I due percorsi erano uniti da un corridoio tratturale, il tratturo

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PROGETTO VESTIGIA
SOCRATES COMENIUS 1
“Vestigia” è un progetto europeo sulla conoscenza, tutela e valorizzazione dei beni culturali dei
territori di riferimento degli Istituti coinvolti.
Partecipano al progetto :
Italia : Liceo Ginnasio Vittorio Emanuele II” di Atessa, sezione staccata di Lanciano,
provincia di Chieti, scuola capofila.
Nazioni partners:
Germania : Gesamtschule Heiligenhaus
Francia: Lycée Charles Renouvier from Prades
Turchia: Kocaturk High School from Turgutlu
Nel progetto, di durata triennale, vengono esaminate le sequenze storico-cronologiche delle varie
realtà attinenti agli ambiti territoriali di appartenenza, in modo da poter leggere “verticalmente” ed
“orizzontalmente” le emergenze individuate, operando opportuni paralleli, rimandi, sincronie,
divergenze e quant’altro si ritenga necessario in itinere.
In tal modo si potranno individuare concordanze e differenze nella focalizzazione delle radici
comuni dell’identità europea.
Nell’anno scolastico 2005-2006, oltre la presentazione geografica dei singoli territori interessati,
vengono analizzate le tappe della preistoria, dell’età del ferro fino alla romanizzazione (che in
Abruzzo coincide con la grande stagione degli Italici), denominatore comune della storia di tutti i
paesi partners.
Negli anni scolastici successivi saranno oggetto di studio l’epoca medioevale, rinascimentale ecc.,
via via, fino al mondo contemporaneo, seguendo stessi metodi e stessi procedimenti.
In appendice, una sezione del progetto prevede uno studio dell’antropologia simbolica del territorio
di appartenenza (tradizioni, culti, usi, costumi, enogastronomia ecc.), a cui si può lavorare ad
libitum di anno in anno. Per questa prima annualità è stato affrontato lo studio dell’uso dei cibi
rituali nel ciclo dell’anno.
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PREMESSA METODOLOGICA
Nel presente lavoro sono ricompresi i contenuti previsti per la prima annualità del progetto
“Vestigia”, Comenius, azione 1.
Sono stati individuati, analizzati e sintetizzati i punti nodali degli argomenti affrontati secondo le
linee programmatiche. In questo primo anno l’attività di studio e di ricerca concerneva : una
ricognizione fisico-politica della Regione-Abruzzo e le tappe del popolamento del territorio nella
Preistoria, in Età italica e nell’Età Romana, almeno fino alla piena età imperiale.
Dopo l’introduzione sulla geografia fisica e politica della Regione Abruzzo, con un’appendice
sulla pratica della transumanza orizzontale, è stata condotta un’analisi generale sullle testimonianze
archeologiche della Preistoria inerenti all’intera regione, dal momento che i siti non sono di
numero elevato. Sono stati però presi in considerazione, nello specifico, due siti preistorici di
rilievo, ricadenti nel territorio della provincia di Chieti, perchè esemplificativi delle dinamiche
religiose e socio-economico-culturali.
Per quanto concerne l’Età italica e l’Età romana, l’intensificazione e la ramificazione capillare
dei siti dislocati in tutta la regione ( e in numero elevato per l’economia e la finalità del presente
lavoro), hanno di fatto comportato una riduzione del campo di indagine e motivato la scelta di
condurre un’analisi ricognitiva nel territorio della sola provincia di Chieti, realtà di appartenenza di
Atessa, sede del Liceo Ginnasio, scuola capofila del progetto Vestigia.
Dal momento che gli insediamenti italici e romani sono presenti in modo significativo nel teritorio
provinciale, si è preferito raggrupparli per tipologia architettonica o per ruolo o funzione o
destinazione d’uso, non tralasciando nè i macro riferimenti alla realtà regionale, ove opportuno, nè i
micro riferimenti e le interrelazioni fra le diverse comunità ed i diversi insediamenti antropici .
Infine, per la sezione dedicata all’antropologia simbolica, si è scelto, durante questo primo anno,
di affrontare la tematica del rapporto tra alimentazione e cultura, passando in rassegna i cibi rituali
consumati nel ciclo dell’anno ed ancora in uso nel territorio.
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Territorio abruzzese
La regione Abruzzo ospita 1.249.388 abitanti in un territorio di 4168 kmq. Confina a nord con
Marche, a sud col Molise, ad ovest col Lazio e ad est con il Mare Adriatico. Lo stemma abruzzese è
uno scudo diviso in tre fasce oblique bianca, verde e azzurra che simboleggiano rispettivamente le
montagne innevate, i boschi e il mare. Lo stemma ripete lo schema dello scudo italico,
suggestivamente legato alle vicende storiche delle tribù sabelliche in lotta contro Roma. Durante la
guerra sociale i popoli italici costituirono una confederazione, formando gli Stati Uniti Sabellici,
unici e primi nella penisola, ed adottando una capitale sopranazionale comune, Corfinio, chiamata
Italia.
Geograficamente l’Abruzzo appartiene al Centro Italia, ma da molti viene considerata una
regione del Sud. Nonostante l’impraticabilità del territorio, che ha tenuto la popolazione per molto
tempo isolata, favorendo così il mantenimento di un ambiente naturale abbastanza originale, ci sono
resti del passaggio di popoli invasori come i Longobardi, i Normanni, gli Hohenstaufen, gli
Angioini, gli Aragonesi, gli Asburgo di Spagna ed i Borboni di Napoli.
Questa situazione di isolamento è finita quando, negli anni sessanta del XX secolo, hanno costruito
le autostrade per Roma, Bologna e Bari e il tunnel del Gran Sasso.
In Abruzzo ci sono le più alte vette della catena degli Appennini come quelle del Gran Sasso, della
Maiella e del Velino-Silente; inoltre si trovano numerosi valli, boschi, parchi e zone artistiche di
alto pregio.Le province della regione sono:Teramo, Chieti , Pescara e l’Aquila che è il capoluogo
regionale.
Lo storico umanista Flavio Bondo ritiene che il nome Abruzzo derivi da Aprutium correzione di
Praetutium, nome conneso sia alla tribù dei Praetutii sia alla denominazione di una colonia fenicia
situata nell’attuale territorio di Teramo che fu soprannominata dai Romani Petrutie o Praetutia. Per
altri studiosi il nome Aprutium deriverebbe da parole latine: aper, cinghiale, per indicare la regione
dei cinghiali; abruptum, scosceso, per segnalare la regione dalle rocce scoscese; o addirittura da
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Brutiis, per indicare gli abitanti della Calabria che si sarebbero insediati nell’attuale territorio
abruzzese.
Nel VI secolo d.C. Gregorio Magno scrisse una lettera destinata ad un vescovo, Oportunus de
Aprutio, in cui viene nominato per la prima volta il nome Aprutium, riferito al territorio di
Interamna Petutia (attuale territorio di Teramo). Durante la dominazione dei Normanni, con questo
termine si indicavano le regioni a nord del Regno di Sicilia; mentre, al tempo di Federico II, si
indicavano le zone dei sette gastaldi longobardi, aventi come capoluogo Sulmona.
Per quanto riguarda l’economia, l’agricoltura è, con i suoi prodotti tipici, come zafferano,
liquirizia, tabacco o barbabietola, ma anche vino, olio, legumi, cereali, ortaggi, frutta esportati in
tutto il mondo, il settore più importante. Molto rilevante è anche l’allevamento sia di ovini che di
suini. Infatti la tradizione abruzzese è legata alla storia della transumanza.
Dal sottosuolo abruzzese si estraggono la bauxite, l’alluminio, il petrolio e gli idrocarburi; inoltre
dagli impianti idroelettrici di Campotosto, del Sagittario e dell’Alto Sangro si produce un quinto
dell’energia idroelettrica italiana. Nelle zone intorno ai capoluoghi, si possono trovare zuccherifici,
industrie della telecomunicazione, manifatturiere ed edilizie. Diverse aree industriali, con attività
metallurgiche, automobilistiche, motociclistiche sono sorte in diverse località regionali e si
affermano con prodotti di qualità sia a livello locale che nazionale e internazionale. Un grande
progresso sta avendo anche l’industria turistica sulla riviera adriatica e nelle località sciistiche
dell’interno.
La transumanza
Gli itinera callium o percorsi tratturali hanno rappresentato per millenni l’unica viabilità
perseguibile, non solo per le greggi e gli armenti, ma anche per contadini, artigiani, mercanti e
pellegrini. La transumanza, fenomeno diffuso in tutta Europa, alle latitudini più diverse, ha
caratterizzato anche l’economia e la cultura delle zone alpine ed appenniniche italiane. In Abruzzo
la migrazione delle greggi e degli altri animali condotti al pascolo si presenta sotto due aspetti :
transumanza verticale o processo di monticazione dalla pianura ai monti; transumanza orizzontale
o spostamento delle greggi che pascolano in estate sui monti abruzzesi e svernano nella stagione
fredda sulle pianure del Tavoliere pugliese, seguendo le vie d’erba o tratturi. I percorsi tratturali
principali, intersecati o affiancati da una fitta ed articolata rete di tracciati , formati da tratturelli,
sentieri, piste e camminamenti, caratterizzano la geografia del territorio e costituiscono un
complesso sistema viario ed economico. La transumanza presenta ritmi stagionali, in genere dalla
primavera inoltrata alla tarda estate . Essa ha origini antichissime, preistoriche, come dimostrano i
ritrovamenti di siti preistorici o neolitici in prossimità delle arterie tratturali. Tuttavia gli
spostamenti stagionali, i tempi, i ruoli ed i rituali connessi alla transumanza si definiscono soltanto
in epoca italica, in concomitanza con lo sviluppo dei centri fortificati, disseminati lungo
l’appennino abruzzese-molisano.
Con la romanizzazione delle regioni centrali d’Italia, poi, le attività pastorali vengono organizzate
razionalmente e giuridicamente. Ed è appunto la ricca e puntuale legislazione romana riguardante la
transumanza che ci testimonia l’enorme importanza economica della pastorizia. Non a caso il
termine “pecunia”, denaro, risulta strettamente legato a pecus, bestiame. Con la caduta dell’impero
romano e le invasioni barbariche, la transumanza subisce un inesorabile declino e viene riattivata
solo grazie all’operato di Federico II che fa emanare editti e leggi sulla pastorizia transumante. Con
Alfonso I d’Aragona, che promulga la Prammatica dogana della Mena delle pecore in Puglia nel
1447, la storia della transumanza raggiunge il vertice economico, artistico e culturale. Nel periodo
aragonese la larghezza del tratturo viene fissata a 111 m. circa, misure inferiori sono definite per i
tratturelli ed i bracci. Il calendario della migrazione pastorale è scandito nell’arco di tempo cha va
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da San Michele (8 maggio) a San Michele (29 settembre) ed i tratturi assumono quelle
denominazioni storiche ancora oggi in uso: L’Aquila-Foggia, Centurelle-Montesecco, AteletaBiferno, Celano-Foggia, Pescasseroli-Candela, Lanciano-Cupello. Per mantenere integre le vie
pastorali, nel rispetto delle misure determinate e dei percorsi tracciati, si rendono necessarie,
attraverso i secoli, varie “reintegre”, ad opera di funzionari statali del Regno di Napoli. Il sistema
armentizio produce ricchezza e gettito fiscale, favorisce gli scambi commerciali, alimenta il
commercio della lana e delle pelli, dei prodotti lanieri e caseari, veicola idee, arte, stili di vita, culti,
tradizioni. Ma il declino della transumanza ha inizio con le leggi di G.Bonaparte a favore
dell’agricoltura e neppure risulta sufficiente la legislazione borbonica per riattivare la pastorizia. La
popolazione animale in transito lungo i tratturi subisce una feroce contrazione: si passa dai 5 milioni
e 500 mila capi del 1604 ai 50-100 mila capi dei giorni nostri, trasportati su più comodi treni e
camions .
Sulle percorrenze tratturali insistono molti luoghi di culto, soprattutto prossimi a sorgenti e fonti,
indispensabili per la sosta di greggi e pastori. La grande architettura del mondo pastorale ha la sua
espressione più alta nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio all’Aquila, anche se tutta la città
ed i centri dell’aquilano sono caratterizzati da architetture pastorali (vedi Santa Maria di Roio e
mausoleo di San Bernardino all’Aquila, Santa Giusta di Bazzano, Santa Maria ad criptas di Fossa,
la chiesa ottogonale del cimitero di Poggio Picenze, Santa Maria di Valleverde a Barisciano , Santa
Maria delle Grazie a Civitaretenga, Santa Maria Assunta e San Pellegrino a Bominaco, Santa Maria
di Cintorelli che segna la biforcazione dal Regio Tratturo o Tratturo Magno L’Aquila-Foggia del
ramo Centurelle-Montesecco ).
Regio Tratturo o Tratturo Magno
Il tratturo L’Aquila-Foggia , conosciuto anche come Regio Tratturo o Tratturo Magno, presenta
due percorsi principali : quello costiero e quello montano che, dopo il tratto comune nel territorio
aquilano, hanno il loro punto di confluenza o biforcazione sotto San Pio delle Camere, presso la
chiesa di Santa Maria di Cintorelli.
Il percorso costiero toccava, in ordine di percorrenza, Capestrano, Bucchianico, Lanciano,
Mozzagrogna, Torino di Sangro, Vasto, Petacciato e Guglionesi per poi spingersi nell’entroterra
pugliese fino al Tavoliere delle Puglie.
Il percorso dell’entroterra, invece, toccava centri come Tocco da Casauria, Lettomanoppello,
Guardiagrele, Atessa, Furci, Lentella e Montenero di Bisaccia per poi proseguire fino alle pianure
pugliesi.
I due percorsi erano uniti da un corridoio tratturale, il tratturo Lanciano-Cupello.
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Preistoria in generale
La più remota presenza dell’uomo nel territorio dell’Abruzzo-Molise, quale risulta dalle indagini
archeologiche sulla preistoria abruzzese e molisana, è testimoniata in località Isernia La Pineta ,
dove è stato scoperto un accampamento paleolitico di 730 mila anni fa. In un ambiente simile alla
savana africana , con resti di grossi mammiferi, è stato scoperto un accampamento paleolitico e
sono state rinvenute tracce antropiche, appartenenti all’Homo Erectus, il quale già usava strumenti
in pietra e già conosceva il fuoco. Altre testimonianze preistoriche interessano le località abruzzesi
di Madonna Del Freddo e Masseria Zannini, nel chietino, con documentazione di presenza umana e
ritrovamento di amigdale e schegge clactoniane . In Val di Sangro la presenza più antica dell’uomo
è possibile attestarla al Paleolitico inferiore a Pescopennataro. In questo periodo i primi nuclei
occupavano il territorio, privilegiando colline e monti. Numerosi i ritrovamenti, tra cui i manufatti
di tecnica protolevalloisiana (lavorazione della selce), appartenenti alla cosiddetta cultura
“Abruzzese di Montagna”. Testimonianze sono presenti anche a Villa Badessa, Foce del Foro,
Svolte di Popoli, Valle Giumentina e sulla Maiella a Colle Tondo di Pretoro.
Nel Paleolitico medio, caratterizzato dalla presenza dell’homo sapiens di tipo neanderthalensis, si
sviluppa l’industria musteriana, documentata a Serramonacesca nel sito di Grotta dei Mandrioni.
Con il Paleolitico superiore si afferma il modello Bertoniano, che prende il nome dal sito di
Montebello di Bertona e che si estende da 18000 anni fa fino al Neolitico. I Bertoniani vivevano in
grotte, a basse quote, presso bacini lacustri, ma inseguivano le prede anche a quote più alte. I
ritrovamenti più importanti sono costituiti da oggetti anche di grandi proporzioni, ricavati dalla
selce: grattatoi, bulini, lame e punte. Testimonianze si hanno a Campo delle Piane di Montebello di
Bertona, nella zona del Fucino e a Villetta Barrea .
Intorno a 13000 anni fa il clima subisce un notevole cambiamento, perciò cambiano i regimi idrici,
la fauna e la flora, determinando adattamenti antropici diversi.
Il Mesolitico inizia con questo cambiamento climatico, ed e’ un periodo di passaggio tra il
Paleolitico e il Neolitico: nuovo clima, nuova fauna, soprattutto presenza di prede più piccole.
Testimonianze archeologiche notevoli sono a Ripoli in Val Vibrata e ad Ortucchio.
Con il Neolitico e lo sviluppo dell’agricoltura i gruppi umani insediati in Abruzzo diventano
sempre più sedentari e danno vita a comunità sempre meglio organizzate economicamente e
socialmente. I ritrovamenti archeologici interessano diversi siti, ma la documentazione più
interessante proviene dalla grotta dei Piccioni di Bolognano. Sono, infatti, venuti alla luce numerosi
frammenti di ossidiana, cioè un vetro vulcanico fragile, ma molto tagliente, probabilmente
proveniente da Lipari; nonché dei pani di asfalto, presente nella zona di Scafa ed allora utilizzato
per suturare le fratture nella ceramica. La grotta, inoltre, fu anche sede di pratiche cultuali e magicomisteriche, con attestazione di riti cruenti e sacrifici umani, documentati da scheletri di bambini,
sacrificati, forse, per propiziare le messi.
Con la fine del v millennio l’uomo si sposta su terrazzi fluviali , costruisce capanne e fossati, usati
per drenaggio e scarico e con scopi sepolcrali . L’economia era basata sull’agricoltura e
sull’allevamento.
Testimonianze importanti ci sono state restituite in gran numero da diverse località, in modo
particolare dal Villaggio Leopardi a Penne (VI mill. A. C.)
Tra V e III millennio a.C. il popolamento della regione abruzzese è caratterizzata dalla fondazione
di nuovi villaggi, con sviluppo di caccia, pesca e agricoltura.
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Al V-IV millennio a. C. si possono datare i villaggi fluviali più importanti, come quelli di
Catignano, di Fonterossi di Lama dei Peligni e di Ripoli. In quest’ultima località è stata rinvenuta
anche
una
sepoltura
dentro
una
capanna,
di
una
donna
inumata con il suo cane.
Tra i ritrovamenti più interessanti del III millennio a. C., inerenti all’area della provincia di Chieti,
si segnalano: un pugnale in pietra da Pennadomo , asce martello da Lama dei Peligni e schegge di
selci lavorate e di colore bruno rinvenute a Monte Pallano, in località Lago Nero.
Con il II millennio a. C. altri mutamenti interessano la regione abruzzese, come l’ arrivo di genti più
bellicose e nuove forme di insediamento. Notevole il villaggio palafitticolo di Celano che ha
restituito documenti preziosi sulle tecniche di costruzione e di utilizzo delle materie prime e sulle
tipologie funerarie, con deposizione dei corpi nell’incavo dei tronchi d’albero.
Con il II/I millennio a. C. comincia l’Età del Bronzo caratterizzata dalla lavorazione del metallo,
l’introduzione dell’aratro,la policultura arborea, la presenza del cavallo e di altri animali domestici
e l’artigianato , con produzioni di utensili. Inizia lo sviluppo degli scambi e dei commerci, si
instaurano rapporti con il mondo egeo e poi con le altre comunità insediate nella penisola, si
abbandonano gli ipogei naturali per le sepolture e si fanno le prime scelte consapevoli e mirate per
il seppellimento.
Numerosissime le testimonianze archeologiche in tutta la regione. Nell’ambito del territorio di
studio, ricordiamo: un’ascia di bronzo da Lama dei Peligni, un ripostiglio da Vallone Torbido di
Colledimacine, un anello digitale da Piano Laroma di Casoli, l’ascia ad alette di bronzo rinvenuta
nel territorio di Casoli, pendagli, fibule, placche di cinturone e collane da diverse altre località.
Inoltre manufatti in ceramica sono stati rinvenuti nei villaggi del Fucino e a Ripoli. Tale tipo di
ceramica è denominata Appenninica, si presenta ricca di forme e decorazioni, rette, curve, puntini,
tratteggi e excisioni, cioè asportazione dell’argilla intorno al motivo decorativo che , in tal modo,
risulta a rilievo. In una seconda fase, denominata ceramica subappenninica, la decorazione diventa
ancora più curata e sofisticata: compaiono grandi vasi globulari, le scodelle, i boccali. All’età del
bronzo finale, detto anche della Cultura Protovillanoviana, appartengono ceramiche incise e
decorate, varie per le forme e i disegni.
Durante l’età del bronzo, numerose tribù migrano nelle terre abruzzesi. In genere sono pastori che
si insediano, per lo più pacificamente, nei vari territori, spesso fondendosi con le tribù locali e
costituendo i primi, più antichi nuclei dei popoli italici. Questi si riconoscono intorno al nome
SAFINIM, radice comune di Sabini, Sanniti e Sabellici. Solo dal VI-V sec.a.C., questi popoli
assumono i nomi ben precisi e storicamente attestati di PELIGNI, MARSI, VESTINI, EQUI,
PRETUZI, MARRUCCINI, FRENTANI, CARRICINI o CARECINI, PENTRI che riconoscono e
celebrano miticamente la propria origine nel rito del VER SACRUM, la primavera sacra. Narra,
infatti, la leggenda che i Sabini, in guerra con gli Umbri, avevano fatto voto alla divinità di
sacrificare a Marte, dio della guerra, una parte delle cose generate e di consacrare, sempre al dio,
un'altra parte. Essendosi scatenata una terribile carestia, l’oracolo raccomandò di consacrare al dio
anche tutti i nati dell’anno. I Sabini accettarono, ma non uccisero i nuovi nati, bensì, divenuti essi
grandi, li mandarono fuori dai loro territori al seguito di un toro. Giunto nel paese degli Opici, il
toro si sedette, allora i giovani Sabini lo uccisero, sacrificandolo a Marte, cacciarono gli abitanti dai
loro villaggi e vi si insediarono. Questa tradizione del ver sacrum è alla base della migrazione di
quasi tutti i gruppi primitivi mandati fuori dai territori dei Sabini. Essa, tuttavia, è chiaramente
troppo semplicistica per spiegare i complessi e lunghi processi di colonizzazione dei Sabini.
Tra XIV e X secolo a.C. compaiono i primi ripostigli e le prime necropoli e vengono costruiti
anche i primi insediamenti castellieri o recinti fortificati, con funzione di controllo, difesa e con
produzione diversificata.
Per quanto riguarda tali insediamenti, possiamo distinguere cinque tipologie fondamentali:
-su altura isolata;
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-su un gruppo di alture;
-su altopiano orizzontale;
-su terrazzo fra due fiumi;
-su terrazzo parallelo ad un corso d’acqua.
Gli ocres o recinti fortificati costituiscono poi il segno architettonico più rilevante di tutti i popoli
italici, fino allo scontro fatale con Roma. Anzi le tribù italiche intensificano la costruzione di mura
poligonali a recinzione di spazi più o meno estesi, proprio durante le guerre sannitiche, come
elemento di difesa e rifugio per popolazioni, greggi ed armenti.
Il villaggio del bronzo finale di Fonte Tasca
Il sito di Fonte Tasca ( comune di Archi ma gravitante su San Luca di Atessa), posto a 160 m. di
quota, nella valle del Sangro è uno degli insediamenti più importanti della provincia di Chieti,
risalente ad un periodo compreso fra XI e VII sec. a.C.. Le indagini archeologiche condotte negli
anni 70-80 del XX ° secolo e ripresi dopo il duemila, hanno evidenziato un fossato triangolare, di
ampiezza variabile da 8 a 10 m. e profondo 2-3 m., utilizzato come drenaggio e/o raccolta delle
acque. L’area a monte del fossato , nella quale si situavano le capanne di abitazione, presenta il
suolo sistemato con detriti ceramici, piccole pietre e frammenti di intonaco. Inoltre il pendio che
ospita l’abitato presenta tracce di tre terrazzamenti artificiali.
Molto interessante il repertorio vascolare restituito dal sito : ciotole, olle, tazze , scodelle, orcioli
ecc. perfino un bollitore per il latte con coperchio munito di fori, a ceramica fine ed incisa o di
impasto o in argilla depurata, che rivelano una buona lavorazione. Inoltre sono presenti diversi
manufatti, spatole, fornelli, lamine, scalpelli e oggetti in bronzo, fra cui armi, punteruoli, arnesi
vari, ma anche monili , come anelli, bottoni, fibule, spilloni , fondi di piatto ed una bulla , che
denotano il buon livello socio economico della comunità insediata a Fonte Tasca. Tuttavia la
testimonianza più importante restituita dal sito è rappresentata da noccioli di olive carbonizzati che
le analisi indicano appartenere all’olivo coltivato e non all’olivastro spontaneo. Siamo quindi di
fronte ad un’attività qualificante, quella della produzione olearia, che ancora caratterizza la zona.,
confermata anche dalla presenza archeologica di numerosissimi frammenti di dolii di elegante
fattura, ma senza traccia di uso del tornio, rinvenuti sul posto e destinati a contenere derrate
alimentari, per lo più liquide, come vino ed olio. Secondo Radmilli, si potrebbe trattare di una delle
prime prove documentate della coltivazione dell’olivo per l’intero Abruzzo.
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GROTTA DEL COLLE: UN ESEMPIO DI CONTINUITÀ CULTURALE
La storia delle ricerche
La Grotta del Colle è una vasta cavità naturale che si apre a 550 m s.l.m.sulla Maiella nel Comune
di Rapino.
La grotta è costituita da un unico grande ambiente rettangolare profondo 65 metri e largo quasi 40.
La Grotta del Colle deve la sua notorietà archeologica ad una lunga serie di rinvenimenti di reperti
al suo interno. Le prime notizie circa la scoperta di oggetti di interesse antiquario risalgono al 1800,
quando lo studioso Romanelli fa menzione della cavità e menziona “il ritrovamento di ossa di
sterminata grandezza”.
Verso la metà dell’ottocento Teodoro Mommsen acquista a Napoli una placca rettangolare di
bronzo incisa,la famosa Tabula Rapinensis, formulario religioso in lingua marruccina, conservata a
Berlino e dispersa durante il II conflitto mondiale.
Nel 1932 avviene una nuova scoperta. Alcuni abitanti del luogo, durante scavi clandestini, scoprono
un bronzetto noto come la Dea di Rapino, che poco tempo dopo venne riconosciuto come Dea Ceria
o Giovia.
La grotta acquistò notorietà e nell’estate 1940 Giovanni Annibaldi avviò ricerche sistematiche di
scavo.
L’indagine archeologica evidenziò la fase di frequentazione medievale (la più recente) ,
testimoniata da strutture murarie di un edificio di culto cristiano sovrapposto a tracce antiche e
preistoriche.
Durante la seconda guerra mondiale, gli abitanti di Rapino e Pretoro si rifugiavano nella grotta e ciò
recò danni consistenti alle testimonianze archeologiche.Le ricerche archeologiche ripresero negli
anni 50 del XX sec. con Antonio M.Radmilli che realizzò due profonde trincee di scavo. Si
rinvennero solo alcuni strumenti litici del neolitico e pochi frammenti ceramici dell’Età del Bronzo.
Nel 1995 la Sovrintendenza Archeologica dell’Abruzzo organizza nuove ricerche all’interno della
grotta coordinati da Vincenzo D’Ercole e Silvano Agostini.
Lo scavo di Giovanni Annibaldi
Lo scavo di Giovanni Annibaldi ha interessato un periodo a cavallo dell’estate del 1940. I risultati
non sono mai stati resi noti e alla Sovrintendenza manca il giornale di scavo. La documentazione
esistente lascia pensare che lo scavo abbia avuto inizio all’esterno per poi interessare la parte
interna. La prima evidenza archeologica fu la chiesa cristiana realizzata con murature di calcare.
Il dato più importante era la presenza di sepolture nel pavimento dell’edificio. La prima sepoltura è
stata rinvenuta nell’ambiente occidentale della zona principale. Si tratta di una tomba ben
costruita, con le pareti interne foderate di blocchi squadrati. La seconda, al margine della zona
meglio conservata dell’edificio aveva però risentito dell’effetto negativo di alcuni crolli. La
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struttura si presentava come un pozzo rettangolare profondo due metri. Furono poi ritrovate anche
alcune tombe scavate nel suolo della grotta.
I reperti significativi ritrovati nello scavo
Il nucleo di oggetti rinvenuti negli scavi nella Grotta del Colle è composto da poco più di un
centinaio di reperti, con materiale pre-preistorico prevalente. Alle prime fasi del neolitico si
attribuiscono frammenti di un vaso a fiasco ornato con profonde linee incise verticalmente e una
scodella. Mancano reperti di un’età neolitica più avanzata. Alle fasi iniziali dell’età dei metalli si
attribuiscono un pendaglio semicircolare e un frammento di testa di mazza in pietra.
Ben rappresentata è l’antica età del bronzo con anse a gomito, orli di olla ed una piccola ciotola
carenata
Alle prime fasi della media età del Bronzo sono da riferire le scodelle con vasca a calotta, la ciotola
carenata, la ciotola a profilo arrotondato e il vaso a collo distinto e corpo ovoide.
Il bronzo medio appenninico è testimoniato da una ciotola carenata.
Ad un momento avanzato dell’età del bronzo è riconducibile un frammento di ciotola carenata. Alle
ultime fasi dell’età del bronzo sono riconducibili un frammento di ciotola e un frammento di parete
decorato. Al periodo ellenistico sono da attribuire numerosi oggetti votivi.
Le nuove ricerche
Nell’estate del 1995 la Sovrintendenza Archeologica dell’Abruzzo avvia una serie di interventi
mirati alla valorizzazione storica della Grotta del Colle di Rapino. Le ricerche hanno lo scopo di
verificare lo stato di conservazione dei reperti rinvenuti in precedenza e di esplorare il suo spettro
cronologico più antico. E’ stato dunque deciso di scavare nuovamente nella zona d’ingresso alla
cavità, poiché all’interno è presente un grande interro. L’area di indagine aperta all’inizio dei lavori
aveva forma rettangolare. Per comodità di scavo e di documentazione, l’area archeologica è stata
suddivisa in tre distinti settori.
Nel primo (settore III) lo studioso aveva approfondito lo scavo per almeno due metri di profondità,
isolando il lato meridionale dell’edificio medievale, il secondo (settore II) riguardava il nucleo
principale della chiesa medievale.
Lo scavo nel settore III non ha restituito nuove evidenze archeologiche significative. Nel settore II è
stato riportato alla luce l’ambiente principale della piccola cella medievale. La struttura aveva
subito danni consistenti alle murature e al pavimento. Il nuovo scavo ha permesso di riscoprire
anche una nuova sepoltura.
Lo scavo archeologico del 1995 ha ancora permesso di identificare e documentare una serie di
testimonianze originali che non era stato possibile registrare in precedenze
Non va dimenticato il gran numero di sepolture rinvenute all’esterno delle strutture e nelle
immediate vicinanze. La novità è rappresentata dalle tombe infantili , soprattutto neonatali, scoperte
all’interno dell’edificio. Il ritrovamento più eclatante è dato dalla scoperta di un pozzo per fusione
per una campana di bronzo, ottenuto scavando nel terreno una profonda buca semicircolare.
Conclusioni finali
Le grotte si possono , in generale, distinguere in: grotte a sviluppo complesso , caverne o ripari
articolati, ripari a rifugio semplice, cavità a sviluppo assiale. La Grotta del Colle può rientrare nel
tipo definito “caverne o ripari articolati” dal momento che si presenta come un’ ampia e profonda
caverna dall’ingresso imponente. Un ulteriore aspetto che avrà influito nella sua ininterrotta ,
plurisecolare frequentazione è senz’altro l’ingresso agevole.
L’acqua era presente a livello di stillicidio. Le tracce di frequentazione più antiche risalgono ,come
gia detto, al Paleolitico Superiore, si attestano al Neolitico ( archeologicamente documentata solo la
fase più antica) e poi all’l’età dei metalli. Ulteriori tracce risalgono al VII sec. a. C., al VI sec. a.C.
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ed all’ età ellenistica vengono datate la Tabula Rapinensis e la stipe votiva. Le strutture murarie e le
sepolture testimoniano poi un intenso uso della Grotta del Colle nel Medioevo.
Poniamo la nostra attenzione all’età del bronzo. E’ ormai luogo comune nella letteratura
archeologica che le grotte, durante l’età del rame, avessero un carattere funerario, mentre con la
media età del bronzo si afferma un loro carattere “sacrale”, testimoniato dal riconoscimento di culti
e riti legati alla fertilità della Terra.
Il ritrovamento nella Grotta Del Colle non solo di doni votivi legati ad un santuario ellenistico, ma
anche e soprattutto la presenza della statuina fittile di età arcaica e nota come Dea di Rapino
sembrano avvalorare l’ipotesi che la cavità abbia svolto almeno, sin dall’età del Bronzo il ruolo di
luogo sacro.
E’ probabile, inoltre, che presso la Grotta del Colle, fosse praticata la prostituzione sacra, in età
italica, a scopo propiziatorio della fertilità e dell’abbondanza. Un’eco della persistenza degli antichi
rituali propiziatori , rivisitati cristianamente, è presente nella processione delle Verginelle di
Rapino, bambine vestite di bianco e coperte da grandi quantità d’oro che rinnovano ogni anno, l’8
maggio, l’omaggio rituale alla Madonna del Carpino che liberò e salvò la zona da una tremenda
siccità.
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I popoli italici
A più riprese, durante l’età del bronzo e l’età del ferro, numerose tribù migrano nelle terre
abruzzesi. In genere sono pastori e si fondono, per lo più pacificamente, con le popolazioni dei
villaggi neolitici abruzzesi, dediti soprattutto all’agricoltura. Dalla loro fusione si originano i popoli
italici, pastori ed agricoltori in tempo di pace, ma bellicosi e forti guerrieri in tempo di guerra.
A partire dal VI-V secolo a. C., questi popoli assumono nomi ben precisi : Peligni, Marsi, Vestini,
Equi, Praetuzi, Marrucini, Frentani, Carricini, tutti in Abruzzo, e Pentri nel Molise.
Alla base di queste migrazioni di popoli che avevano nei Sabini i loro antenati comuni, secondo gli
antichi autori c’era il rito del ver sacrum , la primavera sacra. Narra la leggenda che i Sabini, in
guerra con gli Umbri, avevano fatto voto alla divinità di sacrificare a Marte, dio della guerra, una
parte delle cose generate e di consacrare, sempre al dio, un’altra parte. Essendosi scatenata una
terribile carestia, l’oracolo raccomandò di consacrare al dio anche tutti i nati dell’anno. I Sabini
obbedirono, ma non uccisero i nuovi nati, bensì, divenuti essi grandi, li mandarono fuori dai loro
territori al seguito di un toro. Giunto nel paese degli Opici il toro si sedette, allora i giovani Sabini
lo uccisero, sacrificandolo a Marte, cacciarono gli abitanti dai loro villaggi e vi si insediarono.
Questa unità originaria è espressa dal termine Safinim, da cui derivano anche Sabini , Sanniti ,
Sabellici, Sannio. La denominazione di Sabini rimase ai popoli della zona di Rieti-Abruzzo
Settentrionale, Sanniti sono i Pentri, detti perciò anche Sanniti Pentri, insediati nel Molise, mentre
l’espressione popoli sabellici (o popoli italici) individua tutte le altre tribù ( Peligni, Marsi, Vestini,
Carricini o Carecini, Frentani, Praetuzi, Marrucini, Equi ecc.).
Tutti questi popoli usano la lingua e l’alfabeto osco, hanno in comune la religione, l’artigianato, le
armi, gli oggetti ecc. che rivelano una lontana , identica origine .
L’architettura di questi popoli è costituita dai centri fortificati, a quote altimetriche spesso
rilevanti e distribuiti in modo tale da essere reciprocamente avvistabili, in modo da controllare il
territorio e fare segnalazioni con fuochi e fumi. La disposizione di questi centri fortificati, detti
megalitici, perchè le mura sono costruite con grossi massi di pietra, permette di comprendere come
gli Italici abbiano potuto opporre grande resistenza ai Romani durante le guerre sannitiche e la
guerra sociale. Molti resti di questi centri fortificati si possono ancora individuare. Si calcola che fra
Abruzzo e Molise ne siano stati censiti più di 200. Le popolazioni sabelliche non si aggregavano in
grosse città, ma presentavano un insediamento paganico-vicano, cioè vici o villaggi sparsi in un
territorio, con a capo il meddix tuvtikus, il più alto magistrato .
Meno frequenti presso i Pretuzi, i centri fortificati sono numerosissimi nella zona di Sulmona, nel
territorio dei Marsi e dei Peligni, ma soprattutto nel territorio dei Sanniti Pentri. Nel territorio dei
Marrucini molto importante è il centro fortificato di Civita Danzica presso Guardiagrele, in quello
dei Frentani diversi sono i recinti fortificati : Monte Moresco, Montenerodomo, Monte Sorbo ecc. e
soprattutto Monte Pallano.
L’economia di tutti questi popoli sabellici, detti anche Italici, era prevalentemente pastorale,
accanto alla più limitata attività agricola, e greggi ed armenti costituivano la loro ricchezza.
Gli Italici possedevano greggi in abbondanza ed organizzarono le prime forme di
transumanza ‘orizzontale’ con l’Apulia, sfruttando i pascoli montani abruzzesi d’estate ed i riposi
nel Tavoliere pugliese nelle stagioni fredde. A partire, poi, dal III sec. a.C., le piste furono
trasformate dalle tribù sabelliche in comodi tratturi, tratturelli, bracci che si ramificavano
dall’Abruzzo alla Puglia, costituendo una vera e propria rete viaria lungo la quale viaggiavano
greggi, merci, uomini e tutto il territorio attraversato si arricchiva di insediamenti, santuari, mercati,
luoghi di sosta .
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I centri fortificati
Nel processo di popolamento dell’Abruzzo-Molise e nella definizione della sua configurazione
storica e culturale, la fase decisiva è rappresenta dalle migrazioni di gruppi tribali di ceppo oscosabellico che, dalla Sabina, attraverso le valli fluviali di penetrazione, si stabilirono nell’entroterra
della regione e lungo la costa,conferendo al territorio la stabilità insediativa.
Queste popolazioni, che nell’etnico osco SAFINIM riconoscono la loro comune origine e identità,
si presentano organizzati in territori precisi ed assumono le denominazioni storiche di
Marsi,Vestini, Pretuzi, Marruccini, Peligni, Pentri, Frentani, Carricini. L’epopea di tali popoli è
tutta racchiusa nelle tradizioni delle primavere sacre che conservano la memoria di migrazioni di
giovani, destinati ad essere sacrificati alla nascita perché promessi con voto sacro durante una
calamità, ma poi cacciati fuori dal loro territorio ed avviati alla colonizzazione di territori lontani.
Le tribù sabelliche avvertono consapevolmente il sentimento di appartenenza all’ethnos
originario comune e maturano , primi fra tutti i popoli insediati nella penisola, la coscienza di
nazione ed elevano Corfinio a capitale comune sovraregionale con il nome di Italia, durante la lotta
contro Roma nella guerra sociale.
Per alcuni secoli, fino alla romanizzazione del territorio, le tribù sabelliche presentano elementi
architettonici, culturali e religiosi comuni. Mura megalitiche, necropoli, corredi tombali, santuari,
templi e sacelli, votivi, statue, armi , epigrafi ecc. testimoniano il loro livello di civiltà e la loro
cultura.
Il territorio del Sangro Aventino viene occupato dai Frentani che si insediano lungo il Sangro
ed il litorale adriatico e sulla piana costiera , dai Carricini che si stabiliscono nell’area più interna e
ricompresa tra l’Aventino e il Sangro e dai Lucani che si insediano in una piccola porzione di
territorio, comprendente l’altopiano di Monte Pallano e luoghi viciniori. Tutte le tribù sabelliche
presentano una tipologia insediamentale paganico-vicana , ovvero villaggi sparsi in un territorio e
convergenti negli Ocres o centri fortificati con poderose mura megalitiche, una struttura
architettonica tipica dell’Appennino centrale.
In numero minore nel territorio dei Pretuzi, i centri fortificati sono presenti nel territorio dei
Vestini, dei Marrucini, dei Frentani e dei Carricini, si intensificano nella Marsica , presso i Peligni,
e raggiungono un numero elevato nell’area dei Sanniti Pentri , in Molise.
Essi hanno funzione civile e militare, fungono da riparo e protezione per popolazioni, greggi ed
armenti e sono a guardia della viabilità terrestre, fluviale e, a volte, marittima. Nell’Abruzzo
chietino, in particolare, le cinte megalitiche di Monte Pallano , di Civita Danzica e di
Montenerodomo costituiscono i riferimenti archeologici più noti, ma tali centri risultano variamente
raccordati visivamente con tutti gli altri centri fortificati del territorio come Monte Vecchio, Monte
Maio, Monte Pidocchio , Monte Moresco, Colle della Guardia ecc…).
La concatenazione di tutti questi centri e la loro visibilità reciproca lasciano ipotizzare l’uso di
segnali di fuoco e di fumo per comunicazioni e segnali. Una attenta analisi delle varie cinte
megalitiche suggerisce , infatti, l’ipotesi di una “copertura” difensiva completa di vastissimi
territori, anche di più regioni del centro Italia. Non a caso, durante il processo di romanizzazione,
una volta esaurita la loro funzione militare, solo alcuni centri fortificati diventano aree urbanizzate.
Infine la straordinaria diffusione della mura poligonali nella regione abruzzese-molisana
rappresenta una fase architettonica particolare che ha
valenza mediterranea ed europea, dal
momento che esse esprimono un modello ingegneristico valido presso diversi popoli antichi, anche
se in epoche e momenti diversi .
Basti pensare alle cittadelle micenee, ai nuraghi sardi, ai monumenti di Malta, alle capanne
celtiche, ai menhir della Bretagna , al circolo di Stonehenge ecc.
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MONTE PALLANO
Il profilo dell’ altopiano di Monte Pallano domina la valle del Sangro e fra pianure ed agglomerati
urbani si protende fino al mare. In tutti gli aspetti del territorio possiamo ritrovare ancora oggi l’ eco
di una civiltà orgogliosa e forte.
Le prime tracce umane a Monte Pallano sono databili già al periodo preistorico con le attività dei
piccoli nuclei insediati intorno al lago Nero, uno specchio d’acqua stagionale immerso nei boschi e
contornato da rocce ricche di grotte.
Dalla cima di Monte Pallano si può godere di una vista che va dalla Maiella al mare, dai monti
dei Frentani al fiume Sangro, dal Conero al Gargano, caratteristiche che fanno dell’altopiano un
osservatorio naturale ed un caposaldo militare e strategico. Sul lato dell’altopiano degradante verso
Tornareccio maestose e possenti si innalzano le mura megalitiche o mura Paladine,una raffinata
costruzione in opera poligonale del IV secolo a.C. che documentano la fase italica ed il ruolo
strategico del luogo nel sistema difensivo delle tribù sabelliche,testimoniato dal collegamento ottico
con tutte le altre cinte fortificate del territorio.
I recenti interventi di restauro hanno riportato a grande splendore la Porta del Piano ed hanno
permesso di disseppellire la Porta del Monte ed un tratto di circuito murario sepolto da decenni.
Informazioni preziose sulle comunità insediate su Monte Pallano come l’etnico Leucanateis ed il
toponimo Palanud da cui Pallano, sono contenute in una iscrizione in caratteri medio-adriatici,
incisa su una lamina bronzea conservata nel Museo Archeologico di Napoli e risalente al III secolo
a.C. .
Numerosi manufatti,tra cui ex voto, un candelabro di bronzo, monete, una chatelaine, un
unguentarlo vitreo, ecc., conservati nel Museo Archeologico di Chieti, completano il panorama
culturale dell’epoca italica accanto allo straordinario Torso di Atessa , vicino al più famoso
Guerriero da Capestrano. Campagne archeologiche condotte da studiosi inglesi e americani hanno
restituito numerosi manufatti e reperti, tra cui spiccano due metope fittili raffiguranti delfini,
eleganti e raffinate e probabilmente riferibili ad un tempio o sacello lungo la direttrice viaria che
conduce all’abitato di Fonte Benedetti.
Gli scavi che si susseguono da anni hanno portato, infatti, alla luce, in località Fonte Benedetti, un
agglomerato urbano, con diverse fasi e stratificazioni edilizie, datato fra il III secolo a.C. e il II-III
secolo d.C. L’abitato, che gli archeologici identificano con la Pallanum delle fonti, non ottenne
dopo la romanizzazione, la dignità municipale, ma raggiunse sicuramente un elevato livello socieconomico-commerciale. Lo suggeriscono il grande foro a U molto simile a quello della non
lontano Iuvanum, le numerose botteghe, un ampio portico, basi di colonne, opere di drenaggio e
fontane.
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Dopo il progressivo abbandono dell’abitato di Fonte Benedetti, sull’altopiano si può individuare
un’ultima presenza antropica nel sito della Torretta, luogo di avvistamento e di controllo di epoca
longobarda e alto medioevale.
Infine, superstiti, solitari trulli o capanne in pietra a secco, così vicini alle opere degli antichi italici,
testimoniano la fatica del vivere di pastori e contadini stagionali, ultimi eredi della vicenda umana
della montagna.
Il parco archeologico di Monte Pallano
Su progetto della Soprintendenza Archeologica dell’Abruzzo, dal 1994, per alcuni anni, sono
state effettuate su Monte Pallano varie campagne di scavo. L’intervento più consistente, concluso
nel 2002, ha interessato il restauro e la valorizzazione della cinta muraria nota come “Mura
Paladine”, con il ripristino di alcuni tratti crollati. Sono stati smontati e ripristinati i blocchi
megalitici, pericolosamente inclinati già a livello di fondazione, per il cedimento dovuto agli agenti
atmosferici ed al progressivo slittamento verso valle.
E’ stato scoperto anche un settore di muro , “parallelo” a quello esistente, ma un pò più a valle,
ed è stata rispristinata la Porta del Monte, da anni seminterrata ed interdetta al passaggio, mentre è
tornata nel pieno splendore la Porta del Piano.
Lo stesso splendore fissato nel disegno di un quadernetto, scoperto nell’archivio della chiesa di
San Leucio ad Atessa , dove un solerte curato, appassionato di antichità, registrava, con grande
meticolosità, in data 5 giugno 1894, lo stato del “Muro Pelasgico” di Monte Pallano , con due porte
agibili ed una diruta e con diversi filari di massi in più in altezza.
Durante i lavori di ristrutturazione del muro megalitico, in prossimità della porta sud , in parte
“ridisegnata” sul piano di calpestio, è stata ricostruita la capra Recamum, una delle macchine per il
sollevamento di grandi massi usate nell’antichità, in grado di sollevare carichi fino alla quota di 5
metri, ovvero l’altezza del muro esistente.
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Laminetta
Uno degli oggetti più interessanti ritrovati presso Monte Pallano è una laminetta bronzea lunga
15 cm con lettere incise che appartengono al dialetto osco, una lingua scomparsa da duemila anni.
La laminetta è conservata nel museo archeologico di Napoli , la data del suo ritrovamento è
sconosciuta, le lettere, scritte in carattere osco o medio adriatico, sono leggibili da destra a sinistra.
Tale sistema di scrittura ha fatto supporre che l’oggetto appartenesse ad un periodo anteriore alla
conquista romana, probabilmente agli inizi del III secolo a.C. Sul primo rigo si legge, trascrivendo
in caratteri latini: vereias lùvkanateìs, sul secondo aapas Kaìas palanù(d) .La traduzione: <della
banda armata lucana dell’acqua della fontana da Palano>.
E’ possibile che questa laminetta sia realmente appartenuta ad una banda armata lucana, mentre è
in dubbio l’interpretazione: <dell’ acqua della fontana>.Al termine vereia è stato attribuito il
significato di giovane banda armata che può essere connesso al primo significato di primavera
sacra, generatrice dei primi centri italici. Il toponimo Palanud da cui Pallano, è rimasto
sorprendentemente inalterato fino ai giorni nostri, mentre la menzione di Lucani ha sollevato non
pochi dubbi. Potrebbero essere dei <fuoriusciti> dalla Lucania meridionale, oppure rappresentare
l’etnia originaria <migrata> nel meridione. Il toponimo sopravvive nel Medioevo, nel monastero di
S.Stefano in Lucana, vicino Tornareccio.
Testa di candelabro
La testa di candelabro è databile tra il VI e IV secolo a.C. Il pezzo sembra sia stato venduto al
museo archeologico di Chieti e il venditore assicurò che proveniva da Monte Pallano, anche se è
stato acquistato ad Archi. L’oggetto è composto da quattro bracci alle cui estremità, a due a due,
sono posti alcuni uccelli ed una coppetta, poiché uno dei bracci è spezzato. I due uccelli,
probabilmente, sono due anatrelle e non sono uguali né per forma né per decorazione, uno di essi,
tra l’altro, è privo del becco.
Fibula
La fibula rappresenta l’antenata dell’odierna spilla da balia o spilla di sicurezza. Quella ritrovata
a Monte Pallano è di bronzo ad arco semplice con la staffa decorata a testa d’ariete e con puntini
incisi ed incrociati che formano una specie di stella. Anticamente veniva usata per fermare le vesti
sulla spalla o sul davanti. L’esemplare di Monte Pallano è simile alle fibule rinvenute ad Ortona e in
Bosnia. Ciò ha fatto ipotizzare uno scambio culturale tra le due sponde dell’Adriatico.
Veiove
Veiove è una divinità locale paragonabile al Giove latino. Essa è stata riprodotta su una statuetta
bronzea, per le sue dimensioni probabilmente un ex-voto, rinvenuta in località Piano Marino,
frazione di Tornareccio e oggi conservata presso il Museo Archeologico di Chieti. La divinità è
imberbe, con la clamide sopra la spalla sinistra e tre fulmini sulla mano destra. Sia nella iconografia
italica che in quella classica il tipo con tre fulmini è abbastanza raro e quindi il manufatto può
datarsi all’età ellenistica.
Un altro esemplare rappresentante Veiove, ma di fattura estremamente raffinata, quindi di probabile
importazione, è stato rinvenuto nel santuario di Passo Porcari di Atessa,<a valle> rispetto
all’altopiano di Monte Pallano.
Diana
Oltre a Veiove, un’altra divinità riprodotta in un bronzetto, anche esso ex-voto, è Diana, la dea
della caccia. Anche questa statuetta proviene da Tornareccio ed è una figura in movimento, cinta
alla vita da un chitone, avente la faretra. La statuetta è priva dell’avambraccio e della mano destra,
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ma comunque ciò che la rende caratteristica è la tipica acconciatura<a melone>.Proprio, grazie a
questo elemento è stata datata alla fine dell’età ellenistica.
Ercole bronzeo
Uno dei tanti ex-voto, rinvenuti per caso da pastori che pascolavano le greggi nelle zone
limitrofe a Monte Pallano, è quello di Ercole bronzeo, il dio più venerato dalle tribù italiche. La
statuetta è rappresentata in posizione d’assalto con una pelle di leone sul braccio sinistro e la mano
destra che regge una clava, ora mancante, i capelli irti sulla fronte e il collo ingrossato e massiccio.
Il corpo è reso molto sommariamente e ciò rende problematica la datazione dell’oggetto, forse di
produzione locale, poco raffinato artisticamente.
Balsamario
Il balsamario vitreo è interessante non tanto per la sua integrità, né per la sua forma, quanto per
la sua datazione, importante per individuare la persistenza della presenza abitativa su Monte
Pallano, dopo la guerra sociale.
Alcuni studiosi suppongono risalga alla metà del I secolo d.C.
L’oggetto presenta un fondo ricurvo che serviva ad evitare deposito di unguenti o balsami per cui
era impiegato.
Chatelaine
La chatelaine è composta da una maglia di bronzo a treccia, terminante lateralmente con lo
stesso filo bronzeo a spirale stretta. In alto c’era probabilmente il sistema di aggancio ad una fascia
alla vita o alla spalla. Il suo ritrovamento è, avvenuto in località Fontecampana, tra Tornareccio e
Colledimezzo. Essa risale al V secolo a.C., per i confronti effettuati con pezzi simili a quelli
rinvenuti ad Alfedena, Campovalano, nel Piceno e in Basilicata.
Testine votive
Nel luglio 1982 sono state rinvenute due testine votive. La prima è tipicamente femminile e
rientra nella tipologia delle tipiche <Tanagrine> ellenistiche; la seconda è maschile, priva della
fronte e della capigliatura, con i tratti del volto abbastanza leggibili. Entrambe le testine sono
databili alla fine del II secolo a.C. o all’inizio del I a.C.
Una leggenda locale narra che a Monte Pallano ci fosse un tempio dedicato a Giove e sia le due
testine votive che i tre bronzetti sembrano avvalorare tali ipotesi.
Solo recentemente sono stati scoperti resti di un edificio nelle zone limitrofe all’abitato di Fonte
Benedetti, ma la divinità oggetto di culto non è, al momento, ancora identificabile.
Ritrovamenti archeologici recenti su Monte Pallano e dintorni
Le missioni archeologiche anglo-americane che organizzano i campi estivi, da alcuni anni stanno
“setacciando” il territorio di Monte Pallano e luoghi viciniori con esiti decisamente positivi e
produttivi.
A circa 100m a nord dell’area dell’abitato ellenistico romano di Fonte Benedetti, la cui
denominazione è tuttora incerta, anche se l’identificazione fa propendere per la Pallanum degli
Itinerari, sono venuti alla luce resti di un edificio di culto, forse un santuario. Si tratta di materiale
fittile, frammenti di decorazione, come una calotta con occhio e folta capigliatura, palmette e motivi
vegetali, lastre architettoniche, di cui due con raffigurazione di delfini. Nelle metope di cm 30x38,
con sutura che lascia ipotizzare un riadattamento di matrice 25x38, due delfini, con straordinario
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realismo e grande eleganza di movimenti, si fronteggiano sotto il fiore di loto, riecheggiando motivi
colti e raffinati. Rappresentazioni di delfini, presenti nelle terme di vari centri abruzzesi, come
nell’esempio di Histonium/ Vasto, o in altri ambienti, come nel tempio di Ercole Curino a Sulmona,
trovano precedenti illustri soprattutto a Creta ed in Etruria. Il delfino è animale ctonio, sacro ad
Apollo, traghettatore nell’aldilà. Non è possibile ipotizzare la natura del culto praticato nel
santuario, nè il percorso culturale che ha condotto i delfini a “danzare” sulla montagna , ma il
recinto sacro del tempio , sotto l’attuale statua della Madonnina, di fronte alla Majella, sembra
proprio essere a guardia dell’abitato di Fonte Benedetti.
Molti anche i materiali ed i reperti provenienti dagli scavi effettuati nell’area urbanizzata del
suddetto abitato. Oltre i frammenti di ceramica da ricomporre, ad impasto, sigillata, a verniche
nera, che documenta soprattutto i traffici e gli scambi con le regioni campane e magno-greche,
monete, dolia o contenitori infilati nel terreno, manufatti in bronzo, ferro, osso e vetro fino ad uno
spadone del X° secolo documentano i ritmi di vita e le attività della comunità ivi insediata. Su tutti i
reperti emergono frammenti di statue : gambe, un piedone, un busto di statua loricata in marmo
bianco, ma soprattutto l’ erma di Dioniso o trapezoforo, trovata in un grande ambiente pavimentato
in signino bianco con fascia rossa.
Più a valle dell’altopiano, in località Acquachiara, nel comune di Tornareccio, gli archeologi
angloamericani hanno rinvenuto consistenti tracce di un abitato dell’età del ferro che ha resituito
materale fittile, monili, oggetti d’uso.
I saggi di scavo, effettuati in diverse altre località, hanno rivelato la presenza sparsa di ville
rustiche o di piccoli villaggi agricoli, con buoni livelli economico-produttivi, risalenti soprattutto ad
epoca romana.
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LE GRANDI NECROPOLI
Per conoscere il grado di civiltà di un popolo, è essenziale lo studio dei livelli di progresso e di
organizzazione civile e religiosa raggiunti dalle popolazioni. Diverse sono le necropoli scoperte in
Abruzzo e che testimoniano i riti funerari e le strutture socio-economiche delle antiche tribù italiche
insediate nel territorio prima della conquista romana.
Vengono pertanto presi in esame alcuni dei siti più importanti, facendo riferimento non solo alle
necropoli ricadenti nel territorio della provincia di Chieti, ma anche ad alcune testimonianze di
valenza regionale , significative per comprendere i meccanismi culturali comuni a tutte le tribù
italiche . Esse, infatti, pur nella frammentazione tribale, avvertivano fortemente l’appartenenza
all’ethnos originario comune.
Fossa
Ritrovamenti casuali, in seguito a lavori di installazione di un capannone, hanno dato inizio, a
Fossa, presso L’Aquila, ad una campagna di scavi dal 1992 al 1999. La necropoli di Fossa presenta
circa 500 sepolture che vanno dal X sec. a.C. all’età romana. La tipologia delle tombe è quella dei
grossi circoli di pietre, all’interno dei quali viene deposto il cadavere con il suo corredo funebre.
Inoltre file di menhir o grosse pietre verticali vengono posti in grandezza decrescente esternamente
ai tumuli con tombe maschili. Tali menhir, ricorrenti anche in altre aree geografiche, come in
Bretagna ( Francia), in area celtica, a Malta, ecc. hanno una probabile funzione astronomica.
I corredi maschili presentano armi, grossi contenitori in ceramica, coltelli, dischi corazza,
perfino bastoni da sci. Le tombe femminili sono caratterizzate da corredi ricchi di fibule, pendagli,
pesanti dischi traforati, vasi ecc..
Dal VI sec. a. C. in poi vengono allestite tombe terragne, povere di corredi funebri, spesso
utilizzando gli spazi vuoti fra i circoli più grandi. In età ellenistica (III-I sec a.C.) vengono
realizzate tombe a camera rettangolare che hanno restituito bellissimi letti funebri con appliques
zoomorfe e antropomorfe, in osso, materiale meno prezioso dell’avorio usato nelle tombe
ellenistiche orientali, ma non meno spettacolari e riccamente lavorate.
Campovalano
La necropoli di Campovalano, vicino Campli (Teramo), è stata oggetto di scavo dal 1964 al 1997.
Nelle vicinanze dell’area sepolcrale è stato anche scoperto un villaggio dell’età del bronzo medio e
recente (XVIII-XIV). Le sepolture rinvenute sono circa 600 e sono datate dall’età del bronzo
finale (XIII sec a.C al II sec a.C).
I corredi sono ricchissimi e comprendono armi e carri da
guerra, ma anche vasi, olle ed anfore che rivelano la forte connotazione sociale, l’appartenenza
aristocratica e l’aderenza all’ideologia del banchetto. Gioielli, ornamenti e conchiglie caratterizzano
le tombe femminili. Anche le tombe infantili presentano ricchissimi corredi, in prevalenza costituiti
da bulle, brocchette con beccucci, lancia corta ed altri ornamenti per i maschi, mentre per le
bambine prevalgono oggetti tipici dell’universo femminile, come aghi e rocchette. Le tombe
databili al V sec a.C si differenziano dalle altre, perché non presentano né tumulo nè corredi.
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Alfedena
La necropoli di Alfedena, nell’alta valle del Sangro, è una delle più antiche e vaste d’Abruzzo. Le
tombe rinvenute sono circa 1400 e sono state trovate a partire dal 1847. Esse vanno dall’età del
ferro (VIII-VII sec a.C.) fino al II sec a.C.
Le tombe sono a fossa, con pareti rivestite da lastroni o muretti, altre sono iscritte in tumuli.I
corredi sono molto ricchi e comprendono: dischi corazza detti cardiophylakes, olle con manici
sormontati da scodelline e piattelli e vasellame vario, cinturoni, coltellini, fibule, monili ed oggetti
ornamentali.
Comino
Comino è una frazione del comune di Guardiagrele gravitante sul tratturo Centurelle-Montesecco.
Nel 1913 furono scoperte delle tombe ricche di corredi funerari andati dispersi durante la II guerra
mondiale. Nuovi scavi effettuati nel 1998-2000 hanno portato alla luce circa 55 sepolture che
vanno dal IX sec a.C. al III sec.a.C..
L’area sepolcrale era usata dalle popolazioni che vivevano nei villaggi sparsi nel territorio e che
avevano il loro centro di gravità in Civita Danzica, centro fortificato con mura megalitiche,
ricadente nel territorio della tribù dei Marrucini.Le tombe sono prevalentemente a fossa e a tumulo.
In particolare le sepolture a circolo costituiscono una rarità per la zona, perché specifiche della
civiltà picena e presenti nei territori delle province di Teramo, dell’Aquila e di Pescara. Esse
“marcano” il terreno, cioè sono un segno di proprietà della famiglia del defunto e, quasi sempre,
sono riservati a personaggi di rango sociale elevato che vengono inumati con il loro corredo.
A Comino alcune tombe sono contraddistinte da “segnacoli” particolari, ovvero enormi
cappellacci in pietra sostenuti da bastoni in legno, simili al copricapo che caratterizza il noto
Guerriero da Capestrano.
Gli oggetti ricorrenti nelle tombe sono: spade, lance, giavellotti, fibule,oggetti tipici dei corredi
maschili, mentre in quelli femminili sono presenti fibule anche molto grandi o “da parata”, anelli,
vasi, perline ecc…
Tombe di Atessa e Tornareccio
Nel mese di maggio 1990, durante i lavori di scavo per le fondazioni di un’abitazione, in località
Coste di Serra di Atessa, una zona periferica ormai urbanizzata, sono venute alla luce delle tombe
ascrivibili al V/IV secolo a.C..
In particolare la tomba 4, a fossa terragna , ricoperta con assi di legno e sostenuta da piedi laterali,
ha restituito oggetti e frammenti di un corredo sepolcrale muliebre ricco e raffinato. Sono stati
trovati frammenti molto deteriorati di un letto smontato e deposto nella fossa, probabilmente di
cuoio dipinto in rosso, con piedi e sponde in bronzo lavorato a motivi floreali ; un anello digitale, un
piattello di argilla depurata a vernice nera con disegni in rosso ; un nettaunghie ; un vago di collana
in pasta vitrea di colore blu con due file di pallini gialli e bianchi intervallate da una fascia bianca.
Completano il corredo tre sorprendenti fibule di bronzo, una ad arco semplice e due ad arco a
losanga con teste di ariete, elemento tipico delle sepolture muliebri rinvenute nel territorio frentano,
come quelle di Ortona, Villalfonsina, Tornareccio e probabile proiezione di un più antico animale
totemico la cui rappresentazione passa dal costume maschile a quello femminile.
25
In particolare, nella periferia di Tornareccio, non lontano da Atessa, in Via De Gasperi, a 50 metri a
destra della Madonnina, nel corso di lavori edilizi, è stato rinvenuto un piccolo nucleo cemeteriale,
con molta probabilità afferente ad un gruppo familiare o parentale, con tombe del VII/V sec. a.C.,
che insistono su un abitato preesistente, come dimostra l’esisetnza di un focolare , interpretato
anche da alcuni studiosi come elemento con finalità rituali. Diversi i manufatti rinvenuti: oggetti
maschili , armi, oggetti e monili muliebri, vasellame .
In particolare nella tomba 22 , datata tra VII/ VI sec. a. C., erano stati deposti un pendaglio
traforato con motivo di animale fantastico, delle ancorette, due fibule , una con arco serpeggiato ed
ornamenti di ghiande, e navicella, una con arco a losanga, infine una chateleine di filo di
bronzo.Una tomba maschile si distingue per un corredo originale e ricco: contiene infatti una
oinochoe campana ed un elmo con corna bovine ormai dissolto.Tutti gli ornamenti si riferiscono a
comunità culturalmente ed economicamente avanzate e sembra avvalorare la tesi dell’esistenza di
diversi villaggi “satelliti”, sparsi nel territorio e che avevano il loro centro di riferimento nell’abitato
più importante situato su Monte Pallano.
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STATUARIA
Guerriero di Capestrano
Nella pianura di Capo d’ Acqua, a 340m sul livello del mare, presso Capestrano, in provincia
dell’Aquila, nel settembre del 1934, durante i lavori agricoli, in un vigneto fu rinvenuta,
frammentata, la statua del guerriero di Capestrano. Essa rappresenta, in dimensioni reali, un
individuo adulto di sesso maschile, in piedi, con le mani poggiate sul petto e sull’ addome,
abbigliato con armi e con ornamenti. Tra gli oggetti di ornamento vanno citati il collare in bronzo a
fascetta, da cui pendono due pendagli rettangolari; armille portate su ambedue le braccia, di cui
significativa è quella sull’ avambraccio sinistro. Si presenta, infatti, doppia con dei pendaglietti a
forma di trapezio. L’ abbigliamento è costituito dal grande, originale copricapo a tesa larga e piatta,
dal cinturone e dai calzari. Estremamente significativo appare, ai fini della datazione della statua, il
complesso di armi ( la panoplia ) di offesa e di difesa, indossate dal guerriero. Le armi di difesa
sono costituite da una coppia di dischi-corazza in bronzo, indossati grazie ad un sistema di
bandoliere trasversali completate da cinghie toraciche. Alla bandoliera è appesa anche una lunga
spada in ferro, sul cui fodero è fissato un lungo coltello, per mantenere efficiente la lama della
spada. Se la spada costituisce l’ elemento archeologico più noto e diffuso nel periodo protostorico in
Abruzzo, l’ ascia in ferro rappresenta una rarità e potrebbe indicare un simbolo di potere ed autorità.
Sui due pilastri laterali sono visibili due lance e su quello destro è incisa verticalmente un’
iscrizione in lingua sud-picena che nella lingua italiana può essere interpretata così: “Me bella
immagine fece Aninis per il re Nevio Pompuledio”.
Molto discussa è la funzione dell’originale copricapo, su cui sono state formulate varie ipotesi,
interpretandolo di volta in volta come simbolo religioso, militare, politico, sociale ecc..
Testimonianze archeologiche dello stesso tipo di copricapo, non sormontante una statua, ma
mantenute, probabilmente, da un’asta in legno o pietra, sono state rinvenute anche nella necropoli di
Comino, vicino Guardiagrele. Quest’ultima necropoli presenta diversi elementi della civiltà picena
e costituisce , alla luce delle attuali ricerche, il limite meridionale della sua diffusione.
La statua potrebbe rappresentare l’immagine di un nerf, cioè un principe o un re del territorio
occupato dalla tribù italico-sabellica dei Vestini.
La datazione della scultura , VII- VI sec. a.C., può essere fornita dalla presenza della spada,
appartenente ad una tipologia di armi testimoniate nelle sepolture abruzzesi per tutta l’epoca
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arcaica. Un altro elemento che fa propendere per questo periodo è fornito dalla presenza del discocorazza liscio.
Il guerriero di Glauberg
Nelle vicinanze di un tumulo funerario per defunti di alto rango della prima età celtica ai piedi del
Glauberg è tornata alla luce una statua di guerriero del V sec a.C.
La figura a tutto tondo ricavata da una pietra locale è a grandezza naturale ed è integralmente
conservata, tranne i piedi che sono spezzati. Nella statua è raffigurato un guerriero armato con una
corazza in cuoio o in lino, una spada sul fianco destro e uno scudo ovale che l’ uomo impugna con
la mano sinistra e tiene davanti al corpo. Egli indossa un collare, un bracciale al polso destro, tre a
quello sinistro e un anello come simbolo del proprio rango.
La statua era ornata da un copricapo e la barba e i baffi conferiscono al volto un’ espressione
particolare. Le braccia e le gambe sono nude, anche se probabilmente la statua era dipinta e quindi
altre parti dell’ abbigliamento potrebbero essere state rese con il colore. L’ intera figura, con il suo
insolito gesto della mano destra poggiata sul petto appare sproporzionata.
Un’ attenzione particolare merita la forma della corazza, formata da una parte posteriore
sovrapposta decorata a motivi foliati. Non si tratta di una sopravveste, ma di un elemento
componente la corazza stessa, che è presente in altre rappresentazioni celtiche, mentre manca nelle
corazze greche ed etrusche.
Guerriero di Hirschlanden
A circa 10km dall’Hohen Ansperg, nei pressi di Ludwinsburg, sono stati rinvenuti due tumuli
distanti l’uno dall’altro 80m.
Il tumulo maggiore, posto ad ovest e nelle cui vicinanze affioravano delle sorgenti, era circondato
da un anello di pietre in calcare conchiglifero e nei pressi di tale anello, sul piano antico di
calpestio, si trovava una statua.
La figura che giaceva rivolta sul davanti, mancava dei piedi e le gambe erano entrambe rotte
all’altezza delle ginocchia. Non è stato possibile individuare la posizione antica del manufatto, ma
probabilmente fungeva da segnacolo della sepoltura sul tumulo dal quale era in seguito caduto.
La statua raffigura un guerriero nudo con il volto coperto da una maschera. Le braccia sono
piegate davanti al busto; la schiena presenta una colonna vertebrale infossata e le scapole
triangolari; le gambe, invece, sono poste parallelamente.
Il guerriero indossa un copricapo a forma di cono, al collo reca un ampio cerchio d’oro, simbolo del
suo rango; alla vita indossa una cintura doppia nella quale è infilato un pugnale.
L’elemento di somiglianza tra la statua di Hirschlanden e quella di Glauberg è costituito
essenzialmente dalla posizione del braccio che risulta piegato, mentre la gestualità, la presenza della
maschera, del pugnale e della cintura accomunano la prima con quella del Guerriero da Capestrano
trovata in Abruzzo. La gestualità e il pugnale, infine, rendono apparentabili tutte e tre le statue.
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Torso di Atessa
Diversi frammenti di grandi statue rinvenuti in varie località del territorio regionale ci fanno
comprendere l’importanza attribuita dalle comunità presabelliche e sabelliche alle sepolture dei
personaggi di rango, spettacolarizzate proprio dalla presenza di statue sui grandi tumuli funerari.
A Comino, vicino Guardiagrele, sono stati scoperti anche diversi, enormi “ cappellacci”, simili a
quello indossato dal Guerriero da Capestrano. Essi sono stati interpretati come dei “segni” posti sui
tumuli e sorretti , forse, da pali in legno.
Nel 1971, nel Piano San Giorgio, lungo la SS 364, una località presso Tornareccio ma
appartenente al comune di Atessa, è stato trovato un Torso acefalo, ritenuto dagli studiosi
cronologicamente anteriore al più noto Guerriero.
Il Torso presenta un busto disorganico e molto allungato, braccia schematiche e mani sgrossate in
maniera grossolana, ma incrociate sul petto, nella posizione canonica di tutte le statue del genere.
Sul petto sono appena accenate delle decorazioni, un cinturone scolpito a fascia rettangolare
simboleggia i riti di iniziazione e di passaggio dalla pubertà all’età matura. Il Torso è con buona
probabilità da ricondurre alla presenza di una necropoli, di cui peraltro si ignora l’ubicazione, a
servizio dell’abitato sito sull’altopiano di Monte Pallano.
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SANTUARI
Il santuario Italico di Fonte San Nicola
Ritrovamenti casuali ed indagini mirate vanno restituendo numerosi manufatti e strutture
architettoniche romane e preromane che contribuiscono a disegnare la storia antica della regione
abruzzese.
Area di eccezionali scoperte è quella di Monte Sorbo, un’altura di circa 900 m., gravitante sulle
valli del Treste e del Sinello, comprese tra i comuni di San Buono e Carpineto Sinello. La
frequentazione di questo territorio interessa un arco di tempo che va dall’età del ferro al Medioevo e
fino ai nostri giorni. All’epoca più antica si possono datare diversi ritrovamenti, tra cui fibule che
si possono sicuramente riferire ad una necropoli del IX-VIII sec. a. C., rioccupata dal IV sec.a.C.
da un luogo di culto, il cui ricordo è presente nel toponimo attuale di Fonte San Nicola.
Gli scavi hanno portato alla luce un temenos o recinto sacro, che ospitava un tempio e diversi
sacelli ad esso annessi, nonchè due scarichi votivi datati dal IV sec. a. C. agli inizi del I sec. a.C.. La
prima stipe votiva ha restituito oggetti di buona fattura, scaricati su uno strato di pietre che doveva
costituire il battuto pavimentale del recinto sacro, mentre il secondo scarico presenta materiale
votivo di tipo devozionale o per grazia ricevuta, di fattura rozza e, quindi, possibili offerte di
contadini e pastori. Dall’enorme quantità di manufatti rinvenuti, si possono ricavare informazioni
utili per comprendere le pratiche cultuali esercitate nel santuario, lo stato sociale degli offerenti, il
tipo di grazia ricevuta. I reperti fittili comprendono ollette, teglie e coperchi di ceramica da fuoco,
sia un’ enorme quantità di oggetti in ceramica acroma, fra cui brocche, olle, bacini, unguentari,
versatoi, vasi di tutte le dimensioni, anche in miniatura, ed una grande varietà di coppe e coppette.
Alcuni oggetti di buona fattura sembrano essere importati da aree Campane o pugliesi e donati da
fedeli , pastori, mercanti e pellegrini “più abbienti”, ma la maggior parte dei reperti presenta una
pasta dai toni beige-giallino, proveniente dalle cave d’argilla del territorio di San Buono. Il gran
numero di coppe e coppette, vasi e versatoi farebbe ipotizzare dei culti salutiferi e il rito delle
libagioni per ottenere la guarigione richiesta. Notevoli sono anche gli ex voto che raffigurano mani
e piedi o che rappresentano animali. Non mancano, infine, monete, fibule, un cinturone in bronzo,
pesi da telaio, fuseruole e soprattutto numerosissime statuette di piccole dimensioni. La datazione
dei reperti consente di stabilire che la vitalità del santuario italico raggiunge una grande fioritura fra
il III e II secolo a.C., interrompendosi, probabilmente, dopo la guerra sociale. Sebbene scarsissime
siano le tracce di epoca romana, il santuario dovette mantenere la sua funzione di culto e, sui resti
del tempio italico, si sovrappose durante il medioevo, un edificio absidato con altare. Il toponimo
attuale conserva in “Fonte” il ricordo dell’antico culto salutifero legato all’acqua, ed in quello di
“San Nicola” una devozione al Santo radicata prima in terra pugliese e poi veicolata anche in
Abruzzo lungo i tratturi.
Lanciano
Presso la porta di San Biagio, vicina all’omonima chiesa, uno degli accessi medioevali di Lanciano,
sul Colle di Lanciano Vecchia, che si può individuare come sito del nucleo principale di Anxanum,
gli scavi hanno accertato la presenza di un antico santuario. Fra i reperti: un busto fittile di divinità
femminile, frammenti di statue femminili panneggiate, probabile elementi di un gruppo frontonale,
teste votive e statuine fittili, frammenti di statue non di pertinenza votiva.
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Un verosimile antico culto salutifero praticato nel santuario, come nei casi di Fonte San Nicola di
San Buono e di Schiavi d’Abruzzo, viene attestato dal ritrovamento di mani, piedi ed arti inferiori
ed altre parti anatomiche, tutti votivi fittili che coprono un arco di tempo dal IV al II/I sec.a.C. E’ il
periodo di massima fioritura dei santuari italici e la raffinatezza artistica di molti reperti suggerisce
l’importanza del santuario per tutte le popolazioni della zona.
In particolare il busto fittile, probabilmente raffigurante Minerva,alto cm 25 è stato realizzato in
argilla semidepurata di colore rossastro. La statua, rappresentata fino al seno, è posta in maniera
frontale, ad eccezione della testa, girata leggermente verso destra. Sulla testa è presente un diadema
e, probabilmente , per la presenza di altri fori sul capo, è possibile ipotizzare che su questo vi fosse
anche un elmo. Il diadema è poggiato sui capelli che sembrano invisibili sulla testa ma che ricadono
in due lunghe ed ondulate ciocche sulle spalle.
Il volto si presenta ovale con grandi occhi incavati ed una bocca piccola e chiusa. La statua pare
che indossi una tunica senza mani. l busto può essere datato intorno al III/II sec a.C. e sembra non
essere una semplice offerta votiva. E’ bene notare, infatti, che, fino al IV sec a.C., la raffigurazione
del busto era usata solo per rappresentare delle divinità; ma tra IV e II sec a.C. i busti vennero
utilizzati anche come offerte votive.
Quadri
In località Madonna dello Spineto, a tre km dal centro abitato di Quadri, sorge l’antica chiesa
medioevale di S.Maria che si erge sul podio di un più antico tempio italico, probabilmente dedicato
a Iuppiter Trebulanus.
Infatti, nella stessa località , sono state ritrovate due epigrafi: una attesta l’esistenza di un vicus
denominato Trebula, l’altra contiene una dedica dei conscripti all’imperatore Adriano.
Secondo alcuni studiosi, tra cui l’archeologo La Regina, con Cluviae e Iuvanum, Trebula potrebbe
essere il terzo dei municipi costituiti ,dopo la guerra sociale, nel territorio dei Carnicini.
Nel 1990-91 e nel 1995 l’area è stata indagata anche con una fotogrammetria, che avrebbe
individuato il sito ed il recinto delle strutture di un anfiteatro, mentre alcune campagne di scavo
hanno riportato alla luce alcuni elementi attinenti al santuario italico, tra cui il recinto sacro in opera
poligonale, che delinea un area di 52,25 metri per 43,17. Il complesso sacro, lastricato in opera
poligonale, fu realizzato come una sorta di terrazza panoramica sul Sangro.
Schiavi d’Abruzzo
Schiavi d’Abruzzo è un comune della provincia di Chieti, nonché un antico centro dei SannitiPentri, a breve distanza da Pietrabbondante e Trivento. Il nome deriverebbe da uno dei tanti
insediamenti slavi dell’entroterra abruzzese. Schiavi è situata a 1200 s.l.m., alle pendici del Monte
Pizzuto, e la sua storia è suddivisibile in due fasi: quella italico-sannitica e quella più “moderna”,
legata ai principi Caracciolo ed alle vicende della diocesi di Trivento. La fase italica di Schiavi, il
cui territorio è segnato da tratturelli e piste armentizie, che ne documentano l’antica florida attività
pastorale, è testimoniata archeologicamente in località Colle della Torre, sede di un importante
complesso santuariale, costituito da due templi: uno più grande ed antico (ma incompleto) ed uno
più piccolo e più recente disposto parallelamente all’altro. Le misure del primo maestoso tempio
(podio m.21x11, alto m.1.79), risalente al III-II sec. a.C., ci testimoniano il gravoso impegno
economico profuso per la sua realizzazione, secondo solo alla costruzione del tempio di
Pietrabbondante.
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Il secondo tempio è, come ricordato, più piccolo ( podio m. 13.30x7.40) e presenta un‘elegante
pavimentazione. Proprio su questo pavimento troviamo l’elemento di maggior rilevanza storica,
ovvero un’ iscrizione in lingua osca, che conserva il nome del costruttore, G. Paapis Mit., e
menziona il nome dell’appaltatore dei lavori, ovvero il meddix tuticus (un magistrato repubblicano)
Nimus S. Dikitiis. Il tempio minore di Schiavi ebbe lunga vita e durata cultuale nel tempo, anche se
in diverse forme, esplicando la sua funzione di centro religioso, aggregativo, culturale e sociale del
territorio. Nei pressi del tempio, la cui dedica non è nota, ma è ipotizzabile che vi fosse venerata
una divinità salutifera, sono stati rinvenuti numerosi ex-voto, collegabili ad una pratica cultuale
molto diffusa nell’antichità. I fedeli, infatti, si recavano in visita al tempio e ringraziavano la
divinità per la grazia ricevuta, offrendo statuette o sculture riproducenti un organo o la parte malata
del corpo , spesso confezionate in maniera grossolana, da una bottega esistente in loco di artigiano
ceramista, di cui restano testimonianze archeologiche nell’area del santuario.
Vacri
Il santuario di Vacri è ubicato in località Porcareccia, sulle alture del preappennino chetino. Fu
individuato nel 1975 in seguito a lavori agricoli e, grazie al contributo dell’amministrazione
comunale, fu oggetto di una lunga campagna di scavo nel 1988, ma rimangono molti elementi da
chiarire nella storia del sito. Il santuario rientra nella numerosa serie di luoghi di culto campestri,
punto di incontro e di scambio per le popolazioni circostanti non ancora urbanizzate. La prima
presenza antropomorfica risale al V-IV secolo a.C ed è documentata da un gruppetto di statuette
bronzee raffiguranti Ercole e da alcuni vasi di impasto. Inoltre sono state portate alla luce, al di
sotto del tempio maggiore, tracce di un area per sacrifici. La fase di maggior splendore risale
all’epoca ellenistica, quando le offerte votive aumentano e si assiste alla costruzione di edifici
architettonicamente rilevanti.
A Vacri sono stati ritrovati due templi : uno di maggiori dimensioni, dotato di un profondo
pronao e di un ampia cella rivolto verso est; e un altro a sud , di dimensioni inferiori al primo. Le
mura sono in pietra e in malta, le pareti interne sono intonacate e i pavimenti sono ben conservati.
Di particolare interesse è il pavimento della cella a tessere bianche inserite a formare un motivo
geometrico costituito da cerchi entro un quadrato. All’angolo sud-orientale della cella è stata
rinvenuta una vaschetta ricavata nel pavimento. Per dimensioni e caratteristiche, questa costruzione
potrebbe essere considerata una sorta di thesaurus, risalente probabilmente alla metà del II secolo
a.C. Numerosi sono i votivi recuperati: si tratta di figure di animali, maschere, coppette e vasetti,
unguentari e pesi da telaio. Molti sono anche gli utensili in ferro: spiedi, coltelli e palette e
moltissime le monete, soprattutto quelle coniate dalla zecca di Roma, ma anche nell’area Sannitica.
All’epoca della guerra sociale ci fu probabilmente una drastica cesura nella vita del santuario. Con
il I secolo a.C si documenta il declino del santuario, riscoperto solo parzialmente nella prima epoca
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imperiale, quando, sulle macerie degli edifici precedenti, se ne costruisce un terzo, del quale si
conservano tracce del pavimento e di una rampa di accesso.
Punta Penna
Nel 1888, nella chiesa di S. Maria della Penna, in località Punta Penna di Vasto, fu rinvenuta una
lastra di rivestimento in terracotta, oggi conservata nel museo civico archeologico di Vasto,
appartenente ad un edificio templare ivi esistente. Si tratta di un antepagmentum raffigurante due
teste contornate da elementi vegetali. In quella di sinistra appare riconoscibile Ercole con la clava
sulla testa ed una leontè sopra i capelli; mentre la testa di sinistra, molto malridotta, con il volto
largo e piatto e capelli a fiamma sembrerebbe attribuibile ad una figura femminile.
Entrambe le figure risalutano inquadrate da una cornice di motivi vegetali, con grossi fiori
disposti in basso in modo obliquo e divisi al centro da elementi cuoriformi. L’esemplare da Vasto
potrebbe allinearsi con gli antepagmenta a figure umane attestate in Campania , in Molise, a
Pietrabbondante e, in Abruzzo, a Schiavi. Quest’ultimo confronto appare significativo in quanto,
pur presentando un motivo con quattro teste, fra cui anche Ercole, vi appare identico il motivo
decorativo della cornice. Gli esemplari di Vasto e Schiavi appaiono riferibili a botteghe locali che
producevano lastre a matrice, decorate a stecca.
Il santuario a Punta Penna sembra connotabile come luogo di culto di importanza superiore al
semplice ambito locale, come appare evidente dal rinvenimento nell’area di S.Maria della Penna,
oltre che della lastra menzionata, di due lastrine bronzee con iscrizioni in osco.
Nella seconda metà del XVI secolo sul pianoro intorno a S.Maria della Penna erano ancora
visibili i resti di due templi e di un teatro, il che sembrerebbe ricollegare il contesto al noto
complesso di Pietrabbondante, in Molise, la capitale “ideologica e morale” di tutte le popolazioni
sabelliche, soprattutto nella lotta contro Roma. Pur essendo stata scavata agli inizi del secolo XX °,
a sud di Vasto, la ben nota necropoli del tratturo, con sepolture databili dall’età del Ferro al periodo
romano, le indagini condotte nell’ambito del centro storico della città corrispondente all’antica
Histonium, non hanno per ora rivelato la presenza di resti dell’originario abitato frentano
precendente il II-I sec a.C., per cui il santuario di Punta Penna appare riferibile alle origini stesse del
popolamento frentano dell’area di Vasto.
Passo Porcari
Nel 1977, in località Passo Porcari, fra la SS 154 della Valle del Sangro e la strada comunale di
Montemarcone , una stupenda statuetta bronzea , venuta casualmente alla luce, ha dato luogo ad
una campagna di scavi che ha rivelato la presenza di un santuario italico-romano.
E’ stato così possibile individuare un temenos o recinto sacro, all’interno del quale era collocato
un piccolo tempietto in antis, senza podio, con cella, pareti intonacate e pavimentazione in
cocciopesto e disegni geometrici in tessere bianche e marmoree. L’area antistante il tempio era
pavimentata con ciottoli di fiume disposti a spina pesce , mentre fuori dal temenos sacro è stata
indiziata la presenza di una fornace, forse legata alla produzione di ex voto.
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Lo scavo ha restituito manufatti in argilla rosa e vernice nero-bruna, una moneta, un frammento
di catino decorato con serpente , una testa di cavallo, probabile ornamento di un fregio o di un
frontone, un frammento di ara con cappello, di cui resta un solo angolo, su cui è stata scolpita una
bellissima testa di ariete.
Tuttavia la testimonianza artistica più preziosa è la statuetta bronzea che ha dato l’avvio allo scavo.
Si tratta di un reperto che tradisce grande perizia tecnica, raffinatezza ed eleganza, di esecuzione
non locale, ma di probabile importazione magnogreca o campana. La rappresentazione del dio,
interpretato come Veiove o Giove Giovanile, rimanda all’iconografia di Alessandro Magno ed alle
tecniche ellenistiche, perciò la statuetta può essere datata fra II e I sec. a. C..
Il santuario di Passo Porcari, vicino al tratturo, non lontano dal fiume, sembra legato ai flussi
transumantici ed ai modelli socio-culturali veicolati lungo i tratturi, ma la sua frequentazione
sembra interrompersi al I sec. a.C., con la fine della guerra sociale ed il colpo mortale inflittto dai
Romani a tutte le attività, comprese quelle cultuali, svolte dalle popolazioni italiche.
Verosimilmente il santuario non fu riattivato dai Romani e subì il degrado e la distruzione.
Juvanum
Durante il Medioevo i monaci Cistercensi edificarono un’abbazia sulle rovine del santuario italico
situato sull’acropoli naturale sovrastante il pianoro dove sorgeva il municipium romano di Iuvanum,
non lontano da una fonte, vitale per l’aggregazione umana e la sosta di pastori, greggi ed armenti.
Probabilmente sullo stesso sito, a metà strada tra i centri di Torricella Peligna e di Montenerodomo,
fu eretta l’abitazione di un gastaldo longobardo, da cui il toponimo di Santa Maria di Palazzo che
compendia le due costruzioni medioevali.
Il santuario italico è stato costruito nella prima metà del II secolo a.C., nel territorio della tribù
sabellica dei Carricini, ma pochi sono i resti leggibili. Tra essi il nucleo dell’alto podio, nell’area
sacra dell’abbazia, e un blocco della cornice inferiore a gola rovescia, addossata al podio. Altri resti,
come alcuni capitelli dorici italici con echino dal profilo a gola, sono stati trasportati nell’area
circostante, nel comune di Torricella Peligna.
Entro la metà del II secolo a.C. si colloca anche la costruzione del secondo tempio a nord di quello
gia costruito; per fargli posto, fu necessario ampliare il recinto sacro, creando cosi una piattaforma,
all’interno della quale sono state rinvenute delle testine di statuette del tipo “tanagrine”e alcune
monete. All’esterno del recinto sacro della piattaforma è stato scoperto uno scarico di lucerne di età
romano-imperiale.
Alcune epigrafi di età imperiale attestano, inoltre, che questi templi furono dedicati ai culti di
Ercole, di Diana, di Minerva e della Vittoria. Molto attivo dovette essere anche il collegio degli
Ercolani che sovrintendeva al culto del Dio, la divinità di gran lunga più venerata dalle comunità
sabelliche, soprattutto dai pastori e dai contadini. Nel corso dello stesso secolo fu costruito un teatro
di cui si conservano le prime sette file, relative alla cavea, e le fondazioni della scena in miniatura.
La connessione del teatro con il santuario conferiva sacralità alle rappresentazioni, che si
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verificavano in occasione di ricorrenze religiose, le quali erano accompagnate da fiere e mercati.
Ma il teatro poteva avere anche funzione pubblica, di parlamento o di luogo di riunione per
assemblee, a cui partecipavano tutte le comunità del territorio che avevano il loro punto di
riferimento proprio nel santuario cantonale di Juvanum.
Villalfonsina
Dagli anni ’50 del XX secolo a Villalfonsina sono stati rinvenuti diversi reperti, la maggior parte di
provenienza cimiteriale. Gli oggetti documentano una certa continuità. Il gruppo più cospicuo è
costituito da una serie di lastre di rivestimento a matrice con motivo fitomorfo caratterizzate da un
argilla rosata con molti piccoli inclusi. Sulla base dei pezzi conservati si può ricostruire una lastra
alta 42 cm e larga 31 cm. Si tratta di un tipo di lastra simmetrica e con molti elementi decorativi.
Tale materiale può essere datato al II sec. a.C., costituito prevalentemente da pezzi unici, per alcuni
dei quali risulta problematica la collocazione.
Tali frammenti di lastre sono decorati con piccole palmette a cinque petali. Sono state ritrovate
diversi tipi di antefisse: dalla più comune pothnia theron a quelle con testa gorgonica. Le due
antefisse con testa di gorgone hanno un’acconciatura con tre file di boccoli ed un nastro.Alla
decorazione dell’edificio ornato con antepagmenta a motivo fitomorfo, sono alcuni frammenti di
lastre di rivestimento del columen e dei mutuli realizzati in argilla , dalla quale sono stati ricavati
l’antefissa con testina gorgonica e quella con potnia e la sima con baccellature dai margini assiali;
dove si riconosce la foglia appuntita da cui sono state ricavate le lastre di rivestimento del columen.
Il materiale conservato consente di ricostruire due lastre nelle quali erano raffigurate Eracle e
Atena; di questa decorazione restano soltanto un grosso frammento con le gambe di Eracle e parte
del torso e del panneggio di Atena. Il pezzo meglio inquadrabile è il torso di Atena, databile
all'i’inizio del III sec, a.C. dove Atena è raffigurata con un elmo alato.
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La Romanizzazione dell’Abruzzo
Tra la fine della guerra sociale e la battaglia di Azio, Roma fu sconvolta da numerose contese che
ebbero come protagonisti i più potenti personaggi della declinante repubblica. Gran parte di queste
guerre furono combattute in Italia, che ne subì le pesanti conseguenze. Il territorio abruzzese, però,
venne interessato solo marginalmente . Nel 82 a.C. Interamna venne punita da Silla per aver preso
le parti dei Mariani; nel 49 a.C. Cesare discese lungo le coste adriatiche per poi deviare verso le
città di Corfinium; nel 43 a.C. Alba Fucens svolse un ruolo decisivo a favore di Ottaviano
contrapposto a Marco Antonio.
Nonostante i disagi di queste vicende gli abitanti dell’Abruzzo antico furono ben soddisfatti per
aver ottenuto la cittadinanza romana: questi sentimenti si evincono da una serie di attestazioni
epigrafiche e archeologiche, conseguenti anche all’assetto municipale. Con il termine
municipalizzazione si indica, infatti, quel processo che, partendo dal I secolo a.C., vide il sorgere di
strutture in gran parte urbanizzate: municipia e praefecturae.
I municipi erano comunità dotate di autonomia amministrativa e rette da un senato, i cosiddetti
decuriones, e da un collegio di quattro magistrati, e, poi, dopo la riforma cesariana, da due
magistrati.
Ogni municipium era a capo di un territorio, comprendente ripartizioni amministrative (vici e pagi).
Nella maggioranza dei casi i municipi soppiantarono gli ordinamenti preesistenti.
Ad esempio, Teate (Chieti) che si trovava sul tratto finale dell’antico tracciato che collegava il
Fucino e la conca peligna, lungo la riva destra del fiume Aterno, era vicina alle miniere di Scafa e
alle saline della foce dell’Aterno. Iuvanum (Montenerodomo) era una costruzione artificiosa, in
quanto costituita solo da edifici pubblici.
Questi sono due esempi di come Roma si ispirò a criteri di centralità economica ed amministrativa.
Dopo la costituzione dei municipia, l’estensione del modello urbano e le innovazioni urbanistiche
ed edilizie vennero assai ben accolte, in quanto percepite come funzionali a quel concetto di
urbanitas che le aristocrazie italiche consideravano elemento importante per entrare a pieno titolo
nella comunità e cultura della capitale.
Ai membri delle famiglie più in vista e più ricche venne riconosciuta la dignità di cavalieri e poi la
possibilità di essere ammessi in senato. In questo contesto, caratterizzato da un fervore politico
derivante dal nuovo status giuridico, maturò e fiorì nei municipi italici la moda delle orgogliose
raffigurazioni su statue dei vari committenti, come sobri e austeri personaggi togati, con ispirazione
greca.
Buona parte di questi reperti provengono dal territorio di Chieti. Personaggi di maggior rilievo
furono Sallustio Crispo, storico e uomo politico, nativo di Amiternum, vicino L’Aquila; il teatino
Asinio Pollione, buon soldato e oratore, il sulmonese Ovidio Nasone, poeta dell’età augustea. I
personaggi più importanti dell’età della municipalizzazione sono componenti della famiglia degli
Asinii di Teate: Asinio Herio fu comandante dei Marruccini durante la guerra sociale; Asinio
Pollione fu storico, uomo di cultura, mecenate; a lui si deve l’istituzione di una biblioteca pubblica a
Roma.
Oltre a questi casi più celebri, comunque si hanno notizie di altri numerosi personaggi che
ricoprono cariche importanti durante il periodo tardo-repubblicano e imperiale e che non
dimenticarono i luoghi di origine, attivandosi per abbellirli di edifici pubblici e religiosi, monumenti
e statue.
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Dall’età italica alla romanizzazione
Assetto politico amministrativo
Nell’organizzazione politico-amministrativa dei popoli italici il livello più elevato era costituito dal
nomen suddiviso in populi. All’interno del populus il territorio era articolato in zone d’influenza
delle genti o famiglie più potenti. La touta, invece, era l’agglomerato politico amministrativo
fondamentale, cioè un insediamento preurbano di fondovalle (vicus) o un insediamento d’altura
(oppidum), retti dai meddices, corrispondenti dei iudices latini. Durante le battaglie i populi erano
comandati da un dux o un imperator. Le riunioni federative si tenevano nel santuario più
importante del nomen, l’assemblea generale era chiamata conciulium.
Sistema economico insediativo
Il sistema economico insediativo era basato sul binomio vicus-oppidum, il primo con attività
agricole, l’altro organizzato come un centro fortificato. Vici e oppida erano ricompresi nei pagi,
dotati di magistrati e di autonomia amministrativa.
Dopo i trattati con Roma la figura del meddix rimane e gli si affiancano altre magistrature con
titolature romane.
Cultura e lingua latina penetrano a poco a poco nell’Abruzzo italico, molte famiglie delle tribù
italiche stringono amicizie e rapporti d’affari con i Romani, i militari partecipano alle guerre di
conquista, l’aristocrazia terriera si serve di schiavi orientali.
Dopo la guerra sociale e la concessione della cittadinanza romana sorgono su siti italici diverse
strutture urbane chiamate municipia o prefecturae, dotate di grande autonomia: erano retti da un
senato (decuriones) e da un collegio di 4 magistrati, quattorviri o di 2 magistrati, duoviri.
Questi insediamenti, nuovi o ridefiniti nel loro ruolo, soppiantano le colonie e vengono arricchiti
con diversi monumenti che rendono confortevole la vita dei cittadini, come terme, teatri, anfiteatri
ecc. oppure appagano la sfera religiosa, come templi, santuari, sacelli, statue di divinità ecc..
La viabilità in età romana
Le più importanti arterie di viabilità che attraversano l’Abruzzo in età romana sono: la Via Claudia
Nova, un raccordo della via Salaria che dalla Sabina si spinge fino ad Aufinum (Ofena) e poi fino a
Corfinum (Corfinio). A Corfinio la via Claudia Nova s’innesta con la Via Valeria, un
prolungamento della Via Tiburtina che unisce Roma a Tivoli. Dal congiungimento della via Claudia
Nova con la via Valeria si origina la Via Claudia-Valeria, un percorso di vitale importanza che
raggiunge l’Adriatico ad Ostia Aterni (Pescara).
Un altro tracciato di grande importanza è la Via Cecilia che parte da Amiternum (l’Aquila),
passa per Interamnia (Teramo) e raggiunge l’Adriatico a Castrum Novum. Altre strade collegano
Corfinium con i centri del Molise e della Campania; la più importante è senza dubbio la Via
Minucia; una strada collega Interamnia ad Hatria; una strada circumfucinense costeggia il lago del
Fucino, ora prosciugato, collegando tutti i centri che vi si affacciano.
La strada più importante è quella litoranea, chiamata prima Via Frentana e poi Via FrentanaTraiana, per le opere di ristrutturazione promosse dall’imperatore Traiano. Tale via collega il
Piceno con la Puglia, ed oggi è in gran parte occupata dal tracciato della stradale 16, nonché è
parallelo, sovrapposto o confuso con il tracciato del Regio Tratturo, L’Aquila-Foggia.
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I Municipia in Abruzzo durante l’età romana
Nel territorio dell’antico Abruzzo, con la romanizzazione, divennero municipi :
le colonie di Alba Fucens e Carsioli (Carsoli) in territorio equo;
quelle di Hatria (Atri) e Castrum Novum (Giulianova) in territorio pretuzio, nonchè il
conciliabulum di Interamnia (Teramo);
tra i Sabini Amiternum conservò per qualche tempo l’antico ordinamento di praefectura.
Sorsero come praefecturae e restarono tali: Aveia (Fossa) e Peltuinum (Prata d’Ansidonia),
entrambe in territorio vestino.
Furono creati ex novo i seguenti municipi :
tra i Marruccini Teate (Chieti);
tra i Sanniti Carricini Iuvanum e Cluviae;
tra i Vestini Pinna (Penne);
tra i Frentani Anxanum (Lanciano), Histonium(Vasto);
tra i Peligni Corfinium (Corfinio), Sulmo (Sulmona), Superequum (Castelvecchio Subequo);
tra i Sanniti Pentri Aufidena (Castel Di Sangro);
tra i Marsi, Marruvium (S.Benedetto dei Marsi) e Antinum (Civita D’Antino).
Altre località rimasero nella condizione di vici o pagi pertinenti a un municipium o a una
praefectura:
tra i più rilevanti possiamo citare:
presso i Vestini Aufinum (Ofena), pagus appartente alla praefectura di Peltuinum;
tra i Marruccini, Ostia Aterni (Pescara), vicus appartenente al municpium di Teate, e pagus
Interpromium (Tocco da Casauria);
tra i Sabini Foruli (Civitatomassa), vicus appartenente alla praefectura di Amiternum;
tra i Peligni i pagi di Betifulus (Scanno) e Lavernae;
tra i Marsi Lucus Angitiae (Luco dei Marsi);
tra i Petruzi e i Piceni il vicus di Beregra (Montorio Al Vomano) e Castrum Truentinum
(S.Benedetto del Tronto).
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Municipi
Teate
Teate ( attuale Chieti), l’unica città del piccolo popolo dei Marrucini, sorgeva su un colle posto
tra due fiumi: il Pescara e l’Alento. A parte notizie in generale sui Marrucini, dal trattato di alleanza
stipulato con Roma alla fedeltà mantenuta durante la guerra annibalica, nulla di specifico ci è noto
sulla città, che pure dovette iniziare a formarsi anteriormente alla concessione della cittadinanza
romana. In età tardorepubblicana e imperiale era un centro di una certa importanza, ciò può
giustificare la definizione che ne dà Silio Italico, di Magnum Teate. Lo sviluppo, iniziato nel II sec.
a.C., dovette intensificarsi dopo la guerra sociale, quando la città assunse lo stato di colonia,
testimoniato da una tarda iscrizione. Una notevole attività edilizia caratterizza la città nel primo
periodo imperiale, sicuramente legata alla presenza di alcuni personaggi di alto rango, quali Asinio
Pollione e il figlio Asinio Gallio. Due iscrizioni testimoniano la presenza e l’attività degli Asinii a
Chieti, almeno fino alla metà del I sec. d.C., ma anche del mecenatismo di Marco Vezio Marcello e
di sua moglie Elvidia Priscilla, amici dell’imperatore Nerone.
La città fu distrutta in età carolingia da Pipino e successivamente trasferita dal colle in un luogo
più basso, e poi ricostruita interamente sotto Carlo d’Angiò, in dimensioni più ampie.
Il centro preromano sorgeva sulla Civitella, il settore a sud-ovest della città, il più elevato. Tombe
dell’età del Ferro dimostrano l’esistenza di un pagus , cioè un villaggio, in questa zona, che dovette
ampliarsi già nel corso del II sec. a.C..
Il municipio tardorepubblicano e imperiale si estese verso nord-est, mentre gli edifici più importanti
nel settore sud-ovest. Più oltre è attestata la presenza di una zona occupata da abitazioni private.
L’attuale Corso Marrucino corrisponde certamente all’asse principale della città antica (costituito
dal tratto urbano della via Claudia Valeria), spostato verso est, come conferma la posizione di due
grandi cisterne.
Il teatro si addossava alle pendici occidentali della Civitella, in questo lato particolarmente franose:
ciò ha causato il crollo e la perdita di tutto l’edificio scenico e di un tratto dell’ala occidentale della
cavea e non resta nulla delle gradinate. La costruzione del teatro si può quindi datare agli anni
centrali del I sec. d.C., più precisamente all’età neroniana.
Il foro probabilmente occupava la zona pianeggiante a nord- est della Civitella, come dimostra la
scoperta di numerose iscrizioni di carattere pubblico e l’esistenza di un gruppo di edifici sacri,
connessi con il centro amministrativo e religioso della città.
Nell’area della Civitella sono venuti alla luce i resti di tre grandi templi italici simili a quelli di
Schiavi d’Abruzzo, edificati nel II sec. a.C. Essi sono andati quasi totalmente distrutti, ma ci sono
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pervenute le decorazioni in terracotta dei frontoni che raffigurano statue di divinità . Molto
numerose le antefisse, cioè tegole con sopra statuette, lastre traforate o decorate che univano
armonicamente l’uso funzionale ed il gusto estetico. Due di questi frontoni sono stati ricostruiti ed
esposti nel nuovo museo della Civitella, sorto nell’area adiacente all’antico anfiteatro. L’anfiteratro
‘dimenticato’ è, infatti, tornato alla luce negli anni novanta del XX secolo, in seguito allo
smantellamento delle tribune del campo sportivo costruite trenta anni prima. L’area dell’anfiteatro
ha inoltre restituito resti stratificati di diverse età, dalla preistoria al medioevo, a testimonianza
dell’importanza del sito, uno dei più vitali della lunga storia di Teate.
In pieno centro storico, presso la biblioteca provinciale, si conservano i resti di due templi gemelli,
affiancati poi da un terzo edificio di culto. La sacralità del luogo è confermata dalla continuità del
culto cristiano, con la ridedicazione dei tempietti a San Pietro e San Paolo, fin dall’VIII secolo.
Sulle pendici del lato occidentale del colle su cui sorgeva la città, si conservano i resti di un edificio
termale e a nord-ovest dell’edificio termale vi era un’imponente cisterna posta al di sotto della via
Marrucina. Si tratta di nove grandi ambienti ricavati in gran parte entro il colle e coperti da volte a
botte. Gli ambienti comunicano tra di loro tramite quattro aperture ad arco e presentano una
particolarità: terminano con pareti concave destinate a sostenere la pressione delle acque. Molto
pregevoli i pavimenti mosaicati delle terme, gli ambienti funzionali, come il calidarium ed il
frigidarium, le condotte dell’acqua calda e fredda, le sale di attesa, gli atri, ma estremamente
interessanti risultano anche i manufatti ed i materiali rinvenuti nelle terme: monete, vasellame,
oggetti di uso cosmetico, lucerne, lastre marmoree.
Del resto il museo della Civitella documenta l’estrema ricchezza di Teate: i resti provenienti da
case patrizie, i mosaici, gli oggetti d’uso quotidiano, gli ex voto, le attestazioni cultuali, le divinità
straniere, come Iside ed Asclepio, venerate accanto a quelle del pantheon tradizionale romano . Ma
il culto di Eracle, sul cui tempio venne ricostruita la cattedrale di San Giustino, un prestigioso
edificio tardo romanico, doveva risultare il punto di forza della religiosità tradizionale, in linea con
le attestazioni cultuali di gran parte del territorio regionale. Inoltre, accanto alle tante testimonianze
archeologiche venute alla luce o irrimediabilmente obliterate dalle sovrapposizioni medioevali e
successive, una Teate ‘sotterranea’ non finisce mai di stupire , con il suo dedalo di cisterne,
magazzini, strade, depositi ecc. ed ogni tanto restituisce meraviglie, come l’ambiente recentemente
rinvenuto ed interpretato quale magazzino per cereali, ricco di mosaici raffinati e di buona fattura
tecnica. Infine i ritratti virili, le statue, le epigrafi attestanti le opere di evergetismo dei personaggi
importanti, il monumento funerario di Lusius Storax, le stele funerarie, i reperti fittili e bronzei, o in
osso e in vetro, il repertorio delle lucerne e di tutti gli altri utensili, documentano a pieno titolo,
accanto ai resti delle numerose strutture murarie disseminate in tutto il centro storico di Chieti, la
ricchezza ed il ruolo svolto da Teate nell’antichità.
Cluviae
Nella mappa topografica delle popolazioni sabelliche dell’antico Abruzzo-Molise, Cluviae risulta
uno dei siti più conosciuti nell’antichità, più volte citato nelle fonti come teatro di imprese belliche
e di operazioni militari e come centro agricolo di una certa importanza. Gli studiosi, per localizzare
il sito, hanno rivolto l’attenzione sul pianoro della Roma, tra Casoli e Palombaro, altopiano che si
eleva alto e scosceso sui letti dei torrenti Laio ed Avello e del fiume Aventino: una posizione di
centralità sul territorio circostante da cui traspare la posizione strategica e difensiva del
luogo.Tutt’intorno la topografia territoriale evidenzia la presenza di antichi termini : Via Decumana,
Limiti di sopra, Limiti di sotto, Fonte dei Gentili, Cardo, Via dei Gentili ecc…
In tale località sono visibili avanzi consistenti di un circuito murario che doveva presentarsi esteso
e possente. Inoltre si possono ancora individuare resti archeologici attinenti ad un teatro, a scarichi,
condutture fognarie e vestigia di un complesso termale; basi di colonne e pesi di telaio e pavimenti
decorati con mosaici che ora fungono da appoggio a damigiane, bottiglie ed arnesi da lavoro.
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Una probabile identificazione del luogo in un vicus denominato Pagus Urbanus , fu proposta dal
Mommsen sulla base di un’iscrizione mutila “banor / pagus / anus” riportata su tre righe in una
lapide allora conservata nella chiesa di Santa Reparata a Casoli.
La proposta ebbe successo e la denominazione di Pagus Urbanus fu riportata nelle carte
topografiche ed archeologiche. Ma solo negli anni sessanta, A. La Regina proponeva con molto
successo l’identificazione con l’antica Cluviae, sulla base di una tabula di patronato, scoperta in
località Bufalara, tra San Salvo e Vasto, ed emanata il 4 maggio del 384 d.C. dai Cluvinses
Carricini, in onore di un certo Aurelio Evagrio Onorio, che appunto custodiva nella sua tenuta
marina una copia di quella tabula.
Numerosissime anche le testimonianze epigrafiche e letterarie relative alla Cluviae romana:
deduzione a colonia e l’assegnazione della municipalità, quale si evince, tra le altre, da un’epigrafe
trovata ad Anxanum, in cui compare un C. Attius Crescens, magistrato a Cluviae e Anxanum, e
quindi in grado di esercitare la carica pubblica nelle due città nella stessa giornata.
Persiste sul piano della Roma la presenza abitativa altomedioevale e medioevale la fondazione di
numerose chiese, tra cui “l’ecclesia Sanctae Crucis de ipsa Roma”, presente nella cronaca cassinese
di Leone Ostiense e l’insediamento della castrum Laroma, sopravvissuto linguisticamente.
Juvanum
Scarse sono le citazioni presenti nei testi letterari dell’antica città di Juvanum, uno dei municipi
della tribù dei Carricini, tranne qualche cenno nel “Liber Coloniarum”, dove è menzionata con il
nome di Iobanus.
Le uniche informazioni pervenuteci provengono soprattutto da iscrizioni e dati archeologici; da
queste, infatti, ci è stato possibile dedurre che Iuvanum fosse un municipio, amministrato da
quattuorviri. Si è scoperto, inoltre, che nel municipio si praticava il culto di Diana, di Ercole, di
Minerva e, probabilmente, quello di Venere.
La posizione geografica dell’antico abitato è stata identificata in località S.Maria di Palazzo, tra
l’attuale Montenerodomo e Torricella Peligna.
In seguito a scavi recenti, è stato possibile dimostrare che l’antica città si sia sviluppata a partire
dall’età tardorepubblicana. Sono venuti alla luce soprattutto strutture pubbliche, urbanisticamente
collegate in modo razionale e funzionale, il che ha fatto ipotizzare una “costruzione artificiale”,
senza edilizie abitative, ma centro di riferimento religioso, amministrativo e commerciale per le
popolazioni sparse “vicatim” nel territorio.
Lungo la via che collega il santuario, posto sulla collina che domina il pianoro su cui sorge
l’abitato, si trova il Foro, una piazza rettangolare cinta su tutti i lati da portici e tabernae. Sul
pavimento è stata individuata un’iscrizione in cui compare il nome del magistrato che si occupò
della realizzazione del foro.
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Grazie al ritrovamento di un’altra iscrizione, seppur mutila, si è accertata anche la presenza di un
tribunale. Infatti una basilica absidata occupa il breve lato settentrionale del foro.
Altri scavi, infine, hanno riportato alla luce una strada parallela all’area del foro, un sarcofago
con una lunga iscrizione incisa, materiale fittile, in bronzo e ferro, frammenti in osso e vetro, arnesi
da chirurgo, vasellame, fornaci e focolari, basi di statue ed anche altri resti delle sovrapposizioni
tardo imperiali e medioevali.
Sull’acropoli o collina che domina il pianoro vi sono, invece, i resti del santuario italico e del teatro.
Histonium
La città di Histonium occupava lo stesso sito dell’odierna Vasto e veniva considerata dagli antichi
scrittori uno dei centri più importanti dei Frentani e poi un prestigioso municipio romano. Il
toponimo antico suona come “telaiolo”, in riferimento forse alla produzione e trasformazione della
lana, garantita dai flussi fratturali. Un’antica città chiamata “Histone” è presente anche a Corfù,
probabile segno di rapporti e di commerci già nel passato.
Nonostante il Liber Coloniarium ne faccia una colonia, sembra che, dopo la guerra sociale,
Histonium sia sempre rimasta un municipio, iscritto alla tribù Arnensis, come si ricava dalle
iscrizioni nelle quali appaiono i quattuorviri, magistrati municipali.
Tra i principali culti si ha testimonianza di quelli di Ercole, Cerere, del Sole e di Giove
Dolicheno. In età tardo-repubblicana ed imperiale, il territorio della città appare occupato da estesi
latifondi, proprietà di personaggi d’alto rango. Tra questi vanno ricordati gli Hosidii Getae, Pacuvio
Scaeva, Elvidio Prisco e Aurelio Evagrio Onorio, ma grande onore ebbe pure Lucio Valerio
Pudente, poeta giovinetto, che a soli tredici anni fu incoronato in Campidoglio, come attesta
un’epigrafe che menziona anche la sua brillante carriera politico-amministrativa.
Pochissimi i resti “visibili” della città antica: l’area dell’anfiteatro è occupata da Piazza Rossetti,
quella del tempio di Cerere, su cui fu costruita la chiesa di San Pietro, è stata oggetto di un
disastroso movimento franoso, dalle iscrizioni conosciamo l’esistenza di un portico restaurato da
Fabio Massimo, il rector della provincia del Sannio. Ma il segno archeologico più importante di
Vasto è rappresentato dalle spettacolari terme scoperte a ridosso della chiesa di Sant’Antonio, ed in
parte obliterate proprio dalla costruzione dell’edificio religioso.
Esse si caratterizzano soprattutto per i tappeti musivi, in parte rinvenuti nel secolo scorso, in
parte in tempi recentissimi. In questi ultimi, circa 130 mq, sul fondo bianco, l’artista con grande
bravura tecnica , ha fissato tessere nere per formare volute e figure geometriche, entro cui si
muovono animali fiabeschi, delfini e figure mitologiche, tra i quali campeggia la possente e fiera
immagine di Nettuno che stringe il tridente in una mano e regge un delfino nell’altra.
Sono state poi rinvenute anche alcune iscrizioni osche su lastrine bronzee conservate al museo
civico, ma il monumento più importante è il sarcofago bisomo, sepoltura di Pacuvio Scaeva e della
moglie Flavia.
All’interno del sarcofago sono incise le iscrizioni che si riferiscono ai due defunti. Importantissima
quella di Scaeva, dove è riportata la sua brillante carriera che si interruppe bruscamente, mentre era
proconsole a Cipro. Poiché la moglie, come è indicato nella sua iscrizione, fu sepolta insieme al
marito, è probabile che i due siano morti insieme di morte violenta. Il sarcofago appartiene a un raro
tipo di età augustea, utilizzato da personaggi che preferivano l’inumazione alla cremazione.
Probabilmente i coniugi appartenevano ad una setta, come quella dei neopitagorici che praticavano
l’unumazione.
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Inoltre, nelle sale del museo archeologico, inserite nello splendido palazzo D’Avalos, statue,
lucerne, crateri, versatoi, vasi, anfore, manufatti di argilla, ferro e bronzo, datati dal VI sec. A. C.
alla tarda romanità e provenienti prevalentemente dalle località Luci e Colle delle Mandorle, da
sepolture urbane, dalla necropoli del tratturo e dal pianoro di Santa Maria della Penna, documentano
la storia della città e del buon livello artistico-culturale dei suoi artigiani.
Le indagini archeologiche recenti hanno portato alla luce diversi elementi afferenti ad una struttura
templare e ad abitazioni proprio nel pianoro di Santa Maria della Penna, confermando le notizie
degli storici vastesi dei secoli scorsi che ancora potevano ‘vedere’ i resti di un antico abitato. Molti
studiosi localizzano proprio nel sito della moderna località di Punta Penna, porto di Vasto, l’antica
Buca, ritenuta da Plinio uno dei porti frentani, ma citata da Strabone come uno degli approdi,
insieme ad Ortona, della pirateria frentana.
Gli abitanti di Buca, secondo lo storico greco, erano predoni e bestie feroci che si servivano dei
resti dei naufragi per costruire le loro dimore.
Solo altre scoperte epigrafiche, archeologiche o di altro genere, potranno confermare la validità
delle varie ipotesi sulla localizzazione del sito di Buca.
Hortona
La città di Ortona occupava un pianoro collocato su un promontorio roccioso alla cui base si
trovava un approdo naturale, riparato e ben difeso.
Testimonianze archeologiche dall’età del bronzo fino all’età medioevali sono state restituite a
diversi livelli dall’area del diruto castello Aragonese, nella cui corte centrale sono stati individuati
resti protostorici ma anche lavori per la costruzione di una grande cisterna. Il sito italico ,
probabilmente, si sviluppò proprio da questa area, per poi estendersi, in età romana soprattutto nella
zona occupata dal quartiere di Terravecchia. Alcuni moderni assi longitudinali sembrano ripetere
l’antico assetto urbanistico.
Notizie sull’abitato antico sono fornite dal Romanelli che individua, con scarsa attendibilità, edifici
cultuali pagani sotto l’arcipretura di S. Tommaso e ricorda l’esistenza di un collegium lanariorum et
navicularum, collegato ai traffici commerciali e marittimi, come sembrano confermare le numerose
anfore, soprattutto vinarie, tipo Dressel, che vanno dal III sec. a.C. al III sec. d.C., rinvenuti in zona
e connessi all’attività portuale. L’esatta ubicazione dell’approdo antico è ancora fonte di
accertamento e discussione, ma il toponimo “Lo Scalo”, a nord del Castello aragonese , potrebbe
indiziare la presenza dell’antico porto., confermata anche dal rinvenimento di materiali fittili , da
un’ancora in piombo ed altri manufatti restituiti da saggi di scavo condotti nell’ultimo decennio del
XX ° secolo. Resti bizantini testimoniano, poi, l’enorme importanza portuale assunta da Ortona
nell’ambito dei traffici adriatici e mediterranei, come si può evincere anche da una lettera di papa
Gregorio Magno .
Il centro romano di Ortona è menzionato da Strabone, Tolomeo ed altri, è presente negli itinerari
antoniniani e nella Tabula Peutingeriana, ma è soprattutto la menzione in Plinio che indica la città
come municipium frentano in ora a far discutere. La municipalità, se mai acquisita, fu forse una
istituzione tarda, favorita da una forma di autonomia amministrativa goduta dalla città. Il che può
aver generato una interpolazione sul testo pliniano.
Su un importante tracciato viario interno rispetto alla costa ortonese, in località Casino VezzaniVassarella negli anni novanta del XX° secolo sono stati rinvenuti i resti di un presidio bizantino
(VI-VII sec.), a controllo della viabilità a sud di Ortona, tra cui un ricchissimo deposito di materiali
che documenta i traffici e le importazioni di manufatti dall’Egitto e da altre località africane e
medio-orientali.
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Anxanum
La posizione geografica di Lanciano nella Valle del Sangro, a confluenza di diversi tracciati viari
antichissimi e punto di raccordo di tratturi e tratturelli, ha favorito fin dalla preistoria gli
insediamenti antropici e le attività agricole , artigianali e commerciali. Nel sito della città moderna
si possono leggere stratificazioni e testimonianze che riconducono all’età del ferro, all’epoca italica
ed a quella romana, quando Anxanum era uno dei municipi più industriosi e floridi dei Frentani.
Tuttavia la grande importanza assunta da Lanciano in epoca medioevale, rinomata per le sue
famose nundinae o fiere che richiamavano mercanti da tutta l’Europa ed il bacino del Mediterraneo,
le presenze bizantine, longobarde, angioine e così via, per successive tappe storico-cronologiche,
nonché la forte presenza religiosa ed il richiamo esercitato dal Miracolo Eucaristico, hanno
cancellato o obliterato in gran parte il tessuto architettonico , urbanistico e monumentale della città
frentana e romana.
La scarsezza di epigrafi o la dubbia autenticità di alcune di quelle conservate hanno poi limitato
la conoscenza approfondita delle remote origini della città, legata anche ad una leggenda di
fondazione che vede come eroe ecista Solimo, compagno di Enea.
Tra il 1993 e il 1994 la Sovrintendenza Archeologica dell’Abruzzo ha condotto con
l’amministrazione comunale di Lanciano indagini archeologiche nella Piazza Plebiscito nell’ambito
di un progetto che prevedeva la ripavimentazione della piazza. L’ intervento risulta inserito in un
programma che, già dal 1992 , le amministrazioni sono andate dedicando alla scoperta delle origini
della città.
E’ stato così possibile focalizzare l’esistenza di un abitato preistorico con materiali e livelli
databili all’età del Ferro, esteso tra Lanciano Vecchia , il quartiere Sacca e il Colle Pietroso.
Materiali preistorici sono stati inoltre rinvenuti come residui in livelli successivi . Anche nell’area
della chiesa del Miracolo Eucaristico, ovvero di San Francesco, già San Legonziano, con annesso
convento, e, in particolare, nell’adiacente Cappella del Rosario, nell’ambito dei lavori eseguiti per
il Giubileo del 2000, sono stati condotti scavi stratigrafici che hanno restituito materiali dell’abitato
protostorico, a cui si sono sovrapposti forti interri contenenti reperti databili fino al II sec. a. C., poi
“sigillati” da un altro interro per consentire la realizzazione di un pavimento in cocciopesto di età
romana.
Fra i materiali recuperati anche frammenti di statuette fittili votive e frammenti di terrecotte
architettoniche , forse riferibili ad un edificio distrutto da un incendio. L’enorme mole di detriti e
frammenti, in cui sono ricomprese quasi tutte le tipologie della ceramica antica, nonché la varia
sovrapposizione di edifici religiosi pagani e poi cristiani, evidenziano l’importanza di questa area
sacra ed il ruolo svolto nei secoli. Inoltre anche i materiali archeologici provenienti dal chiostro,
dalla Cappella del Rosario e dagli altri ambienti del complesso e luoghi viciniori confermano le
successive ed interessanti stratificazioni di insediamenti .
Al I sec a.C. sembra consolidarsi l’antico municipio di Anxanum sul colle di Lanciano Vecchia .
Nell’area tra Piazza Plebiscito e Lanciano Vecchia, vari livelli archeologici rinvenuti testimoniano
la persistenza del popolamento anche in età successive a quella classica. Lo scavo della piazza ha
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interessato in particolare l’area antistante la Cattedrale della Madonna del Ponte. I tre quartieri
storici della città medioevale si sviluppano, infatti, sul Colle Erminio(Lanciano Vecchia), sul Colle
della Selva (Civitanova Sacca) e sul Colle Pietroso (Borgo).
I tracciati viari dei tre colli avevano probabilmente ripreso antichi tracciati indirizzati verso
l’abitato preistorico e romano che convergono in Piazza Plebiscito, nota in età medioevale come
Curtis Anteana . Essa era collegata tramite il Ponte di Diocleziano alla Piana della Fiera, cosi
denominata poiché vi si svolgevano le fiere.
L’intervento archeologico è stato importante, in quanto questo settore urbano costituisce ancora
il polo dinamico di vita sociale , religiosa ed economica della città. L’area indagata è divisa in tre
ambienti: ambiente A (Testata del ponte), ambiente B (Chiesa di S.Maria in Platea), ambiente C
(passaggio che collega il ponte al convento S.Francesco).
Tale ponte, sul fosso della Pietrosa, viene tradizionalmente datato all’epoca di Diocleziano, da
cui la denominazione, al seguito del rinvenimento di un’iscrizione antica, avvenuta, secondo lo
storico Uomobono Bocache il 21 giugno 1785. L’epigrafe, ritenuta non autentica dal Mommsen,,
viene oggi rivalutata, alla luce delle scoperte effettuate. Infatti, parte della testata antica del ponte
sembra essere di età romana, senz’altro anteriore agli assetti tardomedioevali, rinascimentali e
moderni, così come i livelli di percorrenza ad esso connessi.
Ad avvalorare l’ipotesi di una possibile costruzione romana è anche il rinvenimento, negli anni
1920-30, di una testa dell’imperatore Diocleziano, conservata nel Museo Archeologico di Chieti,
trovata durante lavori edilizi in un edificio a lato del ponte, lungo Corso Trento e Trieste.
Ma, se i frammenti di ceramica impastata dell’età del ferro attestano la frequentazione della zona
di Piazza Plebiscito e dintorni fin dal IX-VIII sec. a.C, per l’epoca romana i livelli rinvenuti in
profondità e contenenti reperti risultano compromessi dai lavori medioevali e postmedioevali. Forse
riferito a questa fase è il Battuto 92, realizzato con pietre e terra .
Di grande interesse risulta un muro con ricorsi regolari di laterizi, pietre e conci posti su filari di
età tardo-imperiale ubicato alla testata del ponte di età medioevale.
La successiva abitazione del territorio in età bizantina e alto medioevale è confermata dalla
ceramica di tipo Crecchio e da ceramica acroma altomedioevale.
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Ciclo dell’anno e cibi rituali
In tutto l’Abruzzo e in particolar modo nella provincia di Chieti si dà grande importanza alle feste
tradizionali, legate alla preparazione di prodotti tipici,dolci o salati.
Già nell’antica Roma si celebravano le Ferie Sementine, periodo dedicato alla purificazione dei
campi, all’offerta alla Terra ed a Cerere, dea delle Messi.
Oggigiorno, nel calendario cristiano, si festeggiano, tra gennaio e febbraio, tre Santi: S.Antonio
Abate, S.Sebastiano e S.Biagio; ma a queste feste se ne aggiungono altre con caratteristiche proprie
del territorio abruzzese, come il Carnevale, S.Giuseppe, la Quaresima, la Pasqua, il Lessame o Virtù
di Maggio, la Tresca, la Vendemmia, S.Rocco, la spremitura delle olive ed il Natale.
Sant’Antonio abate, Sant’Antune per gli abruzzesi
Sant’Antonio abate è nato e vissuto in Egitto, dove fondò diverse comunità eremitiche. Sono a lui
legati culti secolari ed antiche credenze della civiltà contadina.
La festività di Sant’Antonio Abate, protettore del bestiame e dei raccolti, è celebrata il 17 gennaio,
periodo dell’inverno segnato dall’uccisione del maiale e dalla tradizionale preparazione di salumi e
caratterizzato dall’allestimento di ricchi banchetti e da grosse abbuffate per propiziare fertilità e
salute. Durante questa festa in tutti i paesi girano compagnie che cantano strofe e mottetti
rievocando la vita del Santo.
San Sebastiano
Era un soldato milanese che prestò servizio nelle milizie di Diocleziano. Convertitosi al
Cristianesimo operò molti miracoli. È’ protettore contro la pestilenza ed invocato come santo
guaritore di molti mali. Per San Sebastiano i contadini hanno creato diversi proverbi metereologici,
perché il giorno della sua ricorrenza si fanno le previsioni sui raccolti, in base al tempo
Ad Ortona, in particolare, si consuma anche un cibo rituale, lu puzzinette, così chiamato dalla
casseruola con il manico lungo ed i piedi, un piatto a base di baccalà, rape e peperoni arrostiti, a cui
seguono nevole e vino.
San Biagio
San Biagio, nato a Sebaste, era probabilmente medico e, dopo la conversione al Cristianesimo, fu
eletto vescovo della città. Fece molti miracoli e guarigioni e perciò protettore delle malattie della
gola e dell’orecchio. In Germania divenne protettore dei suonatori poiché il suo nome è collegabile
al termine blasen, soffiare.
Durante questa festa si mangiano cibi che servono a proteggere dalle malattie di raffreddamento, ma
anche a propiziare la fecondità della terra e l’abbondanza dei raccolti.
Carnevale
Da sempre il Carnevale simboleggia per i contadini la fine dell’inverno e l’inizio del periodo delle
grandi abbuffate che terminerà con l’arrivo della Quaresima.
Il Carnevale è noto per l’abbondante consumo di cibi robusti, come ad esempio la pasta
“carrata”alla chitarra con saporiti ragù, seguita da croccanti arrosti, pietanze innaffiate da fiumi di
vino rosso. In passato a questi cibi si aggiungevano fegatini o coratelle d’agnello o di capretto cacio
e uovo, turcinelle o zurlette arrostiti o al sugo.
Ma il Carnevale è soprattutto ricordato per i dolci, in particolare chiacchiere, castagnole,
bomboloni, sfumate, pizze di ricotta e ciambelloni; tuttavia il dolce più amato è la cicerchiata,
ovvero palline di pasta fritta legate insieme col miele che esprimono valenze propiziatorie di
abbondanza fertilità e sanità di raccolti.
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La Quaresima e la Pasqua
Dopo il periodo delle grandi abbuffate del Carnevale, ne segue uno di lungo digiuno, quale la
Quaresima, durante il quale vengono consumati principalmente legumi, verdure, formaggi e pesce.
In passato, il lungo digiuno si concludeva nel giorno di Pasqua che per i contadini rappresentava la
rinascita della natura mentre per i cristiani la rinascita spirituale.
In questo giorno non manca mai sul tavolo carne d’agnello cucinata arrosto, al sugo o al forno
insieme con le uova, simbolo di Cristo risorto; in passato le uova, consumate sode, venivano fatte
benedire in chiesa dopo esser state decorate.
Non mancano dolci, infatti ad Atessa le mense pasquali sono ricolme di dolci soprattutto a base di
pasta di mandorle, dolci a forma di agnello, cavalli e pupe e, infine, di cuori e castelli. Questi ultimi
ad Atessa sono ricoperti con glassa bianca o al cioccolato e costituiscono il dolce irrinunciabile e,
frquente in tutti i paesi della Frentania.
Il Lessame o Virtù di Maggio
Il mese di Maggio era anticamente dedicato a Maia, mentre secondo la religione cristiana alla
Vergine Maria. Veniva anche chiamato costa di maggio poiché stava ad indicare un periodo
difficile dell’anno, durante il quale le provviste invernali erano esaurite ed il nuovo raccolto non
ancora maturo.
Questa festa è accompagnata da numerose processioni e cerimonie di propiziazioni e dal consumo
di particolari cibi come ad esempio le pignate di Maggio, pietanza preparata con gli avanzi della
dispensa, in passato offerta ai poveri o condivisa con parenti e vicini.
Il nome di questo piatto varia da località a località; ad Atessa è nota come lessame, mentre nel
tramano come le virtù, un piatto però più complesso ed elaborato.
La Tresca
La mietitura e la trebbiatura rappresentano l’appuntamento più importante del ciclo agrario e del
lavoro contadino preparato e atteso durante tutto l’anno con la speranza di un raccolto abbondante e
sano .
La lunga giornata della tresca è segnata dalla presenza di numerose tappe gastronomiche: la prima
inizia alle prime luci dell’alba ed è a base di caffè d’orzo e biscotti. Poche ore dopo segue la stozza,
una merenda di pane con prosciutto, salame, ventricina o formaggio. Verso le dieci del mattino è
l’ora della rembrenna, una colazione più sostanziosa a base di frittate e formaggi; in alcuni luoghi si
consumano ancora le pallotte cacio e uovo. Poi c’è il pranzo in cui si mangiano paste fatte a mano
come le sagne a pezzate, condite con pomodoro fresco e basilico, seguite da polli ripieni o
abbondanti arrosti. Nel pomeriggio c’è poi la pausa della svivitella, una merenda a base di insalata,
cetrioli, cocomeri e frutta fresca, spesso seguita da dolci secchi, biscotti e ciambelle, intinti nel vino
cotto. L’ultima tappa è rappresentata dalla cena, caratterizzata dal consumo di sagne e fagioli.
La giornata della tresca si conclude, infine, a tarda notte con musiche, danze, scherzi e risate.
Le feste di San Rocco
La festa di San Rocco si celebra nel mese di agosto e rappresenta un momento di pausa nel lavoro
dei campi . Questa è celebrata con sagre, pellegrinaggi e consumo di cibi particolari. Il pranzo
nell’antica tradizione prevede il consumo di pasta alla chitarra condita con ragù di carne o con
pomodoro fresco e basilico. Segue poi carne di pollo ed infine cocomero fresco e pizza dolce fatta
in casa, bagnata con liquori e farcita con diversi strati di crema.
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La Vendemmia
Da sempre l’uva rappresenta un succo straordinario, dolce ed inebriante, per alcuni un medicinale,
per altri uno stupefacente. I Romani e i Greci riservavano alla “bevanda degli dei” attenzioni
sociali, letterarie, filosofiche, ecc…
Col Cristianesimo il vino, assumendo una forte sacralità, costituisce (assieme al pane) il simbolo
dell’Eucarestia.
La vendemmia (dal latino vinum demere, estrarre del vino) è senz’altro l’appuntamento rurale più
importante dell’autunno e segue riti e gesti precisi.
Nei menù dei giorni della vendemmia sono presenti i classici cibi del giorno della festa: maccheroni
alla chitarra, ravioli, lasagne, tacchino ripieno, arrosti, castagne. Tra i dolci ricorrono pizzelle,
tarallucci o cellipieni. Ma sicuramente il meglio della tradizione è espresso dal mostocotto, col
quale s’impastano murzitti o mostaccioli che ricordano il mustaceus dei latini ,una focaccia
profumata di alloro che veniva data agli ospiti in partenza.
La spremitura delle olive
L’ulivo e l’olio rappresentano da sempre un altro segno forte della civiltà mediterranea e la carta
d’identità del mangiar sano che caratterizza la tradizione culinaria abruzzese ed atessana.
La raccolta delle olive coinvolge amici e parenti e le loro fatiche vengono alleviate dalla
degustazione di cibi nutrienti e calorici come pizza bianca con frittate di peperoni, pizze e fojie,
pallotte cacio e uovo, pollastro a pezzi, pane con salsicciotti fatti in casa, formaggio pecorino, alici
dorate e fritte e tante altre vivande. Solo al termine della spremitura l’assaggio del nuovo olio
diventa un vero rituale gastronomico insaporito da fantasiose bruschette, da maccheroni aglio olio e
peperoncino piccante, da focacce semplici o farcite, infine dal consumo di fiumi di olio a crudo su
patate, verdure e insalate e su piatti a base di carne o pesce.
Natale
Il Natale, oltre ad essere la festa religiosa più sacra e più sentita nel mondo cristiano, è anche la
ricorrenza più attesa per quanto riguarda la preparazione di piatti e dolci tipici.
Il giorno della vigilia è caratterizzato dal cenone magro con pietanze piuttosto semplici, ma robuste
come fidelini con le sarde e le alici e baccalà, seguiti da anguille e capitoni. Una particolare
attenzione si riserva per i dolci, soprattutto cellipieni con marmellata d’uva, crespelle fritte,
calgionetti preparati con pasta di ceci e mostocotto, oppure con miele, noci, mandorle e cioccolato.
Al termine della cena vengono serviti frutta fresca e secca, seguiti da panettoni, pandori e torroni.
Il giorno di Natale, invece, le tavole abruzzesi si fanno più ricche, raggiungendo il massimo della
bontà con il brodo di tacchino con il cardone, le polpettine e la pizza rustica, seguito da ravioli o
lasagne o maccheroni alla chitarra e poi da arrosti, verdure e contorni vari; infine si gusteranno
dolci e torroni.
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Gli alunni:
Canuto Nicolas
Cericola Simone
Colonna Luigi
D’Ardes Damiano
De Braco Federica
De Mattia Benedetta
Del Forno Isabella
Di Pasquale Dora
Galante Mattia
Iacovanelli Angelora
Iacovanelli Norma
Laino Carmelina
Marianaccio Adelina
Staniscia Massimo
Tarantini Antonella
Tieri Melissa
Vitale Fabio Giuseppe
Vitulli Matteo
Coordinamento
elaborazione testi:
Norma Iacovanelli
Adelina Marianaccio
Acquisizione immagini:
Cericola Simone
Luigi Colonna
Antonella Tarantini
Fabio Vitale
Consulenza storico-archeologica:
Prof.ssa Adele Cicchetti
Coordinatrici traduzioni:
Prof.ssa Margherita Furlani
Prof.ssa Barbara Pezzetti
Coordinatori informatici:
Prof.ssa Consiglia Travaglini
Daniele Marchetti
Consulenza musicale, acquisizione immagini, elaborazione testi:
Mattia Galante
Realizzazione grafica, impaginazione, montaggio:
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Damiano D’Ardes
DIRIGENTE SCOLASTICO:
Prof. Romualdo Cefalo
COORDINATRICE DEL PROGETTO:
Prof.ssa Adele Cicchitti
GLI INSEGNANTI COINVOLTI NEL PROGETTO:
Prof.ssa Margherita Furlani
Prof.ssa Consiglia Travaglini
Prof.ssa Barbara Pezzetti
Prof. Sandro Lolli
Prof. Nicola Ranieri
Partecipanti:
Lycée Charles RENOUVIER in PRADES (Francia);
Gesamtschule Heiligenhaus in HEILIGENHAUS (Germania);
KOCATURK HIGH SCHOOL in TURGUTLU (Turchia).
Referente
Paese
E-mail
Adele Cicchitti
Italia
[email protected]
Nuno De Matos
Francia
[email protected]
Joerg Schoeddert
Germania
[email protected]
Fatma Kocatűrk
Turchia
[email protected]
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