Sociologia Economica Il modello Fordista Il modello di organizzazione fordista ha dominato lo scenario produttivo nei paesi ad economia di mercato per gran parte del 1900. Tale modello si fondava su alcune caratteristiche ben precise: 1) Le imprese sono verticalmente integrate: tendono cioè ad accentrare al proprio interno la maggior parte della fasi che contraddistinguono un determinato processo produttivo. Per questo motivo la dimensione delle imprese tende ad essere molto estesa. 2) Le imprese sono impegnate in quella che viene definita come produzione di massa: cioè produzione di beni standardizzati, prodotti in grande quantità con macchine specializzate al fine di sfruttare le economie di scala. 3) La produzione avviene attraverso l’impiego di manodopera scarsamente qualificata utilizzata secondo i principi dell’organizzazione scientifica del lavoro (Taylor): il processo produttivo è cioè parcellizzato in funzioni semplici, ripetitive, spersonalizzate. Università di Torino (sede di Biella) cdl Servizio Sociale (a.a.2007-2008) prof. Domenico Carbone Sociologia Economica L’organizzazione del lavoro Fordista Il modello organizzativo dell’impresa fordista è definito come meccanico-burocartico e si fonda su: 1) Esercizio dell’autorità legalmente legittimata 2) Uso della razionalità operativa 3) Gli obiettivi poduttivi vengono conseguiti attraverso sottositemi operativi. Università di Torino (sede di Biella) cdl Servizio Sociale (a.a.2007-2008) prof. Domenico Carbone Sociologia Economica L’organizzazione del lavoro nel modello meccanico-burocratico L’organizzazione del lavoro del modello meccanico burocratico, tipico delle imprese fordiste si basa su alcuni principi sostenuti da Taylor. I risultati ottenuti dalle sue analisi sono stati riassunti in un modello organizzativo basato su: - Spersonalizzazione: azioni e decisioni sono collegate alle mansioni e alle funzioni e non alle singole persone - Orientamento strumentale ai fini: ogni atto deve corrispondere a scopi definiti e formalizzati. - Specializzazione: divisione netta delle mansioni in riferimento a capacità specifiche - Formalizzazione: compiti ed azioni si devono basare su procedure formalizzate e devono essere sempre documentati al fine di evitare l’arbitrarietà Università di Torino (sede di Biella) cdl Servizio Sociale (a.a.2007-2008) prof. Domenico Carbone Sociologia Economica Vantaggi e limiti del modello meccanico-burocratico Il grande vantaggio dell’organizzazione scientifica del lavoro basata sui principi del modello meccanico consiste nel creare un modello produttivo che permette una produzione standardizzata, che riduce al minimo i costi per la formazione del personale, e che è in grado di produrre in grandi quantità lo stesso prodotto a parità di fattori di produzione Tale modello, però, evidenzia anche diversi limiti: - Produce effetti di spersonalizzazione tra gli addetti - Favorisce il consolidamento di comportamenti rituali e chiusi all'interazione - Origina modelli organizzativi poco abili a gestire il cambiamento Università di Torino (sede di Biella) cdl Servizio Sociale (a.a.2007-2008) prof. Domenico Carbone Sociologia delle professioni Circolo vizioso dell'organizzazione burocratica Formalizzazione delle procedure al fine di evitare abusi Difendibilità azioni e prassi Richieste di controllo e legalità Enfasi sulla conformità e rispetto delle formalità Rigidità nella prassi ritualismo atteggiamento difensivo Stimoli esterni ed interni al cambiamento Basso livello di funzionalità nelle situazioni reali dei bisogni degli utenti Crescita esponenziale pratiche irrisolte Spazio per pratiche clientelari Insoddisfazione utenti, sperequazioni, scandali e prassi non formali Master consulenza grafologica peritale-giudiziaria e professionale Prof. Domenico Carbone Sociologia Economica La crisi del modello Fordista Agli aspetti di natura istituzionale nella gestione della regolazione economica, legati alla difficile sostenibilità dello stato sociale keynesiano, vanno aggiunti anche dei fattori “contingenti” di carattere più strettamente economico che incidono profondamente nella crisi del modello produttivo fordista Questi aspetti riguardano: La saturazione dei mercati nazionali per i prodotti industriali standardizzati Peso crescente della concorrenza dei paesi di nuova industrializzazione Crisi energetica dovuta alla crescita del prezzo del petrolio Progressiva ripresa e intensificazione del conflitto industriale Università di Torino (sede di Biella) cdl Servizio Sociale (a.a.2007-2008) prof. Domenico Carbone Sociologia Economica L’affermazione di modelli produttivi flessibili A partire dagli anni ’70, quindi, i presupposti politici, economici, sociali e organizzativi che avevano sostenuto il modello fordista vengono meno. Le risposte di regolazione sociale a questa crisi sono, come si è visto fortemente differenziate (es. l’affermazione di modelli di regolazione pluralista, neocorporativa, e l’orientamento differenziato dei sistemi di welfare) Anche da un punto di vista strettamente economico e produttivo si riscontra un elevato numero di risposte e direzioni di cambiamento. Tuttavia un elemento comune a tutte le trasformazioni riguarda la progressiva affermazione di modelli organizzati della produzione centrati sulla flessibilità. Le imprese e i gli attori economici sono chiamati, cioè, a dotarsi di strumenti in grado di garantirgli un adattamento continuo e costante alle condizioni di un mercato sempre più destandardizzato I principali ambiti in cui si esprime chiaramente questa tendenza sono: - La (ri)affermazione di modelli produttivi basati sull’economia diffusa - La trasformazione organizzativa delle grandi imprese - La (ri)affermazione dell’economia informale Università di Torino (sede di Biella) cdl Servizio Sociale (a.a.2007-2008) prof. Domenico Carbone Sociologia Economica L’analisi delle aree ad economia diffusa La ricerca sull’ “economa diffusa” – cioè non concentrata nelle grandi agglomerazioni urbane e in unità produttive di ampie dimensioni – ha rappresentato, fin dall’inizio, un campo di indagine caratterizzato dalla convergenza tra discipline diverse (sociologia, economia, antropologia, storia), impegnate in uno sforzo interpretativo che si è concentrato sui processi di costruzione sociale del mercato Le zone di piccola impresa – ed in particolare i “distretti industriali” – sono, infatti, dei sistemi di produzione territorialmente circoscritti in cui gli aspetti economici e sociali si compenetrano profondamente. L'organizzazione produttiva, all’interno di questi sistemi risulta strettamente legata alle caratteristiche istituzionali di comunità locali definite storicamente e spazialmente. Ne consegue che lo studio del contesto sociale costituisce parte integrante della spiegazione del successo economico di queste zone Il contributo dato dalla sociologia economica , ma non solo da essa, nell’analisi delle aree ad economia diffusa ha consentito di fare maggiore chiarezza sulle logiche sociali e territoriali che hanno sorretto e alimentato una crescita che, per modalità e intensità, risultava piuttosto inusuale alla luce degli schemi analitici prevalenti, soprattutto in economia, fino alla metà degli anni Settanta. Università di Torino (sede di Biella) cdl Servizio Sociale (a.a.2007-2008) prof. Domenico Carbone Sociologia Economica La crescita economica della Terza Italia Nelle analisi a livello internazionale sulle aree ad economia diffusa e sui distretti industriali, un ruolo di primo piano spetta agli studi condotti in Italia dove a partire dalla seconda metà degli anni ’70 le regioni del Centro e del Nord-Est si sono distinte per significativi processi di crescita e sviluppo centrati proprio sull’economia diffusa. Tale dinamismo è sottolineato da alcuni dati macro economici: Nonostante la crisi, durante gli anni Settanta l’occupazione industriale cresce, in Italia di 880 mila nuove unità. Il 42% di questi neoccupati, però, si colloca nelle aziende fino a 10 addetti, mentre un altro 49% viene occupato nelle aziende tra i 10 e i 49 addetti Gran parte del dinamismo occupazionale e produttivo si sviluppa nelle regioni della Terza Italia. In esse si concentra, infatti, quasi il 60% della nuova occupazione e la presenza delle piccole imprese domina il panorama economico di queste regione. Le unità fino a 50 addetti, infatti, occupano quasi il 60% della forza lavoro attiva nell’industria e la quota sale al 90% considerando quelle al di sotto dei 500 addetti Università di Torino (sede di Biella) cdl Servizio Sociale (a.a.2007-2008) prof. Domenico Carbone Sociologia Economica La (ri)scoperta della Terza Italia Nei primi decenni dello sviluppo postbellico la permanenza nel sistema produttivo italiano di un elevato numero di piccole imprese, operanti nei diversi settori di attività, era letta per lo più come una manifestazione di arretratezza economica. Le aziende minori erano associate, infatti, a bassi livelli tecnologici e salariali, a condizioni di sfruttamento della manodopera e di assenza di tutela sindacale. In altri termini, erano viste per lo più come marginali oppure come dipendenti dal decentramento produttivo delle grandi industrie: L’attenzione degli studiosi, di conseguenza, tendeva a concentrarsi su cosa avveniva al “centro” dello sviluppo capitalistico, nel cuore delle grandi fabbriche del Triangolo industriale. Oppure alla “periferia”, laddove si riscontravano condizioni di mancato sviluppo ed elevata disoccupazione: le regioni del Mezzogiorno. Negli anni Settanta questo quadro inizia ad incrinarsi proprio grazie al dinamismo mostrato dalle piccole imprese e alla crisi che investe le grandi industrie del NordOvest. Si (ri)scopre, quindi, un zona del paese, ignorata fino ad allora dagli studi socio-economici, che manifesta elevati processi di crescita e sviluppo economico fondati su un modello produttivo diverso rispetto a quello che fino ad allora avevo sostenuto l’economia capitalistica Università di Torino (sede di Biella) cdl Servizio Sociale (a.a.2007-2008) prof. Domenico Carbone Sociologia Economica Le caratteristiche del sistema produttivo della Terza Italia Analizzando il profilo industriale di queste regioni si nota una specializzazione produttiva in settori “tradizionali” (mobilio, tessile, calzature, ecc.) oppure anche se meno spesso “moderni” (meccanica, elettronica ecc.). L’aspetto più importante riguarda, però, la scomposizione del processo produttivo (per fasi e componenti) che permette una elevata divisione del lavoro tra le imprese. Quando questa divisione del lavoro assume connotati di forte specializzazione e integrazione settoriale si hanno dei veri e propri “distretti industriali” Nei distretti industriali si verifica, cioè, un’agglomerazione di piccole e medie imprese legate tra loro da una fitta rete di rapporti, basata su una miscela di cooperazione (tra imprenditori e lavoratori, tra imprese committenti e subfornitrici) e competizione (tra imprese che si situano nella stessa “fase” del processo produttivo). Nelle aree ad economia diffusa, quindi, l’unità di analisi più appropriata per comprendere i processi produttivi non è l’impresa a sé stante ma il sistema delle imprese . In queste aree territoriali, infatti, si respira quella che Marshall chiamava un’“atmosfera industriale” che consente di beneficiare di una serie di “economie esterne” alle singole imprese ma “interne” sistema nel suo complesso. Università di Torino (sede di Biella) cdl Servizio Sociale (a.a.2007-2008) prof. Domenico Carbone Sociologia Economica Cos’è un distretto industriale Un distretto industriale può essere definito come un’entità socioterritoriale caratterizzata dalla compresenza attiva di una comunità di persone e di una popolazione di imprese industriali, presenti in un’area territoriale circoscritta, “naturalisticamente” e storicamente determinata. Un elemento fondamentale che contraddistingue i distretti è rappresentato dal patrimonio poco formalizzato di conoscenze tacite “contestualizzate”. Ovvero di conoscenze che affondano le loro radici nella storia della comunità e garantiscono una capacità produttiva ed innovativa a carattere diffuso e incrementale Si tratta per lo più di un “saper fare” di tipo artigianale, acquisito in famiglia o comunque in ambito locale, prevalentemente attraverso il learning by doing. Questo patrimonio cognitivo riguarda non solo le competenze tecniche (abilità manuali, conoscenze dei prodotti e dei mercati, ecc.), ma anche quelle sociali, ovvero le norme, le modalità comunicative e relazionali che servono per muoversi in maniera appropriata nelle reti sociali presenti nel sistema produttivo. Università di Torino (sede di Biella) cdl Servizio Sociale (a.a.2007-2008) prof. Domenico Carbone Sociologia Economica Le radici sociali dello sviluppo dei D.I.: il rapporto città-campagna Lo sviluppo economico dei distretti industriali è stato possibile grazie all’evoluzione tecnologica e a quella di mercato che hanno favorito progressivamente un’organizzazione produttiva più flessibile, diversa da quella del modello fordista della grande industria. Tuttavia già i primi studi sui distretti industriali hanno evidenziato l’importanza dei fattori “noneconomici” alla base del dinamismo industriale delle regioni del Centro e del NordEst. Tra questi n ruolo di rilievo, ad esempio, è stato attribuito all’intreccio esistente tra città e campagna Sotto questo aspetto le aree della Terza Italia si contraddistinguono per l’esistenza nel territorio di una “campagna urbanizzata”: una rete policentrica costituita da piccole città a poca distanza l’una dalle altre, dotate di antiche consuetudini artigianali e mercantili. Questo modello di insediamento territoriale, derivante in parte dalla tradizione mezzadrile, ha garantito una dispersione delle industrie sul territorio. Questo si configura, quindi, un complesso reticolo di insediamenti produttivi e abitativi. Tale configurazione permette, quindi una diffusione nel territorio sia del patrimonio cognitivo utile alla produzione, sia una diffusione delle risorse e dei profitti derivanti dalla produzione stessa Università di Torino (sede di Biella) cdl Servizio Sociale (a.a.2007-2008) prof. Domenico Carbone Sociologia Economica Le radici sociali dello sviluppo dei D.I.: la famiglia estesa Un altro elemento non economico che ha supportato lo sviluppo della Terza Italia è rappresentato dalla significativa diffusione, in queste aree, di un modello familiare fondato sulla famiglia estesa, Tale modello è caratterizzato dalla compresenza di più nuclei all’interno della stessa unità abitativa, legati, oltre che da rapporti di parentela, anche dalla compartecipazione ad una attività produttiva. Questo tipo di famiglia, soprattutto quella mezzadrile, ha giocato un ruolo di primo piano nel forgiare una mentalità – fatta di duro lavoro, disciplina, risparmio, ecc. favorendo, quindi, la formazione di un mercato del lavoro flessibile e la diffusione della microimprenditorialità La flessibilità resa possibile dall'esistenza di solidi reticoli familiari è stata importante, quindi, non solo nelle funzioni svolte sul piano economico (microaccumulazioni di capitale, abbassamento dei costi di riproduzione della forza lavoro, composizione di una pluralità di redditi, ecc.) ma anche su quello motivazionale e culturale (ad es. nella socializzazione al lavoro e al mercato) Le dinamiche sociali e culturali sottese alla famiglia estesa si sono rivelate, quindi, in una risorsa competitiva fondamentale per i sistemi di piccola impresa. Università di Torino (sede di Biella) cdl Servizio Sociale (a.a.2007-2008) prof. Domenico Carbone Sociologia Economica Le radici sociali dello sviluppo dei D.I.: le subculture politico-territoriali (1) Altro elemento del contesto sociale all’interno del quale si sono sviluppati i distretti industriali in Italia è rappresentato dalla presenza nel territorio della Terza Italia di subculture politiche . Con tale termine si intende: “un particolare sistema politico locale, caratterizzato da un elevato grado di consenso per una determinata forza locale e da una elevata capacità di aggregazione e mediazione dei diversi interessi a livello locale. Questo presuppone l'esistenza di una fitta rete istituzionale (partiti, chiesa, gruppi di interesse, strutture assistenziali, culturali, ricreative) coordinata dalla forza dominante, che controlla anche il governo locale e tiene i rapporti con il sistema politico centrale. Attraverso questa rete, non solo si riproduce un'identità politica particolare, ma si contribuisce anche all'accordo locale tra i diversi interessi” Nella Terza Italia le subculture politiche dominanti fino agli anni ’90 sono state: quella comunista nel Centro Italia e quella cattolica nel NordEst, Nonostante le differenze ideologiche, l’elemento che accomuna queste due subculture è la "difesa della società locale", a fronte della destabilizzazione degli equilibri sociali tradizionali indotta dalla penetrazione del mercato e dello stato nazionale alla fine del 1800. Si tratta, in altre parole, di reazioni volte a contenere i processi di disintegrazione sociale e di proletarizzazione, attraverso la difesa delle condizioni di vita dei ceti più deboli e la mediazione degli interessi delle varie classi a livello locale, Università di Torino (sede di Biella) cdl Servizio Sociale (a.a.2007-2008) prof. Domenico Carbone Sociologia Economica Le radici sociali dello sviluppo dei D.I.: le subculture politico-territoriali (2) La subcultura bianca e quella rossa hanno contribuito durante tutto il 1900 alla formazione ed alla persistenza di quel contesto sociale e culturale basato sulla peculiare combinazione di componenti tradizionali e moderne Da una parte hanno preservato le comunità locali ed hanno aiutato a limitare l’erosione di rapporti produttivi basati sul lavoro autonomo sia nei piccoli centri (artigianato) che in campagna (mezzadri, piccoli contadini). In secondo luogo, Inoltre la forte adesione ideologica e culturale ad una comune visione del mondo ha permesso alla politica di essere più autonoma dagli interessi individuali e familiari, e più legata alla difesa di interessi collettivi, anche se con una forte connotazione localistica. La presenza di una subcultura politica ha consentito, quindi, una migliore organizzazione e mediazione degli interessi, favorendo uno stile di relazioni industriali e un tipo di regolazione politica che sono risultati importanti per l'integrazione della comunità locale. Attraverso la collaborazione tra imprenditori e lavoratori e una certa redistribuzione della ricchezza, è stata ostacolata la polarizzazione delle classi e la radicalizzazione del conflitto sociale, agevolando così la riproduzione del consenso verso un modello di sviluppo a vantaggio dell’intera comunità locale Università di Torino (sede di Biella) cdl Servizio Sociale (a.a.2007-2008) prof. Domenico Carbone Sociologia Economica La specificità della regolazione sociale nella Terza Italia Le aree di piccola impresa hanno visto un’originale combinazione di diversi principi di regolazione: Il mercato e la competizione sono stati moderati da elementi di reciprocità e da solidarietà collettive a base comunitaria, nonché soprattutto nelle regioni del Centro, da forme di regolazione politica che hanno favorito la compresenza di integrazione sociale e sviluppo economico. Il contributo dei governi locali è stato di indubbia rilevanza. Governando pragmaticamente il processo di crescita - fornendo beni collettivi che hanno ridotto i costi, tanto per gli imprenditori che per i lavoratori (attraverso ad esempio misure di sostegno allo sviluppo e politiche sociali) - le politiche locali hanno reso possibile un compromesso sociale basato da un lato sull'elevata flessibilità dell'economia e dall'altro sul controllo dei costi e la redistribuzione dei benefici portati dallo sviluppo industriale. In questo senso, le relazioni economiche sono state influenzate da meccanismi sociali e politici che hanno limitato il ruolo del mercato, ma in tal modo esse hanno favorito la flessibilità e la capacità di innovazione dell’economia locale Università di Torino (sede di Biella) cdl Servizio Sociale (a.a.2007-2008) prof. Domenico Carbone Sociologia Economica La trasformazione delle grandi imprese (1) A causa delle trasformazioni economiche, produttive e sociali intervenute durante gli anni ’70 che causano instabilità e frammentazione nei mercati, anche la produzione industriale su larga scala viene riorganizzata in una prospettiva di maggiore flessibilità e capacità di adattamento all’imprevedibilità del mercato I cambiamenti più importanti riguardano: Il decentramento dell’autorità (decisionale e operativa): che consiste nell’avvicinare il più possibile le unità operative ai mercati in modo da monitorare costantemente i cambiamenti e le trasformazioni della domanda. Le unità operative acquisiscono, in questo scenario organizzativo, ampia autonomia e l’impresa si trasforma gradualmente da un assetto verticalmente integrato ad un assetto divisionale (es. le holding) Affermazione del principio produttivo basato sul just in time: capacità di rispondere in tempo reale alle mutate richieste della domanda attraverso servizi e prodotti ad hoc. Questo principio comporta una riorganizzazione produttiva che prevede il superamento della logica dell’accumulo di scorte e il superamento della mano d’opera dequalificata impiegata alla catena di montaggio. Università di Torino (sede di Biella) cdl Servizio Sociale (a.a.2007-2008) prof. Domenico Carbone Sociologia Economica La trasformazione delle grandi imprese (2) Potenziamento delle capacità di apprendimento e comunicazione: a differenza del modello fordista la produzione non si svolge più in reparti separati in cui gli operatori di una parte non conoscono ciò che avviene altrove. Gli operatori impiegati nell’impresa flessibile, al contrario sono chiamati ad operare in una situazione dinamica in cui le barriere tra i vari reparti tendono a scomparire. Ne deriva che l’intero processo produttivo si basa su un continuo scambio di informazioni tra i vari reparti in cui diventa fondamentale la capacità degli operatori di apprendere, comprendere e comunicare con gli altri. Riorganizzazione dei rapporti esterni: la frammentazione del processo produttivo determina, sempre più spesso, il ricorso all’esternalizzazione di alcune fasi della produzione. Si vengono così a creare nuovi spazi di interazione tra aziende caratterizzati da rapporti di sub-fornitura, joint-venture, R&S, etc. Aumentata dipendenza dall’ambiente: diversamente dalle grandi imprese fordiste le imprese di dimensioni minori hanno minori possibilità di indirizzare il mercato e sono, quindi, maggiormente esposte alle dinamiche istituzionali che caratterizzano il contesto sociale e politico all’interno del quale agiscono. Università di Torino (sede di Biella) cdl Servizio Sociale (a.a.2007-2008) prof. Domenico Carbone Sociologia Economica L’affermazione dell’impresa-rete L’impresa fordista tende a trasformarsi gradualmente in una imprese-rete, vale a dire in una impresa all’interno della quale il processo produttivo è distribuito tra un certo numero di attori (interni ed esterni) che godono di elevati gradi di autonomia decisionale ed operativa. Nel mutato scenario economico e produttivo, non c’è più spazio per la singola impresa per decidere i propri obiettivi ed imporli al mercato. È questo ultimo, invece, che impone alle imprese continui processi di aggiustamento. L’organizzazione “a rete” in questo scenario garantisce una maggiore velocità di aggiustamento perché permette di distribuire i rischi su un più ampio numero di soggetti investiti da responsabilità limitate. Le reti assolvono meglio i compiti in un sistema produttivo flessibile perché la collaborazione tra i vari nodi si basa su legami formali, ma molto spesso informali che non richiede una dettagliata definizione su un piano contrattuale dei rapporti tra le parti coinvolte. Questo evita la lentezza e la rigidità tipiche di una organizzazione burocratico-gerarchica Università di Torino (sede di Biella) cdl Servizio Sociale (a.a.2007-2008) prof. Domenico Carbone Sociologia Economica La (ri)affermazione dell’economia informale Le difficoltà del fordismo e le spinte al ridimensionamento della protezione attuata dal welfare state hanno attirato l’attenzione anche sull’economia informale come meccanismo di adattamento alla nuova situazione. Con il termine economia informale ci si riferisce a tutte quelle attività di produzione e distribuzione di beni e servizi che sfuggono alla contabilità nazionale. Tale definizione sottintende però almeno tre tipi diversi di economia informale: L’economia criminale: in cui la produzione di beni e servizi illegali avviene secondo modalità proibite dalla legge L’economia nascosta: in cui la produzione di beni e servizi leciti avviene secondo modalità che violano, almeno in parte, la legge (es. lavoro in nero, evasione fiscale etc.) L’economia domestica o comunitaria: in cui la produzione di beni e servizi leciti avviene secondo modalità che non violano, la legge. Tuttavia i prodotti e i servizi non sono destinati al mercato, ma all’autoconsumo o al consumo di un gruppo sociale Università di Torino (sede di Biella) cdl Servizio Sociale (a.a.2007-2008) prof. Domenico Carbone Sociologia Economica La crescita dell’economia informale nel post-fordismo (1) Alla base della crescita dell’economia informale a partire dagli anni ’70 ci sono diverse concause di natura produttiva e regolativa. Anzitutto il cambiamento nel paradigma organizzativo con il passaggio dall’industria fordista a quella flessibile permette l’impiego flessibile di mano d’opera che, in alcuni, casi può essere utilizzata in maniera illecita (lavoro in nero). Ciò avviene, da una parte, perché la domanda di lavoro diventa molto più instabile e variabile nel tempo e, dall’altra perché la forza lavoro nelle piccole e medie imprese è meno sindacalizzata e quindi più esposta alla “deregolazione” dei rapporti di lavoro Inoltre la maggiore variabilità e frammentazione dei mercati che non sono più controllati e diretti dalla grandi imprese crea più spazi per produzioni flessibili e specializzate che possono essere sfruttati dall’economia informale. In questo processo un ruolo importante è giocato dalla diffusione della tecnologia produttiva e di quella di comunicazione e trasporto a basso costo che permettono la delocalizzazione produttiva attuata, spesso, per sfruttare le opportunità di risparmio offerte da contesti regolativi deboli, soprattutto nel mercato del lavoro. Università di Torino (sede di Biella) cdl Servizio Sociale (a.a.2007-2008) prof. Domenico Carbone Sociologia Economica La crescita dell’economia informale nel post-fordismo (2) Alla diffusione dell’economia informale ha contribuito anche la crisi del welfare state. Da una parte la riduzione della spesa pubblica destinata alle politiche sociali ha inciso anche sul grado di copertura di alcuni bisogni sociali la cui socializzazione è stata delegata, in tutto o in parte alla famiglia e alla comunità locale. Dall’altra parte l’affermazione di un sistema di bisogni sociali de-standardizzati ha trovato nell’apparato burocratico del welfare state un interlocutore inadatto a gestire i nuovi rischi Infine va considerato anche il ruolo giocato dalla diffusione dell’economia dei servizi nelle società ad economia di mercato. Nonostante le differenze tra i diversi servizi (alla persona, alle imprese, con basse competenze, tecnologicamente avanzate, etc.) un elemento comune a tutti è il basso grado di produttività incrementale (malattia dei costi di Baumol). La malattia dei costi che caratterizza il settore dei servizi ha generato: 1) Crescita dell’autoproduzione di servizi attraverso l’economia informale (es. fai da te) nei contesto più regolarizzati 2) Aumento delle disparità retributive e comparsa del fenomeno dei working-poor nei contesti più deregolarizzati Università di Torino (sede di Biella) cdl Servizio Sociale (a.a.2007-2008) prof. Domenico Carbone Sociologia Economica La “via alta” e la “via bassa” della flessibilità L’analisi dei modelli produttivi flessibili ha messo in evidenza che, di fronte alla crisi del fordismo le soluzioni sono state fortemente diversificate. In generale si può distinguere tra un percorso di cambiamenti che segue la “via alta” della flessibilità e un percorso che invece segue una “via bassa” La via alta è caratterizzata da reti di imprese e/o imprese-rete che sfruttano la flessibilità dei mercati in maniera dinamica contribuendo a creare condizioni produttive innovative e di qualità che sfruttano le potenzialità del contesto locale, garantendo contemporaneamente crescita e sviluppo la per comunità. Questa via necessita di una infrastruttura socio-istituzionale che nono si crea ex-novo ma è il risultato di una costruzione sociale storicamente definita e non generalizzabile La via bassa invece sfrutta soprattutto la flessibilità lavorativa per garantirsi una competitività che fa leva sull’abbassamento dei prezzi dei prodotti e dei servizi a discapito, anche, della qualità, sfruttando anche le potenzialità offerte dall’economia informale. Università di Torino (sede di Biella) cdl Servizio Sociale (a.a.2007-2008) prof. Domenico Carbone