana visse una fase di
depressione molto acuta, cui corrispose l’esplosione del pauperismo e della
miseria. Nonostante la Sicilia avesse ampie possibilità nella produzione e
nella esportazione, oltre che dello zolfo, dei vini, dell’olio e degli agrumi,
anche del sommacco, dell’orzo, della canapa e del cotone, la mancata
nascita di una borghesia imprenditoriale provocò la riduzione della
domanda di lavoro e la riduzione dei salari a livelli insufficienti alla stessa
sopravvivenza.
Il controllo della produzione di prodotti agricoli e di manufatti rimase
nelle mani della aristocrazia, che aveva come obiettivo quello di vivere di
rendita, più che di profitto.
Secondo Emerico Amari e Vito D’Ondes Reggio, l’errore di
Ferdinando II fu di aver separato l’economia politica dalle leggi morali: lo
sviluppo industriale senza una più giusta redistribuzione della ricchezza:
“le classi infime e misere hanno diritto all’esistenza ed al bene essere
ugualmente che coloro cui assai spesso le fortuna ha collocato in un lusso
insultante”.
Il 1848 siciliano segna quindi il punto di non ritorno della crisi di
legittimazione della monarchia borbonica, già messa alla prova dai moti
del 1820 e del 1837. Il fallimento del progetto borbonico di
modernizzazione delle strutture economiche era anche stato causato
dall’esilio forzato di molti intellettuali e dalla chiusura del governo a ogni
forma di decentramento, aggravando la rottura tra monarchia e siciliani e
avvicinando culturalmente democratici e moderati al progetto sabaudo.
L’ormai sfiduciato Ferdinando II si attribuì tutti i ministeri e sostituì i
ministri con direttori di scarsa levatura culturale, ma fedeli ai suoi ordini.
Consiglio di Stato, Corte dei Conti, Consigli provinciali, Intendenze,
Decurionati, Istituti d’Incoraggiamento, Società Economiche, vennero
svuotate di compiti e poteri, dando luogo a malumori e ostruzionismi che
bloccarono la macchina amministrativa in Sicilia all’arrivo di Garibaldi.
Fu per questi motivi che l'unica delle forze opposte ai Borbone che
mostrasse la volontà di scendere in armi, in quel 1860, era l'autonomismo
siciliano. I ricordi della rivoluzione del 1848 erano ancora vividi, la
repressione borbonica era stata dura e nulli i tentativi del governo
napoletano di giungere ad un accomodamento politico.
Inoltre, l'insofferenza non era limitata alle classi dirigenti, ma
coinvolgeva, anche se con motivazioni ed obiettivi differenti, una larga
fascia della popolazione cittadina e rurale: congiuntura pressoché unica nel
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corso dell'intero Risorgimento. A dimostrazione di ciò, infatti, vi sono le
adesioni di volontari alle schiere garibaldine da Marsala a Messina, sino al
Volturno.
Non era quindi naturale che i Borbone, che si proclamavano sovrani per
diritto divino, che avevano ignorato la Costituzione affermando la
supremazia del potere assoluto, che non indissero mai elezioni, potessero
ridurre in angusti confini l’aristocrazia parassitaria e far crescere la
borghesia imprenditoriale e commerciale. Il confronto col Piemonte, che si
reggeva su una monarchia costituzionale, con un Parlamento eletto
(sebbene a suffragio limitato) e con i poteri autonomi e indipendenti, era
destinato a far pendere la bilancia a favore di quest’ultimo e a far nascere
nel Paese quello spirito unitario e risorgimentale che si indirizzerà verso
Casa Savoia.
Il 5 maggio 1860 due piroscafi, il Piemonte e il Lombardo, salparono
da Quarto, presso Genova. Garibaldi aveva raccolto un migliaio di
volontari, metà dei quali lombardi. Alcune soste, e l’11 maggio i Mille
sbarcarono, non senza sfruttare abilmente la “copertura” assicurata da
vascelli inglesi, a Marsala.
Il risultato dell'antagonismo siculo-partenopeo fu ben sintetizzato da
Francesco II nel proclama dell'8 dicembre 1860: "Sparisce sotto i colpi dei
vostri dominatori l'antica monarchia di Ruggiero e di Carlo III; e le due
Sicilie sono state dichiarate province d'un Regno lontano. Napoli e
Palermo son governati da prefetti venuti da Torino". Eppure, nel primo
decennio del regno di Ferdinando, la Sicilia non rivendicava
l'indipendenza, né l'unità politica con l'Italia, ma rifiutava la sottomissione
a Napoli, aspirando ad un assetto statale di tipo federativo.
L’Unità d’Italia portò allo scioglimento delle Società Economiche e
dell’Istituto di Incoraggiamento con decreto del 1864. Con la legge del 6
luglio 1862, n° 680, erano state costituite le Camere di Commercio ed Arti
sul modello delle Camere Napoleoniche. La Società di Scienze Naturali ed
Economiche si assunse il compito di diffondere e far progredire le scienze
che insegnano presso l’Istituto Tecnico di Palermo.
I fatti di Bronte e di Alcara Li Fusi e di Palermo.
Il 15 maggio 1860 a Calatafimi i garibaldini si scontrarono con
l’esercito borbonico: restarono sul campo di battaglia 127 garibaldini e 111
borbonici. Garibaldi proseguiva per Alcamo attestandosi sopra Monreale.
In quei momenti i Nebrodi si infiammano: il 13 maggio a Mistretta era
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stato dato alle fiamme il municipio ed era stato devastato il Casino dei
Nobili e tutti i paesi furono in subbuglio.
Ad Alcara il 16 maggio sera, nella chiesa di S. Michele, i sacerdoti Di
Bartolo e Cozzo presiedevano una riunione di braccianti, pastori,
contadini e artigiani, per discutere di problemi locali. Il giorno dopo
accadde la tragedia: dopo la messa la piazza della matrice si riempì di
gente vociferante, mentre per la strada avanzava il popolo diretto al Casino
di Compagnia, riservato a “galantuomini e civili”, al grido di “W
Garibaldi! W l’Italia! W Vittorio Emanuele! Morte ai cappeddi!”. Il dato
certo è il risultato di 11 morti ammazzati ed il paese in subbuglio fino al 24
giugno.
Nell'entroterra siciliano si erano accese molte speranze di riscatto
sociale da parte della media borghesia e delle classi meno abbienti. Ad
Alcara Li Fusi, così come a Bronte, sulle pendici dell'Etna, la
contrapposizione era forte fra la nobiltà latifondista rappresentata dalla
britannica Ducea di Nelson, proprietà terriera, e la società civile.
Alcara Li Fusi (ME) – Fucilazione di alcuni insorti
Il 16 maggio del 1860 in Alcara Li Fusi, arrivò la notizia del vittorioso
inizio dell'impresa dei mille in Sicilia per abbattere il Regno Borbonico
dell'Italia meridionale e costruire l'unico Stato italiano. E subito un folto
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gruppo organizzò per il giorno seguente 17 un'esaltante manifestazione
preceduta dalla bandiera tricolore, nottetempo preparata.
Al termine alcuni congiurati eliminarono tutti gli amministratori che
avevano aderito al corteo, ma erano filo borbonici: undici morti
ammazzati, sindaco in testa.
I fatti di Alcara Li Fusi sono stati attentamente analizzati dal prof.
Pietro Siino nel suo saggio storico “Una oscura pagina della Rivoluzione
Siciliana del 1860”. Il professore, anche sulla base di documenti autentici
dell’epoca, finisce per condannare la dura repressione operata da Nino
Bixio, e tale atteggiamento revisionista è oggi utilizzato per rivalutare la
monarchia borbonica e condannare la costituzione dello stato unitario sotto
la guida di Casa Savoia.
Nino Bixio
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In realtà una valutazione oggettiva dei fatti evidenzia come gli eccidi
perpetrati dai rivoltosi fossero di gran lunga più cruenti delle punizioni
decise nei processi. La sentenza della Gran Corte Civile della Valle di
Messina, facente funzione di G. Corte Criminale, il 24 novembre 1869
giudicava innocenti i rivoltosi di Alcara, ribaltando il precedente verdetto
che aveva portato all’esecuzione di 13 dei 27 imputati.
A Bronte, sulle pendici dell'Etna, la contrapposizione era forte fra la
nobiltà latifondista rappresentata dalla britannica Ducea di Nelson,
proprietà terriera, e la società civile.
Il 2 agosto al malcontento popolare si aggiunsero diversi sbandati e
persone provenienti dai paesi limitrofi, tra i quali Calogero Gasparazzo e
scattò la scintilla dell'insurrezione sociale. Vennero appiccate le fiamme a
decine di case, al teatro e all'archivio comunale. Quindi iniziò una caccia
all'uomo e ben sedici furono i morti fra nobili, ufficiali e civili, tra cui
anche il barone del paese con la moglie e i due figlioletti, il notaio e il
prete, prima che la rivolta si placasse.
Il Comitato di guerra, creato in maggio per volere di Garibaldi e Crispi,
decise di inviare a Bronte un battaglione di garibaldini agli ordini del
genovese Nino Bixio per sedare la rivolta e fare giustizia in modo
esemplare. Gli intenti di Garibaldi non erano solo volti al mantenimento
dell'ordine pubblico, ma anche a proteggere gli interessi commerciali e
terrieri dell'Inghilterra (Bronte apparteneva agli eredi di Nelson), che
aveva favorito lo sbarco dei Mille, e soprattutto a calmare l'opinione
pubblica.
Quando Bixio iniziò la propria inchiesta sui fatti accaduti larga parte
dei responsabili era fuggita altrove, mentre alcuni ufficiali colsero
l'occasione per accusare gli avversari politici.
Il tribunale misto di guerra, in un processo durato meno di quattro ore,
giudicò 150 persone e condannò alla pena capitale l'avvocato Nicolò
Lombardo (che, acclamato sindaco dopo l'eccidio, venne additato come
capo rivolta), insieme ad altre quattro persone: Nunzio Ciraldo Fraiunco,
Nunzio Longi Longhitano, Nunzio Nunno Spitaleri e Nunzio Samperi. La
sentenza venne eseguita mediante fucilazione l'alba successiva: per
ammonizione, i cadaveri furono lasciati esposti al pubblico insepolti.
Anche in questo caso, mentre i rivoltosi avevano ucciso sedici persone
indifese, tra cui donne e bambini, la pena di morte fu eseguita solo nei
confronti di sei rivoltosi.
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Mancarono in questi casi le avanguardie capaci di orientare le
insurrezioni dei contadini, la loro sete di violenza. Far credere ai braccianti
che fosse possibile occupare le terre di Nelson, quando proprio la Gran
Bretagna aveva sostenuto l’impresa di Garibaldi, fu un grave errore
destinato a produrre tragedie.
All'indomani della spedizione dei mille e della conseguente annessione
del Regno delle Due Sicilie al nuovo Regno d'Italia, diverse fasce della
popolazione meridionale cominciarono ad esprimere il proprio
malcontento verso il processo di unificazione. Questo malcontento era
generato innanzitutto da un improvviso peggioramento delle condizioni
economiche dei braccianti della provincia meridionale, che, abituati ad una
condizione economica povera ma sopportabile (caratterizzata da un costo
della vita moderato, da una bassa pressione fiscale e dalla libera vendita
dei prodotti agricoli), si ritrovarono a dover fronteggiare un nuovo regime
fiscale per loro insostenibile e una regolamentazione del mercato agricolo
svantaggiosa per loro sotto ogni aspetto. Un altro importante motivo che
spinse alla rivolta i contadini fu la privatizzazione delle terre demaniali a
vantaggio dei vecchi e nuovi proprietari terrieri, che così ampliarono
legalmente i loro possedimenti in cambio di un maggior controllo del
territorio e della fedeltà al nuovo governo.
La Rivolta del sette e mezzo fu la sollevazione popolare avvenuta a
Palermo dal 16 al 22 settembre 1866. Chiamata del "sette e mezzo" perché
durò sette giorni e mezzo nel contesto storico delle sommosse popolari e
della guerriglia del Sud Italia.
Ma perché Palermo, una delle città più importanti d’Italia, una delle
città che avevano anche favorito i sabaudi, consentendo lo sbarco di
Garibaldi e favorendone l’avanzata, dopo solo cinque anni di governo si
ribellò? Ed è questo un evento da considerare come regionale ed isolato o
espressione di un malessere più diffuso? Certamente un peso notevole
l’ebbe la nascita di un mercato nazionale e l’estensione su tutto lo Stato
unificato delle rigide leggi di Torino. A Palermo esplose quel fenomeno
dovuto alla difficoltà di passare da una economia di tipo feudale,
campagnola e assistita, al capitalismo.
Il ruolo di Cavour
Nasce il 10 agosto 1810 a Torino. Lascia nel 1831 la vita militare e per
quattro anni viaggia in Europa, studiando particolarmente gli effetti della
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rivoluzione industriale in Gran Bretagna, Francia e Svizzera e assumendo i
principi economici, sociali e politici del sistema liberale britannico.
Importante possidente terriero, Camillo Benso, Conte di Cavour,
contribuì, già nel maggio 1842, alla costituzione dell'Associazione agraria,
che si proponeva di promuovere le migliori tecniche e politiche agrarie,
per mezzo anche di una Gazzetta che fin dall'agosto 1843 pubblicava un
articolo del Conte.
Impegnato nell'attività di gestione soprattutto della sua tenuta di Leri,
Cavour nell'autunno 1843, grazie alla collaborazione di Giacinto Corio,
iniziò un'attività di miglioramenti nei settori dell'allevamento del bestiame,
dei concimi e delle macchine agricole. In sette anni (dal 1843 al 1850) la
sua produzione di riso, frumento e latte crebbe sensibilmente, e quella di
mais addirittura risultò triplicata.
Ad integrare le innovazioni della produzione agricola, Camillo Benso
intraprese anche delle iniziative di carattere industriale con risultati più o
meno buoni. Fra le iniziative più importanti, la partecipazione alla
costituzione della Società anonima dei molini anglo-americani di Collegno
nel 1850, di cui il Conte divenne successivamente il maggiore azionista e
che ebbe dopo l'unità d'Italia una posizione di primo piano nel Paese.
Camillo Benso, Conte di Cavour
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Nel 1850, essendosi messo in evidenza nella difesa delle leggi Siccardi
(promosse per diminuire i privilegi riconosciuti al clero, prevedevano
l'abolizione del tribunale ecclesiastico, del diritto d'asilo nelle chiese e nei
conventi, la riduzione del numero delle festività religiose e il divieto per le
corporazioni ecclesiastiche di acquistare beni, ricevere eredità o donazioni
senza il consenso del Governo), Cavour viene chiamato a far parte del
gabinetto D'Azeglio come ministro dell'agricoltura, del commercio e della
marina. Successivamente viene nominato ministro delle Finanze. Con tale
carica assume ben presto una posizione di primo piano, fino a diventare
presidente del Consiglio il 4 novembre 1852.
Prima della nomina Cavour aveva già in mente un programma politico
ben chiaro e definito ed era deciso a realizzarlo, pur non ignorando le
difficoltà che avrebbe dovuto superare. L'ostacolo principale gli derivava
dal fatto di non godere la simpatia dei settori estremi del Parlamento, in
quanto la sinistra non credeva alle sue intenzioni riformatrici, mentre per le
Destre egli era addirittura un pericoloso giacobino, un rivoluzionario
demolitore di tradizioni ormai secolari.
In politica interna mira innanzitutto a fare del Piemonte uno Stato
costituzionale, ispirato ad un liberismo misurato e progressivo, nel quale è
la libertà a costituire la premessa di ogni iniziativa. Convinto che i
progressi economici sono estremamente importanti per la vita politica di
un paese, Cavour si dedica ad un radicale rinnovamento dell'economia
piemontese.
L'agricoltura viene modernizzata grazie ad un sempre più diffuso uso
dei concimi chimici e ad una vasta opera di canalizzazione destinata ad
eliminare le frequenti carestie (dovute a mancanza d'acqua per
l'irrigazione), e a facilitare il trasporto dei prodotti agricoli; l'industria
viene rinnovata ed irrobustita attraverso la creazione di nuove fabbriche e
il potenziamento di quelle già esistenti, specialmente nel settore tessile.
Fonda un commercio basato sul libero scambio interno ed estero che,
agevolato da una serie di trattati con Francia, Belgio e Olanda (18511858), subisce un forte aumento.
Cavour provvede a rinnovare il sistema fiscale, basandolo non solo
sulle imposte indirette, ma anche su quelle dirette, che colpiscono i grandi
redditi; provvede al potenziamento delle banche con l'istituzione di una
"Banca Nazionale" per la concessione di prestiti ad interesse non molto
elevato.
48
Il progressivo consolidamento politico, economico e militare, spinge
Cavour verso un'audace politica estera, capace di far uscire il Piemonte
dall'isolamento.
«La storia di tutti i tempi prova che nessun popolo può raggiungere un
alto grado di intelligenza e di moralità senza che il sentimento della sua
nazionalità sia fortemente sviluppato: in un popolo che non può essere
fiero della sua nazionalità il sentimento della dignità personale esisterà
solo eccezionalmente in alcuni individui privilegiati. Le classi numerose
che occupano le posizioni più umili della sfera sociale hanno bisogno di
sentirsi grandi dal punto di vista nazionale per acquistare la coscienza
della propria dignità»
Il 17 marzo 1861 il Parlamento subalpino proclamò Vittorio Emanuele,
non “Re d’Italia per grazia di Dio”, ma «re d'Italia per grazia di Dio e
volontà della nazione». Quindi Vittorio Emanuele II, non V. Emanuele I, a
sottolineare la continuità con il passato, che era anche il modo di
evidenziare che l'Italia si era fatta ad opera della casa Savoia, e che essa si
poneva come garante dell'ordine e della stabilità sociale.
L’azione della Francia e lo scacchiere internazionale.
Le gesta di Napoleone III miravano a ripristinare il primo impero,
quello di Napoleone I, a riportare cioè sotto la Francia, oltre che la contea
di Nizza e la Savoia, anche le regioni che erano state inglobate nel
territorio metropolitano francese, cioè Liguria, Toscana e Stato Pontificio.
Il Piemonte in epoca napoleonica aveva fatto parte della Francia e il
Cavour temeva che l'alleato potesse trasformarsi in padrone: "Non voglio
assolutamente ch'egli regni in Piemonte come in Francia, poiché, dopo
averlo qui chiamato, io debbo più d'ogni altro essere geloso dei diritti del
nostro Re e salvaguardarli da ogni usurpazione" (dal diario di Salmour
all'epoca dell'alleanza franco-piemontese nel 1859).
Leggiamo ancora dalle memorie di Salmour: "Debbo ricordare un
fatto, per provare che fino dal 1859 Cavour pensava seriamente
all'annessione del Reame di Napoli. Nell'ottobre di quell'anno 1859, in
seguito ad alcune lettere ricevute da Napoli, mi recai da Cavour per dirgli
che se egli obbligava il Ministero a mandare a Napoli Sclopis o un altro
ministro di polso e di opinioni non troppo spiccate, facilmente avrebbero
indotto il Re di Napoli a dare una costituzione al suo popolo. "Ma come? mi rispose - tu che sei di spirito così fine, hai potuto pensare un istante che
49
noi vogliamo che il Re di Napoli dia una costituzione? Ciò che noi
vogliamo e ciò che faremo è di prenderci i suoi Stati".
In data 2 giugno 1860 aveva scritto al Nigra a Parigi: "In un dispaccio
ufficiale che oggi invio a Parigi e a Londra io protesto contro ogni
intervento armato negli affari delle Due Sicilie [l'intervento degli altri no,
ma il suo sí, ndr]. Se, come voi mi comunicate, la Francia e l'Inghilterra
non s'opporrebbero all'annessione della Sicilia, io son deciso a marciare
dritto alla meta. So perfettamente che (per quanto riguarda le risorse
materiali) l'annessione di un'isola lontana avrebbe più svantaggi che
vantaggi. Ma questo sarebbe un altro grande passo, un altro picchetto per
l'unificazione definitiva dell'Italia. Vogliate sondare il terreno e dirmi se
devo andare a tutto vapore o arrestare la locomotiva” (lettera n. 878, 2
giugno, Carteggio Cavour - Nigra, vol. IV).
Il giorno prima (1 giugno 1960) il ministro degli esteri delle Due
Sicilie, Carafa di Traetto, aveva invocato la intangibilità del territorio dei
Borbone: "Villamarina comunica che Carafa ha invocato la garanzia del
territorio e l'intervento marittimo delle Potenze rappresentate a Napoli. Noi
gli abbiamo ordinato di protestare in anticipo contro ogni intervento
basandosi sul principio di non intervento in Italia adottato dalla Francia e
dall'Inghilterra” (lettera n. 874, stesso Carteggio).
Ecco il memorandum con cui Carafa si rivolgeva alle Case Regnanti
europee: "In vista delle gravi circostanze nelle quali la rivoluzione ha
immerso la Sicilia, S.M. ne appella a tutta l'Europa per provocare dalle
varie Potenze che i loro rappresentanti siano autorizzati ad officialmente e
solennemente dichiarare di voler garentire, con la Dinastia, l'integrità del
Regno delle Due Sicilie ed a chiedere che con le loro forze marittime
concorrano le stesse Potenze ad impedire qualunque invasione nei Reali
Domini" (A.S.N., Aff. Est., Arch. Stor., busta n. 12).
I rappresentanti diplomatici di Francia, Inghilterra e Prussia
mantennero un atteggiamento neutrale, favorevoli furono il Nunzio
pontificio e l'ambasciatore spagnolo, ma l'ambasciatore piemontese,
Villamarina, prospettò una guerra generale in Europa se il principio di non
intervento fosse stato disatteso. Lo zar Alessandro, invece,
all'ambasciatore delle Due Sicilie, Duca di Regina, accreditato nella
lontana Pietroburgo, faceva sapere che non riconosceva quel principio:
parole al vento, ché egli non poteva dare forza concreta allo sfogo, data la
lontananza della Russia dallo scacchiere di crisi: "... Circa le pratiche fatte
verso il Gabinetto di Turino, esse non sono meno energiche, ed il Principe
50
di Gortchakow in una recente conversazione tenuta col Marchese Sauli
(ambasciatore piemontese a Pietroburgo, ndr) l'incaricò di scrivere al
Conte Cavour che l'Imperatore Alessandro provava tale e tanta
indignazione per ciò che accadeva in Sicilia, per l'attitudine che serbava il
Gabinetto Sardo, che se la posizione geografica della Russia fosse stata
diversa, egli sarebbe intervenuto materialmente, malgrado e contro i
principii di non intervenzione che le Potenze Occidentali tengono in forza
contro il diritto e rilasciano in favore della rivoluzione" (dispaccio n. 135
dell'11 giugno 1860, Regina a Carafa, Carteggi di Cavour, La Liberazione
del Mezzogiorno, vol. V, appendice IIB).
Le esatte parole di Gortchakow al Sauli furono: "Ove la giacitura
geografica della Russia nol vietasse, lo Czar interverrebbe con le armi a
difendere i Borboni di Napoli, senza curarsi del non intervento proclamato
dalle Potenze occidentali" (A. Zazo, La politica estera del Regno delle
Due Sicilie nel 1859-60, pag. 288), da cui traspare a chiare lettere
l'impotenza della Russia ad agire in scacchieri geopolitici lontani dal suo
territorio.
Napoleone fu dunque impotente a contrastare la convergenza anglopiemontese: la situazione gli era sfuggita completamente di mano. Pur
tuttavia ancora il 4 settembre 1860, al Duca di Caianiello, recatosi in
missione a Chambery, assicurò che egli "portava grande interesse al re di
Napoli ed aveva tutto il desiderio di sostenerlo; che già lo aveva fatto per
mezzo di Thouvenel e specialmente verso l'Inghilterra e il Piemonte, ed
anche ultimamente nel colloquio avuto col ministro piemontese Farini a
Chambery", ma stava barando, come barava tre anni dopo anche il
ministro Thiers, che ebbe a dire alla camera francese, millantando un
inesistente credito di benemerenza politica: "siamo noi, noi soli che
abbiamo fatto l'Italia" e che l'unità d'Italia era stata conseguita "col sangue
della Francia" (Discours parlamentaires de M. Thiers, vol. XI, pagg. 46),
svalutando con ciò anche qualunque italico patriottismo.
Per tutto il tempo della crisi l'azione diplomatica del Quai d'Orsay ebbe
di mira l'inglobamento della penisola in orbita francese, contrastando la
costituzione di un forte Stato unitario ostile alla Francia. La linea politica
di quel governo era stata ben delineata da Thouvenel, ministro degli esteri
francese, a Gramont, ministro a Roma, in data 18 marzo 1860: “Si le Pape
et le Roi de Naples avaient l'intelligence de leurs intèrets, ils
comprendraient bien vite que ces intèrets sur un point capital, sont
connexes avec les notres. L'unitè de l'Italie nous dèplait autant qu'à eux-
51
memes”. La Gran Bretagna, che nel 1815 aveva avversato l’unità d’Italia
sotto l’egemonia francese combattendo Gioacchino Murat, nel 1860 la
favorisce aiutando il Piemonte per fini opposti..
La diplomazia Inglese nel Mediterraneo
Alla base della mutevole politica seguita dal governo britannico nei
mesi decisivi della crisi, fu il timore di ulteriori ampliamenti territoriali
della Francia, esploso dopo l'annessione della Savoia e Nizza. Il governo
di Londra incaricò l’ambasciatore Hudson di chiedere a Cavour un
impegno formale a non fare alcuna ulteriore concessione territoriale alla
Francia.
Nel mese di maggio, quando la Sicilia poteva dirsi ormai piemontese, il
governo di Londra aveva il sospetto che il Cavour si apprestasse ad
effettuare la cessione di Genova alla Francia qualora la Sicilia fosse
annessa al Piemonte.
Che gli inglesi sospettassero una concorrenza sleale di Napoleone nella
impresa dei Mille, ne parla pure l'ambasciatore inglese a Napoli in una sua
relazione a Lord Russell (Public Record Office London, Foreign Office
70/316, Elliot a Russell, Napoli 13 maggio 1860 n. 712, citata da A. Zazo
pag. 289). La diagnosi di Carafa era esatta: “Se la spedizione fosse stata
offensiva alla Francia, essa non avrebbe avuto luogo" (Carafa ad Elliot).
Già da alcuni anni la consumata diplomazia inglese si era messa
all'opera per sventare i lacci napoleonici. Il successo che le arrise conservò
all'Inghilterra il dominio del Mediterraneo, che le consentirà poi di vincere
anche la seconda guerra mondiale. Come corollario a questo studio
possiamo affermare, senza tema di essere smentiti, che l'errore principe
commesso da Ferdinando II, che pur non difettava di acume politico, fu
quello di non aver saputo trarre le logiche conseguenze dalla guerra di
Crimea: tale terribile, anche se circoscritto, conflitto aveva messo in luce
tutta la debolezza dell'alleata Austria, la sua pochezza industriale rispetto a
Francia e Inghilterra e la sua incapacità di intervenire militarmente lontano
dalle proprie frontiere.
L'asse politico del mondo si era spostato definitivamente sulle rive
dell'Atlantico. Il Congresso di Vienna, con l'Austria egemone, era ormai
perso nella nebbia dei ricordi.
Il Cavour giocava con abilità su più tavoli e l'unità della penisola fu
creazione della volontà inglese e non della Francia di Napoleone III,
attestata sempre sugli accordi di Plombières. Dopo i plebisciti in Emilia e
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in Toscana, Cavour aveva suggerito alla Gran Bretagna che, “se la Francia
non desiderava andare al di là della creazione di uno Stato dell'Italia
settentrionale che facesse da contrappeso all'Austria, poteva invece essere
nell'interesse inglese che si formasse un'Italia più grande per far fronte alla
Francia nel Mediterraneo" (in Vittorio Emanuele II, Laterza).
L’azione di Garibaldi e Cavour si inquadra nel timore che la Gran
Bretagna nutriva per la politica espansionistica di Napoleone III: Sardegna,
Liguria, Toscana diventare territori metropolitani francesi, e il Regno delle
Due Sicilie, pur formalmente indipendente, diventare un protettorato
napoleonico retto da Luciano Murat o da Gerolamo Napoleone. Si
sarebbero ripresentate, aggravate, le condizioni geopolitiche del primo
impero: il Mediterraneo lago francese, cosa che l'Inghilterra non avrebbe
mai potuto tollerare. Nel dossier diplomatico inglese urgeva inoltre una
altro gravissimo problema: già da un anno erano cominciati i lavori per il
canale di Suez da parte di una società francese. L'Inghilterra temeva che
Napoleone III invadesse quel pezzo di impero turco impadronendosene.
A tali problemi se ne aggiungeva un altro: la Russia zarista lavorava
per portare l'impero turco alla dissoluzione. Questa eventualità avrebbe
reso la Russia "padrona del Mar Nero e capace di minacciare a poco a
poco l'India". Era quindi vitalissima necessità per la diplomazia inglese
contenere l'espansionismo di Napoleone III, allentare o spezzare l'alleanza
franco-piemontese e sostenere l'impero turco in funzione antirussa.
Il decennio 1860/70, fino alla disfatta di Sedan (dove Napoleone III fu
preso prigioniero dai prussiani), fu per l'Inghilterra un decennio di
passione e di febbrile attività politico-diplomatica. Il problema Suez fu
risolto nel 1869 dal governo presieduto da Disraeli con l'acquisto del
pacchetto di maggioranza delle azioni della Società del Canale.
Superata la fase di incertezza relativa all'impresa di Giuseppe
Garibaldi, in un primo tempo definito da Lord Russell "gent out of law",
cioè fuorilegge, il governo inglese sacrifica, per i suoi interessi di
egemonia geopolitica, il Regno delle Due Sicilie concedendolo al
Piemonte, contraddicendo l'opinione generale che questo considerasse la
Sicilia un compenso della Savoia perduta.
L’evolversi degli eventi bellici e politici è analizzato con attenzione e
chiarezza dal principe di Carini, ministro di Francesco II di Borbone,
accreditato presso il governo prussiano a Berlino, che trasmetteva in data 7
agosto 1860 al ministro degli esteri a Napoli, De Martino, il seguente
riservatissimo dispaccio: "Diviene ormai inutile ogni insistenza più diretta
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per sormontare le teorie ed assurde considerazioni affacciate dal
Gabinetto Inglese per opporsi e per paralizzare le proposizioni
dell'Imperador Napoleone in favor nostro. Anzi nelle più recenti
comunicazioni incalza in tal modo e con tale quasi minacciosa energia che
difficilmente possono conservarsi in dubbio non solo la molesta politica di
lord Palmerston, quella anche peggiore di Lord John Russell e tutta la
malevolenza che ci han fabbricata in Inghilterra, ma altresì la connivenza
e complicità di quel Governo negli attentati intrapresi contro la R. Nostra
Dinastia e contro il nostro Regno. Gettando la maschera dell'umanità e
delle filantropie che vanta colle labbra e smentisce coi fatti, esigge per noi
le pruove del sangue, le pruove delle armi, per poi concedere le simpatie
della Gran Bretagna o al Monarca che proditoriamente inceppa e lascia
aggredire, o alla rivoluzione, che fomenta e protegge".
Si stringe, quindi, attorno al Regno delle Due Sicilie la ragnatela che
Cavour andava tessendo e che portava all’isolamento di Francesco II nel
contesto delle potenze europee. La gravità della situazione è avvertita dal
Ministro degli Esteri delle Due Sicilie, Carafa, che aveva scritto al suo
ambasciatore a Londra, Ludolf: "Il modo di vedere del ministro inglese
non poteva essere diverso dai principi che, tranne qualche variazione
inerente all'epoca, sono professati sempre da tutti i gabinetti inglesi, i
quali principi devono, come i fatti costantemente lo provano, trovarsi
falsati nella loro applicazione, così è che lord J. Russell nel tenere per
fondamentale il diritto delle nazioni, ne ammette e ne tollera la violazione
nella guerra civile che in uno Stato costituito porta una masnada di gente
pagata da un partito che non ha governo legale. Ammetterebbe lord
Russell simili dimostrazioni nei Regi Stati per effettuare una spedizione in
altri, amici, dove si professano dal Governo diversi principi politici? I fatti
non corrispondono alle teorie specialmente quando sono nel proprio
senso".
Il realtà, fino al giugno 1860, per motivi di liberalizzazione, o meglio di
globalizzazione economica, la Gran Bretagna era stata ostile al governo
borbonico che, con alti dazi, contrastava in difesa della propria economia
le merci straniere, segnatamente le merci di Sua Maestà britannica.
Purtroppo per lui, i servizi di informazione di Francesco II non furono
all’altezza della situazione nell’interpretare la politica inglese, tanto che,
all'inizio dell’impresa dei Mille, il 23 maggio, il Console Borbonico a
Washington informava il Carafa col seguente dispaccio: "Lord Lyons
(ambasciatore britannico a Washington, ndr) diceva ieri sera in piena
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riunione sociale che, se il legno che porta Garibaldi potesse essere
mandato a picco, la sarebbe una vera fortuna e per lui e per l'Italia"
(A.S.N. America, fasc. 3), in perfetta sintonia con le vecchie vedute di
Lord Russell. Evidentemente una parte del corpo diplomatico napoletano
non riusciva ad interpretare gli eventi e il Regno precipitava nella
confusione politica e nel disorientamento.
La morte di Cavour
L’uscita nel 1861 dalla scena politica di Giuseppe Garibaldi e Camillo
Benso, privava il processo unitario dei due leaders carismatici che
avrebbero potuto indirizzare lo sviluppo del Paese, in particolare del
Meridione, verso una direzione industriale e produttiva, sul modello di
quanto avvenuto in Piemonte dal 1852 al 1861. Il primo veniva allontanato
dall’esercito regio e non inserito in compiti governativi, ma nominato
senatore perché potesse essere neutralizzato, il secondo moriva il 6 giugno
1861. Vittorio Emanuele II, distratto da battute di caccia e amori
extraconiugali, non fu capace di sostenere i ceti produttivi della Sicilia,
condannandola a un sottosviluppo assistito di cui ancora sono evidenti le
conseguenze.
Gli artefici principali del Risorgimento furono quindi due nobili:
Vittorio Emanuele II di Savoia e Camillo Benso conte di Cavour, e due
borghesi: Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi. Il 17 marzo 1861 solo
tre di loro erano a Torino a celebrare l’avvenuta unificazione, Giuseppe
Mazzini era in esilio a Londra. Questi quattro personaggi erano sulla
cinquantina, in piena maturità, tranne il re che era più giovane. Avevano
davanti un discreto numero d’anni, ma per uno di loro la morte era vicina.
Cavour, il grande tessitore, quando proclamava che Roma e solo Roma, la
città eterna, poteva essere la capitale d’Italia, non sapeva che la fine fosse
prossima. Camillo Benso dedicò la propria vita all’Unità d’Italia, alle cure
del Governo, agli affari della propria famiglia. Non si sposò mai, ma ebbe
alcuni amori.
L’ultima donna di cui si innamorò fu Bianca Ronzani, la ballerina di
origine magiara o forse prussiana, con cui dal 1856 intratteneva una
relazione sentimentale. Bianca era giunta a Torino al seguito del marito, il
triestino Domenico Ronzani, ballerino, mimo, coreografo e impresario
prima del Teatro Nazionale e poi del Teatro Regio. Cavour conobbe la
Ronzani al suo ritorno dal Congresso di Parigi del 1856. La giovane e
piacente ballerina aveva chiesto udienza al Presidente del Consiglio per
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implorare sovvenzioni statali per risollevare le esauste finanze del Teatro
Regio, amministrato dal marito. Gli argomenti della signora furono
convincenti, da indurre Cavour, in qualità di ministro delle Finanze, a
concedere le sovvenzioni richieste. La generosità del conte non fu
sufficiente a salvare Domenico Ronzani dalla bancarotta. Nel 1858, per
sottrarsi ai creditori e alle azioni giudiziarie, il Ronzani riparò a Genova e
qui si imbarcò su un piroscafo diretto in Sudamerica. Bianca invece rimase
a Torino.
Della relazione tra il conte di Cavour e Bianca Berta di Valentino
Sevierz-Ymar in Ronzani sappiamo poco. Una parte del carteggio tra i due
amanti, forse quella più rivelatrice, è andata perduta. Nel 1894 Costantino
Nigra acquistò a Vienna, presso l'antiquario Alessandro Posonyi, 24 lettere
indirizzate da Cavour alla Ronzani e le distrusse con l'assenso degli eredi e
del re d'Italia, ritenendole scandalose, poiché «ispirate da una violenta
passione, scritte con imprevidente abbandono, piene di particolari del
carattere più intimo».
Nel maggio 1860 Cavour le fece dono di una proprietà del valore di
23.000 lire e di un ricco mobilio. Dopo la morte del conte, la Ronzani
vendette i doni dell'amante e con il denaro racimolato si trasferì, in
compagnia di un giovane magiaro, a Parigi, dove morì in miseria nel 1863.
Nei due testamenti di Cavour non c'è traccia di alcun lascito alla Ronzani.
Documenti storici di autore anonimo, celato sotto lo pseudonimo di
“Ingrato”, furono pubblicati per la prima volta a Torino, presso l’editore
Domenico Cena. Il libricino intitolato: “Cavour avvelenato da Napoleone
III", racconta una storia che circolava nei pettegolezzi di palazzo. Questa
storia attribuiva a Napoleone III – che vedeva nello statista piemontese un
suo irriducibile nemico – la responsabilità della morte di Cavour, che
sarebbe stato avvelenato da una sua emissaria in casa dell’amante.
L’autore si sarebbe deciso a mettere per scritto e a divulgare la storia solo
nel 1871, proprio perché, dopo la guerra franco-prussiana che aveva
segnato la fine del II impero, Napoleone III era ormai uscito di scena.
Il volumetto sostiene la tesi del Cavour ucciso, o meglio fatto
avvelenare, da Napoleone III tramite "una giovane donna, d'un viso
piacevole" moglie di un commissario di polizia (di Parigi), la quale, in
cambio di un sostanzioso premio (500.000 lire), si sarebbe prestata allo
"scellerato progetto".
Costei si porta a Torino, riesce a diventare intima dell'amante del
Cavour, Bianca Ronzani. Informatasi con molta cautela delle abitudini del
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Cavour, l'agente segreto riesce a dare pratica attuazione al piano. In un
momento di distrazione della Ronzani, versò veleno nella "tazza di
porcellana bianca filettata in oro" da cui il ministro piemontese sorbiva il
suo caffè. "Cavour bevve, bevve... e non s'accorse che egli, col caffè,
succhiava la morte" che lo rapì cinque giorni dopo.
Su chi fosse l’anonimo autore del libretto si è a lungo discusso. Una
delle ipotesi più accreditate è che sia stato un ufficiale di polizia, il
maggiore Domenico Cappa, figura popolare e benvoluta della Milano
umbertina. Assegnato nel 1859 alla persona del presidente del Consiglio,
Cappa gli fu vicino, in pratica, fino alla morte, ne conobbe la personalità e
i segreti.
Altre ipotesi individuano l’anonimo autore del racconto in Isacco
Artom, segretario copista di Cavour. Il libretto contiene elementi e
particolari che potevano essere noti solo a persona in confidenza o in
contatto con Cavour.
Il libretto di autore anonimo riporta tre documenti che appaiono
determinanti per fare luce sulla morte di Cavour e che riportiamo
integralmente:
Dispaccio n° 1: "Acquisto terreno - Non dispero più - notificherete a lui
una nuova strada apertami - É fedelissima al conte Cavour la servitù che
lo circonda - Tentarla sarebbe stato un compromettere il piano. Il ministro
italiano è ritiratissimo e viene, può dirsi ingolfato giorno e notte nei
molteplici ed infiniti suoi affari - la sera dopo il pranzo, lavora - dopo va
in via Nuova (alcune volte in vettura ed altre volte a piedi) da certa
signora Bianca, prussiana, della quale, se non è innamorato, è certamente
affezionatissimo - » col mezzo di lei che riuscirò nello scopo - Ho preso in
affitto un alloggio sullo stesso piano di lei - Procuro di trovarmela di
fronte quando ella discende le scale - Prima con impercettibile segno del
capo, dopo più spiccatamente cominciai a salutarla. - Ella mi corrisponde
il saluto. Presto vi darò altri ragguagli. M.S.".
Dispaccio n° 2: "Le cose sono a buon punto - Quasi giornalmente sono
nella casa di lei - Si mostra molto affezionata a me - Il ministro italiano
continua a recarsi da lei tutte le sere - Vi resta per parecchie ore - Egli è
all'oscuro della mia relazione colla signora Bianca - Mi sono informata
delle abitudini del conte - Seppi ch'egli prima di lasciare quella casa beve
una tazza di caffè - Pare che il caso favorisca i miei disegni - Il conte ha
un'apposita tazza di capacità maggiore a quelle comuni - A cosa fatta vi
comunicherò il resto. Torino, 22 maggio 1861".
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Dispaccio n° 3: "Tra due ore avrò lasciata Torino. Il mio compito è
finito. Tutto andò felicemente. Per la città si conosce l'indisposizione del
conte Cavour. Nessuno dubita. La prudenza non mi abbandonò un solo
istante. Fra quattro o cinque giorni sarà affar finito. Raggiungo il suolo
francese lieta e soddisfatta d'avere obbedito l'imperatore, reso un servizio
alla mia patria. Lo saranno del pari gli altri...? Torino, 2 giugno, 1861.
N.N".
Secondo l’anonimo le ultime parole pronunciate da Camillo Benso a
"persona di sua grandissima confidenza" che lo assisteva e che "la
delicatezza" gli vietava di nominare furono queste: "...sento di essere
avvelenato... conosco donde mi viene il colpo ... i medici negarono dinanzi
me ch'io fossi vittima di un veleno propinatomi ... Sai tu a chi debbo dire
grazie?... Sai tu chi mi fece avvelenare? Napoleone III!". Identiche le
parole ripetute all'amante Bianca Ronzani, accorsa a visitarlo. Il veleno
utilizzato fu forse "un estratto di cicuta polverizzato ... che s'infiltra nella
massa del sangue e provoca una congestione cerebrale molto affine alla
febbre tifoidea".
Domenico Cappa (o Isacco Artom) narra che quel 29 maggio 1861,
dopo una giornata fitta di impegni, Cavour cenò come al solito con il
fratello Gustavo e con il nipote Ainardo. Il resoconto della nipote
Giuseppina Alfieri ci informa che: «mangiò di buon appetito, parlò della
discussione del giorno, si intrattenne di affari di famiglia, e, fra le altre
cose, raccomandò a mio padre di restaurare il castello di Santena. "È là soggiunse - dove voglio riposare un giorno, vicino ai miei». Dopo cena
andò a fumare un sigaro sul terrazzo, ma preso da leggeri brividi, preferì
rientrare in salotto e presto si ritirò nel suo appartamento per la notte.
Secondo Michelangelo Castelli, dopo cena Cavour avrebbe fatto visita
a Bianca Ronzani, sistemata, a spese del conte, in una graziosa villetta ai
piedi della collina torinese. Si trattenne pochi minuti, si mostrò di umore
nero, era nervoso e soprattutto accaldato. Si fece servire una bibita gelata e
si congedò per tornare in carrozza a palazzo Cavour.
Secondo la nipote Giuseppina, nella notte del 29 maggio, a un
malessere indefinito del conte seguirono prima un vomito violento, poi
acuti dolori intestinali. Temendo un attacco apoplettico, Cavour mandò
immediatamente a chiamare il dottor Rossi, allievo del dottor Tarella, che
per più di vent'anni aveva curato la famiglia. Rossi cercò prima di tutto di
fermare il vomito, ma non ebbe successo. Ordinò quindi un primo salasso,
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che parve sortire benefici effetti. Il mattino seguente ne fu applicato un
secondo e il pomeriggio un terzo.
La pratica del salasso era comune a tutta la medicina del tempo, ogni
qual volta si sospettava che un eccesso di sangue opprimesse il malato
oppure fosse in corso un attacco di apoplessia, cioè una emorragia a carico
di organi interni. La scuola medica torinese aveva fatto del salasso il suo
credo, come ci informa l'arguta madame d'Agoult, più nota con il nom de
plume di Daniel Stern che, durante il suo soggiorno a Torino, conobbe il
dottor Alessandro Riberi, medico di corte e luminare subalpino,
lasciandocene un ritratto professionale eloquente: «salassava
magistralmente, salassava ancora e sempre».
La febbre, alta per tutto il giorno, svanì nel corso della notte. Venerdì
31 maggio Cavour si svegliò lucido e in forze; contro il parere del dottor
Rossi volle convocare i ministri per definire le questioni più urgenti. Dopo
il consiglio dei ministri, si trattenne con Nigra e con Artom e trovò un pò
di tempo da dedicare alla nipote Giuseppina. Nella notte tornarono i
brividi, poi la febbre alta e il delirio. All'alba il dottor Rossi tentò di
contrastare la febbre somministrando il chinino, ma il conte non riuscì a
trattenerlo.
Il giorno successivo, 1 giugno, Rossi praticò due nuovi salassi che
contribuirono a debilitare il fisico già provato del conte. La mattina del 2
giugno, nonostante la febbre fosse calata, il più cupo pessimismo si
impossessò dei familiari e dei domestici del conte. La nipote Giuseppina
trovò lo zio «pallido, abbattuto, assorto», le mani fredde «come marmo».
Qualche ora più tardi la febbre tornò violentissima e con essa il delirio.
Con il respiro affannato, bruciante di febbre, Cavour ripercorreva con voce
stentorea i momenti cruciali del Risorgimento, con frasi interrotte
esponeva i suoi progetti per il futuro, in preda all'angoscia esprimeva il
timore che la notizia della sua malattia potesse danneggiare il successo del
prestito di 500 milioni che lo Stato era sul punto di contrarre.
Il lunedì mattina il delirio perdurava, il respiro del conte era sempre più
breve, la sua sete implacabile, nonostante il ghiaccio tritato che gli veniva
somministrato. Il precipitare della situazione convinse il dottor Rossi a
chiedere un consulto. Venne convocato il dottor Maffoni. Nel frattempo,
su insistenza dello stesso Cavour, fu praticato l'ennesimo salasso. Il
chirurgo praticò una nuova incisione «ma il sangue non sgorgò: a forza di
comprimere la vena, giunsero ad estrarre due o tre once di sangue nero e
coagulato».
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Inizialmente Cavour rifiutò con decisione l'ipotesi di ascoltare il parere
del dottor Maffoni, poi però finì per cedere alla suppliche dei familiari.
Accolse i medici al suo capezzale esortandoli a guarirlo in fretta; «Ho
l'Italia sulle braccia - aggiunse in preda al delirio - il tempo è prezioso.
Domani debbo essere a Bardonecchia, per visitare, col signor Bixio e con
altri amici di Parigi, i lavori del Moncenisio».
Rossi e Maffoni convennero sulla diagnosi: «congestione con minaccia
di versamento al cervello»; e sulla terapia: salassi per scongiurare il rischio
di emorragie interne e chinino per contrastare la febbre. Dato l'evidente
stato confusionale del conte, prescrissero una forte dose di solfato di
chinino liquido da somministrare in tre volte nell'arco della giornata.
Un vomito violento si presentò a ogni tentativo di somministrazione del
chinino. La febbre e il delirio pertanto rimasero incontrastati. In serata,
quando ormai le condizioni di Cavour apparivano disperate, giunse in
visita l'erede al trono, il principe di Carignano, che tentò con frasi di
circostanza di infondere ottimismo nei familiari.
All'alba i medici, non potendo contare sugli effetti benefici del chinino,
ricorsero agli impacchi: senape alle gambe, per riattivare la circolazione, e
ghiaccio sul capo per alleviare la febbre. Rimedi esterni poco efficaci,
adottati per dare un pò di sollievo al moribondo e lasciare qualche
spiraglio di speranza ai familiari.
Anche Luigi Carlo Farini, che in passato si era preso cura della salute
del conte, fu consultato, ma non seppe proporre rimedi che non fossero già
stati sperimentati senza successo.
Nel corso della giornata di martedì 4 giugno la notizia della malattia del
conte si diffuse in tutta la città. Una folla cupa, silenziosa, desolata di
torinesi si strinse attorno a palazzo Cavour, ma nessuna buona notizia poté
confortarla. Come precedentemente richiesto dallo stesso Cavour, fu
mandato a chiamare padre Giacomo da Poirino della Chiesa della
Madonna degli Angeli.
Subito dopo il colloquio con padre Giacomo, Cavour chiese di parlare
con Farini a cui, come rivela la nipote Giuseppina, confidò a futura
memoria: «Mi sono confessato ed ho ricevuto l'assoluzione, più tardi mi
comunicherò. Voglio che si sappia; voglio che il buon popolo di Torino
sappia che io muoio da buon cristiano. Sono tranquillo e non ho mai fatto
male a nessuno».
La morte da buon cristiano di Cavour non mancò di irritare papa Pio IX
che convocò a Roma padre Giacomo e lo sospese a divinis per aver assolto
60
senza ritrattazione lo statista che era stato colpito dalla scomunica del 26
marzo 1860 contro gli usurpatori degli Stati pontifici.
Giuseppina supplicò lo zio di accettare un ulteriore consulto medico e
questi, per non dispiacerla, acconsentì. Il dottor Riberi, luminare per
antonomasia della medicina subalpina, fu mandato a chiamare alle otto del
mattino; si presentò a palazzo soltanto alle cinque del pomeriggio per
confermare con tutta la sua autorevolezza la diagnosi dei colleghi:
«infiammazione alla base del cervello, prodotta da afflussi di sangue alla
testa». In quanto alla terapia, Riberi si limitò a consigliare di
somministrare al conte un pò di brodo, poiché il polso era debolissimo.
Verso le nove di sera giunse a palazzo Vittorio Emanuele II.
Nonostante la febbre altissima Cavour riconobbe il suo re, ma non riuscì a
formulare un discorso coerente. Gli ultimi mesi di governo affiorarono in
modo convulso: «Oh sire! Io ho molte cose da comunicare a V.M., molte
carte da mostrarle: ma son troppo ammalato; mi sarà impossibile di
recarmi a visitare la V.M.; ma io le manderò Farini domani, che le
parlerà di tutto in particolare. V.M. ha ella ricevuta da Parigi la lettera
che aspettava? L'Imperatore è molto buono per noi ora, sì, molto buono. E
i nostri poveri Napoletani così intelligenti! Ve ne sono che hanno molto
ingegno, ma ve ne sono altresì che sono molto corrotti. Questi bisogna
lavarli. Sire, sì, sì, si lavi, si lavi».
Dopo essersi congedato dal suo primo ministro con una stretta di mano,
il re chiese al dottor Riberi di tentare «una cavata di sangue alla jugulare,
o di mettere alcune sanguisughe dietro le orecchie per liberare il
cervello», ma ricevette un dotto rifiuto: il conte era ormai troppo debole
anche per i più strenui sostenitori del salasso terapeutico.
Cavour continuò a parlare in tono concitato con voce alta, come se
tenesse un immaginario discorso di fronte al Parlamento. Così
Michelangelo Castelli descrive in una lettera a Massimo d'Azeglio le
ultime ore di agonia dell'artefice dell'Unità d'Italia: «Riconosceva le
persone, rispondeva giusto, ma dopo poche parole divagava subito. Si
alzava, sedeva sul letto con la più grande sveltezza, sempre rivoltandosi; i
suoi atteggiamenti erano quelli che aveva abituali, rideva spesso, alito
fresco, fisionomia non alterata, e faceva gesto corrispondente, ma sempre
frasi tronche parlò sino ad un'ora prima della morte. Aveva voce alta e
limpida, l'ultima notte i suoi discorsi erano più seguitati, sempre politici;
nessuno lo intese mai pronunziare una parola di odio, di rancore; tutti i
61
sentimenti suoi erano di amicizia, di stima, di compatimento, di
speranza!».
Dall'imperativo di "fare gli italiani", educandoli alla libertà, senza
cadere nella tentazione di ricorrere allo stato d'assedio, al compiacimento
di aver ottenuto con l'unificazione un risultato che sembrava impossibile,
dal ruolo della Prussia di Bismarck nella politica europea, alla previsione
del tramonto della casa d'Asburgo, fino agli interrogativi sulla guerra civile
americana: questi erano, secondo il resoconto della nipote Giuseppina, i
pensieri che affollavano il cervello di Cavour nelle sue ultime ore. Non
un'unica drammatica sentenza politica come lascito ai posteri, ma una folla
di interrogativi, di problemi aperti da affrontare, l'ultimo estremo riflesso
di una mente brillante e curiosa.
Nel delirio spaziava dai grandi temi della politica nazionale ed
internazionale fino alle minuzie dell'amministrazione. Giuseppina Alfieri
annota: «Poi mio zio mi domandò dove erano alloggiati i diversi corpi del
nostro esercito, dove si trovavano parecchi militari suoi amici; ed io,
disfatta dalla commozione, risposi male alle sue domande. Egli mi guardò
con affetto e tristezza e mi disse: "Piccina, tu non sai quello che mi dici:
un momento fa mi dicevi che il generale P. comandava a Parma: come è
che adesso è a Bologna?" Soffocata, uscii dalla camera per piangere».
Verso l'alba di giovedì 6 giugno 1861 la voce del conte che sino ad
allora era stata alta e limpida incominciò ad affievolirsi. Un sudore freddo
gli ricoprì il corpo e la fronte, un insistente dolore si manifestò al braccio
sinistro. Il dottor Maffoni tentò di rinfrancare il malato prima
somministrandogli una tazza di brodo e un bicchiere di vino, poi
applicando sul suo corpo impiastri e pezze scottanti. Nessun rimedio sortì
qualche effetto, il polso rimase debolissimo e la sua facoltà di parola
divenne ancora più difficoltosa. Fu mandato a chiamare padre Giacomo
che gli somministrò l'estrema unzione. Giuseppina afferma che suo zio
ebbe la forza di accogliere il religioso pronunciando le sue ultime parole:
«Frate, Frate, libera Chiesa in libero Stato!».
Intorno alle sette del mattino, due rantoli annunciarono la morte di
Cavour.
__________
62
NICOLAE BALCESCU PATRIOTA EUROPEO
Michelangelo Ingrassia
Il fiume e il mare
Capita poche volte d’incontrare, nell’eterno ritorno della storia, una
vita tanto breve e tanto intensa quale fu quella di Nicolae Balcescu37:
vissuta nella lotta materiale e spirituale dell’essere contro il tempo,
dell’uomo contro la sua epoca.
Nato a Bucarest il 29 giugno 1819, con gli occhi aperti sul bel Danubio,
Balcescu muore a Palermo il 29 novembre 1852, con lo sguardo posato sul
Mediterraneo tirrenico. Iniziato il suo cammino nell’Europa della quiete
viennese, sopraggiunta alla tempesta d’acciaio scatenata da Napoleone
Bonaparte, Balcescu termina i suoi passi mentre si estinguono gli ultimi
fuochi della rivoluzionaria primavera dei popoli.
Due date espressive, il 1819 e il 1852, che evocano due epoche e due
epiche culminanti della storia europea: il Congresso di Vienna del 1815 e
37 Nato da Barbu Petrescu e da Zinca Petrusca-Balcescu, Nicolae prese il cognome
della madre
63
le rivoluzioni del 1848-49. Se le due epoche hanno il medesimo finale
politico della Restaurazione del vecchio potere costituito, le due epiche
sono invece radicalmente diverse. L’epica del 1848 è letteratura dei popoli,
contrapposta frontalmente all’epica del 1815 che è letteratura dei governi.
Il 1848 allarga il fossato tra popoli e governi e il nuovo solco, arato dalla
rivoluzione, apre la via alle nuove geografie politiche ed economiche che
rinnoveranno il vecchio Continente con le grandi unificazioni nazionali e
con l’avvento delle grandi ideologie che sospingeranno il mondo oltre
l’Ottocento.
Nicolae Balcescu
Tra le due epoche, e le due epiche, una generazione di eroi getta la
semente del mutamento e inizia l’epoca dei Risorgimenti: è l’aurora del
Risorgimento danubiano, che illumina il fiume che attraversa la Romania;
è l’alba del Risorgimento mediterraneo, che illumina il mare che bagna
l’Italia.
Nicolae Balcescu, la cui energia politica e intellettuale si sprigiona
come un soffio di slancio vitale tra il fiume dell’Europa orientale e il mare
dell’Europa meridionale, è un eroe europeo; eroe nel senso che attribuiva
Thomas Carlyle a questa nobile parola oggi decaduta: iniziatore di un
nuovo tempo, di una nuova fede, di un nuovo movimento, di una nuova
64
storia38. Un eroe ingiustamente dimenticato, Balcescu; ignorato dai libri
della storia e dai libri del pensiero; confinato, nella migliore delle ipotesi,
in quelle note a piè di pagina spesso sorvolate39.
Nicolae Balcescu, però, non fu per niente marginale. Egli è un capitolo
vivace e sorprendente nella storia politica europea; un capitolo esaltante e
tormentato nella storia romena; un capitolo avventuroso e decisivo nella
storia del rapporto tra Italia e Romania; un capitolo inquieto e
appassionante nella storia delle relazioni tra la Sicilia, isola italiana del
mondo mediterraneo, e la Romania, isola latina del mondo slavo; un
capitolo coraggioso e originalissimo nella storia che ancora oggi vuol
risorgere libera, percorrendo la via alternativa del sud est dopo secoli di
dominio politico, economico e culturale del nord ovest.
Balcescu pensa e agisce contro il suo tempo, contro l’ordine mondiale
stabilito a Vienna nel 1815, contro le vecchie famiglie politiche che hanno
riconquistato il potere in Europa. Si batte con tutte le sue forze - pur
minate dalla tisi che lo travolgerà a soli trentatre anni - per una nuova
epoca, per un ordine nuovo che tenta di risorgere dalle rivoluzioni del
1848, per la Romania Patria e Nazione nell’Europa dei popoli.
Ecce Homo! Ecco l’uomo! Ora è tempo di esplorare la sua storia con
un rapidissimo viaggio tra il fiume e il mare della sua esistenza politica e
intellettuale.
L’essere e il tempo
La prima questione da affrontare è quella di collocare l’essere nel
tempo, Balcescu nella sua epoca e nella storia della sua epoca. È una
condizione essenziale della breve ricerca che s’intende svolgere poiché
non si vuole qui ricostruire la biografia dell’uomo ma la biografia della
lotta politica e culturale combattuta dall’uomo. Non la vita ma la lotta di
Balcescu è la meta di questo viaggio; non l’opera ma le questioni e le sfide
culturali e politiche agitate da Balcescu si esploreranno. L’immensa scena
della storia è stata calcata da personaggi che vanno collocati nel loro
38 Cfr T. Carlyle, Gli Eroi, Milano 1981
39 Più che rari gli studi italiani su Nicolae Balcescu, dovuti soprattutto allo storico
palermitano Gaetano Falzone la cui bibliografia è consultabile in G. Tricoli, Studi
in memoria di Gaetano Falzone, Palermo 1993; per un approccio biobibliografico
alla figura del patriota romeno si veda P. Iroaie, Per un profilo di Nicolae
Balcescu maestro, eroe e scrittore del Risorgimento romeno, A. Vento, Trapani
1959
65
tempo per avere dato un notevole e decisivo contributo alla convivenza
umana senza tuttavia mutare l’esistente; vi sono poi esseri eccezionali che
invece vanno collocati contro il loro tempo perché hanno tentato di
trasformare il mondo. Balcescu appartiene a questa seconda schiera di
esseri storici. Balcescu è nella storia in quanto ha agito contro il suo
tempo. È necessario, dunque, conoscere innanzitutto il tempo contro di cui
ha lottato l’essere Balcescu.
Il tempo di Balcescu è l’Ottocento e quella del diciannovesimo secolo è
una storia eurocentrica: l’Europa, divisa in Stati nazionali, è il centro di
gravità permanente del mondo intero. Asia e Africa sono ancora continenti
invisibili nei quali presto si proietterà la volontà di potenza imperialista
delle nazioni europee. L’America, presa in se stessa, incuriosisce gli
europei per la sua organizzazione politica ed economica ma non esiste
ancora una politica americana in Europa né una politica europea in
America.
Nonostante Alexis de Tocqueville e la sua famosa opera La democrazia
in America, uomini e popoli d’Europa guardano ancora ai modelli politici
teorizzati e praticati nel passato europeo e da esso principalmente
attingono le nuove idee, le nuove visioni politiche e sociali, le nuove
filosofie del potere. Sarà più tardi, quando Gran Bretagna e America
s’incontreranno nel Pacifico, davanti ai porti cinesi e giapponesi, che si
svilupperà una cultura politica ed economica non più europea o americana
ma occidentale, fondata sull’individuo e sul libero mercato, distante e
distinta dalla tradizione culturale europea sedimentatasi con la Polis, con
l’Urbe, con i Fueros spagnoli, con i Comuni italiani, con le Corporazioni
di arti e mestieri, con una filosofia universale e comunitaria che si estende
nell’Europa dell’Impero e del Papato dall’Atlantico al Mediterraneo e dai
Pirenei agli Urali.
L’Europa di Balcescu è nata dalle ceneri del bonapartismo e l’ordine
europeo è stato disegnato a Vienna nel 1815. Il vecchio Continente è
dominato da una pentarchia formata da Austria, Prussia, Russia, Inghilterra
e Francia. Fra queste cinque potenze vi è una tregua armata che separa le
prime tre, a regime politico assolutista, dalle altre due, a regime politico
costituzionale. Le differenze politiche riflettono la condizione economica;
con le potenze costituzionali che si scoprono liberiste, e con quelle
assolutiste che si mantengono protezioniste: i due volti del capitalismo che
ormai domina la scena economica europea ottocentesca.
66
Il paesaggio europeo che fa da sfondo al giovane Balcescu è cambiato
rispetto al passato: accanto ai Castelli e alle Cattedrali ecco le ciminiere
delle industrie e gli uffici delle banche; attorno ai centri storici delle grandi
capitali ecco le periferie povere e straccione abitate da un’umanità dolente
fatta di operai malpagati, disoccupati, braccianti sradicati, donne e bambini
sfruttati, tutti elementi del circuito produzione-consumo e tutti in preda
all’alcol, alla prostituzione, all’accattonaggio, al degrado morale
raccontato dalla letteratura critica del romanticismo, prima, e del verismo,
poi.
Il Congresso di Vienna
Accanto alle cinque potenze si forma lentamente una sesta potenza,
quella della rivoluzione: socialista con Karl Marx, liberale con Constant,
conservatrice con Bismarck e Napoleone III, democratica con Giuseppe
Mazzini.
Marx teorizza la rivoluzionaria lotta di classe tra proletariato e
borghesia e l’avvento della società senza classi e senza Stato; i liberali
teorizzano la rivoluzionaria estensione del capitalismo attraverso
l’allargamento del mercato, che dovrebbe rendere liberi e autosufficienti
gli individui; Bismarck e Napoleone III teorizzano un capitalismo sociale
sottoposto al controllo dello Stato; Mazzini teorizza la sovranità popolare:
in politica con la partecipazione di tutto il popolo alla vita dello Stato, in
economia con il cooperativismo e il mutualismo come alternativa al
collettivismo marxista e al capitalismo liberale.
67
Nicolae Balcescu appartiene a quella minoranza cui non piace l’Europa
così com’è. E’ animato dall’ansia romantica di trasformare il mondo. Il
suo romanticismo letterario, fondato sullo spirito del popolo, sul carattere
nazionale, sul ruolo delle personalità storiche individuali o collettive nella
vita della nazione, si trasfonde in un romanticismo politico che lo oppone
all’ordine europeo voluto da Metternich e Talleyrand e a tutte le teorie
politico-economiche fondate sui diritti individuali o di classe a discapito
dei diritti e dei doveri sociali e nazionali40.
Giuseppe Mazzini
A contagiare Balcescu è la febbre rivoluzionaria di Giuseppe Mazzini.
Non il seducente Karl Marx, non l’avvincente liberalismo europeo, non
l’originale rivoluzione conservatrice ma la democrazia di Mazzini che, in
quell’Europa, è il solo a ritenere decisiva la presenza di Dio nella storia dei
popoli associando «Dio e popolo» nel suo pensiero e nella sua azione.
Mazzini che agita il mito della Terza Roma, quella del popolo dopo quella
dei Cesari e dei Papi, assegnandole quella missione universale di
40 Testimonianze di questo romanticismo letterario e politico del Balcescu sono
l’opera rimasta incompiuta: La storia dei Romeni sotto il voivoda Michele il
Bravo, a cui accenna S. Delureanu nel suo saggio: La Sicilia nell’immagine degli
scrittori Romeni dell’Ottocento, in G. Tricoli, op. cit.; e i due saggi: La campagna
dei romeni contro i turchi del 1595, e I diritti dei romeni nei riguardi della
Sublime Porta, citati da G. Falzone, Il Risorgimento a Palermo, Palermo 1971
68
riferimento per un nuovo ordine europeo e mondiale. Mazzini che lega la
questione nazionale alla questione sociale. Mazzini che proprio tra il 1846
e il 1847 scrive i suoi Pensieri sulla democrazia in Europa alternativi al
socialismo e al liberalismo, a Marx e a Tocqueville, al classismo e
all’individualismo41. E del resto il cristiano ortodosso Balcescu non poteva
rimanere insensibile allo spirito profondamente religioso dell’intellettuale
genovese che, peraltro, appellandosi al mito di Roma, richiamava un
elemento identitario fortemente presente nella cultura della Romania, isola
latina del mondo slavo.
In questo parallelismo tra il patriota romeno e il patriota italiano è
possibile scorgere non soltanto il parallelismo storico tra Risorgimento
romeno e Risorgimento italiano42, ma anche le ragioni politiche e culturali
che pongono Balcescu contro il suo tempo e spiegano la lotta da lui
intrapresa contro l’Europa della sua epoca. Si potrebbe dire che Balcescu
agitava il problema della crisi spirituale, sociale, politica in cui si
dibattevano uomini e popoli nell’Europa del suo tempo logorata dal
materialismo, afflitta dalle ingiustizie sociali, dominata da una classe
politica che escludeva le masse dalla partecipazione alla vita dello Stato e
non riconosceva il destino nazionale di quei popoli alla ricerca della
nazione perduta.
Vittorie transitorie e sconfitte apparenti
Questi legami tra Mazzini e Balcescu, Risorgimento italiano e
Risorgimento romeno, si rafforzano con le piccole rivoluzioni degli anni
venti e trenta che precedono l’incendio rivoluzionario del 1848.
La diaspora dei patrioti romeni, dopo il fallimento del moto di Tudor
Vladimirescu nel 1821, contribuisce a intensificare le relazioni. Le
rivoluzioni che si accendono in Sicilia e in varie parti d’Italia sono
percepiti, da Balcescu e dagli intellettuali romeni, come un’esortazione ad
agire anche in Romania. La fondazione della Giovane Italia ispira la
41 Cfr. G. Mazzini, Pensieri sulla democrazia in Europa, a cura di S. Mastellone,
Milano 1997; su questi aspetti del pensiero mazziniano si veda M. Ingrassia, La
democrazia dei doveri. Giuseppe Mazzini nel XXI secolo, «Rassegna Storica del
Risorgimento», ottobre – dicembre 2005
42 Sul tema si vedano: E. Di Nolfo, Europa e Italia nel 1855 – 1856, Roma 1967;
M. Leporetti, Nicolae Balcescu e il risorgimento nazionale in Romania, Roma
1971; S. Delureanu, Risorgimento italiano e Risorgimento romeno, La Città del
Sole, 2006
69
formazione di una Giovane Romania e getta le basi di quel Comitato
Democratico Europeo che, per opera di Mazzini, vedrà la luce soltanto nel
1851 quando Balcescu, in esilio dopo i fatti del ’48, è già distrutto dal male
che senza fretta ma senza tregua lo divora. Il giovane romeno non sarà tra i
rappresentanti del suo paese nel Comitato e al suo posto segnalerà Dimitrie
Bratianu, con grave dispiacere del Mazzini ormai affezionato allo
sfortunato Nicolae. Mazzini, del resto, era convinto che la libertà d’Italia
doveva essere parallela alla libertà dei Balcani43, una convinzione
condivisa dal patriota romeno.
Le rivoluzioni del 1848 rendono per un momento concreto il
parallelismo che si snoda attorno alle figure di Mazzini e Balcescu in Italia
e in Romania.
Con il quarantotto romeno il pensiero di Balcescu diventa azione.
Esponente di primo piano del governo rivoluzionario che s’insedia a
Bucarest, Balcescu s’impegnerà attivamente nella questione sociale e nella
politica estera.
Egli, che aveva già pubblicato il saggio intitolato Sulla situazione
sociale dei lavoratori agricoli nei principati romeni in vari periodi,
poneva in evidenza che la massa dei lavoratori costituiva «l’unico
serbatoio di energie rivoluzionarie della Romania»44. Traspare da questo
saggio un importante concetto politico che appartiene alla tradizione
mazziniana, e che sarà successivamente enunciato anche da Antonio
Gramsci: il Risorgimento della nazione non poteva non essere anche il
Risorgimento delle masse. Risorgimento nazionale e popolare costituivano
il fulcro di quella democrazia sociale che sarebbe dovuta sorgere dalla
rivoluzione. Se Mazzini, nella Repubblica Romana, emana quella
Costituzione basata sulla democrazia sociale, nazionale e popolare,
Balcescu, nella Repubblica Romena, si batte per attuare quella rivoluzione
agraria che avrebbe dovuto abolire le corvée e concedere la proprietà
agricola ai contadini. Una riforma sociale coraggiosa, se si tiene conto che
Balcescu proveniva dalla nobiltà terriera. Una riforma che incontrò la
gattopardesca resistenza di altri rivoluzionari, nobili al pari di Balcescu ma
che non intendevano attuare una rivoluzione sociale ma volevano fermarsi
alla sola Rivoluzione politica.
43 Sul parallelismo mazziniano tra Risorgimento italiano antiaustriaco e
Risorgimento balcanico antiaustriaco e antiottomano cfr. G. Falzone, Ricerche
mazziniane, Palermo 1976
44 G. Falzone, Il Risorgimento a Palermo, cit., p. 83
70
Altro momento nodale del pensiero e dell’azione del giovane romeno è
la politica estera. Egli “mazzinianamente” crede alla federazione delle
nazionalità come organizzazione della nuova Europa alternativa alla
vecchia Europa dei governi e degli Stati al servizio del mercato
imperialista. Ispirato da questo principio, si batte per la normalizzazione
dei rapporti tra Romania e Ungheria e per la costituzione della
confederazione danubiana, che forse avrebbe potuto garantire la
pacificazione nei Balcani ed evitare la guerra mondiale.
Così non fu. La sconfitta della rivoluzione e la restaurazione del 1849
bloccheranno l’ipotesi di un’Europa delle nazionalità legata dalle
confederazioni che avrebbero potuto vedere la luce attorno al Danubio, al
Reno, al Tevere, al Po, al Mediterraneo e all’Atlantico.
Potrebbe sembrare che Balcescu sia uscito sconfitto dal clamore del
1848, così come il Mazzini. Ma se si abbandona la cronologia degli eventi
e si considera la storia come analisi dei problemi, allora è possibile
affermare che Nicolae Balcescu, con Giuseppe Mazzini, non sono
sconfitti. Di fronte all’Europa di oggi essi indicano un’uscita di sicurezza
dalla crisi odierna in quel disegno unitario delle nazionalità, e in quella
necessità di far risorgere i popoli come soggetto storico della vita politica
ed economica attraverso la partecipazione politica costituente e attraverso
la partecipazione economica fondata sul principio di «capitale e lavoro»
nelle stesse mani, riconosciuto dalla Costituzione italiana e mai applicato.
Ha lasciato scritto Giuseppe Mazzini: «la Democrazia non è la libertà
di tutti, ma il governo liberamente consentito da tutti e operante per tutti
(…). La borghesia ha combattuto solamente per i diritti; è rimasta fedele al
suo principio; e una volta conquistati i suoi propri diritti, non ha sentito
bisogno di estenderli. Le masse sono rimaste escluse da tale conquista.
Che cosa diventano i diritti per quelli che non hanno potere di esercitarli?
Che cosa diventa la libertà di istruzione per chi non ha il tempo di
apprendere? Che cosa è il libero commercio per chi non ha né capitale né
credito? (…) la classe media avrebbe dovuto pensare a diminuire le ore di
lavoro, ad aumentare i salari, a dare un’uniforme e gratuita educazione alle
moltitudini, a mettere gli strumenti di lavoro alla portata di tutti, a creare
un sistema di crediti per i lavoratori onesti e dotati di talento. Le classi
medie, però, non hanno pensato a tutto ciò. E perché avrebbero dovuto
farlo? Perché avrebbero dovuto limitare l’esercizio dei loro diritti a
beneficio degli altri?»45.
45 G. Mazzini, op. cit., p. 93 e p. 100
71
Si rileggano queste parole pensando al tempo odierno, all’Europa oggi,
alla storia attuale; si vedranno, allora, i vincitori e i vinti; e si vedrà
avanzare silenziosamente, più attuale e necessaria che mai, la figura nobile
di Nicolae Balcescu: il “Mazzini” di Romania.
Appendice: Balcescu a Palermo
Sulle due permanenze di Balcescu a Palermo molto ha scritto lo storico
palermitano Gaetano Falzone, al cui saggio intitolato: Nicolae Balcescu e
l’Occidente. Un grande romeno sepolto a Palermo, pubblicato nella sua
opera già citata Il Risorgimento a Palermo, si rimanda. Si preferisce qui
segnalare, invece, la bibliografia su Balcescu disponibile a Palermo e
comprendente testi in lingua romena; si premette che purtroppo è una
bibliografia limitata a pochissimi testi, dei quali si forniscono anche le
collocazioni. È auspicabile che la lacuna su questo straordinario esponente
della cultura politica balcanico-mediterranea sia presto colmata da studi
più vasti e numerosi, possibilmente anche italiani.
• Berindei Dan, Pe urmele lui Nicolae Balcescu, Bucaresti 1984;
Biblioteca provinciale dei Cappuccini di Palermo; collocazione: LTT
2295
• Stan Valerin, Nicolae Balcescu: 1819 – 1852, Bucarest 1977;
Biblioteca Centrale della Regione Siciliana; collocazione: 3. 1. 6. 32
• Balcescu Nicolae, Puterea armata si arta militara la Romani, Studiu
introductivi, selectia textelor si glosar Anator Ghermaneschi, Bucarest
1990; Biblioteca Centrale della Regione Siciliana; collocazione: 3. 22.
A. 69
• Balcescu Nicolae, Scrieri alese, Bucaresti, 1973; Biblioteca Centrale
della Regione Siciliana; collocazione 4. 71. B. 76; Biblioteca
provinciale dei Cappuccini di Palermo; collocazione: LTT2294
• Horia Nestorescu – Balcesti, Dorasul Palermo: cercetari privind
descoperirea si aducerea in tara a ramasitelor parmantesti ale lui
Nicolae Balcescu, Bucaresti 2011; Biblioteca provinciale dei
Cappuccini di Palermo; collocazione SCL8947
___________
72
LE PROSPETTIVE DELLA SOCIETÁ EUROPEA
Luci e ombre
Michel Tarlowski.
Europa, dal mito alla realtà. Questa sarebbe la questione da porre per
gettare luce sull’ombra della prospettiva futura della nostra Società.
Chi è Europa? All’inizio, secondo Omero, era una regina mitologica di
Creta; nell’Iliade, dello stesso autore, è la figlia di Fenice, il capostipite del
popolo Fenicio.
Presso i Greci è una principessa fenicia, rapita e violentata da un toro.
Molte sono le interpretazioni; a ciacuno la sua. La leggenda dice che il toro
era Zeus, capo degli Dei dell’Olimpo, che si era travestito da toro.
Guardando bene, il toro è una forma di abuso, che si è espressa nella
Storia, ed Europa rappresenta la bellezza, che è stata ugualmente rivelata
dalla Storia. Qualcuno direbbe forse: «il riposo del guerriero!»
Cos’è l’Europa? Considerando l'area geografica che occupa, è evidente
che esiste una grande diversità di radici; questa diversità, che ha
contribuito alla creazione di una unità fondante dell'Europa politica e
73
multiculturale, non è facile da mettere insieme. La storia ce lo ha
dimostrato in parecchie occasioni, anche attraverso movimenti di
popolazioni generati da idee forti e bellicose.
All'ombra dei miti e alla luce della realtà, la società europea è
comunque in marcia. Le reali esigenze dei gruppi che costituiscono
l’Europa d’oggi dimostrano che, in passato, tali esigenze venivano
soddisfatte con l'annessione di un paese confinante secondo un rituale
consolidato. Guardando più da vicino le fasi che caratterizano l’inizio e la
fine della prima e della seconda guerra mondiale, emerge che, prima
dell'inizio della Prima Guerra Mondiale, l'esercito era a cavallo, e alla fine
era dotato di carri armati e di aerei; all’inizio della Seconda Guerra
mondiale l'esercito aveva carri armati e aerei, e alla fine aveva in aggiunta
anche armi nucleari.
Per il resto, fin da 1964, Stanley Kubrick ha portato sullo schermo una
riflessione. É chiaro che la ricerca si è concentrata sulle scienze, scienze
dei materiali, delle comunicazioni, scienze mediche e sociali in particolare.
Guardandole tali scienze come un progetto sociale, deve essere preso in
considerazione l’apetto visionario e le sue conseguenze.
La visione alla quale si fa riferimento tiene conto di tutte le conoscenze
acquisite dalla ricerca e messe in pratica.
Questa visione ci impone d’ascoltare e di fidarci delle nuove
generazioni di giovani, quelle che non hanno abbastanza esperienza e che
espongono le loro opinioni, il loro modo di intendere le cose, e di
comprendere la loro visione delle cose. La visione delle vecchie
generazioni sembra più limitata a causa delle esperienze maturate durante
la loro vita sociale, familiare e professionale.
Le modalità di trasferimento delle conoscenze è cambiata, si è evoluta,
nel senso che le conoscenze del passato non possono più essere trasmesse
alle generazioni successive senza che queste generazioni utilizzatrici,
queste giovani generazioni, le aggiornino, trasferendole alle generazioni
successive, ai propri figli.
Esaminando le attuali condizioni con un occhio al passato,
bisognerebbe ricordarsi di ciò che disse il defunto Presidente degli Stati
Uniti John Fitzgerald Kennedy quand’era candidato alla Casa Bianca: "E’
necessario mettere piede sulla Luna entro la fine del decennio".
Non bisogna cercare di provare se Mrs. William Sheppard ha messo o
no piede sulla Luna; il futuro lo dirà, ma il futuro che ci darà la risposta
proviene da questa innocua piccola frase, generando il mondo in cui
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viviamo: microprocessori, energia, organizzazione di progetti di ricerca a
breve, medio e lungo termine, formazione, ricerca, comunicazione, …..
Questa frase ha permesso di dotare la NASA di risorse colossali per
attuare i suoi obiettivi, generando il mondo in cui viviamo.
Si ricorda che il defunto presidente John Fitzgerald Kennedy fu il
primo Presidente che nacque nel suo secolo! [1917-1963].
In questo inizio del XXI secolo disponiamo di una mole di conoscenze
di cui le giovani e le giovanissime generazioni potranno beneficiare.
Questa conoscenza apre un mondo, nel quale le vecchie generazioni hanno
deciso di cedere il passo. È vero, si profila un conflitto tra generazioni, ma
in che modo, e sulla base di che cosa?.
Utilizzando la transizione per riflettere, è possibile percepire che questa
transizione non è un trasferimento di conoscenze generazionale di tipo
genitori-figli, ma di tipo nonni-nipoti, in un contesto in cui si affermano
sempre di più le Nanotecnologie, l’Informatica, i Computer (Intelligenza
Artificiale) e la Biologia .
Questi segmenti dello sviluppo tecnologico potranno spingere i limiti
della conoscenza filosofica, obbligando tutti ad una pausa di riflessione, di
adattamento, di comprensione, di ri-adattamento.
Così, allo stato attuale, dovrebbe posizionarsi la prospettiva della
Società europea.
Buona riflessione.
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