Le novità scientifiche presentate al V Convegno Nazionale Mitocon

Le novità scientifiche presentate al
V Convegno Nazionale Mitocon
5-6 giugno 2015, Bologna
Nelle sessioni scientifiche del 5° Convegno Nazionale Mitocon di giugno scorso a Bologna sono stati
numerosi gli esperti che hanno fornito informazioni preziose sull’evoluzione della ricerca sulle malattie
mitocondriali ed hanno fatto un punto sulle ultime novità. Da questo quadro emerge in maniera evidente
un trend: siamo passati dalla fase dell’analisi del problema a quello della ricerca delle soluzioni.
Questo segnale è molto importante perché significa che grandi passi in avanti sono stati fatti sulla
comprensione delle patologie mitocondriali e si è finalmente in condizione di iniziare a ragionare sul
versante della terapie. Durante il convegno sono state presentate numerose idee a diversi stadi di sviluppo,
ma tutte allineate nel dare fiducia e speranza che stiamo sulla strada giusta. Lunga, ma giusta.
Nel seguito vengono riepilogati le principali linee di sviluppo che si stanno perseguendo nei vari centri del
mondo sia nel campo delle terapie che nel capo della diagnostica delle malattie mitocondriali.
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Vecchie conoscenze, nuove prospettive: i metaboliti dell’idebenone
Il prof. Paolo Bernardi, Università di Padova, da anni studia gli effetti degli
antiossidanti nelle malattie mitocondriali. Nel suo intervento al Convegno ha
presentato una nuova ipotesi di lavoro che prende le mosse dall’idea che ogni
antiossidante ha un duplice effetto, uno benefico (antiossidante) e l’altro non
voluto ma inevitabile (ossidante). Analizzando il caso dell’idebenone, il suo gruppo
ha notato che nel ciclo di assorbimento dell’idebenone vengono a formarsi dei
composti tossici antagonisti dell’effetto benefico dell’antiossidante (rotenone). Per
evitare questi effetti il gruppo di ricerca ha provato ad indagare gli effetti di uno dei
metaboliti dell’idebenone che riducesse la produzione dei prodotti tossici
mantenendo l’efficacia antiossidante voluta. Tra questi composti (QSx) ne sono stati
individuati alcuni che sembrano avere queste caratteristiche. I dati sia in vitro che in
vivo (zebrafish) sembrano molto incoraggianti.
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Prevenzione delle malattie mitocondriali attraverso una nuova tecnica di fecondazione
assistita quando il difetto è nel DNA mitocondriale (m-DNA)
Dopo un iter durato molti anni, nel Regno Unito, come illustrato dalla
dott.ssa Lyndey Craven, University of Newcastle upon Tyne, il
Parlamento nazionale ha approvato la prosecuzione dell’approccio
terapeutico del cosiddetto “trapianto di nucleo”, nei casi in cui il
difetto sia localizzato nel DNA mitocondriale, che permette di
azzerare il rischio di generare un figlio affetto dalla malattia.
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Ciò è stato reso possibile utilizzando una tecnica particolare
di fecondazione assistita, che comporta l’uso di 2 ovuli ed uno
spermatozoo (tecnica cosiddetta “Trio”) che prevede che
dall’ovulo della madre venga estratto il DNA nucleare, che
contiene la stragrande quantità del patrimonio genetico
umano (99%) e regola tutte le caratteristiche dell’individuo
che viene impiantato nel citoplasma dell’ovulo di una
donatrice, a cui è stato estratto il DNA nucleare, ma che
contiene i mitocondri “sani” per poi farlo fecondare con il
seme del padre. Al momento la sperimentazione clinica è stata realizzata negli animali con buoni risultati ed
oggi si è pronti per procedere anche con gli esseri umani.
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Incremento selettivo dei mitocondri “sani” rispetto a quelli “mutati”
Un altro approccio terapeutico è quello di trovare un modo per poter selezionare e distruggere i mitocondri
con DNA mutato e lasciare la libera replicazione dei
mitocondri sani, in modo che in un certo tempo si
possano avere nelle cellule solo mitocondri sani.
Questo approccio sembra particolarmente efficace ed
ha già trovato delle importanti conferme a livello
cellulare. Al convegno di giugno il Dr Michal Minchuk,
che lavora al Medical Research Council (UK), ha
presentato i risultati preliminari ma incoraggianti del
lavoro che sta realizzando nel suo laboratorio che
prevede la costruzione di “forbici molecolari” che
riconoscono il punto in cui è presente una
determinata mutazione genetica e riescono in quel
punto a fissarsi al DNA mutato ed a tagliarlo. A quel
punto il mitocondrio con il DNA mozzato degenera
velocemente con il risultato che si riprodurranno e
verranno trasmessi alle nuove cellule solo i mitocondri “sani”, garantendo una situazione di normalità
metabolica. Attualmente la ricerca sta indagando sul come utilizzare queste “forbici” molecolari, in quali
organi e con quale efficienza di trasporto all’interno dei mitocondri.
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L’incremento della popolazione dei mitocondri per compensare le inefficienze dovute alle
mutazioni
Un’altra strategia che sembra promettente nella ricerca di terapie per le malattie mitocondriali è quella che
prevede di incrementare la produzione di più mitocondri (mitocondriogenesi). In questo modo l’aumento
del loro numero può compensare la ridotta funzionalità dei mitocondri “mutati”. Diversi gruppi in giro per
l’Europa e gli Stati Uniti si sta interessando a questo filone terapeutico.
Tra questi diversi gruppi di lavoro stanno lavorando allo studio della nicotinamide riboside (una forma della
vitamina B3) che sembra essere promettente per lo stimolo della mitocondriogenesi. Attualmente sono in
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corso degli studi sui modelli animali (topi) e a breve dovrebbero partire dei trials clinici (sono al lavoro
gruppi inglesi, finlandesi ed italiani).
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Terapia genetica “light”: Impiego di piccoli peptidi
Le mutazioni genetiche possono essere patologiche quando il DNA che dovrebbe sintetizzare
qualche proteina, a causa del suo difetto, non riesce a
produrre quella giusta. Questa mancanza può
rallentare o bloccare determinati processi biochimici
cellulari il che produce gli effetti che noi vediamo nei
malati. Ci sono diversi modi per risolvere questo
problema genetico. Uno è quello di modificare il DNA
e cancellare la mutazione ripristinando la corretta
sequenza genica. Un altro modo per risolvere il
problema è quello di riuscire ad inserire nelle cellule
un pezzo di DNA in grado di produrre la proteina mancante. Nell’alveo di quest’ultimo schema
terapeutico si inserisce lo studio della prof.ssa Giulia
D’Amati dell’Università La Sapienza di Roma, che
prevede l’impiego di piccoli peptidi del tRNA sintetasi
che, se inseriti nelle cellule, potrebbero “fabbricare”
correttamente le proteine mancanti, risolvendo il
problema. Attualmente gli studi su cellule sono stati
condotti su linee cellulari di pazienti affetti da MELAS o
MERRF, ma la tecnica potrebbe funzionare in linea di
principio per molte altre sindromi. Attualmente la
ricerca ha dimostrato la fattibilità dell’approccio
terapeutico, e deve ora affrontare il problema del
trasporto di queste piccole molecole dentro i
mitocondri. Esistono numerose tecnologie a riguardo
che sono in fase di sperimentazione ed i prossimi passi
saranno quelli di individuare quelle più efficaci.
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Terapie per la MNGIE
Per quanto riguarda le terapie per patologie originate da
difetti del DNA nucleare è importante citare il caso della
MNGIE. Ancorché molto rara, i ricercatori hanno individuato
ben due nuove possibili terapie per questa malattia.
La prima possibilità terapeutica a cui si sta lavorando è quella
genetica e consiste nell’invio dell’enzima mancante a causa del difetto genetico nel fegato. Il fegato infatti
gioca un ruolo fondamentale in questa patologia, per la sua funzione di “filtro”. Nella MNGIE infatti,
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l’enzima mancante impedisce al corpo di liberarsi di alcuni metaboliti tossici che si accumulano appunto nel
fegato. Se si riuscisse a far arrivare nelle cellule epatiche attraverso un vettore virale il pezzo di DNA che
sintetizza l’enzima mancante il fegato riuscirebbe velocemente a “ripulire” il sangue dal metabolita. Alla
terapia genica per la MNGIE stanno lavorando sia il prof. Massimo Zeviani, MRC Cambridge (UK) che la
dott.ssa Costanza Lamperti dell’IRCSS Besta di Milano, che in vitro e nei modelli animali hanno ottenuto
risultati molto soddisfacenti e si è in attesa di avviare la sperimentazione sull’uomo.
Il secondo approccio è quello completamente diverso, e consiste nel trapianto di fegato. Il prof. Antonio
Daniele Pinna dell’Università di Bologna con la sua squadra ha effettuato il trapianto di fegato ad un
paziente in gravi condizioni di salute alla fine dello scorso anno. L’operazione è stata un successo ed il
decorso attualmente lascia ben sperare. In questi ed in altri casi il trapianto del fegato risulta la soluzione
migliore perché sarebbe risolutivo, ad esempio rispetto alla terapia genica, nei casi di pazienti con
funzionalità epatica compromessa o parzialmente compromessa dal decorso della malattia.
L’approccio risolutivo del trapianto, ancora una volta di fegato, è stato adottato per la cura encefalopatia
etil-malonica che, analogamente al caso della MNGIE, i cui pazienti accumulano un metabolita tossico nel
fegato. Al convegno Mitocon ne ha parlato la dott.ssa Dario Diodato dell’Ospedale Pediatrico Bambin Gesù,
dove ormai da quasi un anno è stato trapiantato un piccolo paziente. Il trapianto ha avuto esito positivo ed
il piccolo è riuscito in questo modo a compensare completamente il difetto genetico.
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Iperespressione della proteina OPA1
Un altro approccio, molto promettente ma ancora lontano dall’applicabilità nell’essere umano, è quello su
cui si stanno concentrando gli studi del dott. Luca Scorrano dell’università di Padova e della collaborazione
di vari centri nell’ambito del progetto Telethon sulle terapie, per altro da poco pubblicati su “Cell
metabolism”, una delle più influenti riviste scientifiche al mondo. Gli studi sono così rilevanti da averne
conquistato la copertina. Nello specifico gli studi su OPA1 hanno indagato il suo ruolo vita cellulare, che è
rilevante sia nei processi che regolano la morte
cellulare che nel consumo del combustibile
prodotto dal mitocondrio. Agendo sulla
sovraespressione di OPA1 (cioè facendogli
produrre più del normale le proteine a cui è
deputato) i ricercatori hanno verificato un
miglioramento dello stato di salute negli animali di
laboratorio. Il miglioramento è poi stato ottenuto
per due diverse malattie mitocondriali, il che
significa che si apre una nuova strada nelle terapie
delle malattie mitocondriali rispetto alla classica
terapia genica: anziché agire su difetti genetici specifici di ciascuna patologia, si può lavorare su un
meccanismo comune e ottenere degli evidenti benefici per un numero maggiore di patologie. Il lavoro di
Scorrano e del team del progetto Telethon ha quindi fatto luce su un meccanismo terapeutico che ora deve
essere utilizzato, andando a ricercare dei farmaci in grado di incrementare direttamente l’attivazione del
gene o l’attività della proteina che esso produce, o agire più a monte, trovando il modo di intervenire sulle
molecole che regolano il funzionamento di OPA1. Il lavoro da fare è ancora molto, ma la direzione sembra
essere tra le più promettenti.
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Conoscere i geni per curare le malattie
Per trovare le terapie delle volte i percorsi sono tortuosi e anche indiretti. E talvolta per superare gli
ostacoli è più conveniente aggirarli. Uno dei modi per aggirare gli ostacoli alle terapie è quello di scoprire
nuove malattie o identificare nuovi geni responsabili delle
patologie. Al Convegno Mitocon sono stati presentati alcuni
casi importanti e rappresentativi che sono sintetizzati qui di
seguito.
Per quanto riguarda le tecniche di diagnosi, l’avvento delle
nuove tecniche di sequenziamento genetico hanno aperto
delle prospettive molto interessanti alla possibilità di
individuare i geni responsabili della malattia. Daniele Ghezzi,
del Besta di Milano, ha fatto un punto sull’esperienza
maturata nel corso degli ultimi anni, presentando lo schema
generale di approccio alla ricerca del difetto genetico.
Secondo lo schema adottato al Besta, che ricalca quello adottato nella stragrande maggioranza dei centri
che si occupano di diagnosi mitocondriali nel mondo, la prima verifica che viene effettuata è lo screening
delle mutazioni del DNA mitocondriale. Si inizia dal DNA mitocondriale perché è molto più semplice e
perché ormai si conosce praticamente tutto dei difetti genetici mitocondriali. Se questa analisi ha dato esito
positivo il paziente avrà la sua diagnosi genetica, altrimenti, una volta che è stata esclusa l’ipotesi che la
malattia mitocondriale deriva dal DNA mitocondriale, si passa all’analisi del DNA nucleare. Poiché le analisi
sul DNA nucleare hanno una complessità notevolmente superiore, i primo step dell’analisi del DNA
nucleare viene fatto per accertare la
presenza di mutazioni all’interno di un
“pannello” di geni selezionati, tra quelli che
si manifestano con più frequenza. Se anche
questo screening non ha effetto, si passa al
sequenziamento dell’esoma (che è la piccola
parte del DNA che però è responsabile della
codifica della maggior parte delle proteine
che interviene nei processi cellulari). A
questo punto però la ricerca della
mutazione genetica va per tentativi, perché
l’indagine la maggior parte delle volte
conduce alla scoperta di un nuovo gene
malattia. Laddove infine anche con quest’ultima tecnica non si riesce a trovare la mutazione responsabile
della patologia, si passa a sequenziare l’intero genoma, cosa che al momento non fa parte delle routine di
indagine diagnostica standard.
Un modo per potenziare la ricerca delle nuove mutazioni nell’esoma è stato illustrato dalla dott.ssa Anna
De Grassi, dell’Università di Bari. La ricerca delle mutazioni è sempre difficile perché le mutazioni sono
sempre rispetto ad uno “standard”. Ora, per potenziare questa ricerca e diminuire i margini di incertezza la
De Grassi, anche grazie ad un finanziamento di Mitocon, ha sottoposto ad analisi esomica non solo i tessuti
del paziente, ma anche quello dei suoi genitori (tecnica cosiddetta “Trio”). Questo ha permesso di avere
uno “standard” molto più attinente al caso specifico del paziente, diminuendo i tempi di analisi e riuscendo
ad individuare con più facilità le mutazioni patogeniche.
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Ma l’avanzamento delle conoscenze nel campo della diagnostica non è solo un problema di laboratorio
perché bisogna sempre trovare i riscontri clinici ai risultati genetici e viceversa. Questo è stato il senso
dell’intervento del prof. Carelli sul caso delle atrofie ottiche ereditarie, che ha presentato due casi di nuovi
geni-malattia per patologie da tempo conosciute e nuovi fenotipi (nuove sindromi) per “vecchi” genimalattia. Il progresso in questo campo è ovviamente fondamentale per riuscire ad individuare anche in
futuro le strategie terapeutiche più efficaci rispetto al caso come pure riuscire a dare delle indicazioni sullo
stile di vita e le condizioni ambientali più adeguate per determinate tipologie di pazienti e le novità
continuano a emergere anche negli ambiti, come quello delle atrofie ottiche ereditarie, dove si riteneva di
aver battuto il terreno abbondantemente.
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Ruolo delle case farmaceutiche
Il convegno Mitocon del 2015 ha introdotto un’importante novità nel dibattito scientifico, coinvolgendo le
case farmaceutiche che più attivamente stanno lavorando alla ricerca di terapie efficaci. Il primo punto
essenziale di cui essere contenti è che più di qualche molecola è ormai in fase anche avanzata di
sperimentazione clinica e che presto alcune di queste saranno disponibili per tutti i pazienti.
La piccola farmaceutica Santhera sta da anni sviluppando
ulteriormente l’uso dell’idebenone nelle malattie mitocondriali, e sono
ormai vicini al traguardo di immettere sul mercato questa molecola
per il trattamento delle malattie mitocondriali (in particolare gli studi
si sono concentrati sulla Leber).
Lo stesso approccio rispetto all’impiego degli antiossidanti, è stato usato anche dall’Edison, la società
americana che sta studiando l’EPI743 e che ha realizzato
nel corso degli ultimi tre anni numerosi studi clinici per
verificarne l’efficacia nelle sindromi mitocondriali. Attualmente i risultati dei trial clinici, in particolare in
USA ma anche in altre nazioni come l’Italia, sono in fase di elaborazione ed a breve verranno pubblicati i
risultati che, nel caso diano esiti positivi, permetterà al farmaco di essere distribuito.
La GenSight si occupa in maniera specifica di ricerca nel
settore delle malattie genetiche oculari e uno dei target
è la Leber. Il loro approccio si fonda sulla terapia genica.
Il trial su cui stanno lavorando è stato concepito solo per
una mutazione Leber specifica che è la 11778 e per i
pazienti che sono da 0 a 12 mesi dall’esordio. Attualmente stanno lavorando alla ricerca e se i risultati
saranno positivi è possibile che la tecnica sarà trasferibili anche ad altre mutazioni.
La Stealth Peptides ha invece un approccio
completamente diverso dagli anti ossidanti o dalla
terapia genica. Il loro modello si basa sull’impiego di
una molecola che stabilizzerebbe la cardiolipina che è
l’ossatura della membrana mitocondriale interna dove si affollano tutti gli enzimi della catena respiratoria.
Stabilizzando l’architettura della membrana si migliorerebbe la funzionalità respiratoria nei pazienti. Usano
la Leber come prova di principio perché è la malattia più prevedibile e meglio misurabile ma anche in
questo caso, se i risultati saranno positivi, si prevede l’estensione dell’applicabilità anche ad altre patologie
mitocondriali.
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