2 PROGETTO VESTIGIA SOCRATES COMENIUS 1 “Vestigia” è un progetto europeo sulla conoscenza, tutela e valorizzazione dei beni culturali dei territori di riferimento degli Istituti coinvolti. Partecipano al progetto : Italia : Liceo Ginnasio Vittorio Emanuele II” di Atessa, sezione staccata di Lanciano, provincia di Chieti, scuola capofila. Nazioni partners: Germania : Gesamtschule Heiligenhaus Francia: Lycée Charles Renouvier from Prades Turchia: Kocaturk High School from Turgutlu Nel progetto, di durata triennale, vengono esaminate le sequenze storico-cronologiche delle varie realtà attinenti agli ambiti territoriali di appartenenza, in modo da poter leggere “verticalmente” ed “orizzontalmente” le emergenze individuate, operando opportuni paralleli, rimandi, sincronie, divergenze e quant’altro si ritenga necessario in itinere. In tal modo si potranno individuare concordanze e differenze nella focalizzazione delle radici comuni dell’identità europea. Nell’anno scolastico 2005-2006, oltre la presentazione geografica dei singoli territori interessati, vengono analizzate le tappe della preistoria, dell’età del ferro fino alla romanizzazione (che in Abruzzo coincide con la grande stagione degli Italici), denominatore comune della storia di tutti i paesi partners. Negli anni scolastici successivi saranno oggetto di studio l’epoca medioevale, rinascimentale ecc., via via, fino al mondo contemporaneo, seguendo stessi metodi e stessi procedimenti. In appendice, una sezione del progetto prevede uno studio dell’antropologia simbolica del territorio di appartenenza (tradizioni, culti, usi, costumi, enogastronomia ecc.), a cui si può lavorare ad libitum di anno in anno. Per questa prima annualità è stato affrontato lo studio dell’uso dei cibi rituali nel ciclo dell’anno. 3 PREMESSA METODOLOGICA Nel presente lavoro sono ricompresi i contenuti previsti per la prima annualità del progetto “Vestigia”, Comenius, azione 1. Sono stati individuati, analizzati e sintetizzati i punti nodali degli argomenti affrontati secondo le linee programmatiche. In questo primo anno l’attività di studio e di ricerca concerneva : una ricognizione fisico-politica della Regione-Abruzzo e le tappe del popolamento del territorio nella Preistoria, in Età italica e nell’Età Romana, almeno fino alla piena età imperiale. Dopo l’introduzione sulla geografia fisica e politica della Regione Abruzzo, con un’appendice sulla pratica della transumanza orizzontale, è stata condotta un’analisi generale sullle testimonianze archeologiche della Preistoria inerenti all’intera regione, dal momento che i siti non sono di numero elevato. Sono stati però presi in considerazione, nello specifico, due siti preistorici di rilievo, ricadenti nel territorio della provincia di Chieti, perchè esemplificativi delle dinamiche religiose e socio-economico-culturali. Per quanto concerne l’Età italica e l’Età romana, l’intensificazione e la ramificazione capillare dei siti dislocati in tutta la regione ( e in numero elevato per l’economia e la finalità del presente lavoro), hanno di fatto comportato una riduzione del campo di indagine e motivato la scelta di condurre un’analisi ricognitiva nel territorio della sola provincia di Chieti, realtà di appartenenza di Atessa, sede del Liceo Ginnasio, scuola capofila del progetto Vestigia. Dal momento che gli insediamenti italici e romani sono presenti in modo significativo nel teritorio provinciale, si è preferito raggrupparli per tipologia architettonica o per ruolo o funzione o destinazione d’uso, non tralasciando nè i macro riferimenti alla realtà regionale, ove opportuno, nè i micro riferimenti e le interrelazioni fra le diverse comunità ed i diversi insediamenti antropici . Infine, per la sezione dedicata all’antropologia simbolica, si è scelto, durante questo primo anno, di affrontare la tematica del rapporto tra alimentazione e cultura, passando in rassegna i cibi rituali consumati nel ciclo dell’anno ed ancora in uso nel territorio. 4 5 Territorio abruzzese La regione Abruzzo ospita 1.249.388 abitanti in un territorio di 4168 kmq. Confina a nord con Marche, a sud col Molise, ad ovest col Lazio e ad est con il Mare Adriatico. Lo stemma abruzzese è uno scudo diviso in tre fasce oblique bianca, verde e azzurra che simboleggiano rispettivamente le montagne innevate, i boschi e il mare. Lo stemma ripete lo schema dello scudo italico, suggestivamente legato alle vicende storiche delle tribù sabelliche in lotta contro Roma. Durante la guerra sociale i popoli italici costituirono una confederazione, formando gli Stati Uniti Sabellici, unici e primi nella penisola, ed adottando una capitale sopranazionale comune, Corfinio, chiamata Italia. Geograficamente l’Abruzzo appartiene al Centro Italia, ma da molti viene considerata una regione del Sud. Nonostante l’impraticabilità del territorio, che ha tenuto la popolazione per molto tempo isolata, favorendo così il mantenimento di un ambiente naturale abbastanza originale, ci sono resti del passaggio di popoli invasori come i Longobardi, i Normanni, gli Hohenstaufen, gli Angioini, gli Aragonesi, gli Asburgo di Spagna ed i Borboni di Napoli. Questa situazione di isolamento è finita quando, negli anni sessanta del XX secolo, hanno costruito le autostrade per Roma, Bologna e Bari e il tunnel del Gran Sasso. In Abruzzo ci sono le più alte vette della catena degli Appennini come quelle del Gran Sasso, della Maiella e del Velino-Silente; inoltre si trovano numerosi valli, boschi, parchi e zone artistiche di alto pregio.Le province della regione sono:Teramo, Chieti , Pescara e l’Aquila che è il capoluogo regionale. Lo storico umanista Flavio Bondo ritiene che il nome Abruzzo derivi da Aprutium correzione di Praetutium, nome conneso sia alla tribù dei Praetutii sia alla denominazione di una colonia fenicia situata nell’attuale territorio di Teramo che fu soprannominata dai Romani Petrutie o Praetutia. Per altri studiosi il nome Aprutium deriverebbe da parole latine: aper, cinghiale, per indicare la regione dei cinghiali; abruptum, scosceso, per segnalare la regione dalle rocce scoscese; o addirittura da 6 Brutiis, per indicare gli abitanti della Calabria che si sarebbero insediati nell’attuale territorio abruzzese. Nel VI secolo d.C. Gregorio Magno scrisse una lettera destinata ad un vescovo, Oportunus de Aprutio, in cui viene nominato per la prima volta il nome Aprutium, riferito al territorio di Interamna Petutia (attuale territorio di Teramo). Durante la dominazione dei Normanni, con questo termine si indicavano le regioni a nord del Regno di Sicilia; mentre, al tempo di Federico II, si indicavano le zone dei sette gastaldi longobardi, aventi come capoluogo Sulmona. Per quanto riguarda l’economia, l’agricoltura è, con i suoi prodotti tipici, come zafferano, liquirizia, tabacco o barbabietola, ma anche vino, olio, legumi, cereali, ortaggi, frutta esportati in tutto il mondo, il settore più importante. Molto rilevante è anche l’allevamento sia di ovini che di suini. Infatti la tradizione abruzzese è legata alla storia della transumanza. Dal sottosuolo abruzzese si estraggono la bauxite, l’alluminio, il petrolio e gli idrocarburi; inoltre dagli impianti idroelettrici di Campotosto, del Sagittario e dell’Alto Sangro si produce un quinto dell’energia idroelettrica italiana. Nelle zone intorno ai capoluoghi, si possono trovare zuccherifici, industrie della telecomunicazione, manifatturiere ed edilizie. Diverse aree industriali, con attività metallurgiche, automobilistiche, motociclistiche sono sorte in diverse località regionali e si affermano con prodotti di qualità sia a livello locale che nazionale e internazionale. Un grande progresso sta avendo anche l’industria turistica sulla riviera adriatica e nelle località sciistiche dell’interno. La transumanza Gli itinera callium o percorsi tratturali hanno rappresentato per millenni l’unica viabilità perseguibile, non solo per le greggi e gli armenti, ma anche per contadini, artigiani, mercanti e pellegrini. La transumanza, fenomeno diffuso in tutta Europa, alle latitudini più diverse, ha caratterizzato anche l’economia e la cultura delle zone alpine ed appenniniche italiane. In Abruzzo la migrazione delle greggi e degli altri animali condotti al pascolo si presenta sotto due aspetti : transumanza verticale o processo di monticazione dalla pianura ai monti; transumanza orizzontale o spostamento delle greggi che pascolano in estate sui monti abruzzesi e svernano nella stagione fredda sulle pianure del Tavoliere pugliese, seguendo le vie d’erba o tratturi. I percorsi tratturali principali, intersecati o affiancati da una fitta ed articolata rete di tracciati , formati da tratturelli, sentieri, piste e camminamenti, caratterizzano la geografia del territorio e costituiscono un complesso sistema viario ed economico. La transumanza presenta ritmi stagionali, in genere dalla primavera inoltrata alla tarda estate . Essa ha origini antichissime, preistoriche, come dimostrano i ritrovamenti di siti preistorici o neolitici in prossimità delle arterie tratturali. Tuttavia gli spostamenti stagionali, i tempi, i ruoli ed i rituali connessi alla transumanza si definiscono soltanto in epoca italica, in concomitanza con lo sviluppo dei centri fortificati, disseminati lungo l’appennino abruzzese-molisano. Con la romanizzazione delle regioni centrali d’Italia, poi, le attività pastorali vengono organizzate razionalmente e giuridicamente. Ed è appunto la ricca e puntuale legislazione romana riguardante la transumanza che ci testimonia l’enorme importanza economica della pastorizia. Non a caso il termine “pecunia”, denaro, risulta strettamente legato a pecus, bestiame. Con la caduta dell’impero romano e le invasioni barbariche, la transumanza subisce un inesorabile declino e viene riattivata solo grazie all’operato di Federico II che fa emanare editti e leggi sulla pastorizia transumante. Con Alfonso I d’Aragona, che promulga la Prammatica dogana della Mena delle pecore in Puglia nel 1447, la storia della transumanza raggiunge il vertice economico, artistico e culturale. Nel periodo aragonese la larghezza del tratturo viene fissata a 111 m. circa, misure inferiori sono definite per i tratturelli ed i bracci. Il calendario della migrazione pastorale è scandito nell’arco di tempo cha va 7 da San Michele (8 maggio) a San Michele (29 settembre) ed i tratturi assumono quelle denominazioni storiche ancora oggi in uso: L’Aquila-Foggia, Centurelle-Montesecco, AteletaBiferno, Celano-Foggia, Pescasseroli-Candela, Lanciano-Cupello. Per mantenere integre le vie pastorali, nel rispetto delle misure determinate e dei percorsi tracciati, si rendono necessarie, attraverso i secoli, varie “reintegre”, ad opera di funzionari statali del Regno di Napoli. Il sistema armentizio produce ricchezza e gettito fiscale, favorisce gli scambi commerciali, alimenta il commercio della lana e delle pelli, dei prodotti lanieri e caseari, veicola idee, arte, stili di vita, culti, tradizioni. Ma il declino della transumanza ha inizio con le leggi di G.Bonaparte a favore dell’agricoltura e neppure risulta sufficiente la legislazione borbonica per riattivare la pastorizia. La popolazione animale in transito lungo i tratturi subisce una feroce contrazione: si passa dai 5 milioni e 500 mila capi del 1604 ai 50-100 mila capi dei giorni nostri, trasportati su più comodi treni e camions . Sulle percorrenze tratturali insistono molti luoghi di culto, soprattutto prossimi a sorgenti e fonti, indispensabili per la sosta di greggi e pastori. La grande architettura del mondo pastorale ha la sua espressione più alta nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio all’Aquila, anche se tutta la città ed i centri dell’aquilano sono caratterizzati da architetture pastorali (vedi Santa Maria di Roio e mausoleo di San Bernardino all’Aquila, Santa Giusta di Bazzano, Santa Maria ad criptas di Fossa, la chiesa ottogonale del cimitero di Poggio Picenze, Santa Maria di Valleverde a Barisciano , Santa Maria delle Grazie a Civitaretenga, Santa Maria Assunta e San Pellegrino a Bominaco, Santa Maria di Cintorelli che segna la biforcazione dal Regio Tratturo o Tratturo Magno L’Aquila-Foggia del ramo Centurelle-Montesecco ). Regio Tratturo o Tratturo Magno Il tratturo L’Aquila-Foggia , conosciuto anche come Regio Tratturo o Tratturo Magno, presenta due percorsi principali : quello costiero e quello montano che, dopo il tratto comune nel territorio aquilano, hanno il loro punto di confluenza o biforcazione sotto San Pio delle Camere, presso la chiesa di Santa Maria di Cintorelli. Il percorso costiero toccava, in ordine di percorrenza, Capestrano, Bucchianico, Lanciano, Mozzagrogna, Torino di Sangro, Vasto, Petacciato e Guglionesi per poi spingersi nell’entroterra pugliese fino al Tavoliere delle Puglie. Il percorso dell’entroterra, invece, toccava centri come Tocco da Casauria, Lettomanoppello, Guardiagrele, Atessa, Furci, Lentella e Montenero di Bisaccia per poi proseguire fino alle pianure pugliesi. I due percorsi erano uniti da un corridoio tratturale, il tratturo Lanciano-Cupello. 8 9 Preistoria in generale La più remota presenza dell’uomo nel territorio dell’Abruzzo-Molise, quale risulta dalle indagini archeologiche sulla preistoria abruzzese e molisana, è testimoniata in località Isernia La Pineta , dove è stato scoperto un accampamento paleolitico di 730 mila anni fa. In un ambiente simile alla savana africana , con resti di grossi mammiferi, è stato scoperto un accampamento paleolitico e sono state rinvenute tracce antropiche, appartenenti all’Homo Erectus, il quale già usava strumenti in pietra e già conosceva il fuoco. Altre testimonianze preistoriche interessano le località abruzzesi di Madonna Del Freddo e Masseria Zannini, nel chietino, con documentazione di presenza umana e ritrovamento di amigdale e schegge clactoniane . In Val di Sangro la presenza più antica dell’uomo è possibile attestarla al Paleolitico inferiore a Pescopennataro. In questo periodo i primi nuclei occupavano il territorio, privilegiando colline e monti. Numerosi i ritrovamenti, tra cui i manufatti di tecnica protolevalloisiana (lavorazione della selce), appartenenti alla cosiddetta cultura “Abruzzese di Montagna”. Testimonianze sono presenti anche a Villa Badessa, Foce del Foro, Svolte di Popoli, Valle Giumentina e sulla Maiella a Colle Tondo di Pretoro. Nel Paleolitico medio, caratterizzato dalla presenza dell’homo sapiens di tipo neanderthalensis, si sviluppa l’industria musteriana, documentata a Serramonacesca nel sito di Grotta dei Mandrioni. Con il Paleolitico superiore si afferma il modello Bertoniano, che prende il nome dal sito di Montebello di Bertona e che si estende da 18000 anni fa fino al Neolitico. I Bertoniani vivevano in grotte, a basse quote, presso bacini lacustri, ma inseguivano le prede anche a quote più alte. I ritrovamenti più importanti sono costituiti da oggetti anche di grandi proporzioni, ricavati dalla selce: grattatoi, bulini, lame e punte. Testimonianze si hanno a Campo delle Piane di Montebello di Bertona, nella zona del Fucino e a Villetta Barrea . Intorno a 13000 anni fa il clima subisce un notevole cambiamento, perciò cambiano i regimi idrici, la fauna e la flora, determinando adattamenti antropici diversi. Il Mesolitico inizia con questo cambiamento climatico, ed e’ un periodo di passaggio tra il Paleolitico e il Neolitico: nuovo clima, nuova fauna, soprattutto presenza di prede più piccole. Testimonianze archeologiche notevoli sono a Ripoli in Val Vibrata e ad Ortucchio. Con il Neolitico e lo sviluppo dell’agricoltura i gruppi umani insediati in Abruzzo diventano sempre più sedentari e danno vita a comunità sempre meglio organizzate economicamente e socialmente. I ritrovamenti archeologici interessano diversi siti, ma la documentazione più interessante proviene dalla grotta dei Piccioni di Bolognano. Sono, infatti, venuti alla luce numerosi frammenti di ossidiana, cioè un vetro vulcanico fragile, ma molto tagliente, probabilmente proveniente da Lipari; nonché dei pani di asfalto, presente nella zona di Scafa ed allora utilizzato per suturare le fratture nella ceramica. La grotta, inoltre, fu anche sede di pratiche cultuali e magicomisteriche, con attestazione di riti cruenti e sacrifici umani, documentati da scheletri di bambini, sacrificati, forse, per propiziare le messi. Con la fine del v millennio l’uomo si sposta su terrazzi fluviali , costruisce capanne e fossati, usati per drenaggio e scarico e con scopi sepolcrali . L’economia era basata sull’agricoltura e sull’allevamento. Testimonianze importanti ci sono state restituite in gran numero da diverse località, in modo particolare dal Villaggio Leopardi a Penne (VI mill. A. C.) Tra V e III millennio a.C. il popolamento della regione abruzzese è caratterizzata dalla fondazione di nuovi villaggi, con sviluppo di caccia, pesca e agricoltura. 10 Al V-IV millennio a. C. si possono datare i villaggi fluviali più importanti, come quelli di Catignano, di Fonterossi di Lama dei Peligni e di Ripoli. In quest’ultima località è stata rinvenuta anche una sepoltura dentro una capanna, di una donna inumata con il suo cane. Tra i ritrovamenti più interessanti del III millennio a. C., inerenti all’area della provincia di Chieti, si segnalano: un pugnale in pietra da Pennadomo , asce martello da Lama dei Peligni e schegge di selci lavorate e di colore bruno rinvenute a Monte Pallano, in località Lago Nero. Con il II millennio a. C. altri mutamenti interessano la regione abruzzese, come l’ arrivo di genti più bellicose e nuove forme di insediamento. Notevole il villaggio palafitticolo di Celano che ha restituito documenti preziosi sulle tecniche di costruzione e di utilizzo delle materie prime e sulle tipologie funerarie, con deposizione dei corpi nell’incavo dei tronchi d’albero. Con il II/I millennio a. C. comincia l’Età del Bronzo caratterizzata dalla lavorazione del metallo, l’introduzione dell’aratro,la policultura arborea, la presenza del cavallo e di altri animali domestici e l’artigianato , con produzioni di utensili. Inizia lo sviluppo degli scambi e dei commerci, si instaurano rapporti con il mondo egeo e poi con le altre comunità insediate nella penisola, si abbandonano gli ipogei naturali per le sepolture e si fanno le prime scelte consapevoli e mirate per il seppellimento. Numerosissime le testimonianze archeologiche in tutta la regione. Nell’ambito del territorio di studio, ricordiamo: un’ascia di bronzo da Lama dei Peligni, un ripostiglio da Vallone Torbido di Colledimacine, un anello digitale da Piano Laroma di Casoli, l’ascia ad alette di bronzo rinvenuta nel territorio di Casoli, pendagli, fibule, placche di cinturone e collane da diverse altre località. Inoltre manufatti in ceramica sono stati rinvenuti nei villaggi del Fucino e a Ripoli. Tale tipo di ceramica è denominata Appenninica, si presenta ricca di forme e decorazioni, rette, curve, puntini, tratteggi e excisioni, cioè asportazione dell’argilla intorno al motivo decorativo che , in tal modo, risulta a rilievo. In una seconda fase, denominata ceramica subappenninica, la decorazione diventa ancora più curata e sofisticata: compaiono grandi vasi globulari, le scodelle, i boccali. All’età del bronzo finale, detto anche della Cultura Protovillanoviana, appartengono ceramiche incise e decorate, varie per le forme e i disegni. Durante l’età del bronzo, numerose tribù migrano nelle terre abruzzesi. In genere sono pastori che si insediano, per lo più pacificamente, nei vari territori, spesso fondendosi con le tribù locali e costituendo i primi, più antichi nuclei dei popoli italici. Questi si riconoscono intorno al nome SAFINIM, radice comune di Sabini, Sanniti e Sabellici. Solo dal VI-V sec.a.C., questi popoli assumono i nomi ben precisi e storicamente attestati di PELIGNI, MARSI, VESTINI, EQUI, PRETUZI, MARRUCCINI, FRENTANI, CARRICINI o CARECINI, PENTRI che riconoscono e celebrano miticamente la propria origine nel rito del VER SACRUM, la primavera sacra. Narra, infatti, la leggenda che i Sabini, in guerra con gli Umbri, avevano fatto voto alla divinità di sacrificare a Marte, dio della guerra, una parte delle cose generate e di consacrare, sempre al dio, un'altra parte. Essendosi scatenata una terribile carestia, l’oracolo raccomandò di consacrare al dio anche tutti i nati dell’anno. I Sabini accettarono, ma non uccisero i nuovi nati, bensì, divenuti essi grandi, li mandarono fuori dai loro territori al seguito di un toro. Giunto nel paese degli Opici, il toro si sedette, allora i giovani Sabini lo uccisero, sacrificandolo a Marte, cacciarono gli abitanti dai loro villaggi e vi si insediarono. Questa tradizione del ver sacrum è alla base della migrazione di quasi tutti i gruppi primitivi mandati fuori dai territori dei Sabini. Essa, tuttavia, è chiaramente troppo semplicistica per spiegare i complessi e lunghi processi di colonizzazione dei Sabini. Tra XIV e X secolo a.C. compaiono i primi ripostigli e le prime necropoli e vengono costruiti anche i primi insediamenti castellieri o recinti fortificati, con funzione di controllo, difesa e con produzione diversificata. Per quanto riguarda tali insediamenti, possiamo distinguere cinque tipologie fondamentali: -su altura isolata; 11 -su un gruppo di alture; -su altopiano orizzontale; -su terrazzo fra due fiumi; -su terrazzo parallelo ad un corso d’acqua. Gli ocres o recinti fortificati costituiscono poi il segno architettonico più rilevante di tutti i popoli italici, fino allo scontro fatale con Roma. Anzi le tribù italiche intensificano la costruzione di mura poligonali a recinzione di spazi più o meno estesi, proprio durante le guerre sannitiche, come elemento di difesa e rifugio per popolazioni, greggi ed armenti. Il villaggio del bronzo finale di Fonte Tasca Il sito di Fonte Tasca ( comune di Archi ma gravitante su San Luca di Atessa), posto a 160 m. di quota, nella valle del Sangro è uno degli insediamenti più importanti della provincia di Chieti, risalente ad un periodo compreso fra XI e VII sec. a.C.. Le indagini archeologiche condotte negli anni 70-80 del XX ° secolo e ripresi dopo il duemila, hanno evidenziato un fossato triangolare, di ampiezza variabile da 8 a 10 m. e profondo 2-3 m., utilizzato come drenaggio e/o raccolta delle acque. L’area a monte del fossato , nella quale si situavano le capanne di abitazione, presenta il suolo sistemato con detriti ceramici, piccole pietre e frammenti di intonaco. Inoltre il pendio che ospita l’abitato presenta tracce di tre terrazzamenti artificiali. Molto interessante il repertorio vascolare restituito dal sito : ciotole, olle, tazze , scodelle, orcioli ecc. perfino un bollitore per il latte con coperchio munito di fori, a ceramica fine ed incisa o di impasto o in argilla depurata, che rivelano una buona lavorazione. Inoltre sono presenti diversi manufatti, spatole, fornelli, lamine, scalpelli e oggetti in bronzo, fra cui armi, punteruoli, arnesi vari, ma anche monili , come anelli, bottoni, fibule, spilloni , fondi di piatto ed una bulla , che denotano il buon livello socio economico della comunità insediata a Fonte Tasca. Tuttavia la testimonianza più importante restituita dal sito è rappresentata da noccioli di olive carbonizzati che le analisi indicano appartenere all’olivo coltivato e non all’olivastro spontaneo. Siamo quindi di fronte ad un’attività qualificante, quella della produzione olearia, che ancora caratterizza la zona., confermata anche dalla presenza archeologica di numerosissimi frammenti di dolii di elegante fattura, ma senza traccia di uso del tornio, rinvenuti sul posto e destinati a contenere derrate alimentari, per lo più liquide, come vino ed olio. Secondo Radmilli, si potrebbe trattare di una delle prime prove documentate della coltivazione dell’olivo per l’intero Abruzzo. 12 GROTTA DEL COLLE: UN ESEMPIO DI CONTINUITÀ CULTURALE La storia delle ricerche La Grotta del Colle è una vasta cavità naturale che si apre a 550 m s.l.m.sulla Maiella nel Comune di Rapino. La grotta è costituita da un unico grande ambiente rettangolare profondo 65 metri e largo quasi 40. La Grotta del Colle deve la sua notorietà archeologica ad una lunga serie di rinvenimenti di reperti al suo interno. Le prime notizie circa la scoperta di oggetti di interesse antiquario risalgono al 1800, quando lo studioso Romanelli fa menzione della cavità e menziona “il ritrovamento di ossa di sterminata grandezza”. Verso la metà dell’ottocento Teodoro Mommsen acquista a Napoli una placca rettangolare di bronzo incisa,la famosa Tabula Rapinensis, formulario religioso in lingua marruccina, conservata a Berlino e dispersa durante il II conflitto mondiale. Nel 1932 avviene una nuova scoperta. Alcuni abitanti del luogo, durante scavi clandestini, scoprono un bronzetto noto come la Dea di Rapino, che poco tempo dopo venne riconosciuto come Dea Ceria o Giovia. La grotta acquistò notorietà e nell’estate 1940 Giovanni Annibaldi avviò ricerche sistematiche di scavo. L’indagine archeologica evidenziò la fase di frequentazione medievale (la più recente) , testimoniata da strutture murarie di un edificio di culto cristiano sovrapposto a tracce antiche e preistoriche. Durante la seconda guerra mondiale, gli abitanti di Rapino e Pretoro si rifugiavano nella grotta e ciò recò danni consistenti alle testimonianze archeologiche.Le ricerche archeologiche ripresero negli anni 50 del XX sec. con Antonio M.Radmilli che realizzò due profonde trincee di scavo. Si rinvennero solo alcuni strumenti litici del neolitico e pochi frammenti ceramici dell’Età del Bronzo. Nel 1995 la Sovrintendenza Archeologica dell’Abruzzo organizza nuove ricerche all’interno della grotta coordinati da Vincenzo D’Ercole e Silvano Agostini. Lo scavo di Giovanni Annibaldi Lo scavo di Giovanni Annibaldi ha interessato un periodo a cavallo dell’estate del 1940. I risultati non sono mai stati resi noti e alla Sovrintendenza manca il giornale di scavo. La documentazione esistente lascia pensare che lo scavo abbia avuto inizio all’esterno per poi interessare la parte interna. La prima evidenza archeologica fu la chiesa cristiana realizzata con murature di calcare. Il dato più importante era la presenza di sepolture nel pavimento dell’edificio. La prima sepoltura è stata rinvenuta nell’ambiente occidentale della zona principale. Si tratta di una tomba ben costruita, con le pareti interne foderate di blocchi squadrati. La seconda, al margine della zona meglio conservata dell’edificio aveva però risentito dell’effetto negativo di alcuni crolli. La 13 struttura si presentava come un pozzo rettangolare profondo due metri. Furono poi ritrovate anche alcune tombe scavate nel suolo della grotta. I reperti significativi ritrovati nello scavo Il nucleo di oggetti rinvenuti negli scavi nella Grotta del Colle è composto da poco più di un centinaio di reperti, con materiale pre-preistorico prevalente. Alle prime fasi del neolitico si attribuiscono frammenti di un vaso a fiasco ornato con profonde linee incise verticalmente e una scodella. Mancano reperti di un’età neolitica più avanzata. Alle fasi iniziali dell’età dei metalli si attribuiscono un pendaglio semicircolare e un frammento di testa di mazza in pietra. Ben rappresentata è l’antica età del bronzo con anse a gomito, orli di olla ed una piccola ciotola carenata Alle prime fasi della media età del Bronzo sono da riferire le scodelle con vasca a calotta, la ciotola carenata, la ciotola a profilo arrotondato e il vaso a collo distinto e corpo ovoide. Il bronzo medio appenninico è testimoniato da una ciotola carenata. Ad un momento avanzato dell’età del bronzo è riconducibile un frammento di ciotola carenata. Alle ultime fasi dell’età del bronzo sono riconducibili un frammento di ciotola e un frammento di parete decorato. Al periodo ellenistico sono da attribuire numerosi oggetti votivi. Le nuove ricerche Nell’estate del 1995 la Sovrintendenza Archeologica dell’Abruzzo avvia una serie di interventi mirati alla valorizzazione storica della Grotta del Colle di Rapino. Le ricerche hanno lo scopo di verificare lo stato di conservazione dei reperti rinvenuti in precedenza e di esplorare il suo spettro cronologico più antico. E’ stato dunque deciso di scavare nuovamente nella zona d’ingresso alla cavità, poiché all’interno è presente un grande interro. L’area di indagine aperta all’inizio dei lavori aveva forma rettangolare. Per comodità di scavo e di documentazione, l’area archeologica è stata suddivisa in tre distinti settori. Nel primo (settore III) lo studioso aveva approfondito lo scavo per almeno due metri di profondità, isolando il lato meridionale dell’edificio medievale, il secondo (settore II) riguardava il nucleo principale della chiesa medievale. Lo scavo nel settore III non ha restituito nuove evidenze archeologiche significative. Nel settore II è stato riportato alla luce l’ambiente principale della piccola cella medievale. La struttura aveva subito danni consistenti alle murature e al pavimento. Il nuovo scavo ha permesso di riscoprire anche una nuova sepoltura. Lo scavo archeologico del 1995 ha ancora permesso di identificare e documentare una serie di testimonianze originali che non era stato possibile registrare in precedenze Non va dimenticato il gran numero di sepolture rinvenute all’esterno delle strutture e nelle immediate vicinanze. La novità è rappresentata dalle tombe infantili , soprattutto neonatali, scoperte all’interno dell’edificio. Il ritrovamento più eclatante è dato dalla scoperta di un pozzo per fusione per una campana di bronzo, ottenuto scavando nel terreno una profonda buca semicircolare. Conclusioni finali Le grotte si possono , in generale, distinguere in: grotte a sviluppo complesso , caverne o ripari articolati, ripari a rifugio semplice, cavità a sviluppo assiale. La Grotta del Colle può rientrare nel tipo definito “caverne o ripari articolati” dal momento che si presenta come un’ ampia e profonda caverna dall’ingresso imponente. Un ulteriore aspetto che avrà influito nella sua ininterrotta , plurisecolare frequentazione è senz’altro l’ingresso agevole. L’acqua era presente a livello di stillicidio. Le tracce di frequentazione più antiche risalgono ,come gia detto, al Paleolitico Superiore, si attestano al Neolitico ( archeologicamente documentata solo la fase più antica) e poi all’l’età dei metalli. Ulteriori tracce risalgono al VII sec. a. C., al VI sec. a.C. 14 ed all’ età ellenistica vengono datate la Tabula Rapinensis e la stipe votiva. Le strutture murarie e le sepolture testimoniano poi un intenso uso della Grotta del Colle nel Medioevo. Poniamo la nostra attenzione all’età del bronzo. E’ ormai luogo comune nella letteratura archeologica che le grotte, durante l’età del rame, avessero un carattere funerario, mentre con la media età del bronzo si afferma un loro carattere “sacrale”, testimoniato dal riconoscimento di culti e riti legati alla fertilità della Terra. Il ritrovamento nella Grotta Del Colle non solo di doni votivi legati ad un santuario ellenistico, ma anche e soprattutto la presenza della statuina fittile di età arcaica e nota come Dea di Rapino sembrano avvalorare l’ipotesi che la cavità abbia svolto almeno, sin dall’età del Bronzo il ruolo di luogo sacro. E’ probabile, inoltre, che presso la Grotta del Colle, fosse praticata la prostituzione sacra, in età italica, a scopo propiziatorio della fertilità e dell’abbondanza. Un’eco della persistenza degli antichi rituali propiziatori , rivisitati cristianamente, è presente nella processione delle Verginelle di Rapino, bambine vestite di bianco e coperte da grandi quantità d’oro che rinnovano ogni anno, l’8 maggio, l’omaggio rituale alla Madonna del Carpino che liberò e salvò la zona da una tremenda siccità. 15 16 I popoli italici A più riprese, durante l’età del bronzo e l’età del ferro, numerose tribù migrano nelle terre abruzzesi. In genere sono pastori e si fondono, per lo più pacificamente, con le popolazioni dei villaggi neolitici abruzzesi, dediti soprattutto all’agricoltura. Dalla loro fusione si originano i popoli italici, pastori ed agricoltori in tempo di pace, ma bellicosi e forti guerrieri in tempo di guerra. A partire dal VI-V secolo a. C., questi popoli assumono nomi ben precisi : Peligni, Marsi, Vestini, Equi, Praetuzi, Marrucini, Frentani, Carricini, tutti in Abruzzo, e Pentri nel Molise. Alla base di queste migrazioni di popoli che avevano nei Sabini i loro antenati comuni, secondo gli antichi autori c’era il rito del ver sacrum , la primavera sacra. Narra la leggenda che i Sabini, in guerra con gli Umbri, avevano fatto voto alla divinità di sacrificare a Marte, dio della guerra, una parte delle cose generate e di consacrare, sempre al dio, un’altra parte. Essendosi scatenata una terribile carestia, l’oracolo raccomandò di consacrare al dio anche tutti i nati dell’anno. I Sabini obbedirono, ma non uccisero i nuovi nati, bensì, divenuti essi grandi, li mandarono fuori dai loro territori al seguito di un toro. Giunto nel paese degli Opici il toro si sedette, allora i giovani Sabini lo uccisero, sacrificandolo a Marte, cacciarono gli abitanti dai loro villaggi e vi si insediarono. Questa unità originaria è espressa dal termine Safinim, da cui derivano anche Sabini , Sanniti , Sabellici, Sannio. La denominazione di Sabini rimase ai popoli della zona di Rieti-Abruzzo Settentrionale, Sanniti sono i Pentri, detti perciò anche Sanniti Pentri, insediati nel Molise, mentre l’espressione popoli sabellici (o popoli italici) individua tutte le altre tribù ( Peligni, Marsi, Vestini, Carricini o Carecini, Frentani, Praetuzi, Marrucini, Equi ecc.). Tutti questi popoli usano la lingua e l’alfabeto osco, hanno in comune la religione, l’artigianato, le armi, gli oggetti ecc. che rivelano una lontana , identica origine . L’architettura di questi popoli è costituita dai centri fortificati, a quote altimetriche spesso rilevanti e distribuiti in modo tale da essere reciprocamente avvistabili, in modo da controllare il territorio e fare segnalazioni con fuochi e fumi. La disposizione di questi centri fortificati, detti megalitici, perchè le mura sono costruite con grossi massi di pietra, permette di comprendere come gli Italici abbiano potuto opporre grande resistenza ai Romani durante le guerre sannitiche e la guerra sociale. Molti resti di questi centri fortificati si possono ancora individuare. Si calcola che fra Abruzzo e Molise ne siano stati censiti più di 200. Le popolazioni sabelliche non si aggregavano in grosse città, ma presentavano un insediamento paganico-vicano, cioè vici o villaggi sparsi in un territorio, con a capo il meddix tuvtikus, il più alto magistrato . Meno frequenti presso i Pretuzi, i centri fortificati sono numerosissimi nella zona di Sulmona, nel territorio dei Marsi e dei Peligni, ma soprattutto nel territorio dei Sanniti Pentri. Nel territorio dei Marrucini molto importante è il centro fortificato di Civita Danzica presso Guardiagrele, in quello dei Frentani diversi sono i recinti fortificati : Monte Moresco, Montenerodomo, Monte Sorbo ecc. e soprattutto Monte Pallano. L’economia di tutti questi popoli sabellici, detti anche Italici, era prevalentemente pastorale, accanto alla più limitata attività agricola, e greggi ed armenti costituivano la loro ricchezza. Gli Italici possedevano greggi in abbondanza ed organizzarono le prime forme di transumanza ‘orizzontale’ con l’Apulia, sfruttando i pascoli montani abruzzesi d’estate ed i riposi nel Tavoliere pugliese nelle stagioni fredde. A partire, poi, dal III sec. a.C., le piste furono trasformate dalle tribù sabelliche in comodi tratturi, tratturelli, bracci che si ramificavano dall’Abruzzo alla Puglia, costituendo una vera e propria rete viaria lungo la quale viaggiavano greggi, merci, uomini e tutto il territorio attraversato si arricchiva di insediamenti, santuari, mercati, luoghi di sosta . 17 I centri fortificati Nel processo di popolamento dell’Abruzzo-Molise e nella definizione della sua configurazione storica e culturale, la fase decisiva è rappresenta dalle migrazioni di gruppi tribali di ceppo oscosabellico che, dalla Sabina, attraverso le valli fluviali di penetrazione, si stabilirono nell’entroterra della regione e lungo la costa,conferendo al territorio la stabilità insediativa. Queste popolazioni, che nell’etnico osco SAFINIM riconoscono la loro comune origine e identità, si presentano organizzati in territori precisi ed assumono le denominazioni storiche di Marsi,Vestini, Pretuzi, Marruccini, Peligni, Pentri, Frentani, Carricini. L’epopea di tali popoli è tutta racchiusa nelle tradizioni delle primavere sacre che conservano la memoria di migrazioni di giovani, destinati ad essere sacrificati alla nascita perché promessi con voto sacro durante una calamità, ma poi cacciati fuori dal loro territorio ed avviati alla colonizzazione di territori lontani. Le tribù sabelliche avvertono consapevolmente il sentimento di appartenenza all’ethnos originario comune e maturano , primi fra tutti i popoli insediati nella penisola, la coscienza di nazione ed elevano Corfinio a capitale comune sovraregionale con il nome di Italia, durante la lotta contro Roma nella guerra sociale. Per alcuni secoli, fino alla romanizzazione del territorio, le tribù sabelliche presentano elementi architettonici, culturali e religiosi comuni. Mura megalitiche, necropoli, corredi tombali, santuari, templi e sacelli, votivi, statue, armi , epigrafi ecc. testimoniano il loro livello di civiltà e la loro cultura. Il territorio del Sangro Aventino viene occupato dai Frentani che si insediano lungo il Sangro ed il litorale adriatico e sulla piana costiera , dai Carricini che si stabiliscono nell’area più interna e ricompresa tra l’Aventino e il Sangro e dai Lucani che si insediano in una piccola porzione di territorio, comprendente l’altopiano di Monte Pallano e luoghi viciniori. Tutte le tribù sabelliche presentano una tipologia insediamentale paganico-vicana , ovvero villaggi sparsi in un territorio e convergenti negli Ocres o centri fortificati con poderose mura megalitiche, una struttura architettonica tipica dell’Appennino centrale. In numero minore nel territorio dei Pretuzi, i centri fortificati sono presenti nel territorio dei Vestini, dei Marrucini, dei Frentani e dei Carricini, si intensificano nella Marsica , presso i Peligni, e raggiungono un numero elevato nell’area dei Sanniti Pentri , in Molise. Essi hanno funzione civile e militare, fungono da riparo e protezione per popolazioni, greggi ed armenti e sono a guardia della viabilità terrestre, fluviale e, a volte, marittima. Nell’Abruzzo chietino, in particolare, le cinte megalitiche di Monte Pallano , di Civita Danzica e di Montenerodomo costituiscono i riferimenti archeologici più noti, ma tali centri risultano variamente raccordati visivamente con tutti gli altri centri fortificati del territorio come Monte Vecchio, Monte Maio, Monte Pidocchio , Monte Moresco, Colle della Guardia ecc…). La concatenazione di tutti questi centri e la loro visibilità reciproca lasciano ipotizzare l’uso di segnali di fuoco e di fumo per comunicazioni e segnali. Una attenta analisi delle varie cinte megalitiche suggerisce , infatti, l’ipotesi di una “copertura” difensiva completa di vastissimi territori, anche di più regioni del centro Italia. Non a caso, durante il processo di romanizzazione, una volta esaurita la loro funzione militare, solo alcuni centri fortificati diventano aree urbanizzate. Infine la straordinaria diffusione della mura poligonali nella regione abruzzese-molisana rappresenta una fase architettonica particolare che ha valenza mediterranea ed europea, dal momento che esse esprimono un modello ingegneristico valido presso diversi popoli antichi, anche se in epoche e momenti diversi . Basti pensare alle cittadelle micenee, ai nuraghi sardi, ai monumenti di Malta, alle capanne celtiche, ai menhir della Bretagna , al circolo di Stonehenge ecc. 18 MONTE PALLANO Il profilo dell’ altopiano di Monte Pallano domina la valle del Sangro e fra pianure ed agglomerati urbani si protende fino al mare. In tutti gli aspetti del territorio possiamo ritrovare ancora oggi l’ eco di una civiltà orgogliosa e forte. Le prime tracce umane a Monte Pallano sono databili già al periodo preistorico con le attività dei piccoli nuclei insediati intorno al lago Nero, uno specchio d’acqua stagionale immerso nei boschi e contornato da rocce ricche di grotte. Dalla cima di Monte Pallano si può godere di una vista che va dalla Maiella al mare, dai monti dei Frentani al fiume Sangro, dal Conero al Gargano, caratteristiche che fanno dell’altopiano un osservatorio naturale ed un caposaldo militare e strategico. Sul lato dell’altopiano degradante verso Tornareccio maestose e possenti si innalzano le mura megalitiche o mura Paladine,una raffinata costruzione in opera poligonale del IV secolo a.C. che documentano la fase italica ed il ruolo strategico del luogo nel sistema difensivo delle tribù sabelliche,testimoniato dal collegamento ottico con tutte le altre cinte fortificate del territorio. I recenti interventi di restauro hanno riportato a grande splendore la Porta del Piano ed hanno permesso di disseppellire la Porta del Monte ed un tratto di circuito murario sepolto da decenni. Informazioni preziose sulle comunità insediate su Monte Pallano come l’etnico Leucanateis ed il toponimo Palanud da cui Pallano, sono contenute in una iscrizione in caratteri medio-adriatici, incisa su una lamina bronzea conservata nel Museo Archeologico di Napoli e risalente al III secolo a.C. . Numerosi manufatti,tra cui ex voto, un candelabro di bronzo, monete, una chatelaine, un unguentarlo vitreo, ecc., conservati nel Museo Archeologico di Chieti, completano il panorama culturale dell’epoca italica accanto allo straordinario Torso di Atessa , vicino al più famoso Guerriero da Capestrano. Campagne archeologiche condotte da studiosi inglesi e americani hanno restituito numerosi manufatti e reperti, tra cui spiccano due metope fittili raffiguranti delfini, eleganti e raffinate e probabilmente riferibili ad un tempio o sacello lungo la direttrice viaria che conduce all’abitato di Fonte Benedetti. Gli scavi che si susseguono da anni hanno portato, infatti, alla luce, in località Fonte Benedetti, un agglomerato urbano, con diverse fasi e stratificazioni edilizie, datato fra il III secolo a.C. e il II-III secolo d.C. L’abitato, che gli archeologici identificano con la Pallanum delle fonti, non ottenne dopo la romanizzazione, la dignità municipale, ma raggiunse sicuramente un elevato livello socieconomico-commerciale. Lo suggeriscono il grande foro a U molto simile a quello della non lontano Iuvanum, le numerose botteghe, un ampio portico, basi di colonne, opere di drenaggio e fontane. 19 Dopo il progressivo abbandono dell’abitato di Fonte Benedetti, sull’altopiano si può individuare un’ultima presenza antropica nel sito della Torretta, luogo di avvistamento e di controllo di epoca longobarda e alto medioevale. Infine, superstiti, solitari trulli o capanne in pietra a secco, così vicini alle opere degli antichi italici, testimoniano la fatica del vivere di pastori e contadini stagionali, ultimi eredi della vicenda umana della montagna. Il parco archeologico di Monte Pallano Su progetto della Soprintendenza Archeologica dell’Abruzzo, dal 1994, per alcuni anni, sono state effettuate su Monte Pallano varie campagne di scavo. L’intervento più consistente, concluso nel 2002, ha interessato il restauro e la valorizzazione della cinta muraria nota come “Mura Paladine”, con il ripristino di alcuni tratti crollati. Sono stati smontati e ripristinati i blocchi megalitici, pericolosamente inclinati già a livello di fondazione, per il cedimento dovuto agli agenti atmosferici ed al progressivo slittamento verso valle. E’ stato scoperto anche un settore di muro , “parallelo” a quello esistente, ma un pò più a valle, ed è stata rispristinata la Porta del Monte, da anni seminterrata ed interdetta al passaggio, mentre è tornata nel pieno splendore la Porta del Piano. Lo stesso splendore fissato nel disegno di un quadernetto, scoperto nell’archivio della chiesa di San Leucio ad Atessa , dove un solerte curato, appassionato di antichità, registrava, con grande meticolosità, in data 5 giugno 1894, lo stato del “Muro Pelasgico” di Monte Pallano , con due porte agibili ed una diruta e con diversi filari di massi in più in altezza. Durante i lavori di ristrutturazione del muro megalitico, in prossimità della porta sud , in parte “ridisegnata” sul piano di calpestio, è stata ricostruita la capra Recamum, una delle macchine per il sollevamento di grandi massi usate nell’antichità, in grado di sollevare carichi fino alla quota di 5 metri, ovvero l’altezza del muro esistente. 20 Laminetta Uno degli oggetti più interessanti ritrovati presso Monte Pallano è una laminetta bronzea lunga 15 cm con lettere incise che appartengono al dialetto osco, una lingua scomparsa da duemila anni. La laminetta è conservata nel museo archeologico di Napoli , la data del suo ritrovamento è sconosciuta, le lettere, scritte in carattere osco o medio adriatico, sono leggibili da destra a sinistra. Tale sistema di scrittura ha fatto supporre che l’oggetto appartenesse ad un periodo anteriore alla conquista romana, probabilmente agli inizi del III secolo a.C. Sul primo rigo si legge, trascrivendo in caratteri latini: vereias lùvkanateìs, sul secondo aapas Kaìas palanù(d) .La traduzione: <della banda armata lucana dell’acqua della fontana da Palano>. E’ possibile che questa laminetta sia realmente appartenuta ad una banda armata lucana, mentre è in dubbio l’interpretazione: <dell’ acqua della fontana>.Al termine vereia è stato attribuito il significato di giovane banda armata che può essere connesso al primo significato di primavera sacra, generatrice dei primi centri italici. Il toponimo Palanud da cui Pallano, è rimasto sorprendentemente inalterato fino ai giorni nostri, mentre la menzione di Lucani ha sollevato non pochi dubbi. Potrebbero essere dei <fuoriusciti> dalla Lucania meridionale, oppure rappresentare l’etnia originaria <migrata> nel meridione. Il toponimo sopravvive nel Medioevo, nel monastero di S.Stefano in Lucana, vicino Tornareccio. Testa di candelabro La testa di candelabro è databile tra il VI e IV secolo a.C. Il pezzo sembra sia stato venduto al museo archeologico di Chieti e il venditore assicurò che proveniva da Monte Pallano, anche se è stato acquistato ad Archi. L’oggetto è composto da quattro bracci alle cui estremità, a due a due, sono posti alcuni uccelli ed una coppetta, poiché uno dei bracci è spezzato. I due uccelli, probabilmente, sono due anatrelle e non sono uguali né per forma né per decorazione, uno di essi, tra l’altro, è privo del becco. Fibula La fibula rappresenta l’antenata dell’odierna spilla da balia o spilla di sicurezza. Quella ritrovata a Monte Pallano è di bronzo ad arco semplice con la staffa decorata a testa d’ariete e con puntini incisi ed incrociati che formano una specie di stella. Anticamente veniva usata per fermare le vesti sulla spalla o sul davanti. L’esemplare di Monte Pallano è simile alle fibule rinvenute ad Ortona e in Bosnia. Ciò ha fatto ipotizzare uno scambio culturale tra le due sponde dell’Adriatico. Veiove Veiove è una divinità locale paragonabile al Giove latino. Essa è stata riprodotta su una statuetta bronzea, per le sue dimensioni probabilmente un ex-voto, rinvenuta in località Piano Marino, frazione di Tornareccio e oggi conservata presso il Museo Archeologico di Chieti. La divinità è imberbe, con la clamide sopra la spalla sinistra e tre fulmini sulla mano destra. Sia nella iconografia italica che in quella classica il tipo con tre fulmini è abbastanza raro e quindi il manufatto può datarsi all’età ellenistica. Un altro esemplare rappresentante Veiove, ma di fattura estremamente raffinata, quindi di probabile importazione, è stato rinvenuto nel santuario di Passo Porcari di Atessa,<a valle> rispetto all’altopiano di Monte Pallano. Diana Oltre a Veiove, un’altra divinità riprodotta in un bronzetto, anche esso ex-voto, è Diana, la dea della caccia. Anche questa statuetta proviene da Tornareccio ed è una figura in movimento, cinta alla vita da un chitone, avente la faretra. La statuetta è priva dell’avambraccio e della mano destra, 21 ma comunque ciò che la rende caratteristica è la tipica acconciatura<a melone>.Proprio, grazie a questo elemento è stata datata alla fine dell’età ellenistica. Ercole bronzeo Uno dei tanti ex-voto, rinvenuti per caso da pastori che pascolavano le greggi nelle zone limitrofe a Monte Pallano, è quello di Ercole bronzeo, il dio più venerato dalle tribù italiche. La statuetta è rappresentata in posizione d’assalto con una pelle di leone sul braccio sinistro e la mano destra che regge una clava, ora mancante, i capelli irti sulla fronte e il collo ingrossato e massiccio. Il corpo è reso molto sommariamente e ciò rende problematica la datazione dell’oggetto, forse di produzione locale, poco raffinato artisticamente. Balsamario Il balsamario vitreo è interessante non tanto per la sua integrità, né per la sua forma, quanto per la sua datazione, importante per individuare la persistenza della presenza abitativa su Monte Pallano, dopo la guerra sociale. Alcuni studiosi suppongono risalga alla metà del I secolo d.C. L’oggetto presenta un fondo ricurvo che serviva ad evitare deposito di unguenti o balsami per cui era impiegato. Chatelaine La chatelaine è composta da una maglia di bronzo a treccia, terminante lateralmente con lo stesso filo bronzeo a spirale stretta. In alto c’era probabilmente il sistema di aggancio ad una fascia alla vita o alla spalla. Il suo ritrovamento è, avvenuto in località Fontecampana, tra Tornareccio e Colledimezzo. Essa risale al V secolo a.C., per i confronti effettuati con pezzi simili a quelli rinvenuti ad Alfedena, Campovalano, nel Piceno e in Basilicata. Testine votive Nel luglio 1982 sono state rinvenute due testine votive. La prima è tipicamente femminile e rientra nella tipologia delle tipiche <Tanagrine> ellenistiche; la seconda è maschile, priva della fronte e della capigliatura, con i tratti del volto abbastanza leggibili. Entrambe le testine sono databili alla fine del II secolo a.C. o all’inizio del I a.C. Una leggenda locale narra che a Monte Pallano ci fosse un tempio dedicato a Giove e sia le due testine votive che i tre bronzetti sembrano avvalorare tali ipotesi. Solo recentemente sono stati scoperti resti di un edificio nelle zone limitrofe all’abitato di Fonte Benedetti, ma la divinità oggetto di culto non è, al momento, ancora identificabile. Ritrovamenti archeologici recenti su Monte Pallano e dintorni Le missioni archeologiche anglo-americane che organizzano i campi estivi, da alcuni anni stanno “setacciando” il territorio di Monte Pallano e luoghi viciniori con esiti decisamente positivi e produttivi. A circa 100m a nord dell’area dell’abitato ellenistico romano di Fonte Benedetti, la cui denominazione è tuttora incerta, anche se l’identificazione fa propendere per la Pallanum degli Itinerari, sono venuti alla luce resti di un edificio di culto, forse un santuario. Si tratta di materiale fittile, frammenti di decorazione, come una calotta con occhio e folta capigliatura, palmette e motivi vegetali, lastre architettoniche, di cui due con raffigurazione di delfini. Nelle metope di cm 30x38, con sutura che lascia ipotizzare un riadattamento di matrice 25x38, due delfini, con straordinario 22 realismo e grande eleganza di movimenti, si fronteggiano sotto il fiore di loto, riecheggiando motivi colti e raffinati. Rappresentazioni di delfini, presenti nelle terme di vari centri abruzzesi, come nell’esempio di Histonium/ Vasto, o in altri ambienti, come nel tempio di Ercole Curino a Sulmona, trovano precedenti illustri soprattutto a Creta ed in Etruria. Il delfino è animale ctonio, sacro ad Apollo, traghettatore nell’aldilà. Non è possibile ipotizzare la natura del culto praticato nel santuario, nè il percorso culturale che ha condotto i delfini a “danzare” sulla montagna , ma il recinto sacro del tempio , sotto l’attuale statua della Madonnina, di fronte alla Majella, sembra proprio essere a guardia dell’abitato di Fonte Benedetti. Molti anche i materiali ed i reperti provenienti dagli scavi effettuati nell’area urbanizzata del suddetto abitato. Oltre i frammenti di ceramica da ricomporre, ad impasto, sigillata, a verniche nera, che documenta soprattutto i traffici e gli scambi con le regioni campane e magno-greche, monete, dolia o contenitori infilati nel terreno, manufatti in bronzo, ferro, osso e vetro fino ad uno spadone del X° secolo documentano i ritmi di vita e le attività della comunità ivi insediata. Su tutti i reperti emergono frammenti di statue : gambe, un piedone, un busto di statua loricata in marmo bianco, ma soprattutto l’ erma di Dioniso o trapezoforo, trovata in un grande ambiente pavimentato in signino bianco con fascia rossa. Più a valle dell’altopiano, in località Acquachiara, nel comune di Tornareccio, gli archeologi angloamericani hanno rinvenuto consistenti tracce di un abitato dell’età del ferro che ha resituito materale fittile, monili, oggetti d’uso. I saggi di scavo, effettuati in diverse altre località, hanno rivelato la presenza sparsa di ville rustiche o di piccoli villaggi agricoli, con buoni livelli economico-produttivi, risalenti soprattutto ad epoca romana. 23 LE GRANDI NECROPOLI Per conoscere il grado di civiltà di un popolo, è essenziale lo studio dei livelli di progresso e di organizzazione civile e religiosa raggiunti dalle popolazioni. Diverse sono le necropoli scoperte in Abruzzo e che testimoniano i riti funerari e le strutture socio-economiche delle antiche tribù italiche insediate nel territorio prima della conquista romana. Vengono pertanto presi in esame alcuni dei siti più importanti, facendo riferimento non solo alle necropoli ricadenti nel territorio della provincia di Chieti, ma anche ad alcune testimonianze di valenza regionale , significative per comprendere i meccanismi culturali comuni a tutte le tribù italiche . Esse, infatti, pur nella frammentazione tribale, avvertivano fortemente l’appartenenza all’ethnos originario comune. Fossa Ritrovamenti casuali, in seguito a lavori di installazione di un capannone, hanno dato inizio, a Fossa, presso L’Aquila, ad una campagna di scavi dal 1992 al 1999. La necropoli di Fossa presenta circa 500 sepolture che vanno dal X sec. a.C. all’età romana. La tipologia delle tombe è quella dei grossi circoli di pietre, all’interno dei quali viene deposto il cadavere con il suo corredo funebre. Inoltre file di menhir o grosse pietre verticali vengono posti in grandezza decrescente esternamente ai tumuli con tombe maschili. Tali menhir, ricorrenti anche in altre aree geografiche, come in Bretagna ( Francia), in area celtica, a Malta, ecc. hanno una probabile funzione astronomica. I corredi maschili presentano armi, grossi contenitori in ceramica, coltelli, dischi corazza, perfino bastoni da sci. Le tombe femminili sono caratterizzate da corredi ricchi di fibule, pendagli, pesanti dischi traforati, vasi ecc.. Dal VI sec. a. C. in poi vengono allestite tombe terragne, povere di corredi funebri, spesso utilizzando gli spazi vuoti fra i circoli più grandi. In età ellenistica (III-I sec a.C.) vengono realizzate tombe a camera rettangolare che hanno restituito bellissimi letti funebri con appliques zoomorfe e antropomorfe, in osso, materiale meno prezioso dell’avorio usato nelle tombe ellenistiche orientali, ma non meno spettacolari e riccamente lavorate. Campovalano La necropoli di Campovalano, vicino Campli (Teramo), è stata oggetto di scavo dal 1964 al 1997. Nelle vicinanze dell’area sepolcrale è stato anche scoperto un villaggio dell’età del bronzo medio e recente (XVIII-XIV). Le sepolture rinvenute sono circa 600 e sono datate dall’età del bronzo finale (XIII sec a.C al II sec a.C). I corredi sono ricchissimi e comprendono armi e carri da guerra, ma anche vasi, olle ed anfore che rivelano la forte connotazione sociale, l’appartenenza aristocratica e l’aderenza all’ideologia del banchetto. Gioielli, ornamenti e conchiglie caratterizzano le tombe femminili. Anche le tombe infantili presentano ricchissimi corredi, in prevalenza costituiti da bulle, brocchette con beccucci, lancia corta ed altri ornamenti per i maschi, mentre per le bambine prevalgono oggetti tipici dell’universo femminile, come aghi e rocchette. Le tombe databili al V sec a.C si differenziano dalle altre, perché non presentano né tumulo nè corredi. 24 Alfedena La necropoli di Alfedena, nell’alta valle del Sangro, è una delle più antiche e vaste d’Abruzzo. Le tombe rinvenute sono circa 1400 e sono state trovate a partire dal 1847. Esse vanno dall’età del ferro (VIII-VII sec a.C.) fino al II sec a.C. Le tombe sono a fossa, con pareti rivestite da lastroni o muretti, altre sono iscritte in tumuli.I corredi sono molto ricchi e comprendono: dischi corazza detti cardiophylakes, olle con manici sormontati da scodelline e piattelli e vasellame vario, cinturoni, coltellini, fibule, monili ed oggetti ornamentali. Comino Comino è una frazione del comune di Guardiagrele gravitante sul tratturo Centurelle-Montesecco. Nel 1913 furono scoperte delle tombe ricche di corredi funerari andati dispersi durante la II guerra mondiale. Nuovi scavi effettuati nel 1998-2000 hanno portato alla luce circa 55 sepolture che vanno dal IX sec a.C. al III sec.a.C.. L’area sepolcrale era usata dalle popolazioni che vivevano nei villaggi sparsi nel territorio e che avevano il loro centro di gravità in Civita Danzica, centro fortificato con mura megalitiche, ricadente nel territorio della tribù dei Marrucini.Le tombe sono prevalentemente a fossa e a tumulo. In particolare le sepolture a circolo costituiscono una rarità per la zona, perché specifiche della civiltà picena e presenti nei territori delle province di Teramo, dell’Aquila e di Pescara. Esse “marcano” il terreno, cioè sono un segno di proprietà della famiglia del defunto e, quasi sempre, sono riservati a personaggi di rango sociale elevato che vengono inumati con il loro corredo. A Comino alcune tombe sono contraddistinte da “segnacoli” particolari, ovvero enormi cappellacci in pietra sostenuti da bastoni in legno, simili al copricapo che caratterizza il noto Guerriero da Capestrano. Gli oggetti ricorrenti nelle tombe sono: spade, lance, giavellotti, fibule,oggetti tipici dei corredi maschili, mentre in quelli femminili sono presenti fibule anche molto grandi o “da parata”, anelli, vasi, perline ecc… Tombe di Atessa e Tornareccio Nel mese di maggio 1990, durante i lavori di scavo per le fondazioni di un’abitazione, in località Coste di Serra di Atessa, una zona periferica ormai urbanizzata, sono venute alla luce delle tombe ascrivibili al V/IV secolo a.C.. In particolare la tomba 4, a fossa terragna , ricoperta con assi di legno e sostenuta da piedi laterali, ha restituito oggetti e frammenti di un corredo sepolcrale muliebre ricco e raffinato. Sono stati trovati frammenti molto deteriorati di un letto smontato e deposto nella fossa, probabilmente di cuoio dipinto in rosso, con piedi e sponde in bronzo lavorato a motivi floreali ; un anello digitale, un piattello di argilla depurata a vernice nera con disegni in rosso ; un nettaunghie ; un vago di collana in pasta vitrea di colore blu con due file di pallini gialli e bianchi intervallate da una fascia bianca. Completano il corredo tre sorprendenti fibule di bronzo, una ad arco semplice e due ad arco a losanga con teste di ariete, elemento tipico delle sepolture muliebri rinvenute nel territorio frentano, come quelle di Ortona, Villalfonsina, Tornareccio e probabile proiezione di un più antico animale totemico la cui rappresentazione passa dal costume maschile a quello femminile. 25 In particolare, nella periferia di Tornareccio, non lontano da Atessa, in Via De Gasperi, a 50 metri a destra della Madonnina, nel corso di lavori edilizi, è stato rinvenuto un piccolo nucleo cemeteriale, con molta probabilità afferente ad un gruppo familiare o parentale, con tombe del VII/V sec. a.C., che insistono su un abitato preesistente, come dimostra l’esisetnza di un focolare , interpretato anche da alcuni studiosi come elemento con finalità rituali. Diversi i manufatti rinvenuti: oggetti maschili , armi, oggetti e monili muliebri, vasellame . In particolare nella tomba 22 , datata tra VII/ VI sec. a. C., erano stati deposti un pendaglio traforato con motivo di animale fantastico, delle ancorette, due fibule , una con arco serpeggiato ed ornamenti di ghiande, e navicella, una con arco a losanga, infine una chateleine di filo di bronzo.Una tomba maschile si distingue per un corredo originale e ricco: contiene infatti una oinochoe campana ed un elmo con corna bovine ormai dissolto.Tutti gli ornamenti si riferiscono a comunità culturalmente ed economicamente avanzate e sembra avvalorare la tesi dell’esistenza di diversi villaggi “satelliti”, sparsi nel territorio e che avevano il loro centro di riferimento nell’abitato più importante situato su Monte Pallano. 26 STATUARIA Guerriero di Capestrano Nella pianura di Capo d’ Acqua, a 340m sul livello del mare, presso Capestrano, in provincia dell’Aquila, nel settembre del 1934, durante i lavori agricoli, in un vigneto fu rinvenuta, frammentata, la statua del guerriero di Capestrano. Essa rappresenta, in dimensioni reali, un individuo adulto di sesso maschile, in piedi, con le mani poggiate sul petto e sull’ addome, abbigliato con armi e con ornamenti. Tra gli oggetti di ornamento vanno citati il collare in bronzo a fascetta, da cui pendono due pendagli rettangolari; armille portate su ambedue le braccia, di cui significativa è quella sull’ avambraccio sinistro. Si presenta, infatti, doppia con dei pendaglietti a forma di trapezio. L’ abbigliamento è costituito dal grande, originale copricapo a tesa larga e piatta, dal cinturone e dai calzari. Estremamente significativo appare, ai fini della datazione della statua, il complesso di armi ( la panoplia ) di offesa e di difesa, indossate dal guerriero. Le armi di difesa sono costituite da una coppia di dischi-corazza in bronzo, indossati grazie ad un sistema di bandoliere trasversali completate da cinghie toraciche. Alla bandoliera è appesa anche una lunga spada in ferro, sul cui fodero è fissato un lungo coltello, per mantenere efficiente la lama della spada. Se la spada costituisce l’ elemento archeologico più noto e diffuso nel periodo protostorico in Abruzzo, l’ ascia in ferro rappresenta una rarità e potrebbe indicare un simbolo di potere ed autorità. Sui due pilastri laterali sono visibili due lance e su quello destro è incisa verticalmente un’ iscrizione in lingua sud-picena che nella lingua italiana può essere interpretata così: “Me bella immagine fece Aninis per il re Nevio Pompuledio”. Molto discussa è la funzione dell’originale copricapo, su cui sono state formulate varie ipotesi, interpretandolo di volta in volta come simbolo religioso, militare, politico, sociale ecc.. Testimonianze archeologiche dello stesso tipo di copricapo, non sormontante una statua, ma mantenute, probabilmente, da un’asta in legno o pietra, sono state rinvenute anche nella necropoli di Comino, vicino Guardiagrele. Quest’ultima necropoli presenta diversi elementi della civiltà picena e costituisce , alla luce delle attuali ricerche, il limite meridionale della sua diffusione. La statua potrebbe rappresentare l’immagine di un nerf, cioè un principe o un re del territorio occupato dalla tribù italico-sabellica dei Vestini. La datazione della scultura , VII- VI sec. a.C., può essere fornita dalla presenza della spada, appartenente ad una tipologia di armi testimoniate nelle sepolture abruzzesi per tutta l’epoca 27 arcaica. Un altro elemento che fa propendere per questo periodo è fornito dalla presenza del discocorazza liscio. Il guerriero di Glauberg Nelle vicinanze di un tumulo funerario per defunti di alto rango della prima età celtica ai piedi del Glauberg è tornata alla luce una statua di guerriero del V sec a.C. La figura a tutto tondo ricavata da una pietra locale è a grandezza naturale ed è integralmente conservata, tranne i piedi che sono spezzati. Nella statua è raffigurato un guerriero armato con una corazza in cuoio o in lino, una spada sul fianco destro e uno scudo ovale che l’ uomo impugna con la mano sinistra e tiene davanti al corpo. Egli indossa un collare, un bracciale al polso destro, tre a quello sinistro e un anello come simbolo del proprio rango. La statua era ornata da un copricapo e la barba e i baffi conferiscono al volto un’ espressione particolare. Le braccia e le gambe sono nude, anche se probabilmente la statua era dipinta e quindi altre parti dell’ abbigliamento potrebbero essere state rese con il colore. L’ intera figura, con il suo insolito gesto della mano destra poggiata sul petto appare sproporzionata. Un’ attenzione particolare merita la forma della corazza, formata da una parte posteriore sovrapposta decorata a motivi foliati. Non si tratta di una sopravveste, ma di un elemento componente la corazza stessa, che è presente in altre rappresentazioni celtiche, mentre manca nelle corazze greche ed etrusche. Guerriero di Hirschlanden A circa 10km dall’Hohen Ansperg, nei pressi di Ludwinsburg, sono stati rinvenuti due tumuli distanti l’uno dall’altro 80m. Il tumulo maggiore, posto ad ovest e nelle cui vicinanze affioravano delle sorgenti, era circondato da un anello di pietre in calcare conchiglifero e nei pressi di tale anello, sul piano antico di calpestio, si trovava una statua. La figura che giaceva rivolta sul davanti, mancava dei piedi e le gambe erano entrambe rotte all’altezza delle ginocchia. Non è stato possibile individuare la posizione antica del manufatto, ma probabilmente fungeva da segnacolo della sepoltura sul tumulo dal quale era in seguito caduto. La statua raffigura un guerriero nudo con il volto coperto da una maschera. Le braccia sono piegate davanti al busto; la schiena presenta una colonna vertebrale infossata e le scapole triangolari; le gambe, invece, sono poste parallelamente. Il guerriero indossa un copricapo a forma di cono, al collo reca un ampio cerchio d’oro, simbolo del suo rango; alla vita indossa una cintura doppia nella quale è infilato un pugnale. L’elemento di somiglianza tra la statua di Hirschlanden e quella di Glauberg è costituito essenzialmente dalla posizione del braccio che risulta piegato, mentre la gestualità, la presenza della maschera, del pugnale e della cintura accomunano la prima con quella del Guerriero da Capestrano trovata in Abruzzo. La gestualità e il pugnale, infine, rendono apparentabili tutte e tre le statue. 28 Torso di Atessa Diversi frammenti di grandi statue rinvenuti in varie località del territorio regionale ci fanno comprendere l’importanza attribuita dalle comunità presabelliche e sabelliche alle sepolture dei personaggi di rango, spettacolarizzate proprio dalla presenza di statue sui grandi tumuli funerari. A Comino, vicino Guardiagrele, sono stati scoperti anche diversi, enormi “ cappellacci”, simili a quello indossato dal Guerriero da Capestrano. Essi sono stati interpretati come dei “segni” posti sui tumuli e sorretti , forse, da pali in legno. Nel 1971, nel Piano San Giorgio, lungo la SS 364, una località presso Tornareccio ma appartenente al comune di Atessa, è stato trovato un Torso acefalo, ritenuto dagli studiosi cronologicamente anteriore al più noto Guerriero. Il Torso presenta un busto disorganico e molto allungato, braccia schematiche e mani sgrossate in maniera grossolana, ma incrociate sul petto, nella posizione canonica di tutte le statue del genere. Sul petto sono appena accenate delle decorazioni, un cinturone scolpito a fascia rettangolare simboleggia i riti di iniziazione e di passaggio dalla pubertà all’età matura. Il Torso è con buona probabilità da ricondurre alla presenza di una necropoli, di cui peraltro si ignora l’ubicazione, a servizio dell’abitato sito sull’altopiano di Monte Pallano. 29 SANTUARI Il santuario Italico di Fonte San Nicola Ritrovamenti casuali ed indagini mirate vanno restituendo numerosi manufatti e strutture architettoniche romane e preromane che contribuiscono a disegnare la storia antica della regione abruzzese. Area di eccezionali scoperte è quella di Monte Sorbo, un’altura di circa 900 m., gravitante sulle valli del Treste e del Sinello, comprese tra i comuni di San Buono e Carpineto Sinello. La frequentazione di questo territorio interessa un arco di tempo che va dall’età del ferro al Medioevo e fino ai nostri giorni. All’epoca più antica si possono datare diversi ritrovamenti, tra cui fibule che si possono sicuramente riferire ad una necropoli del IX-VIII sec. a. C., rioccupata dal IV sec.a.C. da un luogo di culto, il cui ricordo è presente nel toponimo attuale di Fonte San Nicola. Gli scavi hanno portato alla luce un temenos o recinto sacro, che ospitava un tempio e diversi sacelli ad esso annessi, nonchè due scarichi votivi datati dal IV sec. a. C. agli inizi del I sec. a.C.. La prima stipe votiva ha restituito oggetti di buona fattura, scaricati su uno strato di pietre che doveva costituire il battuto pavimentale del recinto sacro, mentre il secondo scarico presenta materiale votivo di tipo devozionale o per grazia ricevuta, di fattura rozza e, quindi, possibili offerte di contadini e pastori. Dall’enorme quantità di manufatti rinvenuti, si possono ricavare informazioni utili per comprendere le pratiche cultuali esercitate nel santuario, lo stato sociale degli offerenti, il tipo di grazia ricevuta. I reperti fittili comprendono ollette, teglie e coperchi di ceramica da fuoco, sia un’ enorme quantità di oggetti in ceramica acroma, fra cui brocche, olle, bacini, unguentari, versatoi, vasi di tutte le dimensioni, anche in miniatura, ed una grande varietà di coppe e coppette. Alcuni oggetti di buona fattura sembrano essere importati da aree Campane o pugliesi e donati da fedeli , pastori, mercanti e pellegrini “più abbienti”, ma la maggior parte dei reperti presenta una pasta dai toni beige-giallino, proveniente dalle cave d’argilla del territorio di San Buono. Il gran numero di coppe e coppette, vasi e versatoi farebbe ipotizzare dei culti salutiferi e il rito delle libagioni per ottenere la guarigione richiesta. Notevoli sono anche gli ex voto che raffigurano mani e piedi o che rappresentano animali. Non mancano, infine, monete, fibule, un cinturone in bronzo, pesi da telaio, fuseruole e soprattutto numerosissime statuette di piccole dimensioni. La datazione dei reperti consente di stabilire che la vitalità del santuario italico raggiunge una grande fioritura fra il III e II secolo a.C., interrompendosi, probabilmente, dopo la guerra sociale. Sebbene scarsissime siano le tracce di epoca romana, il santuario dovette mantenere la sua funzione di culto e, sui resti del tempio italico, si sovrappose durante il medioevo, un edificio absidato con altare. Il toponimo attuale conserva in “Fonte” il ricordo dell’antico culto salutifero legato all’acqua, ed in quello di “San Nicola” una devozione al Santo radicata prima in terra pugliese e poi veicolata anche in Abruzzo lungo i tratturi. Lanciano Presso la porta di San Biagio, vicina all’omonima chiesa, uno degli accessi medioevali di Lanciano, sul Colle di Lanciano Vecchia, che si può individuare come sito del nucleo principale di Anxanum, gli scavi hanno accertato la presenza di un antico santuario. Fra i reperti: un busto fittile di divinità femminile, frammenti di statue femminili panneggiate, probabile elementi di un gruppo frontonale, teste votive e statuine fittili, frammenti di statue non di pertinenza votiva. 30 Un verosimile antico culto salutifero praticato nel santuario, come nei casi di Fonte San Nicola di San Buono e di Schiavi d’Abruzzo, viene attestato dal ritrovamento di mani, piedi ed arti inferiori ed altre parti anatomiche, tutti votivi fittili che coprono un arco di tempo dal IV al II/I sec.a.C. E’ il periodo di massima fioritura dei santuari italici e la raffinatezza artistica di molti reperti suggerisce l’importanza del santuario per tutte le popolazioni della zona. In particolare il busto fittile, probabilmente raffigurante Minerva,alto cm 25 è stato realizzato in argilla semidepurata di colore rossastro. La statua, rappresentata fino al seno, è posta in maniera frontale, ad eccezione della testa, girata leggermente verso destra. Sulla testa è presente un diadema e, probabilmente , per la presenza di altri fori sul capo, è possibile ipotizzare che su questo vi fosse anche un elmo. Il diadema è poggiato sui capelli che sembrano invisibili sulla testa ma che ricadono in due lunghe ed ondulate ciocche sulle spalle. Il volto si presenta ovale con grandi occhi incavati ed una bocca piccola e chiusa. La statua pare che indossi una tunica senza mani. l busto può essere datato intorno al III/II sec a.C. e sembra non essere una semplice offerta votiva. E’ bene notare, infatti, che, fino al IV sec a.C., la raffigurazione del busto era usata solo per rappresentare delle divinità; ma tra IV e II sec a.C. i busti vennero utilizzati anche come offerte votive. Quadri In località Madonna dello Spineto, a tre km dal centro abitato di Quadri, sorge l’antica chiesa medioevale di S.Maria che si erge sul podio di un più antico tempio italico, probabilmente dedicato a Iuppiter Trebulanus. Infatti, nella stessa località , sono state ritrovate due epigrafi: una attesta l’esistenza di un vicus denominato Trebula, l’altra contiene una dedica dei conscripti all’imperatore Adriano. Secondo alcuni studiosi, tra cui l’archeologo La Regina, con Cluviae e Iuvanum, Trebula potrebbe essere il terzo dei municipi costituiti ,dopo la guerra sociale, nel territorio dei Carnicini. Nel 1990-91 e nel 1995 l’area è stata indagata anche con una fotogrammetria, che avrebbe individuato il sito ed il recinto delle strutture di un anfiteatro, mentre alcune campagne di scavo hanno riportato alla luce alcuni elementi attinenti al santuario italico, tra cui il recinto sacro in opera poligonale, che delinea un area di 52,25 metri per 43,17. Il complesso sacro, lastricato in opera poligonale, fu realizzato come una sorta di terrazza panoramica sul Sangro. Schiavi d’Abruzzo Schiavi d’Abruzzo è un comune della provincia di Chieti, nonché un antico centro dei SannitiPentri, a breve distanza da Pietrabbondante e Trivento. Il nome deriverebbe da uno dei tanti insediamenti slavi dell’entroterra abruzzese. Schiavi è situata a 1200 s.l.m., alle pendici del Monte Pizzuto, e la sua storia è suddivisibile in due fasi: quella italico-sannitica e quella più “moderna”, legata ai principi Caracciolo ed alle vicende della diocesi di Trivento. La fase italica di Schiavi, il cui territorio è segnato da tratturelli e piste armentizie, che ne documentano l’antica florida attività pastorale, è testimoniata archeologicamente in località Colle della Torre, sede di un importante complesso santuariale, costituito da due templi: uno più grande ed antico (ma incompleto) ed uno più piccolo e più recente disposto parallelamente all’altro. Le misure del primo maestoso tempio (podio m.21x11, alto m.1.79), risalente al III-II sec. a.C., ci testimoniano il gravoso impegno economico profuso per la sua realizzazione, secondo solo alla costruzione del tempio di Pietrabbondante. 31 Il secondo tempio è, come ricordato, più piccolo ( podio m. 13.30x7.40) e presenta un‘elegante pavimentazione. Proprio su questo pavimento troviamo l’elemento di maggior rilevanza storica, ovvero un’ iscrizione in lingua osca, che conserva il nome del costruttore, G. Paapis Mit., e menziona il nome dell’appaltatore dei lavori, ovvero il meddix tuticus (un magistrato repubblicano) Nimus S. Dikitiis. Il tempio minore di Schiavi ebbe lunga vita e durata cultuale nel tempo, anche se in diverse forme, esplicando la sua funzione di centro religioso, aggregativo, culturale e sociale del territorio. Nei pressi del tempio, la cui dedica non è nota, ma è ipotizzabile che vi fosse venerata una divinità salutifera, sono stati rinvenuti numerosi ex-voto, collegabili ad una pratica cultuale molto diffusa nell’antichità. I fedeli, infatti, si recavano in visita al tempio e ringraziavano la divinità per la grazia ricevuta, offrendo statuette o sculture riproducenti un organo o la parte malata del corpo , spesso confezionate in maniera grossolana, da una bottega esistente in loco di artigiano ceramista, di cui restano testimonianze archeologiche nell’area del santuario. Vacri Il santuario di Vacri è ubicato in località Porcareccia, sulle alture del preappennino chetino. Fu individuato nel 1975 in seguito a lavori agricoli e, grazie al contributo dell’amministrazione comunale, fu oggetto di una lunga campagna di scavo nel 1988, ma rimangono molti elementi da chiarire nella storia del sito. Il santuario rientra nella numerosa serie di luoghi di culto campestri, punto di incontro e di scambio per le popolazioni circostanti non ancora urbanizzate. La prima presenza antropomorfica risale al V-IV secolo a.C ed è documentata da un gruppetto di statuette bronzee raffiguranti Ercole e da alcuni vasi di impasto. Inoltre sono state portate alla luce, al di sotto del tempio maggiore, tracce di un area per sacrifici. La fase di maggior splendore risale all’epoca ellenistica, quando le offerte votive aumentano e si assiste alla costruzione di edifici architettonicamente rilevanti. A Vacri sono stati ritrovati due templi : uno di maggiori dimensioni, dotato di un profondo pronao e di un ampia cella rivolto verso est; e un altro a sud , di dimensioni inferiori al primo. Le mura sono in pietra e in malta, le pareti interne sono intonacate e i pavimenti sono ben conservati. Di particolare interesse è il pavimento della cella a tessere bianche inserite a formare un motivo geometrico costituito da cerchi entro un quadrato. All’angolo sud-orientale della cella è stata rinvenuta una vaschetta ricavata nel pavimento. Per dimensioni e caratteristiche, questa costruzione potrebbe essere considerata una sorta di thesaurus, risalente probabilmente alla metà del II secolo a.C. Numerosi sono i votivi recuperati: si tratta di figure di animali, maschere, coppette e vasetti, unguentari e pesi da telaio. Molti sono anche gli utensili in ferro: spiedi, coltelli e palette e moltissime le monete, soprattutto quelle coniate dalla zecca di Roma, ma anche nell’area Sannitica. All’epoca della guerra sociale ci fu probabilmente una drastica cesura nella vita del santuario. Con il I secolo a.C si documenta il declino del santuario, riscoperto solo parzialmente nella prima epoca 32 imperiale, quando, sulle macerie degli edifici precedenti, se ne costruisce un terzo, del quale si conservano tracce del pavimento e di una rampa di accesso. Punta Penna Nel 1888, nella chiesa di S. Maria della Penna, in località Punta Penna di Vasto, fu rinvenuta una lastra di rivestimento in terracotta, oggi conservata nel museo civico archeologico di Vasto, appartenente ad un edificio templare ivi esistente. Si tratta di un antepagmentum raffigurante due teste contornate da elementi vegetali. In quella di sinistra appare riconoscibile Ercole con la clava sulla testa ed una leontè sopra i capelli; mentre la testa di sinistra, molto malridotta, con il volto largo e piatto e capelli a fiamma sembrerebbe attribuibile ad una figura femminile. Entrambe le figure risalutano inquadrate da una cornice di motivi vegetali, con grossi fiori disposti in basso in modo obliquo e divisi al centro da elementi cuoriformi. L’esemplare da Vasto potrebbe allinearsi con gli antepagmenta a figure umane attestate in Campania , in Molise, a Pietrabbondante e, in Abruzzo, a Schiavi. Quest’ultimo confronto appare significativo in quanto, pur presentando un motivo con quattro teste, fra cui anche Ercole, vi appare identico il motivo decorativo della cornice. Gli esemplari di Vasto e Schiavi appaiono riferibili a botteghe locali che producevano lastre a matrice, decorate a stecca. Il santuario a Punta Penna sembra connotabile come luogo di culto di importanza superiore al semplice ambito locale, come appare evidente dal rinvenimento nell’area di S.Maria della Penna, oltre che della lastra menzionata, di due lastrine bronzee con iscrizioni in osco. Nella seconda metà del XVI secolo sul pianoro intorno a S.Maria della Penna erano ancora visibili i resti di due templi e di un teatro, il che sembrerebbe ricollegare il contesto al noto complesso di Pietrabbondante, in Molise, la capitale “ideologica e morale” di tutte le popolazioni sabelliche, soprattutto nella lotta contro Roma. Pur essendo stata scavata agli inizi del secolo XX °, a sud di Vasto, la ben nota necropoli del tratturo, con sepolture databili dall’età del Ferro al periodo romano, le indagini condotte nell’ambito del centro storico della città corrispondente all’antica Histonium, non hanno per ora rivelato la presenza di resti dell’originario abitato frentano precendente il II-I sec a.C., per cui il santuario di Punta Penna appare riferibile alle origini stesse del popolamento frentano dell’area di Vasto. Passo Porcari Nel 1977, in località Passo Porcari, fra la SS 154 della Valle del Sangro e la strada comunale di Montemarcone , una stupenda statuetta bronzea , venuta casualmente alla luce, ha dato luogo ad una campagna di scavi che ha rivelato la presenza di un santuario italico-romano. E’ stato così possibile individuare un temenos o recinto sacro, all’interno del quale era collocato un piccolo tempietto in antis, senza podio, con cella, pareti intonacate e pavimentazione in cocciopesto e disegni geometrici in tessere bianche e marmoree. L’area antistante il tempio era pavimentata con ciottoli di fiume disposti a spina pesce , mentre fuori dal temenos sacro è stata indiziata la presenza di una fornace, forse legata alla produzione di ex voto. 33 Lo scavo ha restituito manufatti in argilla rosa e vernice nero-bruna, una moneta, un frammento di catino decorato con serpente , una testa di cavallo, probabile ornamento di un fregio o di un frontone, un frammento di ara con cappello, di cui resta un solo angolo, su cui è stata scolpita una bellissima testa di ariete. Tuttavia la testimonianza artistica più preziosa è la statuetta bronzea che ha dato l’avvio allo scavo. Si tratta di un reperto che tradisce grande perizia tecnica, raffinatezza ed eleganza, di esecuzione non locale, ma di probabile importazione magnogreca o campana. La rappresentazione del dio, interpretato come Veiove o Giove Giovanile, rimanda all’iconografia di Alessandro Magno ed alle tecniche ellenistiche, perciò la statuetta può essere datata fra II e I sec. a. C.. Il santuario di Passo Porcari, vicino al tratturo, non lontano dal fiume, sembra legato ai flussi transumantici ed ai modelli socio-culturali veicolati lungo i tratturi, ma la sua frequentazione sembra interrompersi al I sec. a.C., con la fine della guerra sociale ed il colpo mortale inflittto dai Romani a tutte le attività, comprese quelle cultuali, svolte dalle popolazioni italiche. Verosimilmente il santuario non fu riattivato dai Romani e subì il degrado e la distruzione. Juvanum Durante il Medioevo i monaci Cistercensi edificarono un’abbazia sulle rovine del santuario italico situato sull’acropoli naturale sovrastante il pianoro dove sorgeva il municipium romano di Iuvanum, non lontano da una fonte, vitale per l’aggregazione umana e la sosta di pastori, greggi ed armenti. Probabilmente sullo stesso sito, a metà strada tra i centri di Torricella Peligna e di Montenerodomo, fu eretta l’abitazione di un gastaldo longobardo, da cui il toponimo di Santa Maria di Palazzo che compendia le due costruzioni medioevali. Il santuario italico è stato costruito nella prima metà del II secolo a.C., nel territorio della tribù sabellica dei Carricini, ma pochi sono i resti leggibili. Tra essi il nucleo dell’alto podio, nell’area sacra dell’abbazia, e un blocco della cornice inferiore a gola rovescia, addossata al podio. Altri resti, come alcuni capitelli dorici italici con echino dal profilo a gola, sono stati trasportati nell’area circostante, nel comune di Torricella Peligna. Entro la metà del II secolo a.C. si colloca anche la costruzione del secondo tempio a nord di quello gia costruito; per fargli posto, fu necessario ampliare il recinto sacro, creando cosi una piattaforma, all’interno della quale sono state rinvenute delle testine di statuette del tipo “tanagrine”e alcune monete. All’esterno del recinto sacro della piattaforma è stato scoperto uno scarico di lucerne di età romano-imperiale. Alcune epigrafi di età imperiale attestano, inoltre, che questi templi furono dedicati ai culti di Ercole, di Diana, di Minerva e della Vittoria. Molto attivo dovette essere anche il collegio degli Ercolani che sovrintendeva al culto del Dio, la divinità di gran lunga più venerata dalle comunità sabelliche, soprattutto dai pastori e dai contadini. Nel corso dello stesso secolo fu costruito un teatro di cui si conservano le prime sette file, relative alla cavea, e le fondazioni della scena in miniatura. La connessione del teatro con il santuario conferiva sacralità alle rappresentazioni, che si 34 verificavano in occasione di ricorrenze religiose, le quali erano accompagnate da fiere e mercati. Ma il teatro poteva avere anche funzione pubblica, di parlamento o di luogo di riunione per assemblee, a cui partecipavano tutte le comunità del territorio che avevano il loro punto di riferimento proprio nel santuario cantonale di Juvanum. Villalfonsina Dagli anni ’50 del XX secolo a Villalfonsina sono stati rinvenuti diversi reperti, la maggior parte di provenienza cimiteriale. Gli oggetti documentano una certa continuità. Il gruppo più cospicuo è costituito da una serie di lastre di rivestimento a matrice con motivo fitomorfo caratterizzate da un argilla rosata con molti piccoli inclusi. Sulla base dei pezzi conservati si può ricostruire una lastra alta 42 cm e larga 31 cm. Si tratta di un tipo di lastra simmetrica e con molti elementi decorativi. Tale materiale può essere datato al II sec. a.C., costituito prevalentemente da pezzi unici, per alcuni dei quali risulta problematica la collocazione. Tali frammenti di lastre sono decorati con piccole palmette a cinque petali. Sono state ritrovate diversi tipi di antefisse: dalla più comune pothnia theron a quelle con testa gorgonica. Le due antefisse con testa di gorgone hanno un’acconciatura con tre file di boccoli ed un nastro.Alla decorazione dell’edificio ornato con antepagmenta a motivo fitomorfo, sono alcuni frammenti di lastre di rivestimento del columen e dei mutuli realizzati in argilla , dalla quale sono stati ricavati l’antefissa con testina gorgonica e quella con potnia e la sima con baccellature dai margini assiali; dove si riconosce la foglia appuntita da cui sono state ricavate le lastre di rivestimento del columen. Il materiale conservato consente di ricostruire due lastre nelle quali erano raffigurate Eracle e Atena; di questa decorazione restano soltanto un grosso frammento con le gambe di Eracle e parte del torso e del panneggio di Atena. Il pezzo meglio inquadrabile è il torso di Atena, databile all'i’inizio del III sec, a.C. dove Atena è raffigurata con un elmo alato. 35 36 La Romanizzazione dell’Abruzzo Tra la fine della guerra sociale e la battaglia di Azio, Roma fu sconvolta da numerose contese che ebbero come protagonisti i più potenti personaggi della declinante repubblica. Gran parte di queste guerre furono combattute in Italia, che ne subì le pesanti conseguenze. Il territorio abruzzese, però, venne interessato solo marginalmente . Nel 82 a.C. Interamna venne punita da Silla per aver preso le parti dei Mariani; nel 49 a.C. Cesare discese lungo le coste adriatiche per poi deviare verso le città di Corfinium; nel 43 a.C. Alba Fucens svolse un ruolo decisivo a favore di Ottaviano contrapposto a Marco Antonio. Nonostante i disagi di queste vicende gli abitanti dell’Abruzzo antico furono ben soddisfatti per aver ottenuto la cittadinanza romana: questi sentimenti si evincono da una serie di attestazioni epigrafiche e archeologiche, conseguenti anche all’assetto municipale. Con il termine municipalizzazione si indica, infatti, quel processo che, partendo dal I secolo a.C., vide il sorgere di strutture in gran parte urbanizzate: municipia e praefecturae. I municipi erano comunità dotate di autonomia amministrativa e rette da un senato, i cosiddetti decuriones, e da un collegio di quattro magistrati, e, poi, dopo la riforma cesariana, da due magistrati. Ogni municipium era a capo di un territorio, comprendente ripartizioni amministrative (vici e pagi). Nella maggioranza dei casi i municipi soppiantarono gli ordinamenti preesistenti. Ad esempio, Teate (Chieti) che si trovava sul tratto finale dell’antico tracciato che collegava il Fucino e la conca peligna, lungo la riva destra del fiume Aterno, era vicina alle miniere di Scafa e alle saline della foce dell’Aterno. Iuvanum (Montenerodomo) era una costruzione artificiosa, in quanto costituita solo da edifici pubblici. Questi sono due esempi di come Roma si ispirò a criteri di centralità economica ed amministrativa. Dopo la costituzione dei municipia, l’estensione del modello urbano e le innovazioni urbanistiche ed edilizie vennero assai ben accolte, in quanto percepite come funzionali a quel concetto di urbanitas che le aristocrazie italiche consideravano elemento importante per entrare a pieno titolo nella comunità e cultura della capitale. Ai membri delle famiglie più in vista e più ricche venne riconosciuta la dignità di cavalieri e poi la possibilità di essere ammessi in senato. In questo contesto, caratterizzato da un fervore politico derivante dal nuovo status giuridico, maturò e fiorì nei municipi italici la moda delle orgogliose raffigurazioni su statue dei vari committenti, come sobri e austeri personaggi togati, con ispirazione greca. Buona parte di questi reperti provengono dal territorio di Chieti. Personaggi di maggior rilievo furono Sallustio Crispo, storico e uomo politico, nativo di Amiternum, vicino L’Aquila; il teatino Asinio Pollione, buon soldato e oratore, il sulmonese Ovidio Nasone, poeta dell’età augustea. I personaggi più importanti dell’età della municipalizzazione sono componenti della famiglia degli Asinii di Teate: Asinio Herio fu comandante dei Marruccini durante la guerra sociale; Asinio Pollione fu storico, uomo di cultura, mecenate; a lui si deve l’istituzione di una biblioteca pubblica a Roma. Oltre a questi casi più celebri, comunque si hanno notizie di altri numerosi personaggi che ricoprono cariche importanti durante il periodo tardo-repubblicano e imperiale e che non dimenticarono i luoghi di origine, attivandosi per abbellirli di edifici pubblici e religiosi, monumenti e statue. 37 Dall’età italica alla romanizzazione Assetto politico amministrativo Nell’organizzazione politico-amministrativa dei popoli italici il livello più elevato era costituito dal nomen suddiviso in populi. All’interno del populus il territorio era articolato in zone d’influenza delle genti o famiglie più potenti. La touta, invece, era l’agglomerato politico amministrativo fondamentale, cioè un insediamento preurbano di fondovalle (vicus) o un insediamento d’altura (oppidum), retti dai meddices, corrispondenti dei iudices latini. Durante le battaglie i populi erano comandati da un dux o un imperator. Le riunioni federative si tenevano nel santuario più importante del nomen, l’assemblea generale era chiamata conciulium. Sistema economico insediativo Il sistema economico insediativo era basato sul binomio vicus-oppidum, il primo con attività agricole, l’altro organizzato come un centro fortificato. Vici e oppida erano ricompresi nei pagi, dotati di magistrati e di autonomia amministrativa. Dopo i trattati con Roma la figura del meddix rimane e gli si affiancano altre magistrature con titolature romane. Cultura e lingua latina penetrano a poco a poco nell’Abruzzo italico, molte famiglie delle tribù italiche stringono amicizie e rapporti d’affari con i Romani, i militari partecipano alle guerre di conquista, l’aristocrazia terriera si serve di schiavi orientali. Dopo la guerra sociale e la concessione della cittadinanza romana sorgono su siti italici diverse strutture urbane chiamate municipia o prefecturae, dotate di grande autonomia: erano retti da un senato (decuriones) e da un collegio di 4 magistrati, quattorviri o di 2 magistrati, duoviri. Questi insediamenti, nuovi o ridefiniti nel loro ruolo, soppiantano le colonie e vengono arricchiti con diversi monumenti che rendono confortevole la vita dei cittadini, come terme, teatri, anfiteatri ecc. oppure appagano la sfera religiosa, come templi, santuari, sacelli, statue di divinità ecc.. La viabilità in età romana Le più importanti arterie di viabilità che attraversano l’Abruzzo in età romana sono: la Via Claudia Nova, un raccordo della via Salaria che dalla Sabina si spinge fino ad Aufinum (Ofena) e poi fino a Corfinum (Corfinio). A Corfinio la via Claudia Nova s’innesta con la Via Valeria, un prolungamento della Via Tiburtina che unisce Roma a Tivoli. Dal congiungimento della via Claudia Nova con la via Valeria si origina la Via Claudia-Valeria, un percorso di vitale importanza che raggiunge l’Adriatico ad Ostia Aterni (Pescara). Un altro tracciato di grande importanza è la Via Cecilia che parte da Amiternum (l’Aquila), passa per Interamnia (Teramo) e raggiunge l’Adriatico a Castrum Novum. Altre strade collegano Corfinium con i centri del Molise e della Campania; la più importante è senza dubbio la Via Minucia; una strada collega Interamnia ad Hatria; una strada circumfucinense costeggia il lago del Fucino, ora prosciugato, collegando tutti i centri che vi si affacciano. La strada più importante è quella litoranea, chiamata prima Via Frentana e poi Via FrentanaTraiana, per le opere di ristrutturazione promosse dall’imperatore Traiano. Tale via collega il Piceno con la Puglia, ed oggi è in gran parte occupata dal tracciato della stradale 16, nonché è parallelo, sovrapposto o confuso con il tracciato del Regio Tratturo, L’Aquila-Foggia. 38 I Municipia in Abruzzo durante l’età romana Nel territorio dell’antico Abruzzo, con la romanizzazione, divennero municipi : le colonie di Alba Fucens e Carsioli (Carsoli) in territorio equo; quelle di Hatria (Atri) e Castrum Novum (Giulianova) in territorio pretuzio, nonchè il conciliabulum di Interamnia (Teramo); tra i Sabini Amiternum conservò per qualche tempo l’antico ordinamento di praefectura. Sorsero come praefecturae e restarono tali: Aveia (Fossa) e Peltuinum (Prata d’Ansidonia), entrambe in territorio vestino. Furono creati ex novo i seguenti municipi : tra i Marruccini Teate (Chieti); tra i Sanniti Carricini Iuvanum e Cluviae; tra i Vestini Pinna (Penne); tra i Frentani Anxanum (Lanciano), Histonium(Vasto); tra i Peligni Corfinium (Corfinio), Sulmo (Sulmona), Superequum (Castelvecchio Subequo); tra i Sanniti Pentri Aufidena (Castel Di Sangro); tra i Marsi, Marruvium (S.Benedetto dei Marsi) e Antinum (Civita D’Antino). Altre località rimasero nella condizione di vici o pagi pertinenti a un municipium o a una praefectura: tra i più rilevanti possiamo citare: presso i Vestini Aufinum (Ofena), pagus appartente alla praefectura di Peltuinum; tra i Marruccini, Ostia Aterni (Pescara), vicus appartenente al municpium di Teate, e pagus Interpromium (Tocco da Casauria); tra i Sabini Foruli (Civitatomassa), vicus appartenente alla praefectura di Amiternum; tra i Peligni i pagi di Betifulus (Scanno) e Lavernae; tra i Marsi Lucus Angitiae (Luco dei Marsi); tra i Petruzi e i Piceni il vicus di Beregra (Montorio Al Vomano) e Castrum Truentinum (S.Benedetto del Tronto). 39 Municipi Teate Teate ( attuale Chieti), l’unica città del piccolo popolo dei Marrucini, sorgeva su un colle posto tra due fiumi: il Pescara e l’Alento. A parte notizie in generale sui Marrucini, dal trattato di alleanza stipulato con Roma alla fedeltà mantenuta durante la guerra annibalica, nulla di specifico ci è noto sulla città, che pure dovette iniziare a formarsi anteriormente alla concessione della cittadinanza romana. In età tardorepubblicana e imperiale era un centro di una certa importanza, ciò può giustificare la definizione che ne dà Silio Italico, di Magnum Teate. Lo sviluppo, iniziato nel II sec. a.C., dovette intensificarsi dopo la guerra sociale, quando la città assunse lo stato di colonia, testimoniato da una tarda iscrizione. Una notevole attività edilizia caratterizza la città nel primo periodo imperiale, sicuramente legata alla presenza di alcuni personaggi di alto rango, quali Asinio Pollione e il figlio Asinio Gallio. Due iscrizioni testimoniano la presenza e l’attività degli Asinii a Chieti, almeno fino alla metà del I sec. d.C., ma anche del mecenatismo di Marco Vezio Marcello e di sua moglie Elvidia Priscilla, amici dell’imperatore Nerone. La città fu distrutta in età carolingia da Pipino e successivamente trasferita dal colle in un luogo più basso, e poi ricostruita interamente sotto Carlo d’Angiò, in dimensioni più ampie. Il centro preromano sorgeva sulla Civitella, il settore a sud-ovest della città, il più elevato. Tombe dell’età del Ferro dimostrano l’esistenza di un pagus , cioè un villaggio, in questa zona, che dovette ampliarsi già nel corso del II sec. a.C.. Il municipio tardorepubblicano e imperiale si estese verso nord-est, mentre gli edifici più importanti nel settore sud-ovest. Più oltre è attestata la presenza di una zona occupata da abitazioni private. L’attuale Corso Marrucino corrisponde certamente all’asse principale della città antica (costituito dal tratto urbano della via Claudia Valeria), spostato verso est, come conferma la posizione di due grandi cisterne. Il teatro si addossava alle pendici occidentali della Civitella, in questo lato particolarmente franose: ciò ha causato il crollo e la perdita di tutto l’edificio scenico e di un tratto dell’ala occidentale della cavea e non resta nulla delle gradinate. La costruzione del teatro si può quindi datare agli anni centrali del I sec. d.C., più precisamente all’età neroniana. Il foro probabilmente occupava la zona pianeggiante a nord- est della Civitella, come dimostra la scoperta di numerose iscrizioni di carattere pubblico e l’esistenza di un gruppo di edifici sacri, connessi con il centro amministrativo e religioso della città. Nell’area della Civitella sono venuti alla luce i resti di tre grandi templi italici simili a quelli di Schiavi d’Abruzzo, edificati nel II sec. a.C. Essi sono andati quasi totalmente distrutti, ma ci sono 40 pervenute le decorazioni in terracotta dei frontoni che raffigurano statue di divinità . Molto numerose le antefisse, cioè tegole con sopra statuette, lastre traforate o decorate che univano armonicamente l’uso funzionale ed il gusto estetico. Due di questi frontoni sono stati ricostruiti ed esposti nel nuovo museo della Civitella, sorto nell’area adiacente all’antico anfiteatro. L’anfiteratro ‘dimenticato’ è, infatti, tornato alla luce negli anni novanta del XX secolo, in seguito allo smantellamento delle tribune del campo sportivo costruite trenta anni prima. L’area dell’anfiteatro ha inoltre restituito resti stratificati di diverse età, dalla preistoria al medioevo, a testimonianza dell’importanza del sito, uno dei più vitali della lunga storia di Teate. In pieno centro storico, presso la biblioteca provinciale, si conservano i resti di due templi gemelli, affiancati poi da un terzo edificio di culto. La sacralità del luogo è confermata dalla continuità del culto cristiano, con la ridedicazione dei tempietti a San Pietro e San Paolo, fin dall’VIII secolo. Sulle pendici del lato occidentale del colle su cui sorgeva la città, si conservano i resti di un edificio termale e a nord-ovest dell’edificio termale vi era un’imponente cisterna posta al di sotto della via Marrucina. Si tratta di nove grandi ambienti ricavati in gran parte entro il colle e coperti da volte a botte. Gli ambienti comunicano tra di loro tramite quattro aperture ad arco e presentano una particolarità: terminano con pareti concave destinate a sostenere la pressione delle acque. Molto pregevoli i pavimenti mosaicati delle terme, gli ambienti funzionali, come il calidarium ed il frigidarium, le condotte dell’acqua calda e fredda, le sale di attesa, gli atri, ma estremamente interessanti risultano anche i manufatti ed i materiali rinvenuti nelle terme: monete, vasellame, oggetti di uso cosmetico, lucerne, lastre marmoree. Del resto il museo della Civitella documenta l’estrema ricchezza di Teate: i resti provenienti da case patrizie, i mosaici, gli oggetti d’uso quotidiano, gli ex voto, le attestazioni cultuali, le divinità straniere, come Iside ed Asclepio, venerate accanto a quelle del pantheon tradizionale romano . Ma il culto di Eracle, sul cui tempio venne ricostruita la cattedrale di San Giustino, un prestigioso edificio tardo romanico, doveva risultare il punto di forza della religiosità tradizionale, in linea con le attestazioni cultuali di gran parte del territorio regionale. Inoltre, accanto alle tante testimonianze archeologiche venute alla luce o irrimediabilmente obliterate dalle sovrapposizioni medioevali e successive, una Teate ‘sotterranea’ non finisce mai di stupire , con il suo dedalo di cisterne, magazzini, strade, depositi ecc. ed ogni tanto restituisce meraviglie, come l’ambiente recentemente rinvenuto ed interpretato quale magazzino per cereali, ricco di mosaici raffinati e di buona fattura tecnica. Infine i ritratti virili, le statue, le epigrafi attestanti le opere di evergetismo dei personaggi importanti, il monumento funerario di Lusius Storax, le stele funerarie, i reperti fittili e bronzei, o in osso e in vetro, il repertorio delle lucerne e di tutti gli altri utensili, documentano a pieno titolo, accanto ai resti delle numerose strutture murarie disseminate in tutto il centro storico di Chieti, la ricchezza ed il ruolo svolto da Teate nell’antichità. Cluviae Nella mappa topografica delle popolazioni sabelliche dell’antico Abruzzo-Molise, Cluviae risulta uno dei siti più conosciuti nell’antichità, più volte citato nelle fonti come teatro di imprese belliche e di operazioni militari e come centro agricolo di una certa importanza. Gli studiosi, per localizzare il sito, hanno rivolto l’attenzione sul pianoro della Roma, tra Casoli e Palombaro, altopiano che si eleva alto e scosceso sui letti dei torrenti Laio ed Avello e del fiume Aventino: una posizione di centralità sul territorio circostante da cui traspare la posizione strategica e difensiva del luogo.Tutt’intorno la topografia territoriale evidenzia la presenza di antichi termini : Via Decumana, Limiti di sopra, Limiti di sotto, Fonte dei Gentili, Cardo, Via dei Gentili ecc… In tale località sono visibili avanzi consistenti di un circuito murario che doveva presentarsi esteso e possente. Inoltre si possono ancora individuare resti archeologici attinenti ad un teatro, a scarichi, condutture fognarie e vestigia di un complesso termale; basi di colonne e pesi di telaio e pavimenti decorati con mosaici che ora fungono da appoggio a damigiane, bottiglie ed arnesi da lavoro. 41 Una probabile identificazione del luogo in un vicus denominato Pagus Urbanus , fu proposta dal Mommsen sulla base di un’iscrizione mutila “banor / pagus / anus” riportata su tre righe in una lapide allora conservata nella chiesa di Santa Reparata a Casoli. La proposta ebbe successo e la denominazione di Pagus Urbanus fu riportata nelle carte topografiche ed archeologiche. Ma solo negli anni sessanta, A. La Regina proponeva con molto successo l’identificazione con l’antica Cluviae, sulla base di una tabula di patronato, scoperta in località Bufalara, tra San Salvo e Vasto, ed emanata il 4 maggio del 384 d.C. dai Cluvinses Carricini, in onore di un certo Aurelio Evagrio Onorio, che appunto custodiva nella sua tenuta marina una copia di quella tabula. Numerosissime anche le testimonianze epigrafiche e letterarie relative alla Cluviae romana: deduzione a colonia e l’assegnazione della municipalità, quale si evince, tra le altre, da un’epigrafe trovata ad Anxanum, in cui compare un C. Attius Crescens, magistrato a Cluviae e Anxanum, e quindi in grado di esercitare la carica pubblica nelle due città nella stessa giornata. Persiste sul piano della Roma la presenza abitativa altomedioevale e medioevale la fondazione di numerose chiese, tra cui “l’ecclesia Sanctae Crucis de ipsa Roma”, presente nella cronaca cassinese di Leone Ostiense e l’insediamento della castrum Laroma, sopravvissuto linguisticamente. Juvanum Scarse sono le citazioni presenti nei testi letterari dell’antica città di Juvanum, uno dei municipi della tribù dei Carricini, tranne qualche cenno nel “Liber Coloniarum”, dove è menzionata con il nome di Iobanus. Le uniche informazioni pervenuteci provengono soprattutto da iscrizioni e dati archeologici; da queste, infatti, ci è stato possibile dedurre che Iuvanum fosse un municipio, amministrato da quattuorviri. Si è scoperto, inoltre, che nel municipio si praticava il culto di Diana, di Ercole, di Minerva e, probabilmente, quello di Venere. La posizione geografica dell’antico abitato è stata identificata in località S.Maria di Palazzo, tra l’attuale Montenerodomo e Torricella Peligna. In seguito a scavi recenti, è stato possibile dimostrare che l’antica città si sia sviluppata a partire dall’età tardorepubblicana. Sono venuti alla luce soprattutto strutture pubbliche, urbanisticamente collegate in modo razionale e funzionale, il che ha fatto ipotizzare una “costruzione artificiale”, senza edilizie abitative, ma centro di riferimento religioso, amministrativo e commerciale per le popolazioni sparse “vicatim” nel territorio. Lungo la via che collega il santuario, posto sulla collina che domina il pianoro su cui sorge l’abitato, si trova il Foro, una piazza rettangolare cinta su tutti i lati da portici e tabernae. Sul pavimento è stata individuata un’iscrizione in cui compare il nome del magistrato che si occupò della realizzazione del foro. 42 Grazie al ritrovamento di un’altra iscrizione, seppur mutila, si è accertata anche la presenza di un tribunale. Infatti una basilica absidata occupa il breve lato settentrionale del foro. Altri scavi, infine, hanno riportato alla luce una strada parallela all’area del foro, un sarcofago con una lunga iscrizione incisa, materiale fittile, in bronzo e ferro, frammenti in osso e vetro, arnesi da chirurgo, vasellame, fornaci e focolari, basi di statue ed anche altri resti delle sovrapposizioni tardo imperiali e medioevali. Sull’acropoli o collina che domina il pianoro vi sono, invece, i resti del santuario italico e del teatro. Histonium La città di Histonium occupava lo stesso sito dell’odierna Vasto e veniva considerata dagli antichi scrittori uno dei centri più importanti dei Frentani e poi un prestigioso municipio romano. Il toponimo antico suona come “telaiolo”, in riferimento forse alla produzione e trasformazione della lana, garantita dai flussi fratturali. Un’antica città chiamata “Histone” è presente anche a Corfù, probabile segno di rapporti e di commerci già nel passato. Nonostante il Liber Coloniarium ne faccia una colonia, sembra che, dopo la guerra sociale, Histonium sia sempre rimasta un municipio, iscritto alla tribù Arnensis, come si ricava dalle iscrizioni nelle quali appaiono i quattuorviri, magistrati municipali. Tra i principali culti si ha testimonianza di quelli di Ercole, Cerere, del Sole e di Giove Dolicheno. In età tardo-repubblicana ed imperiale, il territorio della città appare occupato da estesi latifondi, proprietà di personaggi d’alto rango. Tra questi vanno ricordati gli Hosidii Getae, Pacuvio Scaeva, Elvidio Prisco e Aurelio Evagrio Onorio, ma grande onore ebbe pure Lucio Valerio Pudente, poeta giovinetto, che a soli tredici anni fu incoronato in Campidoglio, come attesta un’epigrafe che menziona anche la sua brillante carriera politico-amministrativa. Pochissimi i resti “visibili” della città antica: l’area dell’anfiteatro è occupata da Piazza Rossetti, quella del tempio di Cerere, su cui fu costruita la chiesa di San Pietro, è stata oggetto di un disastroso movimento franoso, dalle iscrizioni conosciamo l’esistenza di un portico restaurato da Fabio Massimo, il rector della provincia del Sannio. Ma il segno archeologico più importante di Vasto è rappresentato dalle spettacolari terme scoperte a ridosso della chiesa di Sant’Antonio, ed in parte obliterate proprio dalla costruzione dell’edificio religioso. Esse si caratterizzano soprattutto per i tappeti musivi, in parte rinvenuti nel secolo scorso, in parte in tempi recentissimi. In questi ultimi, circa 130 mq, sul fondo bianco, l’artista con grande bravura tecnica , ha fissato tessere nere per formare volute e figure geometriche, entro cui si muovono animali fiabeschi, delfini e figure mitologiche, tra i quali campeggia la possente e fiera immagine di Nettuno che stringe il tridente in una mano e regge un delfino nell’altra. Sono state poi rinvenute anche alcune iscrizioni osche su lastrine bronzee conservate al museo civico, ma il monumento più importante è il sarcofago bisomo, sepoltura di Pacuvio Scaeva e della moglie Flavia. All’interno del sarcofago sono incise le iscrizioni che si riferiscono ai due defunti. Importantissima quella di Scaeva, dove è riportata la sua brillante carriera che si interruppe bruscamente, mentre era proconsole a Cipro. Poiché la moglie, come è indicato nella sua iscrizione, fu sepolta insieme al marito, è probabile che i due siano morti insieme di morte violenta. Il sarcofago appartiene a un raro tipo di età augustea, utilizzato da personaggi che preferivano l’inumazione alla cremazione. Probabilmente i coniugi appartenevano ad una setta, come quella dei neopitagorici che praticavano l’unumazione. 43 Inoltre, nelle sale del museo archeologico, inserite nello splendido palazzo D’Avalos, statue, lucerne, crateri, versatoi, vasi, anfore, manufatti di argilla, ferro e bronzo, datati dal VI sec. A. C. alla tarda romanità e provenienti prevalentemente dalle località Luci e Colle delle Mandorle, da sepolture urbane, dalla necropoli del tratturo e dal pianoro di Santa Maria della Penna, documentano la storia della città e del buon livello artistico-culturale dei suoi artigiani. Le indagini archeologiche recenti hanno portato alla luce diversi elementi afferenti ad una struttura templare e ad abitazioni proprio nel pianoro di Santa Maria della Penna, confermando le notizie degli storici vastesi dei secoli scorsi che ancora potevano ‘vedere’ i resti di un antico abitato. Molti studiosi localizzano proprio nel sito della moderna località di Punta Penna, porto di Vasto, l’antica Buca, ritenuta da Plinio uno dei porti frentani, ma citata da Strabone come uno degli approdi, insieme ad Ortona, della pirateria frentana. Gli abitanti di Buca, secondo lo storico greco, erano predoni e bestie feroci che si servivano dei resti dei naufragi per costruire le loro dimore. Solo altre scoperte epigrafiche, archeologiche o di altro genere, potranno confermare la validità delle varie ipotesi sulla localizzazione del sito di Buca. Hortona La città di Ortona occupava un pianoro collocato su un promontorio roccioso alla cui base si trovava un approdo naturale, riparato e ben difeso. Testimonianze archeologiche dall’età del bronzo fino all’età medioevali sono state restituite a diversi livelli dall’area del diruto castello Aragonese, nella cui corte centrale sono stati individuati resti protostorici ma anche lavori per la costruzione di una grande cisterna. Il sito italico , probabilmente, si sviluppò proprio da questa area, per poi estendersi, in età romana soprattutto nella zona occupata dal quartiere di Terravecchia. Alcuni moderni assi longitudinali sembrano ripetere l’antico assetto urbanistico. Notizie sull’abitato antico sono fornite dal Romanelli che individua, con scarsa attendibilità, edifici cultuali pagani sotto l’arcipretura di S. Tommaso e ricorda l’esistenza di un collegium lanariorum et navicularum, collegato ai traffici commerciali e marittimi, come sembrano confermare le numerose anfore, soprattutto vinarie, tipo Dressel, che vanno dal III sec. a.C. al III sec. d.C., rinvenuti in zona e connessi all’attività portuale. L’esatta ubicazione dell’approdo antico è ancora fonte di accertamento e discussione, ma il toponimo “Lo Scalo”, a nord del Castello aragonese , potrebbe indiziare la presenza dell’antico porto., confermata anche dal rinvenimento di materiali fittili , da un’ancora in piombo ed altri manufatti restituiti da saggi di scavo condotti nell’ultimo decennio del XX ° secolo. Resti bizantini testimoniano, poi, l’enorme importanza portuale assunta da Ortona nell’ambito dei traffici adriatici e mediterranei, come si può evincere anche da una lettera di papa Gregorio Magno . Il centro romano di Ortona è menzionato da Strabone, Tolomeo ed altri, è presente negli itinerari antoniniani e nella Tabula Peutingeriana, ma è soprattutto la menzione in Plinio che indica la città come municipium frentano in ora a far discutere. La municipalità, se mai acquisita, fu forse una istituzione tarda, favorita da una forma di autonomia amministrativa goduta dalla città. Il che può aver generato una interpolazione sul testo pliniano. Su un importante tracciato viario interno rispetto alla costa ortonese, in località Casino VezzaniVassarella negli anni novanta del XX° secolo sono stati rinvenuti i resti di un presidio bizantino (VI-VII sec.), a controllo della viabilità a sud di Ortona, tra cui un ricchissimo deposito di materiali che documenta i traffici e le importazioni di manufatti dall’Egitto e da altre località africane e medio-orientali. 44 Anxanum La posizione geografica di Lanciano nella Valle del Sangro, a confluenza di diversi tracciati viari antichissimi e punto di raccordo di tratturi e tratturelli, ha favorito fin dalla preistoria gli insediamenti antropici e le attività agricole , artigianali e commerciali. Nel sito della città moderna si possono leggere stratificazioni e testimonianze che riconducono all’età del ferro, all’epoca italica ed a quella romana, quando Anxanum era uno dei municipi più industriosi e floridi dei Frentani. Tuttavia la grande importanza assunta da Lanciano in epoca medioevale, rinomata per le sue famose nundinae o fiere che richiamavano mercanti da tutta l’Europa ed il bacino del Mediterraneo, le presenze bizantine, longobarde, angioine e così via, per successive tappe storico-cronologiche, nonché la forte presenza religiosa ed il richiamo esercitato dal Miracolo Eucaristico, hanno cancellato o obliterato in gran parte il tessuto architettonico , urbanistico e monumentale della città frentana e romana. La scarsezza di epigrafi o la dubbia autenticità di alcune di quelle conservate hanno poi limitato la conoscenza approfondita delle remote origini della città, legata anche ad una leggenda di fondazione che vede come eroe ecista Solimo, compagno di Enea. Tra il 1993 e il 1994 la Sovrintendenza Archeologica dell’Abruzzo ha condotto con l’amministrazione comunale di Lanciano indagini archeologiche nella Piazza Plebiscito nell’ambito di un progetto che prevedeva la ripavimentazione della piazza. L’ intervento risulta inserito in un programma che, già dal 1992 , le amministrazioni sono andate dedicando alla scoperta delle origini della città. E’ stato così possibile focalizzare l’esistenza di un abitato preistorico con materiali e livelli databili all’età del Ferro, esteso tra Lanciano Vecchia , il quartiere Sacca e il Colle Pietroso. Materiali preistorici sono stati inoltre rinvenuti come residui in livelli successivi . Anche nell’area della chiesa del Miracolo Eucaristico, ovvero di San Francesco, già San Legonziano, con annesso convento, e, in particolare, nell’adiacente Cappella del Rosario, nell’ambito dei lavori eseguiti per il Giubileo del 2000, sono stati condotti scavi stratigrafici che hanno restituito materiali dell’abitato protostorico, a cui si sono sovrapposti forti interri contenenti reperti databili fino al II sec. a. C., poi “sigillati” da un altro interro per consentire la realizzazione di un pavimento in cocciopesto di età romana. Fra i materiali recuperati anche frammenti di statuette fittili votive e frammenti di terrecotte architettoniche , forse riferibili ad un edificio distrutto da un incendio. L’enorme mole di detriti e frammenti, in cui sono ricomprese quasi tutte le tipologie della ceramica antica, nonché la varia sovrapposizione di edifici religiosi pagani e poi cristiani, evidenziano l’importanza di questa area sacra ed il ruolo svolto nei secoli. Inoltre anche i materiali archeologici provenienti dal chiostro, dalla Cappella del Rosario e dagli altri ambienti del complesso e luoghi viciniori confermano le successive ed interessanti stratificazioni di insediamenti . Al I sec a.C. sembra consolidarsi l’antico municipio di Anxanum sul colle di Lanciano Vecchia . Nell’area tra Piazza Plebiscito e Lanciano Vecchia, vari livelli archeologici rinvenuti testimoniano la persistenza del popolamento anche in età successive a quella classica. Lo scavo della piazza ha 45 interessato in particolare l’area antistante la Cattedrale della Madonna del Ponte. I tre quartieri storici della città medioevale si sviluppano, infatti, sul Colle Erminio(Lanciano Vecchia), sul Colle della Selva (Civitanova Sacca) e sul Colle Pietroso (Borgo). I tracciati viari dei tre colli avevano probabilmente ripreso antichi tracciati indirizzati verso l’abitato preistorico e romano che convergono in Piazza Plebiscito, nota in età medioevale come Curtis Anteana . Essa era collegata tramite il Ponte di Diocleziano alla Piana della Fiera, cosi denominata poiché vi si svolgevano le fiere. L’intervento archeologico è stato importante, in quanto questo settore urbano costituisce ancora il polo dinamico di vita sociale , religiosa ed economica della città. L’area indagata è divisa in tre ambienti: ambiente A (Testata del ponte), ambiente B (Chiesa di S.Maria in Platea), ambiente C (passaggio che collega il ponte al convento S.Francesco). Tale ponte, sul fosso della Pietrosa, viene tradizionalmente datato all’epoca di Diocleziano, da cui la denominazione, al seguito del rinvenimento di un’iscrizione antica, avvenuta, secondo lo storico Uomobono Bocache il 21 giugno 1785. L’epigrafe, ritenuta non autentica dal Mommsen,, viene oggi rivalutata, alla luce delle scoperte effettuate. Infatti, parte della testata antica del ponte sembra essere di età romana, senz’altro anteriore agli assetti tardomedioevali, rinascimentali e moderni, così come i livelli di percorrenza ad esso connessi. Ad avvalorare l’ipotesi di una possibile costruzione romana è anche il rinvenimento, negli anni 1920-30, di una testa dell’imperatore Diocleziano, conservata nel Museo Archeologico di Chieti, trovata durante lavori edilizi in un edificio a lato del ponte, lungo Corso Trento e Trieste. Ma, se i frammenti di ceramica impastata dell’età del ferro attestano la frequentazione della zona di Piazza Plebiscito e dintorni fin dal IX-VIII sec. a.C, per l’epoca romana i livelli rinvenuti in profondità e contenenti reperti risultano compromessi dai lavori medioevali e postmedioevali. Forse riferito a questa fase è il Battuto 92, realizzato con pietre e terra . Di grande interesse risulta un muro con ricorsi regolari di laterizi, pietre e conci posti su filari di età tardo-imperiale ubicato alla testata del ponte di età medioevale. La successiva abitazione del territorio in età bizantina e alto medioevale è confermata dalla ceramica di tipo Crecchio e da ceramica acroma altomedioevale. 46 47 Ciclo dell’anno e cibi rituali In tutto l’Abruzzo e in particolar modo nella provincia di Chieti si dà grande importanza alle feste tradizionali, legate alla preparazione di prodotti tipici,dolci o salati. Già nell’antica Roma si celebravano le Ferie Sementine, periodo dedicato alla purificazione dei campi, all’offerta alla Terra ed a Cerere, dea delle Messi. Oggigiorno, nel calendario cristiano, si festeggiano, tra gennaio e febbraio, tre Santi: S.Antonio Abate, S.Sebastiano e S.Biagio; ma a queste feste se ne aggiungono altre con caratteristiche proprie del territorio abruzzese, come il Carnevale, S.Giuseppe, la Quaresima, la Pasqua, il Lessame o Virtù di Maggio, la Tresca, la Vendemmia, S.Rocco, la spremitura delle olive ed il Natale. Sant’Antonio abate, Sant’Antune per gli abruzzesi Sant’Antonio abate è nato e vissuto in Egitto, dove fondò diverse comunità eremitiche. Sono a lui legati culti secolari ed antiche credenze della civiltà contadina. La festività di Sant’Antonio Abate, protettore del bestiame e dei raccolti, è celebrata il 17 gennaio, periodo dell’inverno segnato dall’uccisione del maiale e dalla tradizionale preparazione di salumi e caratterizzato dall’allestimento di ricchi banchetti e da grosse abbuffate per propiziare fertilità e salute. Durante questa festa in tutti i paesi girano compagnie che cantano strofe e mottetti rievocando la vita del Santo. San Sebastiano Era un soldato milanese che prestò servizio nelle milizie di Diocleziano. Convertitosi al Cristianesimo operò molti miracoli. È’ protettore contro la pestilenza ed invocato come santo guaritore di molti mali. Per San Sebastiano i contadini hanno creato diversi proverbi metereologici, perché il giorno della sua ricorrenza si fanno le previsioni sui raccolti, in base al tempo Ad Ortona, in particolare, si consuma anche un cibo rituale, lu puzzinette, così chiamato dalla casseruola con il manico lungo ed i piedi, un piatto a base di baccalà, rape e peperoni arrostiti, a cui seguono nevole e vino. San Biagio San Biagio, nato a Sebaste, era probabilmente medico e, dopo la conversione al Cristianesimo, fu eletto vescovo della città. Fece molti miracoli e guarigioni e perciò protettore delle malattie della gola e dell’orecchio. In Germania divenne protettore dei suonatori poiché il suo nome è collegabile al termine blasen, soffiare. Durante questa festa si mangiano cibi che servono a proteggere dalle malattie di raffreddamento, ma anche a propiziare la fecondità della terra e l’abbondanza dei raccolti. Carnevale Da sempre il Carnevale simboleggia per i contadini la fine dell’inverno e l’inizio del periodo delle grandi abbuffate che terminerà con l’arrivo della Quaresima. Il Carnevale è noto per l’abbondante consumo di cibi robusti, come ad esempio la pasta “carrata”alla chitarra con saporiti ragù, seguita da croccanti arrosti, pietanze innaffiate da fiumi di vino rosso. In passato a questi cibi si aggiungevano fegatini o coratelle d’agnello o di capretto cacio e uovo, turcinelle o zurlette arrostiti o al sugo. Ma il Carnevale è soprattutto ricordato per i dolci, in particolare chiacchiere, castagnole, bomboloni, sfumate, pizze di ricotta e ciambelloni; tuttavia il dolce più amato è la cicerchiata, ovvero palline di pasta fritta legate insieme col miele che esprimono valenze propiziatorie di abbondanza fertilità e sanità di raccolti. 48 La Quaresima e la Pasqua Dopo il periodo delle grandi abbuffate del Carnevale, ne segue uno di lungo digiuno, quale la Quaresima, durante il quale vengono consumati principalmente legumi, verdure, formaggi e pesce. In passato, il lungo digiuno si concludeva nel giorno di Pasqua che per i contadini rappresentava la rinascita della natura mentre per i cristiani la rinascita spirituale. In questo giorno non manca mai sul tavolo carne d’agnello cucinata arrosto, al sugo o al forno insieme con le uova, simbolo di Cristo risorto; in passato le uova, consumate sode, venivano fatte benedire in chiesa dopo esser state decorate. Non mancano dolci, infatti ad Atessa le mense pasquali sono ricolme di dolci soprattutto a base di pasta di mandorle, dolci a forma di agnello, cavalli e pupe e, infine, di cuori e castelli. Questi ultimi ad Atessa sono ricoperti con glassa bianca o al cioccolato e costituiscono il dolce irrinunciabile e, frquente in tutti i paesi della Frentania. Il Lessame o Virtù di Maggio Il mese di Maggio era anticamente dedicato a Maia, mentre secondo la religione cristiana alla Vergine Maria. Veniva anche chiamato costa di maggio poiché stava ad indicare un periodo difficile dell’anno, durante il quale le provviste invernali erano esaurite ed il nuovo raccolto non ancora maturo. Questa festa è accompagnata da numerose processioni e cerimonie di propiziazioni e dal consumo di particolari cibi come ad esempio le pignate di Maggio, pietanza preparata con gli avanzi della dispensa, in passato offerta ai poveri o condivisa con parenti e vicini. Il nome di questo piatto varia da località a località; ad Atessa è nota come lessame, mentre nel tramano come le virtù, un piatto però più complesso ed elaborato. La Tresca La mietitura e la trebbiatura rappresentano l’appuntamento più importante del ciclo agrario e del lavoro contadino preparato e atteso durante tutto l’anno con la speranza di un raccolto abbondante e sano . La lunga giornata della tresca è segnata dalla presenza di numerose tappe gastronomiche: la prima inizia alle prime luci dell’alba ed è a base di caffè d’orzo e biscotti. Poche ore dopo segue la stozza, una merenda di pane con prosciutto, salame, ventricina o formaggio. Verso le dieci del mattino è l’ora della rembrenna, una colazione più sostanziosa a base di frittate e formaggi; in alcuni luoghi si consumano ancora le pallotte cacio e uovo. Poi c’è il pranzo in cui si mangiano paste fatte a mano come le sagne a pezzate, condite con pomodoro fresco e basilico, seguite da polli ripieni o abbondanti arrosti. Nel pomeriggio c’è poi la pausa della svivitella, una merenda a base di insalata, cetrioli, cocomeri e frutta fresca, spesso seguita da dolci secchi, biscotti e ciambelle, intinti nel vino cotto. L’ultima tappa è rappresentata dalla cena, caratterizzata dal consumo di sagne e fagioli. La giornata della tresca si conclude, infine, a tarda notte con musiche, danze, scherzi e risate. Le feste di San Rocco La festa di San Rocco si celebra nel mese di agosto e rappresenta un momento di pausa nel lavoro dei campi . Questa è celebrata con sagre, pellegrinaggi e consumo di cibi particolari. Il pranzo nell’antica tradizione prevede il consumo di pasta alla chitarra condita con ragù di carne o con pomodoro fresco e basilico. Segue poi carne di pollo ed infine cocomero fresco e pizza dolce fatta in casa, bagnata con liquori e farcita con diversi strati di crema. 49 La Vendemmia Da sempre l’uva rappresenta un succo straordinario, dolce ed inebriante, per alcuni un medicinale, per altri uno stupefacente. I Romani e i Greci riservavano alla “bevanda degli dei” attenzioni sociali, letterarie, filosofiche, ecc… Col Cristianesimo il vino, assumendo una forte sacralità, costituisce (assieme al pane) il simbolo dell’Eucarestia. La vendemmia (dal latino vinum demere, estrarre del vino) è senz’altro l’appuntamento rurale più importante dell’autunno e segue riti e gesti precisi. Nei menù dei giorni della vendemmia sono presenti i classici cibi del giorno della festa: maccheroni alla chitarra, ravioli, lasagne, tacchino ripieno, arrosti, castagne. Tra i dolci ricorrono pizzelle, tarallucci o cellipieni. Ma sicuramente il meglio della tradizione è espresso dal mostocotto, col quale s’impastano murzitti o mostaccioli che ricordano il mustaceus dei latini ,una focaccia profumata di alloro che veniva data agli ospiti in partenza. La spremitura delle olive L’ulivo e l’olio rappresentano da sempre un altro segno forte della civiltà mediterranea e la carta d’identità del mangiar sano che caratterizza la tradizione culinaria abruzzese ed atessana. La raccolta delle olive coinvolge amici e parenti e le loro fatiche vengono alleviate dalla degustazione di cibi nutrienti e calorici come pizza bianca con frittate di peperoni, pizze e fojie, pallotte cacio e uovo, pollastro a pezzi, pane con salsicciotti fatti in casa, formaggio pecorino, alici dorate e fritte e tante altre vivande. Solo al termine della spremitura l’assaggio del nuovo olio diventa un vero rituale gastronomico insaporito da fantasiose bruschette, da maccheroni aglio olio e peperoncino piccante, da focacce semplici o farcite, infine dal consumo di fiumi di olio a crudo su patate, verdure e insalate e su piatti a base di carne o pesce. Natale Il Natale, oltre ad essere la festa religiosa più sacra e più sentita nel mondo cristiano, è anche la ricorrenza più attesa per quanto riguarda la preparazione di piatti e dolci tipici. Il giorno della vigilia è caratterizzato dal cenone magro con pietanze piuttosto semplici, ma robuste come fidelini con le sarde e le alici e baccalà, seguiti da anguille e capitoni. Una particolare attenzione si riserva per i dolci, soprattutto cellipieni con marmellata d’uva, crespelle fritte, calgionetti preparati con pasta di ceci e mostocotto, oppure con miele, noci, mandorle e cioccolato. Al termine della cena vengono serviti frutta fresca e secca, seguiti da panettoni, pandori e torroni. Il giorno di Natale, invece, le tavole abruzzesi si fanno più ricche, raggiungendo il massimo della bontà con il brodo di tacchino con il cardone, le polpettine e la pizza rustica, seguito da ravioli o lasagne o maccheroni alla chitarra e poi da arrosti, verdure e contorni vari; infine si gusteranno dolci e torroni. 50 AAVV., 1996, Cammini europei ’96, itinerari culturali nella “terra di confine”, Vasto. AAVV :, 1984, Sannio, Pentri e Frentani dal VI al I sec. a. C.Isernia, Museo nazionale Roma 1980. Atti del Convegno. Campobasso. AAVV, 1995, Insediamenti fortificati in area centro-italica. Atti del Convegno Chieti 1991. Pescara. AAVV, 1988, Mura poligonali, I Seminario Nazionale di Studi, Alatri, ottobre 1988 AAVV., 1990, Chieti e la sua provincia. Chieti. AAVV., 1995, Insediamenti forrtificati in area centro italica, Atti del Convegno.Chieti 1991. 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Carabba, Lanciano 54 Gli alunni: Canuto Nicolas Cericola Simone Colonna Luigi D’Ardes Damiano De Braco Federica De Mattia Benedetta Del Forno Isabella Di Pasquale Dora Galante Mattia Iacovanelli Angelora Iacovanelli Norma Laino Carmelina Marianaccio Adelina Staniscia Massimo Tarantini Antonella Tieri Melissa Vitale Fabio Giuseppe Vitulli Matteo Coordinamento elaborazione testi: Norma Iacovanelli Adelina Marianaccio Acquisizione immagini: Cericola Simone Luigi Colonna Antonella Tarantini Fabio Vitale Consulenza storico-archeologica: Prof.ssa Adele Cicchetti Coordinatrici traduzioni: Prof.ssa Margherita Furlani Prof.ssa Barbara Pezzetti Coordinatori informatici: Prof.ssa Consiglia Travaglini Daniele Marchetti Consulenza musicale, acquisizione immagini, elaborazione testi: Mattia Galante Realizzazione grafica, impaginazione, montaggio: 55 Damiano D’Ardes DIRIGENTE SCOLASTICO: Prof. Romualdo Cefalo COORDINATRICE DEL PROGETTO: Prof.ssa Adele Cicchitti GLI INSEGNANTI COINVOLTI NEL PROGETTO: Prof.ssa Margherita Furlani Prof.ssa Consiglia Travaglini Prof.ssa Barbara Pezzetti Prof. Sandro Lolli Prof. Nicola Ranieri Partecipanti: Lycée Charles RENOUVIER in PRADES (Francia); Gesamtschule Heiligenhaus in HEILIGENHAUS (Germania); KOCATURK HIGH SCHOOL in TURGUTLU (Turchia). Referente Paese E-mail Adele Cicchitti Italia [email protected] Nuno De Matos Francia [email protected] Joerg Schoeddert Germania [email protected] Fatma Kocatűrk Turchia [email protected] 56