ASSOCIAZIONE ITALIANA DI DIRITTO DEL LAVORO E DELLA SICUREZZA SOCIALE Annuario di Diritto del lavoro N. 50 CLAUSOLE GENERALI E DIRITTO DEL LAVORO ATTI DELLE GIORNATE DI STUDIO DI DIRITTO DEL LAVORO ROMA, 29-30 MAGGIO 2014 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore ELENCO DEI PARTECIPANTI Abbate Maurizio Aimo Mariapaola Albi Pasqualino Alessi Cristina Altavilla Renata Alvino Ilario Angelini Luciano Aramini Federica Arragoni Denise Aversa Nilia Azzoni Marco Balducci Cataldo Balletti Emilio Bano Fabrizio Barbieri Marco Basenghi Francesco Battisti Anna Maria Bavaro Vincenzo Bellardi Lauralba Bellavista Alessandro Bellomo Stefano Berti Valerio Bertocco Silvia Bettini Maria Novella Biagiotti Alice Biasi Marco Bolego Giorgio Bollani Andrea Bonanomi Gianluca Bonardi Olivia Borelli Silvia Borghi Paola Borghi Paola Boscati Alessandro Calafà Laura Calcaterra Luca Campanella Piera Canavesi Guido Cangemi Vincenzo Cannati Giuseppe Caragnano Roberta Carinci Franco Carinci Maria Teresa Carta Cinzia Casale Davide Casillo Rosa Castelli Arianna Cerbone Mario Cerreta Michele Cester Carlo Chapellu Daniele Chiaromonte William Chieco Pasquale Ciucciovino Silvia Comande’ Daniela Corazza Luisa Corrias Massimo Corti Matteo Cristofolini Chiara Crotti Maria Teresa D’Andrea Antonella D’Aponte Marcello D’Onghia Madia De Angelis Luigi De Camelis Raffaella De Falco Fabrizio De Felice Alfonsina De Luca Michele De Luca Tamajo Raffaele De Marco Cinzia De Mozzi Barbara De Pasquale Giuliana De Rosa Maddalena De Salvia Azzurra Del Frate Maria Del Punta Riccardo Delfino Massimiliano Delogu Angelo V Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Di Carlo Tiziana Di Carlo Elena Di Carluccio Carmen Di Corrado Giovanni Di Noia Francesco Falcioni F. Fagnoni Scilla Falco Wanda Faleri Claudia Feltre Annalisa Ferrara Maria Dolores Ferraresi Marco Ferrari Vincenzo Ferrari Paola Ferraro Fabrizio Ferraro Francesco Ficari Luisa Filì Valeria Filippi Marta Foglia Laura Fontana Giorgio Forlivesi Michele Franza Gabriele Gabriele Alessia Gaeta Lorenzo Gambacciani Marco Gambardella Angela Gargiulo Umberto Garilli Alessandro Garofalo Carmela Garofalo Domenico Gentile Riccardo Ghinoy Paola Giasanti Lorenzo Giordano Francesco Saverio Giorgi Elena Gottardi Donata Gramano Elena Grandi Barbara Greco Maria Giovanna Guarriello Fausta Imberti Lucio Imperio Michele Izzi Daniela Laforgia Stella Lama Roberto Lamberti Fabiola Lamberti Mariorosario Lassandari Andrea Lattanzio Filippo Lazzari Chiara Lazzeroni Lara Lilla Olga Lima Alessandro Loi Piera Loy Gianni Lozito Marco Ludovico Giuseppe Lunardon Fiorella Magnani Mariella Magnifico Silvia Mainardi Sandro Mameli Veronica Marasco Francesco Marin A. Marinelli Massimiliano Marinelli Francesca Martelloni Federico Martone Michel Marzani Marco Mattarolo Maria Giovanna Mcbritton Monica Meiffret Francesco Menghini Luigi Mezzacapo Domenico Mieli Giorgio Mocella Marco Montanari Anna Monterossi Luisa Mormile Paolo Mugneco Joanna Muratorio Alessia Naseddu Luca Natullo Gaetano Negri Giulia Nicolosi Marina Nicosia Gabriella Nunin Roberta Nuzzo Valeria Occhino Antonella Olivelli Filippo Olivelli Paola Pacchiana Parravicini Giovanna Palladini Susanna Pallini Massimo Pandolfo Angelo VI Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Panizza Giovanni Pasqualetto Elena Passalacqua Pasquale Pederzoli Chiara Persiani Mattia Perulli Adalberto Peruzzi Marco Pessi Roberto Pessi Annalisa Pilati Andrea Pino Giovanni Piovesana Anna Pistore Giovanna Poli Davide Ponte Flavio Vincenzo Pozzaglia Pietro Proia Giampiero Prosperetti Giulio Putignano Nicola Raimondi Enrico Rampazzo Angela Ranieri Maura Ratti Luca Razzolini Orsola Ricci Maurizio Riccobono Alessandro Romei Roberto Ronchi Adelaide Rosati Assia Rota Anna Ruggeri Domenico Russo Marianna Salimbeni Maria Teresa Salvalaio Manuela Santoni Francesco Santoro Passarelli Giuseppe Santucci Rosario Saracini Paola Scarpelli Franco Schiavetti Flavia Sena Eufrasia Serrano Maria Luisa Sgarbi Luca Sigillò Massara Giuseppe Siotto Federico Sitzia Andrea Speziale Valerio Spinelli Carla Squeglia Michele Stolfa Francesco Talarico Milena Tampieri Alberto Tebano Laura Testa Felice Timellini Caterina Tomba Caterina Topo Adriana Tosi Paolo Trojsi Anna Tullini Patrizia Valcavi Gian Paolo Valente Lucia Valenzi Ilaria Vallauri Maria Luisa Varone Carlamaria Varva Simone Ventura Alessandro Villa Ester Vimercati Aurora Adriana Vinciguerra Maria Viscomi Antonio Zampini Giovanni Zilio Grandi Gaetano Zoli Carlo Zoppoli Antonello Zoppoli Lorenzo VII Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Parte Prima RELAZIONI E INTERVENTI Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Giovedì 29 maggio 2014 - mattina Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore DIRITTO DEL LAVORO E NOZIONI A CONTENUTO VARIABILE di GIANNI LOY Ai salici di quella terra Appendemmo le nostre cetre (Salmo 136.2) SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. La dogmatica delle clausole generali nella elaborazione di Luigi Mengoni. — 3. Il seguito del dibattito. — 4. Una più ampia nozione di clausola generale all’interno dello schema elaborato da Mengoni. — 5. Un interesse che prosegue ed evolve. — 6. Le fonti di integrazione delle clausole generali tra regole interne e regole esterne al diritto positivo. — 7. L’ermeneutica delle clausole generali e l’incontenibile potere del giudice. — 8. Ermeneutica delle clausole generali ed arbitrio giudiziale. — 9. Ermeneutica delle clausole generali: sindacato di Cassazione e funzione della giurisprudenza. — 10. Le clausole generali nell’antinomia tra certezza del diritto ed evoluzione del sistema. — 11. Clausole generali e tensione tra i poteri dello Stato. — 12. Conclusioni. — 13. Conclusioni (due). 1. Premessa. Nel 1985, in occasione delle giornate di Studio organizzate dalla Scuola superiore di studi universitari di Pisa, in onore di Ugo Natoli, Luigi Mengoni ha portato un fondamentale contributo alla sistemazione teorica delle clausole generali. Nel farlo, proprio in quell’occasione, affermava che “la materia delle clausole generali attende ancora una sistemazione teorica definitiva sia sul piano dell’elaborazione di appropriati modelli argomentativi, sia sul piano dogmatico (1). Quell’affermazione, a quasi 30 anni di distanza, può essere ritenuta ancora valida. Nonostante alcuni sviluppi, sulla sistemazione teorica non sono stati fatti significativi (1) Mengoni, 1986, 8. 5 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore passi avanti rispetto alla costruzione di Mengoni che, proprio sul piano analitico, continua a costituire un imprescindibile riferimento anche per la più recente dottrina. L’interesse della materia, già a partire dagli anni ’60, era determinato soprattutto dal contributo che la teoria delle clausole generali avrebbe potuto apportare nel superamento di un giuspositivismo che pretendeva codici completi ed esaustivi, norme precise in grado di individuare fattispecie determinate e discipline dettagliate (2). Le clausole generali consentivano, e consentono, grazie alla loro elasticità, da un lato un’apertura verso le nuove esigenze di una società in trasformazione, un adeguamento del sistema giuridico alla luce delle trasformazioni economiche e sociali, e dall’altro lato l’ingresso nel sistema giuridico di contenuti meta giuridici. L’interesse di Mengoni per le clausole generali deriva proprio dal grado di apertura, da queste consentito, all’ordinamento giuridico. Non a caso il contributo di Mengoni, come è stato recentemente ricordato, costituisce “un messaggio denso di umanità che va oltre il diritto e si apre ai valori etici: non sempre comunemente apprezzati, pur essendo nel loro complesso la precondizione della convivenza” (3). In quegli anni, si parlava di una nuova “legislazione per principi” (4), veniva enfatizzata la “stagione delle clausole generali” e vi era la consapevolezza del fatto che l’adozione delle clausole generali avrebbe potuto comportare profonde conseguenze sul sistema, sulle regole dell’interpretazione, sul potere dei giudici, cioè una profonda modifica, se non un ribaltamento, degli equilibri che il positivismo giuridico riteneva consolidato. Molta acqua è passata sotto i ponti. Quell’aspettativa, all’epoca, non ha visto la luce, ma il sistema ha continuato ad evolvere, grazie al fatto che le tensioni innovative hanno trovato anche altri canali di espressione. Il differente contesto muta anche la prospettiva dell’analisi, recentemente ritornata d’attualità, mantenendo, però un punto in comune, qualificante, relativo agli effetti indotti dall’utilizzo delle clausole generali ma anche, come si (2) Gentili, 2010, IX ss. (3) Rusciano, 2011, 988. (4) Rodotà. 1967, 89 ss. 6 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore vedrà, di altri strumenti analoghi caratterizzati dall’indeterminatezza. L’espansione delle clausole generali e delle nozioni a contenuto variabile nel diritto, va compresa alla luce del più ampio fenomeno della crisi del mito della certezza e della razionalità del diritto, a causa di una complessa serie di fenomeni, tra i quali Weber evidenzia le caratteristiche e le forme assunte dalla produzione capitalista (5), nonché l’emersione di un modello di società pluralista che sfocia spesso nel conflitto tra i gruppi sociali e che, contemporaneamente, si manifesta nella perdita di centralità del diritto di derivazione statuale, espresso attraverso il modello della legge generale ed astratta nella forma del comando sanzione. La crisi di tale modello regolativo è causa dell’evoluzione delle tecniche regolative di fronte alla complessità del reale. Una delle manifestazioni più evidenti della crisi regolativa della legge, incapace di cogliere la complessità dei fenomeni economici e sociali, è rappresentata dall’iper-regolazione, dall’eccesso di giuridificazione (6), col rischio, evidenziato da Habermas (7), della colonizzazione della realtà. Negli stessi termini di confronto tra complessità della realtà economica e sociale e regolazione giuridica, possono essere lette le teorie sistemiche e autopoietiche del diritto che concepiscono il diritto, lo Stato, e l’economia come sistemi operativamente chiusi e cognitivamente aperti, secondo le quali la regolazione della realtà non è altro che autoregolazione del sistema giuridico (8). Un altro evidente risultato della crisi regolativa della legge è rappresentato dalla proliferazione dei soggetti normativi: la legge da sostanziale si fa procedurale e, al fine di devolvere le funzioni normative, si limita ad individuare soggetti e procedure, attraverso le quali saranno definiti i contenuti normativi. La proceduralizzazione del diritto è un epifenomeno della stessa crisi regolativa che, come si è detto, ha portato all’espansione delle clausole generali e delle nozioni variabili nel diritto: è la difficoltà di regolare complessi fenomeni economici e sociali attraverso norme di carattere sostanziale, che porta a lasciare spazio alle norme (5) (6) (7) (8) Weber, 1999, 196 ss. Sul tema della giuridificazione nel Diritto del lavoro: Vardaro, 1984; Giugni, 1986. Habermas, 1986, 204 ss. Teubner, 1992. 7 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore procedurali. Nel diritto del lavoro, in particolare, questa tecnica regolativa si è consolidata attraverso la devoluzione alla contrattazione collettiva delle funzioni normative della legge, attraverso forme diverse, spesso descritte come deregolamentazione. Ogni qualvolta la legge non possa, a causa della complessità degli interessi coinvolti, definire una norma sostanziale, si devolve il potere normativo al contratto collettivo, individuando i soggetti e le procedure. Nei sistemi giuridici proceduralizzati la legittimazione e la razionalità del diritto si pongono in termini del tutto inediti e, secondo Habermas, sono i diritti di legittimazione democratica e l’affermazione di spazi deliberativi democratici (9) a costituire il fondamento dell’ordinamento giuridico. Nel dibattito sulle clausole generali sono da evidenziare due aspetti fondamentali di contesto. Il primo riguarda il fatto che il dibattito sulle clausole generali e l’adozione di questa tecnica da parte del legislatore ha travalicato l’alveo del diritto privato, per lungo tempo sede privilegiata del dibattito, per interessare altre discipline. Per un verso, è accresciuta la consapevolezza in materie, come il diritto costituzionale, già direttamene coinvolto nel processo, ma si è estesa anche a settori tradizionalmente resistenti, proprio perché caratterizzati da un principio rigidamente formalistico, come il diritto amministrativo, dove le norme a contenuto elastico, anche per l’influsso della disciplina dell’Unione europea, sembrano trovare oggi un terreno particolarmente fertile. In secondo luogo, sono cambiate le voci critiche. I nostri colleghi giuslavoristi che, sulla scia dell’interesse suscitato nell’ultimo scorcio degli anni ’80 del secolo scorso, hanno approfondito la materia, hanno dovuto dar conto delle critiche mosse dai settori più conservatori del formalismo giuridico che paventavano, con l’avvento delle clausole generali, il superamento del metodo, quello deduttivo, incentrato sulla sussunzione. Temevano, cioè, il venir meno di quella vagheggiata certezza e completezza che l’ordinamento avrebbe potuto e dovuto garantire. La più attenta dottrina, in quegli anni, avvertiva il carattere strutturale del cambiamento che si stava producendo nell’economia e nella società: non si trattava semplicemente di uscire dalla (9) Habermas, 1996, 490. 8 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore fase della legislazione dell’emergenza, ma di trovare nuove soluzioni per nuovi bisogni (10) anche sul piano del modello legislativo e delle tecniche di governo del conflitto. Si trattava di invertire la rotta rispetto ad un interventismo legislativo eccessivo e non più in grado di governare le trasformazioni in atto nell’economia reale. Possibili strumenti sono stati individuati nella de-regolazione, nella delega alla contrattazione collettiva, nell’apertura a forme alternative di soluzione dei conflitti, sino alla sperimentazione di strumenti preventivi di regolazione, quali la certificazione. Questa attenzione all’evoluzione del reale, tuttavia, che per alcuni giuristi si è trasformata in un vero e proprio innamoramento per l’economia e per le sue capacita, suppostamene taumaturgiche, ha visto come contraltare il fatto che il prestatore di lavoro, con la progressiva erosione del garantismo, in nome delle sempre più impellenti esigenze di flessibilità e di competitività dell’impresa, ha ripreso la sua tradizionale fisionomia di soggetto debole ed isolato. Ancor più debole in quanto, mentre gli vengono sottratte alcune delle tradizionali tutele legislative, a partire da quella, fondamentale, della stabilità, gli vengono riconosciuti, in quanto persona, cittadino o prestatore di lavoro, nuovi diritti, quelli della terza generazione, e vengono anche perfezionati i diritti sociali della seconda generazione. Ciò almeno sulla carta, o meglio, soprattutto nelle “Carte” dei diritti proclamate prevalentemente a livello sovranazionale. Il prestatore di lavoro viene così esposto alla duplice privazione: di ciò che non ha più e di ciò che non ha ancora. Posto che il sistema, affetto dalla patologia, ormai endemica, dell’ineffettività, non è in grado di rispondere alla richiesta di sicurezza (11) proveniente da questi “nuovi” soggetti, una parziale risposta proviene proprio dall’utilizzo delle clausole generali presenti nel dettato costituzionale, la cui ampiezza consente, e non da oggi (12), di offrire una almeno parziale risposta a questi nuovi bisogni. L’attività giudiziale, superata la remora relativa alla sua funzione creativa del diritto, dimostra, anche grazie al ricorso alle norme elastiche o ai principi generali, di possedere strumenti idonei alla soddisfazione di diritti che, altrimenti, potrebbero rimanere largamente frustrati. (10) (11) (12) Treu, 1985, 387 ss.; Id., 2013. Loi, 2000. Tullini, 1990, 87. 9 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Attualmente, mi pare che le preoccupazioni di tipo sistematico all’utilizzo di nozioni aperte siano state superate dai fatti. Semmai, una ferma opposizione all’utilizzo delle clausole generali deriva, oggi, dalle teorie ispirate all’analisi economica, che concepisce le clausole generali “come semplice ausilio rispetto alla razionalità limitata degli agenti e come possibile rimedio ai c.d. fallimenti del mercato” (13). L’idea di poter governare società complesse ricorrendo a clausole generali è ritenuta “altamente illusoria”. Il vuoto derivante dal venir meno dei valori organicamente condivisi, è inevitabile che “venga tendenzialmente riempito dalle compatte concezioni tecnocratiche piuttosto che dalle sfrangiate concezioni moralistiche” (14). Il riferimento, ovviamente, non è solo alle clausole generali in senso stretto, bensì a tutte le situazioni in cui l’interprete disponga di un significativo potere valutativo sul significato della norma. Tralasciando, per il momento, ulteriori approfondimenti (15) si osserva che le teorie ispirate al vecchio formalismo giuridico e quelle sostenute dalla Laws & Economics hanno in comune l’idea di una giurisprudenza solo dichiarativa dove il giudice debba: o limitarsi alla ricerca dell’unica soluzione corretta indicata dal legislatore, o svolgere una funzione meramente notarile (16) delle transazioni che dovrebbero, sostanzialmente, essere governate dall’economia. La differenza sta nel fatto che, a fronte della pretesa funzione solo dichiarativa della giurisprudenza, cui è bene incominciare a riconoscere anche il patronimico, potere giudiziario nell’ambito della teoria della separazione dei poteri, la funzione creativa apparterrebbe: nella visione tradizionale al potere legislativo, nella visione di Laws & Economics al sistema economico. Nella strategia generale sottesa al dominio, senza voler per il momento anticipare giudizi di merito, l’importanza del possesso di palla è evidente. Un potere giudiziario che riesca a ritagliarsi uno spazio nel processo di creazione del diritto diventa un ostacolo sia alle pretese di governo assoluto del principe, preoccupazione dell’origine, che alle pretese monopolistiche dell’economia, preoc(13) (14) (15) (16) Denozza, 2009, 31 ss. Denozza, 2011, 16. Per i quali si rinvia, alle due differenti posizioni di Persiani, 2000, e Perulli, 2013. Perulli, 2013, 2. 10 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore cupazione odierna. E poiché le clausole generali, le norme elastiche, i principi generali e quant’altro di indeterminato sia alla portata del potere giudicante, si configura quale tecnica ed allo stesso tempo quale legittimazione di un potere non più soltanto dichiarativo, ecco che tali strumenti finiscono per acquistare un rilievo di straordinaria importanza nelle strategie di evoluzione del sistema. Accanto a tale funzione “straordinaria”, delle norme a contenuto variabile, non soltanto, quindi, delle clausole generali in senso stretto, si accompagna anche una loro funzione “ordinaria”. In questo caso, sono concepite quali mere tecniche di regolazione, con più limitate implicazioni ideologiche, che registrano differenti gradi nello stabilire sino a quale dettaglio possa o voglia spingersi la norma-regola. 2. La dogmatica delle clausole generali nella elaborazione di Luigi Mengoni. Il dibattito sulle clausole generali, in Italia, è caratterizzato da due percorsi, paralleli. Un primo filone dottrinale si è soffermato soprattutto sull’applicazione di una serie di norme che, in quanto caratterizzate da un contenuto almeno parzialmente indeterminato, postulano una attività integrativa, o discrezionale, del giudice, suscettibile, in principio, di modificare lo schema tipico di un ordinamento ispirato agli schemi del positivismo. Questa dottrina, con minori pretese di rigore analitico, faceva riferimento ad una nozione particolarmente ampia, che poteva comprendere, a volte ritenendole varianti semantiche, a volte figure equivalenti, formule come principi generali, norme elastiche, clausole generali, equità, etc. Il suo interesse era determinato prevalentemente dalla valenza di tale tecnica legislativa in termini di politica del diritto. L’orientamento “favorevole” alla diffusione di questa tecnica di governo, ad esempio, riteneva che una sua diffusione avrebbe consentito al sistema giuridico un positivo dialogo con una realtà in continua evoluzione, posto che l’ordinamento giuridico, in quella fase, non appariva in grado di rispondere alle sempre più mutevoli e imprevedibili esigenze della società. 11 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore È in questo clima che nasceva la proposta di una legislazione per principi (17). Nel frattempo, un’altra parte della dottrina, è impegnata nella costruzione di una teoria analitica della clausole generali che, a partire dall’elaboratone della dottrina tedesca, trova una prima, compiuta, sistemazione nel 1987 con il saggio di Luigi Mengoni. Si tratta di una trattazione che, tuttora, rappresenta un imprescindibile riferimento per chi voglia condurre l’esame sotto il profilo analitico. L’analisi di Mengoni si sofferma, essenzialmente, sulla nozione di clausola generale, esaminata dal punto di vista dogmatico, con la preoccupazione di distinguerla da quelle, più somiglianti, quali la norma generale o il principio generale. La clausola generale, per Mengoni, è una tecnica giudiziale “che delega al giudice la formazione della norma (concreta) vincolandolo ad una direttiva espressa attraverso il riferimento ad uno standard sociale” (18). La clausola generale, pertanto, non contiene “un modello di decisione precostituito da una fattispecie normativa astratta” tale da potere essere posto a premessa di un giudizio sussuntivo. Si tratta norme incomplete, “frammenti di norme”, che non possiedono neppure una propria autonoma fattispecie, “essendo destinate a concretizzarsi nell’ambito di programmi normativi di altre disposizioni” (19). Lo standard sociale, contrariamente ad alcune perduranti letture, che lo farebbero coincidere con la stessa clausola generale, è esterno ad essa (20), si tratta di una norma sociale di condotta cui il giudice è chiamato a fare riferimento. Vi è una profonda differenza, tuttavia, con la concezione tradizionale, che intendeva la direttiva contenuta nella clausola generale — pur consentendo al giudice di ricorrere a nozioni dell’ordinamento extra-giuridico, alla morale, al costume, etc. — come rigidamente vincolata alla ricerca di uno standard (17) Rodotà, 1967. (18) Mengoni. 1986, 15. (19) Ivi, p. 11. Nello stesso senso Velluzzi, 2010. In senso contrario Libertini, 2011, 4, secondo il quale “il termine c.g. viene di solito impiegato per designare norme complete, ancorché usualmente ritenute per qualche aspetto diverse dalle norme ordinarie, e comunque di solito non definite con precisione”. (20) Così Velluzzi, secondo il quale “lo standard altro non è che il criterio necessario alla determinazione del significato delle clausole generali”: Velluzzi, 2010, 9. Più problematico Rodotà, 1987, 767, che non coglie un’apprezzabile differenza tra standard e clausola generale. Utilizza la nozione in termini affatto differenti: Perulli, 2011. 12 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore valutativo socialmente accettato. Per dirla in termini pratici: il giudice non avrebbe potuto disporre della delega per applicare al caso concreto valori di riferimento secondo un proprio apprezzamento, ma individuare, necessariamente, quelli, e solo quelli, corrispondenti all’opinione dell’uomo medio. In definitiva, non avrebbe potuto introdurre visioni più avanzate o pretendere di svolgere una funzione educativa del costume. Ora, invece, il giudice non è tenuto ad applicare lo standard sociale corrispondente alla direttiva contenuta nella norma, “il comune senso del pudore”, ma solo a farvi riferimento. Il giudice si serve degli standard, intendendoli quali criteri direttivi “per la ricerca di valori che il giudice deve poi tradurre, con un proprio giudizio valutativo, in una norma di decisione” (21). Ciò in quanto i valori, non essendo conoscibili direttamene, richiedono la necessaria mediazione di esperienze concrete che, offrendone una dimostrazione pratica, consentono di apprezzarli (22). Al giudice viene così assegnata “una funzione di estrema importanza e delicatezza nella verifica della portata della clausola generale”, per quanto si tratti di una verifica “di carattere essenzialmente empirico e non soggettivo” (23) che consente, o meglio impone, di sviluppare il processo interpretativo al di fuori della tecnica della sussunzione (24). Riprendendo la comparazione con l’altro filone cui si è fatto cenno, si può osservare che mentre l’aspirazione ad una legislazione per principi ha carattere “eversivo”, in quanto volutamente indirizzato ad una più radicale modifica del sistema, la teoria di Mengoni potrebbe essere definita progressista, in quanto innesta le novità nel solco di un sistema le cui regole non devono essere stravolte. Non a caso, egli ha cura di precisare che il superamento del positivismo, promosso dalla nuova concezione che si fa strada, “non vuol dire superamento del principio di positività del di(21) (22) Mengoni, 1986, 15. Per un approfondimento del rapporto tra norma e valore, si veda Forcellini, 2014. (23) Pallini, 2009. (24) Per alcuni, tuttavia, potremmo trovarci in presenza di una sorta di rovesciamento del sillogismo: la premessa maggiore non può essere costituita dalla norma, in quanto indeterminata, sarebbe, quindi, il giudizio di fatto, espresso sulla base di parametri extralegali “a riempire il contenuto e a concretizzare la clausola generale”: D’amico, 1989, 438. Così anche Di Majo, 1984, 539. Lo esclude, invece: Luzzati, 2012, 190. 13 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore ritto” (25). Pertanto, egli lamenta il fatto che non siano state utilizzate le clausole generali già presenti nelle fonti normative, che avrebbero potuto mettere “a profitto le possibilità di contributo al progresso del diritto”, ma non si duole affatto dell’insuccesso della proposta di una “legislazione per principi”, ascrivibile soprattutto a Rodotà (26), considerando “il rischio che una legislazione siffatta porti lo Stato di diritto a degenerare in uno Stato giustizialista” (27). Vi è poi da sottolineare che la valutazione del giudice, proprio per essere vincolata al riferimento a uno standard sociale, impone al giudice di concretizzarla in una forma generalizzabile, cioè in funzione di una tipologia sociale (28) che consenta di creare modelli stabili di decisione. Ciò significa che non può concepirsi un diritto che possa valere solo per un caso concreto. Ove il giudice, nell’esaminare un caso, ritenga insufficienti le norme esistenti ed elabori una soluzione, questa, per essere ammissibile, dovrà poter essere applicabile anche a casi analoghi, “apoyarse en una norma, siquiera esta no esté formulada todavía” (29). Le clausole generali, nella sistematica di Mengoni, oltreché dall’equità, vanno distinte anche dalle norme generali e dai principi generali. Distinzione opportuna visto che, ancor oggi, è proprio con questi due concetti che le clausole generali vengono spesso confuse. Le norme generali, sono norme complete. La peculiarità consiste nel fatto che “la fattispecie non descrive un singolo caso o un gruppo di casi, bensì una generalità di casi genericamente definiti (25) Mengoni, 1986, 14. (26) Rodotà, 1967, 83 ss. (27) Mengoni, 1986, 6. In riferimento al rischio che “la indeterminatezza procurata dalle clausole generali potrebbe assumere dimensioni anche estreme ed aberranti, mediante macro-clausole totalizzanti, espressione di regimi totalitari”. In altra occasione: « i valori sono in se´ guide pericolose, che possono portare alla tirannia di una giustizia politicizzata, se l’uso corretto delle clausole generali che ad essi rinviano non sia garantito da una disciplina dogmatica cui il giudice possa attingere criteri razionali di soluzione » delle antinomie che insorgono dalla « tensione tra due modelli valutativi costituiti dallo Stato di diritto e dallo Stato sociale » in Mengoni, Recensione a Franz Wieaker, Storia del diritto privato moderno con particolare riferimento alla Germania, cit., p. 53, citato da Nogler, 2006, 14. (28) Mengoni, 1986, 13. (29) Miquel González, 1997, 325, in adesione alla teoria di Jurgen Schmidt. 14 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore mediante una categoria riassuntiva, per la cui concretizzazione il giudice è rinviato, volta a volta. a modelli di comportamento e a stregue di valutazione obiettivamente vigenti nell’ambiente sociale in cui opera” (30). È in questa categoria che rientrano, tra gli altri, concetti a noi familiari, quali giusta causa o giustificato motivo. La differenza con le clausole generali risiede nella circostanza che, in questo caso, al giudice, cui è consentito uno spazio di oscillazione nella decisione, viene riconosciuta una discrezionalità di fatto e non “di una discrezionalità produttiva o integrativa di norme” (31). I principi generali, infine, vengono da Mengoni distinti tra principi assiomatici o dogmatici, “premesse maggiori di deduzione, nella forma del sillogismo apodittico, di regole di decisione nell’ambito di categorie più o meno ampie di fattispecie”, e principi retorici, che avrebbero la funzione di fornire “basi di partenza per argomentazioni del giudice nelle forme dialettiche della logica preferenziale” (32). Anche in questo caso, la distinzione riposa soprattutto sul fatto che le clausole generali, a differenza dei principi generali, pur impartendo al giudice una direttiva volta alla ricerca della norma di decisione, costituiscono solo una tecnica di formazione giudiziale della regola da applicare e non contengono “un modello di decisione precostituito da una fattispecie normativa astratta” (33). 3. Il seguito del dibattito. Il dibattito successivo ha visto un andamento altalenante. Tra la fine degli anni ’80 ed i primissimi anni ’90 del secolo scorso si è registrato un elevato interesse della dottrina con assoluta prevalenza di quella privatistica. Dopo un lungo intervallo, caratterizzato da un interesse più occasionale, il tema delle clausole generali è tornato di forte attualità nell’ultimo lustro attirando, in maniera prevalente, l’interesse di altri settori, dalla filosofia al diritto commerciale, amministrativo, penale, costituzionale. (30) Mengoni, 1986, 11. (31) Mengoni 1986, 10. (32) Mengoni, 1986, 10. Nel senso di distinguere la clausole generali dai principi anche Rodotà, 1987, 721. (33) Mengoni, loc. ult. cit. 15 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Il filone che ha privilegiato un approccio analitico e dogmatico alle clausole generali ha continuato a ragionare attorno alla teoria di Mengoni, precisando o criticando alcuni aspetti, ma non è mai giunta formulare una teoria alternativa a quella da lui proposta. Per Rodotà, che ha privilegiato altri percorsi, ed utilizza una nozione di clausola generale più ampia di quella proposta da Mengoni, la caratteristica tipica delle clausole generali non consiste tanto nel potere integrativo riconosciuto al giudice, ammesso anche in presenza di norme generali o comunque indeterminate, quanto nel fatto che l’indeterminatezza sia intenzionale (34). La nozione di fattispecie aperta, infatti, ricorre, più in generale nel caso di “esplicito trasferimento al giudice del potere di procedere ad un autonomo apprezzamento della situazione di fatto ed alla concretizzazione della norma” (35). Sembrerebbe, pertanto, che tra la nozione di fattispecie aperta e la clausola generale intesa in senso stretto, intercorra una relazione tra genus e species: tra le possibili fattispecie aperte, possono essere classificate come clausole generali quelle in cui la indeterminatezza derivi da una scelta intenzionale del legislatore. Anche Castronovo, dopo aver messo in guardia dal rischio che, enfatizzando l’elevata generalità quale tratto identitario delle clausole generali, si potesse confonderle con le norme generali, aveva indicato nel potere integrativo del giudice l’elemento caratteristico delle clausole (36). L’elemento della “vaghezza o indeterminatezza” ritorna di frequente nel dibattito, esso è considerato un “peculiare coefficiente” delle clausole generali “quantitativamente e qualitativamente diverso da quello implicito in ogni enunciato normativo” (37). Senza, con ciò, negare la teoria di Mengoni, posto che “in fondo” le clausole generali consistono in un rinvio all’inter- (34) Il carattere dell’intenzionalità è frequentemente ribadito dalla dottrina successiva. In senso contrario, però, Castronuovo, 2013, 12. secondo il quale l’indeterminatezza potrebbe derivare da una “più o meno intenzionale rinuncia a una tecnica casistica” oppure dall’impossibilità di determinare a priori il contenuto della norma. (35) Rodotà, 1987, 721. (36) Castronovo, 1979, 102-103. Nello stesso senso: D’Amico, 1989, 427 ss. (37) Castronuovo 2013, 1. 16 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore prete, al quale è delegato il compito di una loro disambiguazione in funzione di parametri variabili (38). Più recentemente, Velluzzi si è soffermato sul carattere della indeterminatezza propria delle clausole generali proponendo che debba trattarsi di una “indeterminatezza semantica” che ricorrerebbe in presenza di “un termine o sintagma valutativo il/i cui criterio/i di applicazione non è/sono determinabili se non attraverso il ricorso a parametri di giudizio tra loro potenzialmente concorrenti” (39). Con ciò sembra escludere che possano rientrare tra le clausole generali le ipotesi nelle quali il giudice è chiamato a decidere sulla base di termini non valutativi, come l’impossibilità sopravvenuta. Velluzzi perviene ad una definizione delle clausole generali (40) contenente una ulteriore specificazione, quella per cui i parametri di giudizio cui dovrà far ricorso il giudice possono essere interni o esterni al diritto. Cosa debba intendersi per criteri interni o esterni al diritto è sufficientemente chiaro. Meno chiara l’utilità discretiva, sulla quale si ritornerà. Uno spunto interessante, semmai, riguarda la distinzione operata dall’autore tra l’attività interpretativa compiuta per poter individuare il significato della clausola generale e quella che il giudice compie quando deve affrontare questioni “di vaghezza di significato o di ambiguità dei termini e degli enunciati, oppure in presenza di termini generali o generici, ma in assenza di termini valutativi” (41). Sembra di capire che, nel primo caso, il giudice debba “scegliere” una soluzione tra quelle possibili, mentre nel secondo caso, dovrà “capire” il significato delle espressioni che si trova davanti (ma questo è il tipico problema interpretativo che (38) Castronuovo, 2013, 3. (39) Velluzzi, 2010, 8, Idea successivamente accettata da Luzzati, per il quale si può parlare di clausole generali come sintagmi, ma solo per metonimia, allo stesso modo in cui si suole affermare che un termine o una frase sono vaghi, intendendo in realtà riferirsi ai contenuti di tali espressioni”: Luzzati, 2012, 172. (40) “Le clausole generali sono nell’uso prevalente termini o sintagmi di natura valutativa caratterizzati da indeterminatezza semantica diversa dalla vaghezza di grado, dalla vaghezza combinatoria e dall’ambiguità: il significato di tali termini, o sintagmi, infatti, non è determinabile (o detto altrimenti le condizioni di applicazione del termine o sintagma non sono individuabili) se non facendo ricorso a criteri, parametri di giudizio, interni e/o esterni al diritto tra loro potenzialmente concorrenti”. Velluzzi, 2010, 9. (41) Velluzzi, 2010, 12. 17 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore il giudice deve sempre affrontare nell’applicare una norma, anche quando fosse precisa e incondizionata). 4. Una più ampia nozione di clausola generale all’interno dello schema elaborato da Mengoni. Prima di esaminare alcuni problemi interpretativi, recentemente sollevati dalla dottrina, è opportuna qualche riflessione esplicitamente finalizzata ad un possibile ampliamento della nozione di clausola generale. La nozione di “clausola generale” proposta da Mengoni presenta margini di incertezza applicativa, nel senso che, a fronte della chiarezza concettuale, non consente di ascrivere o escludere con certezza alla categoria delle clausole generali le diverse nozioni correntemente utilizzate in dottrina e giurisprudenza. La prevalente dottrina, compresa quella che si ispira alla teoria che commentiamo, con l’eccezione di gran parte dei giuslavoristi, include tra le clausole generali anche ipotesi che non compaiono o sono esplicitamente rifiutate nella analisi di Mengoni, come la giusta causa o l’equità. Ciò non deve stupire: la definizione analitica di un concetto giuridico non comporta che tutte le nozioni che “potrebbero” confluire nel concetto, debbano necessariamente essere ascritte ad esso. Possono ostare, ad esempio, problemi semantici. La pretesa del diritto di utilizzare un linguaggio proprio ed inequivoco si è rivelato utopico. Assieme ai sintagmi importati dal linguaggio comune, il sistema giuridico importa anche i polisensi, le ambiguità e la vaghezza proprie sia dell’ontologia della parola, sia dei significati che essa acquista o perde nelle sue trasmigrazioni spazio-temporali. Mengoni, come si è detto, ha insistito nella distinzione tra equità e clausola generale. Lo ha fatto con particolare insistenza, sia per marcare la differenza con una diffusa opinione (il riferimento è alla dottrina tedesca) che, a suo avviso, confonde l’equità con le clausole generali, sia, dal punto di vista pratico, per evitare che “sotto il nome della buona fede si insinui un giudizio di equità modificativo del regolamento legale” (42): (42) Mengoni, 1986, 13. Qualche anno prima, Di Majo aveva espresso ampie riserve sul fatto di una possibile differenziazione, sul piano pratico, tra equità e clausole generali 18 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Tale intento, tuttavia, è frustrato, almeno parzialmente, proprio per il fatto che il termine “equità” possiede, anche nel sistema giuridico, per averle mutuate dal linguaggio comune, differenti accezioni che possono coincidere, o meno, con quella adottata nel momento di elaborazione della teoria. Il ragionamento che porta Mengoni ad escludere l’equità dal novero della clausole generali è ineccepibile: non siamo in presenza di una clausola generale quando il giudice “integra o adatta il regolamento negoziale per conformarlo a esigenze di giustizia provenienti da circostanze di fatto peculiari, irriducibili a tipologie normali (il corsivo è mio)” (43) in quanto “il ricorso all’equità presuppone lo scardinamento del caso da precedenti o modelli generali, la non comparabilità con altri casi già sperimentati” (44). L’accezione di equità che sottende il ragionamento, evidentemente, è quella del giudice che, quando opera secondo equità, sospende l’operatività della legge. Tuttavia, se penso, alla prescrizione di cui all’art. 2118 c.c., secondo il quale i termini di preavviso del licenziamento, in ultima analisi, vengono stabiliti secondo equità, non immagino affatto che il giudice, nel processo che dovrà portarlo a decidere quale debba essere un equo (congruo) termine di preavviso lo debba integrare con criteri irriducibili a tipologia normali e tantomeno che possa decidere sospendendo l’operatività della legge. Se analizzo la fattispecie contenuta nell’art. 2118 c.c. alla luce dell’accezione di equità che ho in mente, mi sembra, anzi, che essa coincida perfettamente con la nozione di clausola generale: siamo in presenza di un comando, il cui contenuto non è del tutto determinato, nonché di un giudice, delegato a concretizzare la norma, vincolato ad una direttiva. Ovviamente, ho anche ben chiara sia l’idea che il giudice dovrà far riferimento ad uno standard sociale riconoscibile come forma esemplare dell’esperienza sociale dei valori, sia che la sua decisione dovrà essere espressa in forma generalizzabile, cioè tale da poter costituire un tipo. Neppure vorrei che la decisione del giudice fosse una decisione del caso concreto, sganciata che da qualsivoglia forma di controllo. Può anche darsi che il comando, come invece formulato nell’art. 1374 essendo “assai tenue il filo che lega la decisione sul singolo caso al contenuto (assiologico) della clausola generale”. Di Majo, 1984, 547. (43) Mengoni, 1986, 13. (44) Ivi. 19 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore c.c., che descrive una fattispecie assai più ampia possa non consentire il ricorso ad uno standard ed in tal caso, ma soltanto in tal caso, potremo dire di trovarci al di fuori della nozione di clausola generale e di fronte alla giustizia del caso concreto. Questo ragionamento ci consente di immaginare che, proprio per la fisiologica mutevolezza dei significati, sia preferibile un atteggiamento inclusivo, cioè ritenere che, tutte le volte che una nozione “aperta” consenta l’applicazione rigorosa dello schema, dovremmo considerarla una clausola generale. Nel caso di formulazioni che contengono il termine equità, ad esempio, non si tratterà di clausole generali se riferite al giudizio di equità, del caso concreto, da svolgersi al di fuori dell’operatività della legge, ma lo saranno se, invece, indicano al giudice il criterio di concretizzazione della norma. Secondo una recente opinione dottrinale, da condividere, “nessuna stringa di parole è in sé e per sé una clausola generale, ma diventa tale solo in virtù dell’opera interpretativa, non ho nessun problema ad ammettere che un sintagma possa essere considerato come una clausola generale nel senso S1 e possa essere invece non essere considerato tale nel senso S2” (45). Una nozione più ampia di “clausola generale”, idonea a ricomprendere anche figure che, a prima vista, sembrerebbero esterne ad essa, può esser elaborata anche grazie ad un percorso “interno”, cioè costruito attraverso un approfondimento terminologico e, in particolare, individuando una gerarchia tra gli elementi costitutivi della nozione proposta da Mengoni così da selezionare, tra i requisiti che costituiscono la nozione, quelli essenziali. L’elemento distintivo della clausola generale, nel senso mengoniano del termine, non sta tanto nel fatto che il giudice sia chiamato ad integrare il comando contenuto nella norma piuttosto che a “riscontrarlo”. In entrambi i casi, a ben vedere, dovrà attingere a valori sociali extra-positivi. L’integrazione o il riscontro suppongono un procedimento analogo, quello di attingere a tali valori e, sulla base di essi, pervenire alla decisione. La decisione in materia di giusta causa o giustificata motivo è volta, evidentemente, a stabilire la sussistenza del giustificato motivo o della giusta causa nel caso concreto ma, prima ancora, suppone la risposta ad una domanda preliminare: in cosa consistano il giusti(45) Luzzati, 2012, 182. 20 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore ficato motivo o la giusta causa. Il giudice, cioè, dovrà “completare” la norma, “concretizzarla”, secondo la direttiva contenuta nel comando. Anche in questo caso, dovrà trattarsi di una decisione suscettibile di possibile generalizzazione, cioè della creazione di un tipo cui l’ordinamento potrà continuare a fare riferimento e che potrà modificarsi se, e in quanto, si modifichi il patrimonio di valori che caratterizza la realtà sociale di riferimento. In definitiva, dovrebbe apparir chiaro che il concetto di giustificato motivo oggettivo, inteso quale ultima ratio, viene elaborato dal giudice, anche sulla scorta di valori desunti dall’ambiente sociale, alla luce della direttiva contenuta nella norma. Ciò che occorre stabilire, per mantenersi nell’ortodossia, è se la discrezionalità del giudice consista in una semplice “discrezionalità di fatto” oppure una “discrezionalità produttiva o integrativa di norme” (46). Se inquadrassimo la fattispecie del licenziamento per giustificato motivo, come fa Mengoni, nell’ambito della norma generale, dovremmo convenire che il giudice “concretizza” la norma mediante l’applicazione di “modelli di comportamento e a stregua di valutazioni obbiettivamente vigenti (il corsivo è mio) nell’ambiente sociale in cui opera” (47), mentre mi sembra più plausibile che l’operazione condotta dal giudice sia più squisitamente integrativa, sempre nel senso mengoniano del termine. La possibile labilità della distinzione ha indotto una parte della dottrina a ritenere che la differenza tra le due figure sia soltanto quantitativa e non qualitativa o, in altra occasione, a ipotizzare “una differenza di grado non di specie” (48). Ed invece, la differenza è qualitativa: altro è la discrezionalità funzionale alla individuazione di una comunis opinio, o del quod plerumque accidit, altro esercitarla sulla base di una direttiva generale con la possibilità di operare “una scelta tra varie possibili ipotesi di soluzione”. Naturalmente, una volta ammessa la potenzialità della clausola generale, se ne possono sterilizzare gli effetti laddove venga eccessivamente circoscritta la discrezionalità riconosciuta al giudice. Lo si può meglio comprendere se si confronta un esempio di possibile applicazione della clausola generale in materia di atti (46) (47) (48) Mengoni, 1986,10. Mengoni, 1986, 9. Castronovo, 1979, 102. 21 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore osceni, recentemente portato da Luzzati, con un analogo esempio, attinente alla stessa materia, portato da Mengoni. Per il primo, il giudice “dovrà tener conto della morale sessuale del momento in cui il giudizio viene formulato, i dettami della quale saranno diversi, ma non per questo inconoscibili, da quelli vigenti in passato” e, quindi, svolgere “la funzione di assicurare il contatto con le ragionevoli aspettative della vita sociale, cioè di ricostruire, settore per settore e di volta in volta, secondo la comune esperienza, l’idea giuridicamente rilevante di normalità” (49). Mengoni, da canto suo, critica proprio chi ritenga che il giudice non possa, avvalendosi della clausola della buona fede, definire regole di comportamento più avanzate rispetto alle vedute correnti. La definisce “una concezione coerente con l’ideologia di stampo ottocentesco, che non accredita al diritto una funzione direttiva del mutamento sociale” in quanto porta ad indentificare il termine di riferimento della clausola del buon costume “col costume tout court, e quindi a ridurre l’aggettivo “buono” a significare la rilevazione statistica del consenso dell’uomo medio che vien così trasformato magicamente in una sorta di essenza” (50). Il vero problema è quello di stabilire, sulla base del sintagma contenuto nella norma, se la formula volta per volta utilizzata debba essere intesa nel senso di un rinvio alla stregua dei canoni della norma generale (rinvio a modelli di comportamento obiettivamente vigenti nell’ambiente sociale) oppure di una delega alla formazione della norma attraverso il riferimento ad uno standard sociale. L’idea secondo la quale rientrano tra le clausole generali quelle che operano secondo lo schema descritto da Mengoni, è sorretta, infine, dalla valorizzazione dell’elemento essenziale della nozione. Elemento che, a mio avviso, va visto nel fatto che il giudice, per pervenire alla decisione, debba far ricorso ad uno standard sociale, consentendo così l’ingresso nell’ordinamento di valori metagiuridici. Del resto, lo stesso Mengoni, in uno scritto successivo al saggio del 1986, sembra consentire una interpretazione nel senso di quella qui prospettata. Di fronte alla possibile confusione delle clausole generali con i principi generali, proprio nel fare riferimento al (49) Luzzati, 2012, 182. (50) Mengoni 1986, 14. 22 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore principio della giusta causa dei licenziamenti ed al principio della buona fede nel contratto, afferma che “gli esempi rappresentano due specie diverse di clausola generale” (51). L’impiego di una nozione più ampia di clausola generale, del resto, è suggerita anche da un’esigenza pratica. La nozione viene, oggi, comunemente impiegata in accezione ben più estesa rispetto a quanto inizialmente proposto da Mengoni. Anche chi si rifà alla sua analisi, include, ad esempio, giusta causa e giustificato motivo tra le clausole generali, spesso anche l’equità, la ragionevolezza, l’ordine pubblico. Accanto alla nozione di clausola generale se ne sono affermate di altre, come quella delle norme aperte, norme a contenuto variabile, così che oggi, nel riferirsi alle “clausole generali”, dottrina e giurisprudenza, in assoluta prevalenza, fanno riferimento ad una accezione assai più estesa e, non di rado, utilizzano in maniera indistinta e/o equivalente i diversi concetti. Quale esempio di tale confusione può essere richiamata la decisione della Corte di Cassazione che, all’interno della stessa sentenza, ascrive la buona fede a tre distinte categorie concettuali definendola prima una “clausola generale”, poi un “principio generale” ed infine un “obbligo (52). Non meno confuso, come meglio si vedrà il legislatore. Peraltro, si può osservare che mentre i privatisti, ad esempio, includono costantemente giusta causa e giustificato motivo tra le clausole generali, i più fedeli custodi dell’ortodossia mengoniana rimangano proprio i giuslavoristi (53). 5. Un interesse che prosegue ed evolve. Più recentemente, come si è detto, si assiste ad una intensa ripresa del dibattito che, travalicando l’ambito originario, si è ormai esteso a quasi tutti i settori della scienza giuridica. Oggi nessuno, almeno in apparenza, pensa più che le clausole generali possano essere “un pericolo per il diritto e per lo Stato” (54), del resto, come ha ricordato Rodotà, i giuristi non (51) (52) (53) (54) Mengoni, 1992. Cass. civ., ss.uu., 18 settembre 2009, n. 21606. L. Nogler, 2010. Secondo l’ammonizione di Hedemann, citata da Pedrini, 2012. 23 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore hanno affatto necessità di ricorrere alle clausole generali per piegarsi alle dittature ed ai gruppi di potere (55) e sembrerebbe consolidata “la consapevolezza che la versione ottocentesca del positivismo giuridico, più che essere entrata in crisi, è ormai morta e sepolta” (56). Fermo restando che non tutte le acquisizioni sono pacifiche, e che tentazioni neo-positiviste, in realtà, fanno ancora capolino, il dibattito propone orizzonti nuovi che, pur mantenendo un filo di continuità con il passato, pongono problemi ulteriori circa l’utilizzo delle clausole generali. I problemi relativi all’interpretazione, ad esempio, si arricchiscono di nuovi contenuti per l’affermarsi dei sistemi giuridici sovranazionali, per la riscoperta dei principi costituzionali o per l’affollamento delle fonti. Peraltro, è divenuto di più stringente attualità il tema relativo alla natura stessa del “controllo”, da parte delle magistrature superiori, delle decisioni assunte sulla base di clausole generali e si affaccia un nuovo interesse da parte del legislatore. 6. Le fonti di integrazione delle clausole generali tra regole interne e regole esterne al diritto positivo. Un dibattito dottrinale in atto riguarda il potere integrativo del giudice di fronte alla clausola generale. L’interrogativo è se il giudice, nell’esercizio del potere integrativo conferitogli dalla norma, possa ricorrere a regole esterne al sistema del diritto positivo. Vi è chi lo ammette, chi lo nega e chi ritiene che il rinvio possa riguardare, a seconda dei casi, sia regole interne che esterne (57). Una recente dottrina, nel respingere l’idea che il giudice possa far ricorso a cognizioni extra giuridiche, sostiene che la via normale sia quella della “costruzione normativa fondata sullo sviluppo coerente di scelte imputabili a fonti legislative (in particolare a disposizioni di principio contenute nelle fonti formali) (58). Questa dottrina, in realtà, non esclude forme di etero-integrazione, solo che ritiene costituiscano l’eccezione e non la regola. (55) (56) (57) (58) Rodotà, 1987, 255. Luzzati, 2013, 164. Velluzzi, 2010, 87. Libertini, 2011, 13. 24 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore La teoria, ascrivibile ad un orientamento di “giuspositivismo critico, o moderato’”, si fonda sull’idea della tassatività delle fonti di diritto e paventa il rischio che si affermi “la prevalenza della consuetudine giudiziale o sociale sulla legge scritta, con tutto ciò che ne consegue sul piano delle ideologie giuridiche” (59). Ammettere il ricorso a fonti esterne, in definitiva, significherebbe “riconoscere al giudice poteri incontrollabili, sicché la discussione in materia finisce per abbandonare il terreno della costruzione razionale del significato di una certa norma, per incentrarsi invece sulla ricerca di strumenti atti a limitare la discrezionalità giudiziale”. Questa teoria si ispira, esplicitamente, alla corrente di pensiero, secondo la quale “le clausole generali non sono principi, anzi sono destinate ad operare nell’ambito di principi” (60). Il fatto che le clausole generali non siano principi, o che debbano operare all’interno di essi, tuttavia, non fa minimamente venire meno il loro quid pluris costituito proprio dal possibile rinvio a norme esterne. Affermare che si impone “il ricorso all’argomentazione per principi, come criterio di giustificazione delle decisioni giuridiche, rispetto ad una metodologia che ammetta il ricorso ad argomentazione referenziali” (61), per quanto stemperata dalla considerazione che tale tipo di argomentazione consentirebbe, tuttavia, un’ampia autonomia e responsabilità all’interprete, significa, in ogni caso, svuotare di contenuto pratico la stessa teoria delle clausole generali. Senza contare che potere interpretativo ed apertura a valori esterni non sono alternative tra le quali si imponga la necessità di una scelta. Il giudice che, sulla base di uno standard indicato dalla direttiva, ricerchi la regola all’esterno, svolge, allo stesso tempo, anche le normali operazioni ermeneutiche che sono proprie del suo ruolo. Solo che alla “normale” discrezionalità dell’interprete, aggiunge la “specifica” discrezionalità consentita dalla clausola generale. La teoria, oltretutto, presenta anche una incoerenza intrinseca, posto che, pretenderebbe di chiarire le previsioni indeterminate indicate dal legislatore, “con il ricorso ad altre (previsioni) non meno indeterminate delle prime, aprendo lo spazio ad operazioni di (59) Ivi, 9. (60) Rodotà, 1987, 721. (61) Libertini, 2011, 12. 25 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore integrazione da parte del singolo interprete non sempre facilmente controllabili” (62). Pur in un differente contesto, questa teoria rivela, essenzialmente, quello stesso timore di una possibile contaminazione del diritto positivo (assunto in veste sacrale) con elementi di mondanità, lo stesso timore del giuspositivismo del secolo scorso. Un recente orientamento, in senso contrario, ammette il ricorso a regole esterne al sistema del diritto positivo (63), riconoscendo che il significato concreto delle nozioni contenenti clausole generali non si ricava “assegnando a queste clausole un contenuto che si trae dall’interpretazione sistematica dell’ordinamento legale, ma richiamandosi a standard oggettivi, determinati, conoscibili, ma che si formano storicamente in una data comunità di interpreti, che risiedono fuori dal testo della legge” (64). L’autore, preliminarmente, spiega che quando si utilizza il termine “extralegale” si intende “ciò che si pone all’esterno del sistema della norma (indipendentemente dal rango) posta in essere secondo procedure valide dell’autorità pubblica” (65), ma poiché nel concetto di “giuridico” rientrano altre norme, aventi “tutti i caratteri che un precetto deve possedere per iscriversi nel concetto” (66), il giudice, nel processo di integrazione del precetto ricorrerà a fonti “esterne al sistema delle norme poste in essere dall’autorità politica”, quindi “extralegali”, ma pur sempre a fonti giuridiche, giacché vi è “un ordine giuridico esterno a quello legale ed il suo fondamento è la sovranità. Esso è giuridico e, quindi, conoscibile ed accertabile” (67). Si tratta di un ordine giuridico fondato sui diritti fondamentali, intesi come elenco aperto, e sui doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, che non si cristallizzano nell’atto (62) Perfetti, 2012, 1221. (63) Libertini, 1991; Id., 2008, 599. (64) Perfetti, 2012, 1219. (65) Oppure anche di norme che, seppure non poste dall’autorità pubblica, possano da queste ultime “esser tratte per via interpretativa a guisa di principio”: Perfetti, 2012, 1220. (66) Ivi. (67) Ivi, 1222. La costruzione sembra riecheggiare Mengoni, quando afferma che il termine ‘legge’ utilizzato dall’art. 101 deve intendersi nell’accezione di diritto vivente comprensivo del diritto di formazione extralegislativa. Mengoni, 2004, 72. 26 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore sovrano di costituzione dell’ordinamento legale, ma rappresentano “quote di sovranità” trattenute dal popolo. Poiché quest’ordine giuridico, seppure esterno a quello legale, è storicamente determinato, l’autore suggerisce che il contenuto delle clausole generali “trovi un significato determinato e preciso in quest’ordine (storicamente accertabile in una comunità data) assi più che in indebite spiegazioni interpretative (che spesso celano l’opinione privata del singolo interprete) (68). Si tratta di un ragionamento sicuramente utile per comprendere e giustificare i complessi fenomeni di evoluzione del diritto alla luce dei principi, e sembra confermare la distinzione tra principi generali e clausole generali. Si può osservare come il giudice faccia riferimento ai principi, intesi nella loro intrinseca capacità evolutiva, tanto più evidente se oltre a quelli “codificati” debba tener conto anche di quelli che risiedono nella quota di sovranità mantenuta direttamene dal popolo. Ciò che non comprendo, tuttavia, è la sopravalutazione della questione relativa al dilemma circa le fonti che il giudice potrebbe utilizzare nel processo di integrazione della direttiva stabilita dal legislatore. Se partiamo dalla concezione mengoniana, che continua ad essere l’unico punto fermo di riferimento, il problema della possibilità che il giudice possa ricorrere a fonti extragiuridiche o extralegali è mal posto. Se il giudice, al fine della decisione, fa riferimento a fonti, non potrà che trattarsi di “fonti” in senso legale, ivi compresi i principi generali. Il giudice, infatti non può modificare il regolamento legale. La formula secondo la quale al giudice è delegata “la formazione della norma” non significa riconoscergli un potere creativo di norme, né attingendo all’ordinamento legale, né a quello extralegale. “Formare la norma (concreta) di decisione” significa semplicemente formare la decisione, decidere. Il processo, infatti, si compone di una norma di direttiva e di una norma concreta. Orbene, norma, in senso tecnico, è soltanto quella contenuta nella direttiva. Solo che essa, come si è avuto modo di ricordare, è incompleta. Ma è incompleta, non perché il legislatore la voglia incompleta o indeterminata, ma perché il suo contenuto è incono(68) Ivi, 1222. 27 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore scibile. Quando affermo che il contraente debba comportarsi secondo buona fede, o che il datore di lavoro possa recedere volontariamente solo in presenza di un giustificato motivo, non sono in grado di apprezzare il comando (non lo conosco) nella sua completezza e tantomeno lo posso utilizzare quale premessa maggiore del sillogismo. Per poter conoscere il comando nella sua interezza debbo necessariamente ricorrere alla mediazione con la realtà (il giudice seleziona certi fatti o comportamenti con un determinato parametro). Ma non si tratta di una realtà “normativa”, o “legale” che dir si voglia, bensì di una realtà “storica”. Se si trattasse di una realtà normativa o legale, tutta la costruzione delle clausole generali si risolverebbe nel rinvio all’applicazione di un’altra norma: il giudice dovrebbe semplicemente scegliere quale altra norma applicare per dare senso alla direttiva contenente la clausola generale ed affrontare, su tale base, il problema interpretativo. Se si trattasse del rinvio all’ordine giuridico esterno al sistema legale, secondo l’ultima dottrina richiamata, si tratterebbe di fondare la decisione sulla base dei principi generali, inclusi i “nuovi diritti”. Per quanto la seconda ipotesi si differenzi qualitativamente dalla prima, fa anch’essa riferimento ai “vincoli” imposti al legislatore nella ricerca del contenuto concreto della direttiva, cioè ai principi generali da interpretare, e non agli strumenti mediante i quali individuare tale contenuto. La verità è che la mediazione, indispensabile per il completamento della norma, avviene con la realtà storica, perché i valori non sono conoscibili se non attraverso la lente della loro sperimentazione pratica. Il valore è indicato dalla direttiva, ma può esser conosciuto solo attraverso una sua lettura nel mondo del reale. Così, il giudice non interpreta ma, in un certo senso, sceglie tra le possibili storicizzazioni del valore suggerito dalla direttiva, quella che al momento storico ritiene preferibile. Il limite alla sua discrezionalità consiste nel fatto che l’operazione da lui condotta possa tornare utile al diritto, in quanto suscettibile di diventare un tipo. La peculiarità delle clausole generali non sta tanto nel fatto che il giudice possa aprire la finestra sul mondo esterno, ricorrendo a fonti sicuramente extralegali, ma anche extragiuridiche, ma nel fatto che i contenuti attinti dall’esterno non vengono solo utilizzati per la soluzione del caso concreto ma, essendo suscettibili di generalizzazione e di trasformarsi in tipo, possano influenzare 28 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore l’evoluzione stessa del diritto “non legislativo”. Ciò, evidentemente, ha rilevanti implicazioni teoriche e pratiche, ma negare questa apertura con l’intento di restringere la platea delle possibili fonti integrative al solo mondo del diritto, anche se inteso in senso ampio, significa negare la stessa costruzione dogmatica delle clausole generali. Dal punto di vista teorico, rimane chiaro che siamo affatto in presenza di una regola esterna che penetra nel diritto. Il nuovo, anche grazie alle contaminazioni derivanti dal contatto con la realtà, si crea pur sempre all’interno del sistema giuridico. Il diritto, cioè, regola la realtà attraverso l’autoregolazione, con la traduzione in regola del rumore esterno (69). 7. L’ermeneutica delle clausole generali e l’incontenibile potere del giudice. Nell’ambito delle clausole generali, come si è visto, al giudice è attribuito un potere di “integrazione” che comporta una maggiore discrezionalità nella decisione. Il fatto di dover dar corpo a nozioni aperte consente, o spinge, il giudice ad una ponderazione degli interessi in gioco che si conclude “con un giudizio di preferenza in favore di un progetto di soluzione argomentando da un punto di vista extrasistematico portatore di nuove esigenze o nuovi bisogni espressi dall’ambiente sociale”. Si tratta di una decisione che, secondo Mengoni, viene adottata dal giudice in condizioni oggettive di incertezza, destinata ad essere superata laddove venga verificata l’integrabilità della decisione. Se essa risulta idonea a stabilizzarsi nel sistema giuridico, si trasforma in fattispecie normativa. Cioè potrà essere utilizzata per giustificare altre decisioni che non avranno necessità di esser suffragate da una motivazione, in quanto già contenuta nella fattispecie emersa attraverso la decisione originaria. Viene da chiedersi, a questo punto, se l’apporto dell’interprete sia diverso a seconda che la norma contenga o no una clausola generale. “La risposta che ritengo di dover dare — affermava Carlo Castronovo nel commentare la teoria di Mengoni — è negativa, nel senso che nell’un caso o nell’altro la norma individuale presuppone (69) Teubner, 1992, 609: “what legislation does is produce noise in the outside world, under the disturbing impact of which it changes its own internal order”. 29 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore la norma astratta e prende reali fattezze nella decisione giudiziale. Se una differenza si dà, essa è quantitativa e non d’essenza” (70), posto che “in talune ipotesi — come nel caso delle clausole generali — questa attività′ dell’interprete è più importante e più visibile che in altre’’ (71). Anche laddove possa riscontrarsi una differenza tra clausole generali e concetti indeterminati, nel senso che nel primo caso il giudice “concorre a formulare la norma”, mentre nel secondo caso si limita “a riscontrare il ricorrere nel fatto concreto dell’elemento elastico indicato dalla fattispecie... essa mette in luce una diversità di potere, non una diversità di operazione ermeneutica” (72). Difficilmente, alla luce delle moderne teorie dell’ermeneutica, una simile affermazione potrebbe essere smentita nella pratica. Sono i fatti a determinare l’interpretazione della norma ed a far si che il giudice possa pervenire a diverse interpretazioni della stessa, “poiché inducono il giudice ad impiegare diverse argomentazioni giuridiche, ad esempio facendo riferimento a diversi principi generali o costituzionali, ed anche ad invocare diverse ragioni metagiuridiche, ispirate a differenti valori sociali o morali che orientano la eterointegrazione della norma” (73). Tuttavia, in presenza delle clausole generali. la discrezionalità del giudice è esaltata: travalicando la dimensione del fatto, egli può attingere a valori desunti dalla realtà sociale ed operare una scelta tra le possibili soluzioni. Anche la moderna ermeneutica, superata l’idea che possa darsi una sola soluzione (quella giusta) per ogni caso concreto, ammette che il processo di interpretazione consista nella scelta tra più possibili soluzioni a disposizione, ciò che cambia, e probabilmente non si tratta soltanto di quantità, sono l’ampiezza e la qualità degli strumenti a disposizione del decisore. Le regole dell’interpretazione, intese quale complesso di regole alle quali il giudice deve attenersi, sono le stesse, ma è la norma, il profilo oggettivo, a stabilire non solo i margini quantitativi ma, almeno in parte, anche (70) Castronovo, 1986, 22. (71) “Ogni interpretazione di norme consiste anche nella individuazione di regole, standards o criteri mediante i quali si perviene alla riconduzione del fatto entro la norma”: Taruffo, 2003, XII. (72) Castronovo, 1986, 24, nota 14. (73) Taruffo, 2014, 42. 30 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore a legittimare il ricorso a peculiari metodologie d’indagine e valutative. Altro è stabilire se il contratto a tempo determinato sia stato posto in essere sulla base di un elenco tassativo e tipico di ipotesi autorizzative fissate dal legislatore (e successivamente delegato alla contrattazione collettiva), altro se sia stato stipulato in presenza di una clausola generale, “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo”, poi “riferibili all’ordinaria attività del datore di lavoro”, ed altro ancora, nel caso non sia richiesta alcuna causale, chiedersi se possano ugualmente ritenersi presenti limitazioni al suo utilizzo. Anche nell’ultima ipotesi, evidentemente, tali spazi residuano, ma sono assai più limitati: una ragione discriminatoria, un contrasto con principi generali dell’ordinamento o con fonti internazionali, etc. Il processo interpretativo è sicuramente influenzato dal ruolo (soggettivo) dell’interprete, ma non può trascurarsi l’importanza del profilo oggettivo, e cioè dalle modalità del “comando” contenuto nella norma. Lo stesso potere che delega al giudice un ruolo determinante nella produzione del diritto, infatti, fissa anche dei limiti, stabilendo l’estensione della delega che, a seconda dei casi, può essere più o meno ampia. 8. Ermeneutica delle clausole generali ed arbitrio giudiziale. Il secondo, peculiare, aspetto della clausole generali consiste nella loro irriducibilità al metodo sussuntivo (74). Ciò in quanto, nelle clausole generali, la fattispecie astratta non è desumibile, o non compiutamente, dal comando contenuto nella norma, compito del giudice sarà proprio quello di dare contenuto a quel comando, costruendo la fattispecie (75) sulla base di elementi ricavati dalla realtà sociale. In altri termini, posto che le clausole generali risultano così irriducibili alle tradizionali tecniche dell’interpretazione, la loro diffusione favorisce e rafforza l’affermarsi delle più moderne teorie dell’ermeneutica e fa si che la dogmatica giuridica esca “distanziata dalla pretesa di costruire un sistema rigorosamente (74) Opinione non condivisa da quanti ritengono che si verificherebbe una inversione dei termini nel sillogismo. Si veda infra. (75) D’Amico, 1989. 31 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore deduttivo e autosufficiente, secondo il quale il giudizio si ridurrebbe a un atto di pura sussunzione” (76). Sembra che l’utilizzo della tecnica delle clausole generali favorisca, per un lato, una maggior adattabilità della decisione al caso concreto (77), in sintonia con gli orientamenti del “particolarismo giuridico” ed esaltando la funzione creativa del giudice e, per altro lato, l’adattamento del diritto positivo ai mutamenti che si producono nella realtà sociale (78). In entrambi i casi, tuttavia, gli effetti sono condizionati dall’opzione interpretativa che si accoglie. Nel primo caso, l’attenzione va posta in relazione alla funzione del giudice, tutt’altro che pacifica ma meno problematica se si abbandona definitivamente l’idea di una sua funzione solo dichiarativa. Una volta ammesso che il giudice “non constata ma costruisce la norma”, in virtù di una “ampia misura di discrezionalità nella scelta dei significati possibili” (79), proprio la più incisiva discrezionalità contenuta nella delega farebbe si che in nessun caso possa parlarsi di arbitrio: “l’interprete della clausola generale naviga senza bussola in un mare aperto a molte rotte” (80), ma questo non è arbitrio. Per alcuni, l’ampio spazio di decisione del giudice è il prezzo da pagare per i vantaggi di una legislazione, per clausole generali, che consente di meglio governare i fenomeni indotti dalla complessità della società, abbracciando in formule lessicali semplici, anche perché indeterminate, una casistica che i codici tradizionali, costruiti su fattispecie dettagliate, non sono più in grado di governare (81). Del resto, “è la giurisprudenza che costituisce il contenuto effettivo del c.d. diritto vivente, il quale rappresenta in molti (76) Mengoni 1996, 52. (77) Poiché “la decisione non è mai il frutto dell’applicazione meccanica di norme generali, e... l’applicazione della norma non può avvenire se non facendo riferimento alla complessità del caso particolare su cui verte la decisione”. Taruffo, 2014, 40. (78) Che è problema ermeneutico, e non dogmatico. “Il pensiero dogmatico non è adatto a questo, perché i concetti da esso formati sono strumenti di conoscenza delle norme esistenti e le operazioni logico deduttive in cui esso si svolge sono meramente riproduttive di soluzioni implicite nelle premesse già integrate nel sistema, e perciò inidonee a fornire la base per l’elaborazione di risposte adeguate a problemi nuovi che insorgono da punti di vista extra sistematici sopravvenuti” Così: Mengoni, 1990, 432. (79) Gentili, 2010, XVII. (80) Ivi. (81) Gentili, XV. 32 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore casi il solo diritto di cui disponiamo ad esempio quando i giudici creano diritto colmando lacune o il vero diritto di cui disponiamo, quando i giudici creano diritto interpretando clausole generali, o qualunque altro tipo di norma” (82). Per altri, non si tratta affatto di un prezzo da pagare, posto che proprio sulla discrezionalità del giudice si fonda la decisone del caso concreto. Secondo le espressioni più radicali di questo orientamento, evidentemente ascrivibile al particolarismo giuridico, sono da respingere sia il metodo sussuntivo che quello della concrezione a favore di una terza via: la regola del caso. La norma, in un certo senso, viene svalutata a favore del potere discrezionale del giudice, in quanto “la ley no dice lo que aparece en su texto literal sino lo que los tribunales dicen que diga” (83). A partire da una concezione largamente condivisa, secondo la quale la legge offre una pluralità di soluzioni tra le quali il giudice dovrà scegliere, Nieto esalta quindi proprio l’arbitrio del giudice che, seppur non inteso quale sinonimo di arbitrarietà, tuttavia non può prescindere dai suoi personali convincimenti. È quasi impossibile, infatti “que en la sentencia no “queden plasmadas “expresiones que reflejen su ideológica, su cultura, su conciencia institucional o corporativa, sus prejuicios, de tal suerte que un lector experimentado — sin necesidad de ser un psicólogo profesional — puede acceder a rincones ocultos de la personalidad del juez” (84). Nella decisione influirebbe persino la conformazione mentale involontaria del giudice, se è vero che le maggiori distorsioni nella valutazione delle prove non deriverebbero affatto dalle sottigliezze giuridiche, bensì dalla “insensibilidad del juez, entendida como la incapacidad biológica que todos tenemos para percibir, comprender e interpretar determinados fenómenos y sus correspondientes matices” (85). Alcuni negano la stessa premessa, ritenendo che “considerar que el juez se extralimita en su función de administrar justicia, porque corrige un precepto legal por medio de una cláusula general, seria un verdadero sarcasmo. La cláusula general esta precisamente para eso” (86). Il rischio, peraltro, sarebbe evitabile in presenza di una “co(82) (83) (84) (85) (86) Taruffo, 2007, 710 Sull’argomento, soprattutto: Mengoni, 1990, 445 ss. Nieto, 2010, 70. Nieto, 2010, 72. Nieto, 2010, 69. Gonzalez, 1997, 317. 33 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore scienza ermeneutica educata” che richiede che “l’interprete sia pronto a mettersi in ascolto dell’opinion del testo... cosciente... delle proprie presupposizioni e dei propri pregiudizi” (87). Dal punto di vista sistematico, non sarebbe difficile individuare un limite all’arbitrio. Anche in presenza di nozioni a contenuto variabile l’arbitrio troverebbe “davanti a sé un limite invalicabile: l’uso irragionevole” (88). Anzi si potrebbe dire che la ragionevolezza sia uno dei principali canoni di controllo di cui il giudice deve tenere conto nella individuazione del contenuto normativo delle clausole generali. Indipendentemente dalla classificazione che della stessa ragionevolezza viene data dalla dottrina, talvolta come clausola generale (89), talvolta come standard (90), è senz’altro un tratto caratterizzante dei sistemi giuridici moderni ed è un segnale della sempre maggiore apertura di tali sistemi, in risposta alla complessità del reale. Un ulteriore limite è segnato “dal contenuto stesso delle clausole e dalla necessaria loro coerenza con le plurime razionalità dei sistemi e dei sottosistemi in cui si articola un complessivo ordine giuridico” (91). Ma altro è individuare limiti, per così dire teorici, al potere valutativo del giudice, altro verificare tale assunto sul piano concreto. L’adattamento del diritto alla realtà cangiante delle cose, infatti, consentendo uno scambio con la realtà, fa si che il diritto formale si apra al diritto vivente, ma questo scambio “introduce « impurezas » en el lenguaje legal, adiciona elementos que afectan la propia identidad del enunciado y quiebra la lógica autorreferencial que la filosofía analítica ha predicado sobre el Derecho” (92) amplificando le difficoltà interpretative. Il tema, inoltre, tocca l’irrisolto nodo del rapporto tra la correttezza formale della decisione e la ricerca della giustizia, che potrebbe prevalere su ogni altra esigenza di correttezza formale. (87) Forcellini, 2014, 139. (88) “El problema del arbitrio judicial, que tanto preocupa a algunos teóricos y prácticos del derecho, non puede hacernos olvidar que la concreción de las notions a contenu variable, como la buena fe, no es enteramente arbitraria, pues se halla sometida a un limite infranqueable: el uso irrazonable”. Così Gil y Gil, 1990, 92, in adesione alla teoria di Perelman. (89) Nivarra, 2002, 373 ss. (90) Scognamiglio, 1992, 65 ss. (91) Breccia, 2007, 461. (92) Lorenzetti, 2013, 156. 34 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Quando si afferma che al giudice si presentano una pluralità di soluzioni del caso, ovviamente, si vuole intendere che tutte queste soluzioni sono corrette. Le opzioni scartate, in altri termini, non appaiono meno corrette di quella adottata. Di conseguenza, non potrà mai affermarsi che la decisione definitiva sia quella giusta. Ciò comporta che le sentenze, a seconda della visione di ciascuno, potranno essere considerate corrette o non corrette (sul piano della logica argomentativa) oppure giuste o ingiuste (sul piano dei valori che il diritto aspira a rappresentare), all’interno di una visione secondo la quale la giustizia “altro non è che il carattere aporetico che caratterizza il tentativo di ricondurre la legge all’atto di giustizia” (93). La decisione “giusta” dovrebbe tener conto “non solo della correttezza procedurale, ma soprattutto delle effettive condizioni empiriche sulle quali il suo potere è chiamato a esercitarsi” (94). È anche possibile che “vinca la tirannia di un valore di parte che il giudice... tragga soltanto dalla sua ideologia, pur dissimulandola tra le righe di una motivazione professionale non del tutto sgrammaticata” (95). Non è neppure infrequente che i giudici, e più ancora le giurie, si trovino di fronte a statuizioni legali che ritengono inadeguate, o inique, per la soluzione del caso concreto. In mancanza della discrezionalità consentita dalla clausola generale, “quand le texte qu’il doit appliquer ne lui lasse aucun pouvoir d’appréciation, le jury n’hésite pas a recourir a une fiction, c’est a dire a une fausse qualification des faits, pour échapper aux conséquences de la règle juridique qu’il juge inacceptable” (96). (....). 9. Ermeneutica delle clausole generali: sindacato di Cassazione e funzione della giurisprudenza. A questo punto del ragionamento, con particolare riferimento al sistema italiano, si impone una breve riflessione su alcuni aspetti cruciali relativi alla funzione delle clausole generali, a partire dai meccanismi di controllo delle decisioni assunte secondo tale tec(93) Secondo la teoria di J. Derrida, accolta da Giustiniano, 2013, 107. (94) Ivi. (95) Breccia, 2007, 462. (96) Perelman, 1984, 365. 35 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore nica. Dovremmo, poi, chiederci se gli strumenti suggeriti, o concretamente adottati, appaiano idonei a consentire appieno la funzione tipica delle clausole generali, che è quella di consentire una costante mediazione con la realtà sociale e favorire così l’evoluzione del sistema giuridico. Già in partenza, si presenta subito un’evidente antinomia: siamo infatti di fronte a due esigenze, entrambe apprezzabili, che postulano l’adozione di tecniche tendenzialmente opposte. Da un lato, sta l’esigenza della certezza del diritto, che richiede affidabilità, sicurezza e suppone, tendenzialmente, costanza nelle decisioni. Per altro verso, le clausole generali contengono, nel proprio DNA la propensione ad accogliere i “segni dei tempi”, per utilizzare una terminologia conciliare, cioè la vocazione a recepire i cambiamenti, a fornire soluzioni più appropriate per situazioni che, in altro tempo o in altro contesto, avrebbero comportato decisioni differenti. È evidente che il mutamento, soprattutto laddove ispirato dall’accoglimento di istanze metagiuridiche, è inversamente proporzionale all’affidabilità della decisione. Il primo problema che si pone, è quello relativo ai meccanismi di controllo delle decisioni, cioè all’ammissibilità del ricorso per Cassazione delle decisioni assunte dal giudice in applicazione di clausole generali. La risposta dipende, in larga parte dalla qualificazione dell’operazione ermeneutica del giudice: se si trattasse di una decisione confinabile nell’ambito del giudizio di fatto, il controllo della Cassazione dovrebbe essere ricondotto entro il limite del primo comma dell’art. 360 c,p.c. n. 5. Ma può anche sostenersi, ed è anzi questa l’opinione prevalente che si tratti di una questione di diritto, e cioè che il sindacato della Cassazione vada esercitato ai sensi del punto n. 3 dello stesso articolo: “facendo uso della clausola generale si pongono nella premessa maggiore del sillogismo (giudiziale) i parametri e il risultato dell’analisi sui parametri (di giudizio; perciò ) quando il giudice di merito sbaglia in questa fase non commette un errore di fatto ma di diritto” (97). A conferma di tale orientamento, si fa riferimento alla disposizione del 2012, secondo la quale “l’inosservanza delle disposizioni in materia di clausole generali, in materia di limiti al sindacato di merito sulle valutazioni (97) Patti, 2013, 93. Nello stesso senso: Fabiani, 2012, 238. Anche per Breccia, 2007, 460, “il controllo dei giudici di legittimità sull’applicazione delle clausole generali è, pur sempre, controllo sul rispetto o sulla violazione del diritto”. 36 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro, costituisce motivo di impugnazione per violazione di norme di diritto” (98). Tale disposizione, contrariamente a quanto spesso sostenuto (99), non significa che l’impugnazione sulle decisioni che abbiano ad oggetto clausole generali avvenga per violazione di norme di diritto, ma solo che il diritto è violato se il giudice entra nel merito delle valutazioni riservate al datore di lavoro. Sciogliere il dilemma non è semplice, né rientra tra i miei compiti. È però opportuno segnalare alcune essenziali implicazioni, se non complicazioni. A partire dal fatto che la pretesa di un ampio controllo da parte della Corte di legittimità viene spesso utilizzato proprio per stemperare il potenziale innovativo delle clausole generali e mantenere il giudice, suppostamene immaginato come portatore di una forza centrifuga (100), “nel sistema di giuspositivismo voluto dall’art. 101, capoverso, Cost. (allontanandolo) da un sistema di responsabilità politica estraneo ad un ordinamento costituzionale...”. A tal fine, anche recentemente, nell’autorevole sede della Corte di Cassazione, è stato fornito un dettagliato elenco di tipologie interpretative, evidentemente finalizzate, ad evitare ogni fuga nel buio dell’extra giuridico, sulla base del presupposto che “la necessità di ricorrere, quando si tratti di clausole generali adoperate dal legislatore statale, a criteri esterni alla legge non significa che si possa giustificare la scelta interpretativa secondo criteri extragiuridici” e, soprattutto, nella convinzione che “criteri moralistici o politici, o più largamente ideologici di integrazione del diritto positivo sono, salvo che si tratti di salvaguardare ‘il minimo etico di cui l’uomo comune è naturale portatore’, sempre soggettivi o, peggio, imposti dall’esterno e perciò (il corsivo è mio) pericolosi o dannosi ai consociati” (101). Si teme, in definitiva, che sfugga di mano la possibilità di un controllo unitario ed uniforme, ovviamente riservato alla Corte di Cassazione. (98) Art. 30, comma 1, della legge 4 novembre 2010, n. 183, come modificato dall’art.. 1, comma 43 della legge n. 92/2012. (99) Rosselli, 2013. (100) Forti preoccupazioni per il potere dirompente del giudice, proprio in termini di certezza del diritto, è espresso, per tutti, da Vallebona, 2002, 175. (101) Le citazioni sono tratte dalla relazione di Federico Roselli, dal titolo: Clausole generali e nomofilachia, all’incontro di studio svoltosi 10 ottobre 2013 presso la Corte di Cassazione. 37 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore A parte questo possibile uso “politico”, evidentemente volto ad introdurre anticorpi in grado di sterilizzare, o almeno stemperare, il potenziale “antipositivista” delle clausole generali, deve poi segnalarsi un’altra contraddizione. Una volta accertato che al giudice, pur con le cautele di cui già si è detto, sia consentito scegliere, tra differenti soluzioni possibili, tutte tendenzialmente corrette, non si comprende su quale base potrebbe censurarsi la decisione del giudice in quanto “sbagliata”, salvo che non si tratti del superamento dei limiti che circoscrivono il potere valutativo conferitogli dalla clausola o derivanti da altri principi dell’ordinamento. Affermare, fuori dai limiti di cui si è detto, che il giudice di merito “sbaglia” nell’utilizzo dei parametri ricavati dal sociale, significa semplicemente che il giudice di legittimità, non condividendo la scelta operata dal giudice di merito, si sostituisce ad esso nell’esercizio della delega contenuta nella clausola generale. Sostanzialmente l’ideologia della Corte di Cassazione prevarrebbe su quella del giudice di merito, finendo per rappresentare una sorta di terzo grado di giudizio di merito senza che ciò possa trovare alcuna giustificazione razionale. La questione sembra superata, nella pratica, da un atteggiamento di autocontrollo da parte del Giudice di legittimità che, in materia di clausole generali, si astiene, di norma, da un controllo eccessivamente pervasivo. Ed infatti, nei più recenti orientamenti della Corte di Cassazione, si apprezzano aperture verso un superamento dell’orientamento giurisprudenziale degli anni ’90 che, in pratica, finisce per misconoscere la peculiarità delle decisioni assunte sulla base di clausole elastiche. Questa sorta di self restraint da parte della Cassazione è pesantemente criticato da quell’orientamento cui si è fatto cenno, che lo definisce “una tal quale inclinazione alla fuga dalla responsabilità morale della decisione” da parte dei giudici di Cassazione (102). 10. Le clausole generali nell’antinomia tra certezza del diritto ed evoluzione del sistema. Altro aspetto di frizione con la funzione genuina delle clausole generali risiede nella elaborazione delle massime giurisprudenziali (102) Roselli. Loc. ult. cit. 38 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore della Cassazione in materia di clausole generali e, più in generale, dell’utilizzo della regola del precedente. La certezza del diritto si alimenta, per un verso, della prevedibilità della decisione, “che può svolgere anche una funzione economica” (103), e, per altro verso, dalla presenza di una giurisprudenza costante. La funzione nomofilattica della Corte di Cassazione è volta proprio a garantire “l’esatta osservanza e uniforme interpretazione della legge” (104) attraverso sentenze, che, secondo l’insegnamento di Calamandrei, siano “capaci non solo di assicurare l’esatta interpretazione del diritto, ma anche di imporre questa interpretazione come canone di decisone dei casi successivi” (105). Una simile funzione, come è evidente, non appare la più appropriata quando si tratti di clausole generali: le decisioni assunte attraverso la mediazione con la realtà sociale sono mutevoli almeno quanto lo sono i valori metagiuridici cui esse si ispirano. La massima tende a cristallizzare l’esperienza storica che interviene nella decisione del giudice, si trasforma in un ostacolo alla naturale evoluzione delle fattispecie create dal giudice nel concretizzare la norma. Si potrà convenire sul fatto che il giudice, secondo l’insegnamento di Mengoni, dovrà operare tale concretizzazione “in forma generalizzabile” (106), ma non nel senso di completare, una volta per tutte, l’incompletezza della norma, disvelando il significato che il legislatore ha volutamente lasciato, almeno parzialmente, indeterminato. Perché in tal caso si completerebbe, attraverso l’elaborazione della massima, la formulazione della norma astratta, restituendo così, ad essa, l’idoneità a fungere da premessa maggiore del sillogismo e quindi consentendo, o imponendo, all’interprete di agire sulla base del metodo sussuntivo. Operazione peraltro suggerita, più o meno in questi termini, da una parte della dottrina (107). Il tema relativo alla conciliazione tra l’affidabilità della decisione, garantita da una giurisprudenza costante ed uniforme, e la sua possibile mutevolezza, è tema generale. L’incertezza comporta (103) (104) (105) (106) (107) Taruffo, 2014, 35-36. R.D. 30.1.1941, art. 65. Taruffo, 2007, 714. Mengoni, 1986, 13. Fabiani, 2012. 39 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore un rischio per gli attori di ogni transazione, a partire da quello del datore di lavoro che, nello specifico, non di rado, non può o non è disposto a sopportare il rischio di una decisone giudiziaria in grado di alterare il proprio programma. Non a caso, anche nell’ambito del diritto del lavoro, è forte la tendenza alla fuga dalla giurisdizione. Qualche ordinamento di common law tenta una conciliazione attraverso la tecnica del prospective overruling, mediante la quale la Corte che formula un principio nuovo continua ad applicare alla controversia in discussione le vecchie regole di diritto (garantendo così l’affidabilità) e riservando l’applicazione del nuovo principio alle decisioni future. Occorre però sottolineare che la incertezza delle clausole generali si presenta non soltanto in prospettiva diacronia, elemento di cui l’attività di nomofilachia della Corte di Cassazione sembra talvolta tener conto, ma anche in prospettiva sincronica, per cui l’interpretazione della clausola generale risulta aperta non solo alla successione temporale, ma anche alla possibilità di una differente interpretazione all’interno del medesimo spazio temporale, in funzione di altre variabili (108). Più precisamente, secondo Teubner, l’indeterminatezza riguarda le tre dimensioni che caratterizzano la struttura della norma: quella materiale, quella temporale e quella sociale, così da rendere particolarmente ampie ed evidenti le diverse possibilità di concretizzazione (109). Il riferimento al diritto vivente, espresso dalla presenza di una giurisprudenza consolidata che, ove le sue massime siano rispettate, e pur con le dovute eccezioni (110), può rendere inammissibile il ricorso per Cassazione, non si addice al diritto espresso dalle decisioni fondate sulle clausole generali. È diritto vivente, anch’esso, certamente, ma con un peculiare sistema respiratorio. Le massime giurisprudenziali, in sostanza, non sono sufficienti (108) Secondo Rodotà, inizialmente si faceva riferimento alla sola funzione diacronica, “che consentiva al diritto di vincere la sua difficile guerra con il tempo”. Successivamente, anche per influenza degli ordinamenti sovranazionali (come l’art. 19 della carta dei diritti fondamentali) la funzione sincronica si sarebbe affiancata alla prima. Rodotà, 2009, 106. (109) Miquel Gonzalez, 1997, 312. (110) Si vedano: Cass., n. 7394/2010 e Cass. n. 25194/2013 che ritengono il ricorso inammissibile quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offra elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa. 40 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore per l’interprete delle clausole generali. Il giudice troverebbe più utile, semmai, il ricorso alla tecnica del precedente, che è altra cosa dal ricorso alla giurisprudenza, perché consente di attingere al fatto concreto rapportandolo direttamene alla norma, e non attraverso la mediazione di una massima alla quale, per forza di cose, manca proprio la capacità di illuminare il dettaglio. La tematica relativa all’interpretazione giurisprudenziale, peraltro, riguarda le clausole generali per la peculiarità della tecnica sottesa alla formazione della decisione, che consente di attingere ad elementi extragiuridici per completare la norma. Ciò non significa che solo grazie alle clausole generali si possa pervenire ad interpretazioni innovative o audaci. Come ricorda Treu, guardando in retrospettiva la giurisprudenza in materia di retribuzione sufficiente, di efficacia normativa del contratto collettivo di diritto comune e di sciopero si segnalano interpretazioni giurisprudenziali che “per la loro spregiudicatezza tecnica e, in fondo per il loro ecclettismo” (111), rimangono impresse per la loro importanza e durata nel tempo senza necessità di chiamare in causa le clausole generali. Del resto, non tutti i mutamenti di indirizzo, che poi confluiscono nelle massime giurisprudenziali, sono “ricavate in via di interpretazione, ma desunte da principi generali rationes legis o dai principi costituzionali di solidarietà e di equità (ad esempio il principio dell’extrema ratio in tema di licenziamenti nell’interesse dell’impresa” (112). 11. Clausole generali e tensione tra i poteri dello Stato. Da tempo, si segnala l’idoneità del ricorso alle clausole generali a fungere da fattore di alterazione dell’equilibrio tra i poteri dello Stato. Il fatto che alla giurisprudenza venga riconosciuta, seppur con differenti accentuazioni, una funzione creativa del diritto ne costituisce un indice rivelatore. Se si esamina la materia dal punto di vista del legislatore, si (111) “Laddove, — come precisa l’autore — la spregiudicatezza non va scambiata per spirito di rottura col passato o di gratuita innovazione, giacché, in effetti, l’originalità e la tempestività delle decisioni sono tutto tranne che segni di discontinuità storica”. Treu, 1996, 268. (112) Mengoni, 1996, 48. 41 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore osserva che disciplinare una materia mediante una prescrizione esaustiva e dettagliata oppure in maniera generale ed incompleta, lasciando all’interprete il potere di completare la norma, costituisce una scelta in grado di modificare l’equilibrio tra il potere legislativo e quello giudiziario. Ciò, indipendentemente dal fatto che la scelta sia volontaria, intesa quale esplicita opzione di politica del diritto, oppure obbligata dalle circostanze. La ripartizione dei poteri è definita solo nella sua enunciazione teorica. Nei fatti, una continua tensione tra i poteri stessi stabilisce, volta per volta, le funzioni effettive di ciascuno di essi. Il confine può essere suggerito dal legislatore, quando decida se disciplinare compiutamente una materia, astenersene, o lasciare spazio all’interpretazione giudiziale, ma può anche essere modificato dal giudice, laddove interpreti la sua funzione non in termini meramente dichiarativi ma creativi del diritto. Del potere esecutivo si parla meno. Eppure, contribuisce, anch’esso alla “creazione del diritto”, sia nella forma della supplenza che nella forma dell’interpretazione, soprattutto mediante lo strumento delle circolari (113). In alcuni casi, come nell’ambito dell’immigrazione, “le circolari amministrative sono diventate strumento privilegiato di integrazione e di interpretazione della disciplina giuridica” mediante “la continua creazione di ’nuove’ regole e di ’interpretazioni autentiche’” (114). Nel passato, hanno disciplinato materie trascurate dal legislatore, come l’avviamento degli invalidi psichici (115) e, più recentemente, la funzione “creativa” ha riguardato materie quali la qualificazione del rapporto di lavoro in relazione all’ammissibilità del lavoro a progetto nei call center o l’applicabilità delle sanzioni in materia di lavoro irregolare. A ciò va aggiunta una funzione “indiretta” ma non meno importante, laddove le modalità e l’efficienza di controlli finiscano per determinare l’ineffettività del diritto sostanziale (116). Il potere esecutivo, in definitiva, avanza anch’esso una pretesa (113) Per una visione d’insieme in prospettiva storica si veda: Colao, Lacchè, Stordi, Valsecchi, 2011. (114) Gjergji, 2012, 6. (115) Sull’argomento: Loy, 1993. (116) “Il ruolo del Ministero del lavoro come fonte di orientamento interpretativo delle norme e, con esso, il ruolo delle circolari e di strumenti nuovi come gli interpelli” è cresciuto negli ultimi anni: Del Punta, 2012, 476. 42 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore regolativa che, sebbene dal punto di vista formale non risulti vincolante per il giudice, né possa aspirare a costituire interpretazione autentica della legge, in quanto regola accettata produce effetti. A fronte degli “sconfinamenti” di una giurisprudenza ritenuta eccessivamente creativa o di atti amministrativi non condivisi, il legislatore può recuperare la titolarità che rivendica mediante il ricorso ad una disciplina più dettagliata o inequivocabile. Un recente esempio di esplicita riassunzione del potere, nelle materie cui abbiamo fatto cenno, è dato dalla previsione della ammissibilità della collaborazione coordinata e continuativa nel caso di “attività di vendita diretta di beni e di servizi realizzate attraverso Call Center ‘outbound’” (117) Ebbene, può trattarsi di una dialettica di carattere fisiologico, relativa al governo di quell’area grigia che sfuma i confini tra i poteri, ma può anche rivelare una più forte tensione tra di essi, tale da rimettere in discussione l’assetto stesso del sistema. La tensione sorge soprattutto laddove l’elasticità della norma lasci spazio ad interpretazioni che, nella prospettiva della certezza del diritto, creano imprevedibilità, e quindi rischio. Le clausole generali, con particolare riferimento al diritto del lavoro, diventano così importante terreno di un confronto che travalica i limiti della normale dialettica. La tensione, per così dire fisiologica, relativa all’interpretazione di una norma suscettibile di una pluralità di interpretazioni, tutte corrette, anche grazie all’ausilio di elementi metagiuridici, cambia di qualità con l’art. 30 della legge n. 183/2010. Oggetto della tensione, infatti, non è più la interpretazione, ma incomincia a riguardare, piuttosto, il potere di interpretare. Con l’art. 30 della legge n. 183/2010, infatti, il legislatore limita il sindacato giudiziale escludendo che esso possa entrare nel “merito sulle valutazioni tecniche organizzative e produttive che competono al datore di lavoro”. Si tratta, per la verità, di un intento già perseguito con gli art. 27, co. 3 e 69, co. 3 del d.lgs n. 276/2003 in materia di contratto a progetto e di somministrazione che qui, però, si ripropone in termini più generali, con riferimento ad istituti particolarmente sensibili del rapporto di lavoro e facendo esplicito riferimento alle clausole generali. (117) Legge 92/2012, art. 61, come modificato dalla legge 134/2012. 43 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Della norma sono state proposte diverse e contrastanti letture. Senza entrare nel dettaglio delle diverse interpretazioni, è utile intenderne l’ispirazione, anche al fine di qualche conclusione finale. Un primo livello di lettura si sofferma sul fatto che la norma garantirebbe maggior certezza del diritto ed affidabilità della norma, con potenziale effetto deflattivo, posto che non tanto le regole del processo quanto proprio l’incertezza del diritto sostanziale inciterebbero il contenzioso (118). A parte l’evidente inclinazione di tale lettura verso un modello che, con analoga finalità, ammetta la derogabilità in peius anche da parte del contratto individuale di lavoro, il limite di questa opzione consiste nella mancanza del profilo comparativo in relazione agli interessi, o diritti, che potrebbero esserne coinvolti. Nessuno dubita dei benefici che potrebbero derivare da una deflazione del contenzioso e da una maggiore affidabilità, ma tali proposizioni non possono comprendersi pienamente se non vengono coniugate con lo strumento che le rende possibili, se non si dimostri, cioè, che l’interesse per la “certezza del diritto” possa prevalere sul sacrificio di altri diritti. Poiché si tratta di operazione che va condotta alla luce dell’equilibrio indicato dall’art. 41 Cost. la pretesa di limitare il ricorso del giudice a tale principio si porrebbe fuori dall’alveo della Costituzione (119). Un secondo livello di letture, più tecnico, partendo da una dettagliata analisi lessicale e sistematica, evidenzia sia il fatto che il legislatore definisca “clausole generali” nozioni che non sarebbero affatto “clausole generali in senso proprio” (120), sia il fatto che il controllo giudiziale, anche quando comporti un restringimento della sfera di azione dell’imprenditore, “rientra ancora, sino ad un certo punto, in un sindacato di legittimità e non di merito” (121), così che la disposizione non farebbe altro che ribadire un orientamento giurisprudenziale già consolidato (122). Quanto alla prima osservazione, tecnicamente corretta, os(118) Tiraboschi, 2010, 8; Vallebona, 2010, 211 ss. (119) Perulli, 2013, 285. (120) Carinci, 2011, specie pp. 5 ss. In senso analogo Nogler, 2011, 126, Visonà, 2012, 2. (121) Del Punta, 2012, 475. Anche per Piccinini, “il controllo di legittimità può investire, entro certi limiti, le finalità della scelta organizzativa”: Piccinini, 2012. (122) Carinci, 2011. 11; Del Punta, 2012, 475. 44 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore servo che l’interprete è costretto, in continuazione, a precisare che la norma “non fa riferimento a clausole generali in senso tecnico (il corsivo è mio)” (123), cioè nell’accezione mengoniana del termine, e conseguentemente ad escludere che il giustificato motivo, ad esempio, possa costituire clausola generale “in senso proprio”. Non è possibile, tuttavia, mantenere l’analisi e prevedere gli effetti della norma su di un piano evidentemente differente da quello che sembra intendere il legislatore (124) anche sulla base della relazione al disegno di legge (125), né sminuire l’importanza innovativa della norma con un sofisticato ragionamento capace di attrarre “anche la determinazione in abstracto del contenuto precettivo della norma stessa, alla luce di tutti gli elementi rilevanti del caso” nell’ambito dell’accertamento del presupposto di legittimità (126). Al proposito, mi viene in mente don Ferrante, che durante la peste, “con ragionamenti ai quali nessuno potrà dire che mancasse la concatenazione”, sostenne l’inesistenza del contagio, che non poteva essere né sostanza né accidenti”, (127) sì da morire “come un eroe della scienza”. Pertanto, è ad un diverso piano di lettura, che occorre prestare attenzione, come fanno, ad es., Perulli e Ferraro, guardando sia alla portata ideologica della norma, “una restaurazione rispetto all’assetto ideale disegnato dallo Statuto dei lavoratori” (128), sia ai suoi possibili effetti, idonei ad alterare “quella trama di diritti fondamentali previsti dalla nostra Costituzione con particolare riferimento alla sicurezza, libertà e dignità umana, ormai proiettati anche a livello sovranazionale con la Carta di Nizza” (129). All’inciso: “in conformità ai principi generali dell’ordinamento” è stato spesso attribuito un significato, riduttivo, di ov(123) Ivi, 7. (124) Una volta decifrato il testo, vi è chi prende atto del fatto che il legislatore allude a tutte le disposizioni connotate da elevata generalità o genericità. Così, ad es., Zoli, 2011, 833 ss.; Ballestrero, 2009, 8. (125) “Per clausole generali si intendono a quelle disposizioni legislative che, al fine di definire l’ambito di legittimità del ricorso a particolari tipologie di lavoro o a decisioni delle parti, non fanno riferimento a specifiche causali tipizzate, bensì stabiliscono requisiti di carattere generale e quindi flessibile, seppure effettivi e variabili”. (126) Del Punta, loc. ult, cit. (127) Manzoni, Promessi sposi, cap. XXXVII. (128) Ferraro, 2009, 43. (129) Perulli, 2013, 286; Per un approfondimento: Perulli, 2005, 1 ss. 45 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore vietà, senza rendersi conto che la norma, proprio mentre ribadisce l’ ovvio primato di tali principi, in realtà tende proprio ad un loro depotenziamento. Limitare il controllo del merito nell’ambito delle clausole generali (anche tenendo conto della difficoltà di distinguere — in queste materie — il profilo di legittimità da quello di merito) significa, infatti, limitare la vitalità di quei principi costituzionali. Essi vivono in quanto il giudice possa concretamente utilizzarli per la soluzione del caso concreto. Come, altrimenti, il giudice potrebbe trovare il limite dell’utilità sociale di cui all’art. 41 Cost., se gli viene precluso di sindacare, sulla base di tale principio, la scelta operata da una delle parti? Certo, chi tende a sminuire il carattere innovativo della disposizione, potrebbe sostenere, con una certa logica, che proprio il richiamo ai principi generali dell’ordinamento impedisca i possibili effetti negativi paventati dall’altra parte della dottrina. Sino a poter ritenere che tale richiamo possa costituire, addirittura, “un ulteriore limite esterno alla cui sussistenza è subordinato l’esercizio del potere di recedere dal rapporto di lavoro” (130). Più realisticamente, ritengo che l’attacco sia rivolto proprio a quei principi generali che dovrebbero consentire il controllo della discrezionalità. Anche l’opinione secondo cui la norma si limiterebbe a confermare l’orientamento giurisprudenziale consolidato è discutibile. Più esattamente, ricorda Zoli, la norma “non fa altro che avallare l’orientamento prevalente in giurisprudenza, a scapito di quello minoritario” (131). 12. Conclusioni. Una delle parziali conclusioni sinora raggiunte riguarda la necessità di adottare un’accezione di clausola generale in senso ampio, facendo riferimento soprattutto alla tecnica di concretizzazione del comando contenuto nella norma. Premessa indispensabile per potersi confrontare con una sterminata letteratura che utilizza indistintamente svariate nozioni nel far riferimento a situazioni caratterizzate da una indeterminatezza del comando, (130) Zoli, 2011, 839. (131) Ivi. 46 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore che lasciano al giudice il potere di completare la norma mediante ricorso ad elementi metagiuridici. Ciò è tanto più indispensabile se si pensa alla crescente importanza che le clausole generali hanno assunto nell’ambito dell’ordinamento giuridico comunitario, all’interno del quale “facilitano la ‘convivenza’ delle culture giuridiche differenti dei vari Paesi e, quindi, consentono, più agevolmente, l’adattamento dei principi comunitari alle diverse tradizioni giuridiche” (132). Le clausole generali vengono considerate una disposizione autonoma del diritto comunitario, che postula una uniforme interpretazione di esse nell’intero territorio dell’Unione (133). Il diritto comunitario, per essere più precisi, conosce due categorie di clausole: le clausole generali di diritto comunitario, il cui contenuto è direttamene definito dal legislatore comunitario, e quelle in cui, invece, il legislatore comunitario non definisce il contenuto ma lascia che siano i singoli Stati a determinarlo (134). Il potere di interpretare le clausole generali di diritto comunitario, seppure in via non esclusiva ed in presenza di un rinvio incidentale, spetta alla Corte di Giustizia Europea che, in presenza di clausole generali il cui contenuto non sia definito, svolge comunque il ruolo di controllo della “congruità dei parametri adottati” dal legislatore e dal giudice nazionale. La funzione delle clausole generali nel diritto comunitario, che pure, parallelamente, ricorre a normative di settore assai dettagliate, è quella di favorire il superamento delle differenze esistenti tra gli Stati membri, così contribuendo all’armonizzazione del diritto europeo. Le clausole generali non sono alternative ad una normativa dettagliata che, con tecnica opposta, restringe i margini dell’interpretazione in funzione della certezza del diritto. Sono, piuttosto, funzionali a quello stesso disegno di armonizzazione, in quanto “ammortizzano” il processo di sottrazione del potere statale da parte del diritto comunitario, consentendo di combinare il rispetto di principi e categorie generali, che si affermano all’interno (132) Musio, 2010, 38. (133) Il contenuto di queste clausole è “predeterminato tramite un’operazione di sintesi che tenga conto del contenuto che le clausole generali, di volta in volta evocate, assumono nelle varie legislazioni nazionali”. Meruzzi, 2005, 11. (134) Corte di Giustizia europea, caso SENA (Stichting ter Exploitatie van Naburige Rechten c. Nederlandse Omroep Stichting) 2003; Musio, 2010, 39. 47 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore dell’Unione europea e che esigono uniformità, con la specificità (sino ad un certo punto) delle tradizioni giuridiche e dei valori che caratterizzano i differenti ordinamenti giuridici che ne fanno parte. Si tratta di un processo che evolve e che già mette in conto, per quanto riguarda le clausole generali, la piena compatibilità tra le tradizioni di common law e quelle di civil law. Per poter trarre qualche considerazione conclusiva, è indispensabile prendere le mosse anche dal contesto all’interno del quale si assiste al rinnovato interesse per le clausole generali. “Nel capitalismo del novecento, il diritto dismette programmaticamente il suo atteggiamento di puro ausilio, o sussidio, di un processo economico auto fondato, a favore di una policy interventista, che assume forme diverse e si alimenta di motivazioni parimenti differenti, riconducibili ora alla presa d’atto della possibilità che il mercato fallisca, ora ad una (presunta o reale) volontà di affidare alla mano pubblica la promozione di una società più giusta e più eguale (si vedano gli art. 3, II comma, 2 e 41 della nostra Costituzione)” (135). Il Diritto del lavoro ha un ruolo non secondario in questo processo, perché ispirato a movimenti sociali e politici che hanno contribuito al superamento delle politiche del laissez faire, perché ha precocemente individuato nella specialità lo strumento per l’abbandono del principio dell’autonomia della volontà, per il suo contributo al disegno di creazione di uno stato sociale. La crisi che ha investito (anche) il diritto, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, si è manifestata con un graduale processo di dismissione dell’interventismo statale che ha portato ad “una riscrittura delle regole giuridiche che disciplinano il rapporto (conflitto) capitale — lavoro, tutta favorevole al primo” (136). Questo processo, il cui ritmo è sempre più incalzante, comporta fenomeni ampiamente noti: la legislazione produce un arretramento dello stato sociale, riduce le tutele, crea flessibilità e precariato, ma non si tratta di ritorno al primo capitalismo, quando al diritto si chiedeva di mantenersi estraneo ai fenomeni economici, di limitarsi a garantire gli scambi e l’autonomia della volontà (137). Il neo liberismo, non chiede più al diritto di astenersi, di lasciar (135) Nivarra, 2010, 25. (136) Ivi, 30. (137) Su cui Fernández Sanchez, 2012. 48 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore fare, bensì di cooperare alla fondazione di una nuova società costruita sulla concorrenza. A prima vista, laddove non è più garantita la stabilità del rapporto, aumenta il precariato, aumenta la povertà, si riaffaccia prepotentemente il dominio della parte forte del rapporto di lavoro, quel dominio che il diritto aveva cloroformizzato grazie ad una legislazione prima protettiva e poi garantista: sembra un ritorno al passato. Non è così. Il dominio del primo capitalismo era l’effetto di spontanee regole di mercato, l’affermarsi in maniera razionale di rapporti di forza, ma non era provocato dal diritto dello Stato. Il dominio attuale, al contrario, è prodotto dal diritto, nel senso che esso ha introiettato la missione di garante del principio della concorrenza ed opera apertamente perché essa si affermi. Al diritto, in nome del razionalismo economico e sulla scia della teoria che pretende di essere l’interfaccia tra i due sistemi, laws and economics, viene richiesto di adattare la sua legislazione per renderla funzionale alle esigenze di questo nuovo potere. Senza entrare nel merito delle tensioni, o dei conflitti ideologici e sociali che hanno accompagnato la nascita dello Stato interventista, può dirsi che, storicamente, lo Stato sociale è valore condiviso all’interno del capitalismo. Le diverse tensioni, volte ad una sua accentuazione o ridimensionamento, toccano il tema di quella “frontiera mobile” di cui parlava Mancini, ma non mettono in discussione il consenso intorno all’idea di uno Stato che assume su di sé il compito di promuovere il benessere. Peraltro, nel frattempo, Costituzioni come la nostra hanno positivizzato i valori ispiratori dello Sato sociale (138), contribuendo al superamento dell’antinomia tra giusnaturalismo e positivismo, producendo un sistema di positiva convivenza tra valori e norme. Valori e norme, operano nei propri ambiti di competenza intessendo, tuttavia, quel dialogo che consente al diritto di non avvizzire nell’autoreferenzialità e poter evolvere alla luce dei segni dei tempi. Le clausole generali favoriscono questo dialogo, consentono che il contenuto del compromesso fondativo che, per la prima volta, positivizza i valori, possa continuare ad esser aggiornato, cioè consenta al diritto di vivere. Questa operazione, tuttavia, non è neutrale. Le decisioni che, (138) Mengoni. 1998, 7 ss. 49 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore ispirandosi a valori extra giuridici, “aggiornano” il diritto, sono in grado di modificare il preesistente equilibrio tra Stato e cittadino, o tra le parti del contratto, così da incidere sugli interessi delle parti stesse. Quando il legislatore ha aggiornato la regola della libertà di recesso nel rapporto di lavoro, introducendo l’obbligo di motivazione, ha alterato l’assetto di interessi a favore della c.d. parte debole, accogliendo una istanza presente nella società. Quando i giudici, avvalendosi delle clausole generali, hanno dato una interpretazione più o meno ampia alle nozioni lasciate aperte dal legislatore, hanno, a loro volta, attinto a valori esterni percepiti “anche” secondo la propria sensibilità. Perché tutto ciò possa funzionare correttamene, è necessario il consenso, non inteso, ovviamente, come consenso individuale bensì come consenso collettivo. “El consenso es un presupuesto del funcionamiento pacífico de la actividad judicial en materia de cláusulas generales” (139). Ciò spiega perché il dibattito sulle clausole generali, prevedendone i possibili effetti sugli interessi delle parti, sia stato spesso caratterizzato dall’antinomia tra fuga dalle clausole generali e fuga nelle clausole generali. La fase di consenso del diritto del lavoro ha attraversato momenti di forte conflittualità, ma il sacrificio di interessi dell’impresa veniva ritenuto giustificato dall’esigenza di tutelare diritti ed interessi dei lavoratori nell’ottica di un più generale interesse sociale. Ciò che, in fondo, è rappresentato nell’art. 41 Cost. Quel consenso è venuto meno: “la crisis de las visiones totalizadoras ha hecho explotar todo texto unificador; los intereses son individuales o sectoriales, perfectamente diferenciados unos de otros” (140). La mancanza di valori comuni, ed anzi l’affermarsi di visioni contrapposte ed inconciliabili, si riflette nel diritto. Quasi tutti gli elementi del circuito virtuoso che, nel secolo scorso, pur in mezzo a mille difficoltà, hanno consentito al diritto di rappresentare e regolare la complessità del reale sono così entrati in crisi. Il potere legislativo ed il potere giudiziario si trovano in una nuova fase di emergenza, non per la necessità di superare una transitoria situa(139) Lorenzetti, 2013, 157. (140) Ivi. 50 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore zione di difficoltà, bensì in vista, ed in preparazione, all’affermarsi di una nuova, rivoluzionaria visione ideale della società. Vengono sempre più sollecitati a porre al centro della propria attività un interesse altro e diverso rispetto a quello suggerito nell’art. 3, comma II, della Costituzione (la promozione della persona umana e la garanzia dei diritti fondamentali della persona) e cioè l’interesse dell’impresa nella sua declinazione di diritto alla concorrenza. Si può facilmente osservare come non solo la Corte di Giustizia europea, ma anche alcune Corti costituzionali nazionali, pur con qualche eccezione, siano disponibili a limitare alcuni diritti fondamentali in nome della crisi economica in atto, cioè in nome dell’interesse dell’impresa e non, come più frequentemente avveniva nel passato, operando il bilanciamento con l’interesse dell’occupazione. La differenza, rispetto ad analoghi processi evoluti del passato, sta nel venir meno di un condiviso patrimonio di valori. Il giudice che, con la tecnica della clausole generali, dovesse attingere ad istanze extragiuridiche, riscontrerebbe ancora la presenza di valori affatto differenti da quelli che oggi premono perché il diritto si converta definitivamente in uno strumento funzionale al razionalismo economico e dedito alla sua causa. In questo senso, le clausole generali sono viste con sospetto da chi muove i fili di questa operazione proprio perché, l’integrazione valutativa potrebbe recepire istanze di segno opposto al disegno generale di cui si è detto. “Non possiamo ignorare che certe correnti della cultura moderna, sostenute da principi economici razionalistici e individualisti, hanno alienato il concetto di giustizia dalle sue radici trascendenti” (141): così dichiara il Papa, ponendo l’accento proprio sulla divaricazione tra i valori (per noi) positivizzati, il valore la dignità ed i diritti della persona, che “al di là delle dichiarazioni di intenti”, “sono seriamente minacciati dalla diffusa tendenza a ricorrere esclusivamente ai criteri dell’utilità, del profitto, e dell’avere” (142). L’attuale trasformazione, in altri termini, non è spinta da valori diffusamente condivisi all’interno della società, bensì da un soggetto esterno, la forza di una visione economica totalizzante (141) Benedetto XVI, 2012, 4. (142) Ivi. 51 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore che, nelle sue visioni più estreme, persino dileggia il diritto ed i giuristi (143), confermando la perdita di autorità del punto di vista giuridico di cui parlava D’Antona (144). Questa visione si impone più con la forza che con il consenso, grazie all’enorme potere degli interessi che rappresenta. Potere che, nella convinzione delle proprie ragioni, viene esercitato prevalentemente dall’esterno e fuori dalle regole della democrazia. Il diritto, così come è arrivato sino ai nostri giorni, sia per suoi contenuti (per quanto ancora conserva dell’idea di stato sociale), sia per le regole del suo esercizio (ivi compresa la funzione giudiziale) rappresenta un ostacolo all’affermarsi definitivo di questa nuova visione totalizzante. Ne soffre la stessa democrazia: gli equilibri delle funzioni democratiche rappresentate dalla divisone dei poteri si vanno modificando anche nel rapporto Stato-cittadino. Il capo dell’esecutivo italiano, nell’assumere decisioni strategiche per l’intera comunità del paese, espone così la sua, nuova, visione democratica: “Capisco che debbano tener conto del loro Parlamento, ma ogni governo ha anche il dovere di educare le camere.... Se io mi fossi attenuto in maniera del tutto meccanica alle direttive del mio parlamento, non avrei mai potuto approvare le decisioni dell’ultimo vertice di Bruxelles” (145). Detto in termini semplici: la discrezionalità concessa al giudice di concretizzare nome aperte sulla base di idee diffuse e largamente condivise nell’ambiente sociale, da molti viste come “indispensabili nella società moderna ed anzi meglio rispondenti alla pluralità di tradizioni ed orientamenti che in essa convivono” sono viste con diffidenza, tanto da indurre il legislatore a tentare di soffocarne la portata ed il senso appropriandosi “di stilemi e categorie nate sul terreno della dottrina e dell’esperienza giudiziale per piegarle a finalità diverse e contrarie alle originali ragioni” (146). (143) Veljanovski scrive che “una fondamentale ragione che spiega la tensione tra il giurista e l’economista ha a che vedere con il ruolo delle teorie. Il metodo di analisi del giurista è letterario, il suo ragionamento si fonda sulla metafora, l’analogia, la similitudine. Il diritto è parassita delle scienze sociali, della filosofia e di altre discipline, proprio perché la sua limitata base intellettuale le ha impedito di elaborare un armamentario teorico” Veljanovski, 2011, 31. (144) D’Antona, 1990, 207 ss. (145) Monti, 2012, 29. (146) Rescigno, 2011, 1960. 52 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Né mancano contraddizioni, visto che, proprio all’indomani del manifesto con il quale il potere legislativo ha proclamato il suo disegno strategico volto a limitare il potere dei giudici, suggerendo un diverso equilibrio tra i diritti di cui all’art. 41 Cost., lo stesso legislatore, nel perseguire l’analoga finalità di sterilizzare la più significativa tutela dei lavoratori subordinati, la tutela reale in caso di licenziamento illegittimo, ha finito per ampliare il potere interpretativo del giudice sino a porre nelle sue mani, almeno in apparenza, la decisone circa l’applicazione della tutela reale in caso di manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo: “il giudice ‘può’ disporre”. Si tratta della conferma di come l’urgenza di conseguire il risultato, e l’art. 18 vale uno scacco al re, prevalga sulla razionalità. Di fronte alla strenua resistenza di alcune forze sociali che non hanno consentito di normalizzare ogni ipotesi di licenziamento illegittimo, ma non discriminatorio, nell’ambito della tutela obbligatoria, il legislatore si è accontentato di una tracciatura approssimativa dei nuovi confini anche al prezzo di ampliare il potere giudiziario. La legge n. 92/2012, pur accettando il compromesso, si pone come negazione del significato di decenni di elaborazioni giurisprudenziali in materia di licenziamento illegittimo, tant’è che, all’indomani della sua emanazione, senza neppure attendere la prima giurisprudenza di merito, si è potuto affermare che, grazie appunto alla mera formulazione della norma, nel licenziamento illegittimo per giustificato motivo oggettivo, extrema ratio, all’inverso di quanto prima ipotizzato, sarebbe ora la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato (147). Ma le cose non stanno proprio così. Il potere e l’indipendenza della magistratura non sono “graziose” concessioni del potere legislativo. “La sacra formula riprodotta nella Costituzione, per cui il giudice dipende solo dalla legge” — scriveva Salvatore Satta 50 anni orsono — non si riferisce all’indipendenza dal potere esecutivo, “essa esprime piuttosto... l’indipendenza dal legislatore che diventa estraneo alla legge che egli ha posto, cedendo il potere al giudice, che diventa il legislatore del caso concreto. Magistratum vere dicimus legem esse loquentem (148). Si tratta di un potere che non può essere facil(147) (148) Vallebona, 2012. Satta, 2004, 247. 53 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore mente “revocato” dalla formulazione di una norma, anche perché il materiale oggi a disposizione dell’interprete è più che mai articolato, multilivello. Il comando contenuto nelle clausole generali, alle quali, almeno per il momento, non può farsi a meno di ricorrere, è un riferimento che va letto alla luce dei principi generali, valutato alla stregua degli ordinamenti sovranazionali, dev’esser dotato di logicità e di razionalità, non apparire in contrasto con l’ordine pubblico. Tutto ciò si converte in una complessa attività di bilanciamento, che è nel potere del giudice, cioè di un giudice che non travalica affatto la propria funzione proclamata dalla Costituzione. Egli, essendo indipendente proprio dal potere legislativo, è tutt’altro che un esecutore ed anzi, soprattutto nelle fasi di crisi, si presenta come legittimo contropotere. Detto in altri termini: poiché l’ordinamento giuridico, nel suo complesso, continua ad essere retto da principi generali ispirati a valori di giustizia, di solidarietà, di uguaglianza..., all’arretramento della funzione legislativa nella tutela dei corrispondenti diritti individuali e collettivi, che tradisce il mandato di cui all’art. 3, II comma della Cost., può far da contrappeso l’esaltazione di un’altra funzione, quella giudiziaria. L’attività del giudice, cioè il processo, opera come “dispositivo di connessione tra società e mondo del lavoro produttivo”. Il processo del lavoro, infatti, impedisce al sistema produttivo “di diventare un mondo a parte rispetto alle idee di giustizia, di normalità, di valore circolanti nel corpo sociale e assoggettato alla logica del più forte” (149). È quanto, in altre parole, riconosce quella giurisprudenza che considera le clausole generali “indicazioni di “valori” ordinamentali, espressi con formule generiche... che scientemente il legislatore trasmette all’interprete per consentirgli, nell’ambito di una più ampia discrezionalità, di “attualizzare” il diritto, anche mediante l’individuazione (là dove consentito, come nel caso dei diritti personali, non tassativi) di nuove aree di protezione di interessi” (150). La tensione si fa acuta quando i poteri che concorrono a questa fase di “attualizzazione”, ed è il caso riprendere in considerazione (149) Niccolai, 2013, 14. (150) Cass n. 10741, 11 maggio 2009. 54 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore anche il potere esecutivo, non operano in sincronia ma, in un certo senso, avanzano per vie contrapposte: mentre gli uni agiscono nella direzione della esaltazione dei diritti dell’impresa, assumendo come valore prevalente la concorrenza, il giudice non può fare a meno di operare sotto l’ombrello dei principi costituzionali e, quando gli è concesso di attingere alla realtà storica, come nelle clausole generali, è facile che trovi ancora spazio per un’interpretazione orientata verso gli stessi valori sino a qualche tempo fa esaltati dallo Stato interventista e che ancora permangono nella coscienza sociale. Non si tratta né di una frizione temporanea, destinata ad essere superata con il superamento della crisi economica, ma neppure di una frizione necessariamente destinata a stabilizzarsi. È la manifestazione di una crisi che, a partire da elementi apparentemente pragmatici — quali la necessità di riaffermare poteri dell’impresa ritenuti eccessivamente compressi dalla legislazione dello Stato interventista — si estende ai valori fondativi sino a rimettere in discussione la formulazione stessa di quelle norme costituzionali che hanno positivizzato quei valori. Modificare l’art. 41 della Costituzione significherebbe, prima di tutto rimettere in discussione quel patrimonio di norme (legali ed extralegali) che sulla base di quel principio, per oltre mezzo secolo, ha arricchito l’esperienza repubblicana. Le recenti riforme del mercato del lavoro, e non soltanto in Italia, “están provocando regresiones en la norma laboral que empiezan a encontrar puntos de fricción más frecuentes e intensos con las normas constitucionales y con las obligaciones asumidas en las normas supranacionales, incluso esos puntos de fricción aparecen con el propio derecho común” (151). Delle clausole generali, per il momento, non si può prescindere. Persino nelle materie oggetto di una disciplina legale minuziosa, come la sicurezza negli ambienti di lavoro, è difficile immaginare un ordinamento che possa fare a meno di norme, quali l’art. 2087 c.c. che, storicamente, ha consentito, per un verso quella “attualizzazione” di cui tanto si parla e, per altro verso, una migliore applicazione del principio di giustizia ai casi concreti. La crisi, in definitiva, non si manifesta nell’uso delle clausole (151) Alfonso Mellado C. L., 2013, 4. 55 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore generarli che, in definitiva, non fanno altro che metter in comunicazione la dinamica della norma positiva con il mondo di relazioni umane in cui trova applicatone, bensì quando “l’interprete di tale norma non sia più in grado di farsi interprete di una lettura diffusamente e socialmente condivisa di quella clausola nel suo tempo, soprattutto se si tratta di un Giudice apicale e inappellabile di natura sovranazionale quale appunto la Corte di giustizia UE, tanto da farlo atteggiare quale organo con funzioni para-normative” (152). Tra gli effetti della crisi, non può farsi a meno di ricordare la rapida evoluzione, o involuzione, della più tipica modalità di apertura dell’ordinamento a fonti extralegali, la contrattazione collettiva. Il legislatore, dopo averla promossa, in funzione progressiva, per il contributo all’affermazione di principi sanciti nella Costituzione ed appartenenti ad un comune patrimonio di valori, pretende oggi di utilizzarla per intraprendere un percorso inverso, strumentale al disegno del razionalismo economico, dotando alcune sue articolazioni decentrate persino di poteri derogatori della legge, ovviamente in peius, mai prima praticati con tale intensità ed estensione sino ad entrare in rotta di collisione con l’art. 39 Cost. Il tempo dello Stato interventista, per il diritto del lavoro, è stato caratterizzato dalla “fuga” verso la specialità. Si è trattato di un cammino lungo e difficile, fortemente contaminato da esperienze storiche ed ideologiche, ma caratterizzato da un sostanziale, ampio, consenso. Ora, il diritto speciale del lavoro non solo non è più in grado di garantire la protezione sinora accordata, ma incomincia ad essere utilizzato, e ad essere teorizzato, in senso prevalentemente funzionale all’interesse dell’impresa. È per questo che il diritto privato, integrato dalla razionale applicazione dei principi generali contenuti nella Costituzione, incomincia ad offrire livelli di tutela per il contraente debole che il diritto speciale del lavoro non è più in grado di garantire. Posto che si tratterà di far riferimento a principi, piuttosto che a norme speciali, è evidente che le clausole generali potrebbero risultare di estrema importanza. Clausole generali che, in conclusione, hanno anche a che vedere, oltreché con il ruolo dei giudici, anche con quello dei giuristi, nel nostro caso dei (152) Pallini, 2009, 203. 56 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore giuslavoristi, e non a caso, sia vecchi maestri che giovani, hanno ripreso ad interrogarsi su questo tema con rinnovato impegno e passione. Valga per tutti, in conclusione, una recente riflessione di Miguel Rodríguez Pinero: “Hemos de enfrentarnos abiertamente con la excesiva colonización del Derecho por un pensamiento económico, insensible a las consecuencias sociales o axiológicas de sus improbadas teorías y al crecimiento exponencial de las desigualdades y de la pobreza que viene generando su aplicación. Ante ello, los juristas no podemos permanecer silentes, debemos aportar nuestro grano de arena a la solución de serios problemas institucionales y constitucionales pendientes, y dar respuesta a la exigencia ciudadana de justicia total” (153). 13. Conclusioni (due). Molti anni fa, ad epigrafe della mia prima monografia, ho inserito un versetto dell’Ecclesiaste: c’è un tempo per ogni cosa. Oggi, ragionando sulle clausole generali e sul mutevole significato che esse traggono con il passare del tempo, mi accorgo di come l’interpretazione di quelle parole, iscritte da secoli a memoria degli uomini e delle donne, sia profondamente diversa da quella attuale. Era, allora, il tempo del principio. È, ora, il tempo della fine. La fine di una carriera da mediano che mi accorgo di vivere con emozioni affatto differenti dal tempo in cui, a parte dolorose contingenze, coltivavo aspettative. Aspettative che non ho più, come è giusto che sia, proprio perché c’è un tempo per ogni cosa. Questo è il tempo di terminare la mia carriera di docente, con qualche anno d’anticipo rispetto al tempo canonico, per una certa insofferenza all’ambiente e senza lasciarmi convincere da chi ha tentato di dissuadermi. Con questa relazione ha termine anche la mia esperienza dentro questa associazione che ho frequentato sin dall’inizio della carriera e che mi ha visto, per due mandati, nel tempo suo, all’interno dell’organismo direttivo. Un commiato, quindi, che mi ispira tre, semplici, riflessioni. La prima è per rendere conto dei talenti. Li ho investiti tutti nell’Università. Ora che è tempo di lasciarla, laddove vi era il vuoto rimane memoria di attività scientifica e rimangono due (153) Rodriguez Pinero y Bravo Ferrer, 2013. 57 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore professori (Piera Loi ed Entico Mastinu) ai quali, per quanto ho potuto, ho dato una mano, e di cui sono orgoglioso, come dovrebbe essere orgogliosa l’intera accademia. Credo che lo sia, a parte qualche strabismo che sempre può capitare. In secondo luogo. La vita accademica, in Italia ed in alcuni altri paesi a me più congeniali per lingua e cultura, mi ha consentito relazioni personali di stima e di amicizia, talvolta producendo affetti così importanti da farsi spazio con prepotenza nella mia vita. Stima ed amicizia che son cresciute al di la degli steccati delle scuole e degli interessi accademici. Queste relazioni me le porto appresso nell’intimo. Ma ad una di esse, perché la più simbolica per il metodo, la passione, l’umanità, l’interpretazione esemplare di ciò che il nostro lavoro dovrebbe essere, voglio dare un nome: quello di Mario Napoli. Da ultimo, lo stupore per l’evento, per me ancora misterioso, che mi ha aperto la strada dell’accademia. L’incontro, casuale, con un maestro, Tiziano Treu, che nonostante la mia evidente inadeguatezza (venivo da esperienze affatto diverse e privo di preparazione specifica) mi ha sopportato ed aperto la strada. Solo ed esclusivamente alla sua pazienza devo il fatto di esser rimasto in quest’ambiente. Uno di quei maestri capaci di contribuire ad un governo equilibrato e ragionevole degli eventi della disciplina di cui in questo tempo (dove è facile che autoproclamarsi prìncipi) si avverte la mancanza. Non gli chiederò mai perché lo abbia fatto. Ma spero che non se ne sia pentito. Riferimenti bibliografici. AA.VV. (2011). Perpetue appendici e codicilli alle leggi italiana. Le circolari ministeriali, il potere regolamentare e la politica del diritto in Italia tra Otto e Novecento. Colao F., Lacchè L., Stordi C., Valsecchi C., a cura di, Eum, Università di Macerata. ALFONSO MELLADO C. L. (2013). El derecho del trabajo. Referentes constitucionales e internacionales. Madrid: Fundación 1° de mayo. BALLESTRERO M.V. (2009). Perturbazioni in arrivo. I licenziamenti nel d.d.l. 116. LD. BENEDETTO XVI (2012). 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Oggetto, finalità dell’indagine e premesse generali. — 1.1. Sul metodo. — 1.2. Sulla nozione di clausola generale (rinvio al successivo n. 2). — 1.3. Sul rapporto tra clausole generali (anche in veste di “norme elastiche”) e funzioni del contratto collettivo. — 2. La nozione di riferimento: asserita dicotomia tra “clausole generali” e “norme elastiche” e spunti per un suo possibile superamento. — 3. Le clausole generali come norme di rinvio. — 4. Clausole generali e standards valutativi. — 5. Differenziazioni contenutistiche e funzionali tra clausole generali, standards valutativi, principi giuridici e norme costituzionali. — 5.1. Alterità tra principi e dati di realtà sociale nel momento applicativo delle clausole generali. — 6. L’intervento dell’autonomia collettiva in funzione di integrazione della fattispecie legale. L’esempio paradigmatico dell’applicazione per via giudiziale dell’art. 36, primo comma, Cost. — 7. Diligenza e autonomia collettiva. — 7.1. Diligenza, codici etici, “credo aziendali” e rapporti con gli standard comportamentali ricavabili dalla contrattazione collettiva. — 8. Ius variandi e autonomia collettiva. — 8.1. Equivalenza delle mansioni e lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni. — 8.2. Mobilità geografica e ragioni giustificative del trasferimento. — 9. Inadempimento, potere disciplinare, licenziamento. — 9.1. Licenziamento e “tipizzazioni” di fonte collettiva. — 10. Autonomia collettiva e clausole generali (in senso atecnico) nella legislazione in materia di lavoro flessibile: contratto di lavoro a tempo determinato e somministrazione di lavoro a termine. — 11. Le ipotesi di rinvio al contratto collettivo quale canale primario o esclusivo di concretizzazione delle clausole generali. — 12. Ragionevolezza, clausole generali e autonomia collettiva. — 13. L’applicazione giudiziale delle clausole generali di correttezza e buona fede in funzione di integrazione degli obblighi posti dal contratto collettivo. — 14. Conclusioni. La relazione tra clausole generali e autonomia collettiva come possibile percorso di “costruzione della normalità”. 63 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore 1. Oggetto, finalità dell’indagine e premesse generali. Nell’ampia produzione scientifica in materia di clausole generali nel diritto del lavoro, si deve constatare come il tema delle interrelazioni fra questa tecnica normativa e l’autonomia collettiva — con particolare riguardo al principale prodotto di quest’ultima, ossia il contratto collettivo — sia sinora rimasto, in generale e se si eccettuano alcuni non frequenti picchi di interesse, piuttosto al margine della discussione. Occorre, dunque, per prima cosa interrogarsi sulla ragione per la quale i raccordi tra questi fenomeni giuridici non sono stati più frequentemente e organicamente esaminati. Questo interesse apparentemente ridotto della dottrina potrebbe apparire a maggior ragione poco spiegabile in considerazione del fatto che nel settore dell’ordinamento in cui si colloca la disciplina dei rapporti di lavoro, così incisivamente caratterizzato dalla combinazione di norme statuali e regole di fonte collettiva, la diffusione o il “flusso” (1) di norme appartenenti alla macro-categoria delle clausole e norme elastiche/generali/aperte/a contenuto indeterminato (espressioni sul cui puntuale significato ci si interrogherà più innanzi) è sempre stata storicamente molto intensa (2) ed ha, peraltro, vissuto nell’ultimo quindicennio una fase di nuovo e rilevante impulso (3). In effetti, tuttavia, più che trascurata, quella tra l’ambito di applicazione delle clausole generali ed i campi di intervento dell’autonomia collettiva è stata prevalentemente ritratta dalla dottrina come una relazione di alternatività o, meglio, di alterità, se non di reciproca elisione, piuttosto che di possibile complementarietà ossia di reciproca integrazione. In questo senso si orientano, ad esempio, le affermazioni, abbastanza ricorrenti nelle opere monografiche e negli articoli dedicati a queste tematiche, secondo le quali, per gli aspetti in cui l’esercizio del potere imprenditoriale si presenti compiutamente regolato o disciplinato attraverso forme pattizie, non sarebbero (1) Montuschi, 1996, 139. (2) Del Punta, 2013, 51. (3) Come evidenziato, tra gli altri, da Ferraro, 2009, 36 ss. 64 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore ravvisabili spazi per l’applicazione di questi specifici elementi normativi (4). Parimenti, è stato sovente rimarcato come il progressivo ampliamento dei limiti esterni ai poteri datoriali, dovuto al progressivo infittirsi della trama di vincoli procedimentali introdotti dalla contrattazione collettiva e del costante affinamento contenutistico degli stessi, avrebbe ridotto gli spazi per un controllo dell’esercizio di tali poteri sulla base delle stesse clausole generali (o, più specificamente, sulla base delle clausole generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.) (5). La propensione a liquidare il tema del rapporto tra clausole generali e autonomia collettiva negli asciutti termini di un regolamento di confini solo apparentemente molto netto può, però, prestarsi anche ad essere letta anche come animata dall’intento di arginare in partenza ogni problematica interferenza tra le une e l’altra; ossia come riflesso ed elemento rivelatore di una latente tensione interpretativa e di ben più complesse interrelazioni che in realtà, come si avrà modo di porre in luce nel prosieguo, si manifestano ogni volta che, nella law in action, queste due manifestazioni regolative finiscono con l’entrare in contatto. È peraltro noto che, molto spesso e in ogni settore del diritto, a monte di ogni tesi tendente a ridimensionare l’incidenza delle clausole generali sui rapporti obbligatori, ossia dietro quelle che sono stati definite come spinte di “fuga” da queste ultime, si situi la preoccupazione di una abnorme dilatazione del soggettivismo giudiziale e di un forte indebolimento della certezza del diritto (6). Può essere che questa preoccupazione abbia contribuito a far sì (4) Di Majo, 1983, 350; Tullini, 1990, 182 s. (5) Montuschi, 1999, 728; Persiani, 1995a, 143 e, nello stesso senso, più recentemente, Marazza, 2012a, 1308. (6) Questa preoccupazione potrebbe essere a tutt’oggi espressa con le parole di Vallebona, 2002a, 176, il quale sottolinea che “quando la norma inderogabile consiste in una clausola generale, il controllo successivo del giudice è dirompente in termini di certezza del diritto, di sicurezza dell’individuo e...di competitività dell’ordinamento rispetto ad altri ordinamenti” (e si veda già, per notazioni dello stesso segno, Giugni, 1992, 74, sul cui pensiero si tornerà in chiusura). Ancora, potrebbe essere richiamato a questo proposito il fulminante aforisma di Cordero, 1981, 763, il quale osserva come “a fonti fluide corrispondono giudici potenti”. Sul ruolo attribuito alle clausole generali nelle culture giuridiche dei regimi autoritari del XX secolo cfr. per tutti, Guarneri, 1999, 140-142 ed ivi ulteriori riferimenti. Per cenni in argomento, da ultimo, Roselli, 2014, 224. 65 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore che buona parte della dottrina si orientasse, come è avvenuto, nel senso di una disconnessione tra le ricostruzioni dedicate alle competenze negoziali del sindacato e l’approfondimento delle tematiche concernenti significato ed effetti delle clausole generali (7). Tuttavia, questa visione, tendenzialmente minimizzante quando non del tutto ellittica del rapporto tra autonomia collettiva e clausole generali (a fronte di una forte valorizzazione, in termini più ampi, del ruolo delle clausole generali come fonti di regole di giudizio) può essere spiegata, a mio avviso, anche alla luce di alcune ulteriori premesse di sistema e metodologiche, che propongo come generali chiavi di lettura di questa relazione. 1.1. Sul metodo. La prima premessa rinvia alle ragioni metodologiche della ridotta attenzione sinora dimostrata nei confronti al ruolo dell’autonomia collettiva come forma di concretizzazione del contenuto delle clausole generali; una forma di concretizzazione diversa e nella maggior parte dei casi preliminare rispetto all’ordinario punto di osservazione, che è quello dell’intervento giudiziale. Una delle spiegazioni di questa sottovalutazione sembra da ricercare nell’influenza, sui nostri studi settoriali, della tradizione (7) Una tra le ragioni per le quali la riflessione sulle clausole generali si è sviluppata lungo coordinate che non si sono frequentemente intersecate, almeno nel periodo più recente, con le tematiche concernenti l’autonomia collettiva potrebbe essere ricercata negli effetti riflessi dei forti contrasti, ancora non completamente sopiti, che hanno caratterizzato soprattutto il periodo tra gli anni ottanta e novanta e tra i cui motivi ricorrenti rientrava quello dell’ipotizzata assoggettabilità al controllo giudiziale, sulla base degli obblighi di correttezza e buona fede, dei contratti collettivi, con riferimento alle differenzazioni retributive e di altra natura tra i lavoratori in relazione al loro differente inquadramento: tra le voci di questo dibattito, si richiamano sin da ora Pessi, 1992, 3; Persiani, 1995b, 34; Santoro-Passarelli, G., 1994, ora 2006, 560; Ferraro, 1991a, ora 1992; Del Punta, 1993 e 1996; Scarpelli, 1996, spec. 28 ss. Santucci, 1997, spec. 113 ss. Sulla inammissibilità dell’utilizzo delle clausole generali, in particolare delle regole di buona fede e correttezza, come fondamenti giuridici di un controllo di ragionevolezza sugli atti di esercizio dell’autonomia negoziale individuale e collettiva, Cass. 17 maggio 1996, n. 4570, diffusamente pubblicata (ad es. in GC, 1996, I, 1899, con nota di Del Punta, e in GI, 1997, I, 1, 760, con nota di Fantini); nello stesso senso, successivamente, Cass. 24 ottobre 1998, n. 10598, GI, 1999, 1147, con nota di Lunardon; Cass. 19 giugno 2001, n. 8296; Cass. 17 maggio 2003, n. 7752, MGL, 2004, 55; Cass. 27 maggio 2004, n. 10195; Cass. 18 agosto 2004, n. 16179; Cass. 16 maggio 2006, n. 11424. Il tema verrà più analiticamente trattato nei successivi paragrafi n. 12 e 13. 66 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore degli studi civilistici, nei quali il consueto approccio alla tematica delle clausole generali si incentra, normalmente, su alcuni Leitmotiven costantemente ripresi, che sono i seguenti: a) analisi del concetto di clausola generale (e delle sue numerose filiazioni); b) verifica della collocazione di questi enunciati normativi nel quadro dell’ordinamento giuridico e in quello delle fonti del diritto; c) valutazione del potere a volte asseritamente “creativo” della giurisprudenza, ovvero, più condivisibilmente, della competenza di tipo “ricognitivo” della tipicità sociale che, per il tramite diretto ed immediato delle clausole generali, l’ordinamento stesso finirebbe per affidare al giudice (8). Una impostazione, quella ora riepilogata, che peraltro, come si ribadirà di seguito, appare in via di parziale superamento nelle stesse elaborazioni civilistiche. In questa prospettiva, l’unica sede nella quale si realizzerebbe la concretizzazione del contenuto della clausola generale viene individuata, per convenzione scientifica quasi universalmente condivisa, nella decisione giudiziale. L’unico significativo momento applicativo delle clausole generali è ritenuto, pertanto, coincidente con quello della loro giustiziabilità. Si può, tuttavia, obiettare che questa impostazione non ritrae in maniera veritiera la dinamica applicativa delle clausole generali nel diritto del lavoro dove, in realtà, l’intervento di concretizzazione o di integrazione compiuto dal contratto collettivo (ci si soffermerà più innanzi sulle differenze tra queste distinte forme di interazione) costituisce un momento in molti casi imprescindibile per la concretizzazione del significato di tali previsioni legislative (o, meglio, per alcune di esse). Rispetto a questo primo momento di “riempimento di significato” della clausola generale in sede negoziale, l’intervento del giudice costituisce un “a posteriori”. Un passaggio di verifica che non può non porsi, almeno nelle premesse se non negli esiti, in linea di continuità con il momento di definizione negoziale degli assetti regolativi del rapporto di lavoro che si realizza nella sede collettiva e nel corso del quale le parti sono chiamate anche a confrontarsi (8) Come evidenziato, ultimamente, da Libertini, 2011, 345 ss. 67 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore con i possibili significati ed effetti di alcune previsioni legislative — catalogabili all’interno della categoria delle clausole generali, almeno nell’accezione che verrà adottata ai fini di questo studio — che rivestono importanza centrale nell’ambito di tali assetti. Nonostante l’innegabile connessione tra queste due fasi, è rarissimo che siano specificamente analizzati, sempre nelle trattazioni civilistiche, altri e diversi strumenti rispetto all’applicazione giudiziale delle clausole generali o che venga preso in esame il possibile intervento ulteriori competenze istituzionali che permettano, attraverso una mediazione e in una sede diverse da quella giudiziale, l’assolvimento di quella funzione “omeostatica” che l’ordinamento assegna alle clausole generali: ossia quella di mantenere la stabilità del sistema garantendo la sintonia del diritto rispetto ai mutamenti temporali e all’evoluzione socioeconomica (9). Ora, è stato, condivisibilmente sottolineato come sia indubbio che per un compiuto svolgimento del “discorso” giuslavoristico non può ritenersi corretto né accettabile prescindere da quei concetti che ne costituiscono l’innervatura portante e gli forniscono il vocabolario basico, non reperibili altrove se non nel diritto privato (10); strumenti che rimangono, altresì, indispensabili per la conduzione del dialogo entro un perimetro culturale sufficientemente ampio, ossia non delimitato dai confini della materia. Tuttavia, come pure è stato riconosciuto da altra dottrina, forse il cospicuo debito scientifico assunto nei confronti della dottrina privatistica non è stato onorato correttamente (11), almeno per ciò che concerne le trattazioni in tema di clausole generali (e dunque senza voler esprimere considerazioni di respiro più ampio). Ciò non tanto e non solo in relazione all’esigenza, rimasta spesso insoddisfatta, di selezionare strumenti ermeneutici in grado di arginare una dilatazione incontrollata del potere valutativo del giudice. L’impressione che si ricava da una visione di insieme della letteratura in materia di clausole generali nel diritto del lavoro è, piuttosto, che su questo versante si sia registrata una ridotta (9) Così definita da Rodotà, 2009, 103. (10) Mazzotta, 1991, ora 1994, 25. E si veda già Mengoni, 1990, 10 ss. (11) Carinci, F., 2007, XCV. 68 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore propensione o forse una certa recalcitranza all’adattamento dei modelli privatistici alle peculiarità ordinamentali, o meglio pluriordinamentali della nostra disciplina (12); e ciò con particolare riferimento, si diceva, alla collocazione del contratto collettivo come primo ed imprescindibile canale di concretizzazione di una serie notevolmente ampia di precetti generali o elastici, il cui intervento si manifesta in un momento logicamente anteriore rispetto al momento della verifica giudiziale. Del resto, è pacifico come, nonostante alcune definizioni tradizionali le confinino nell’area delle tecniche di decisione delle controversie giudiziali, non possa dirsi che le clausole generali operino solamente come una regola di giudizio, ed in questo si distinguono profondamente, come autorevolmente sottolineato, dall’equità (13). Le clausole generali si atteggiano, innanzitutto, come una tecnica legislativa (14) e, quindi, ancor prima che nella dimensione giudiziale, operano come regole di costruzione di una fattispecie che, nel particolare contesto in cui ci si colloca, è destinata ad inverarsi nel contesto della disciplina negoziale del rapporto di lavoro. È certo che, come è stato di recente ribadito, la mediazione interpretativa giudiziale non può non rappresentare di per sé stessa una componente di sistema irrinunciabile in un diritto ad alta densità valoriale come il nostro, dove così spesso gli interventi della giurisprudenza hanno assecondato, attraverso l’interpretazione delle norme sostanziali, la penetrazione dei principi costituzionali in un apparato normativo non progettato per recepirli (15). Così come, per converso, appare condivisibile ed anzi sarà ripetutamente rimarcata nel prosieguo, la puntualizzazione secondo la quale il giudice, nell’ambito del controllo degli atti di esercizio dei poteri datoriali, non può e non deve esimersi dall’includere in questa valutazione anche la verifica dalla conformità di (12) Connotazione pluriordinamentale sui cui riflessi si tornerà, al termine dell’indagine, nel paragrafo conclusivo. (13) Mengoni, 1986, 13 e, da ultimo, Roselli, 2014, 224. (14) Rimane imprescindibile il riferimento a Engisch, 1970, spec. 170 ss., sul punto 192. Sulle clausole generali come tecnica legislativa cfr., altresì, Di Majo, 1983, 347. (15) Del Punta, 2012, 466. 69 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore tali atti agli standards socialtipici a cui le parti dei rapporti di lavoro normalmente si ispirano (16). Molti interpreti hanno messo in evidenza le ragioni, sistematiche e di politica del diritto, che inducono a insistere sull’imprescindibilità e l’intangibilità della funzione giurisdizionale e la sua non sostituibilità con strumenti di fonte legale che perseguano scopi deflattivi o dissuasivi del contenzioso e che siano impostati su giustificazioni meramente economicistiche dell’esercizio dei poteri datoriali. Altrettanto valide sono le ragioni che rendono necessario, al contempo, volgere l’attenzione anche all’esigenza (17) di contrastare, nei limiti delle possibilità offerte dall’ordinamento, quei fenomeni di “opportunismo metodologico” che molte volte ed è un dato di esperienza difficilmente confutabile, si manifestano proprio sotto la veste di una lettura e di un’applicazione poco sorvegliate delle clausole generali. Tenendo conto di questa esigenza, l’impegno che ci si propone di assolvere è quello di verificare in che modo la reciproca integrazione di fonti che connota il diritto del lavoro e che si realizza nel connubio tra precetto legale e regola di fonte collettiva può condizionare, per il tramite dei passaggi ermeneutici metodologicamente connessi alle clausole generali, il “riempimento” di senso e significato degli enunciati normativi che vengono fatti confluire, nel discorso scientifico nonché — a volte — anche nel lessico legislativo, nella macro-categoria delle clausole generali. 1.2. Sulla nozione di clausola generale (rinvio al successivo n. 2). La seconda premessa prende le mosse dalla constatazione per cui questa parziale emarginazione dell’autonomia collettiva dallo scenario ricostruttivo delle clausole generali trova una parte di spiegazione anche nella scelta di un orizzonte teorico di riferimento delimitato dai confini di un’accezione alquanto ristretta della locuzione “clausole generali” come quella che viene adottata nella (16) Santoro-Passarelli, G., 2013a, 515 ss.; Perulli, 2014, 286; Ferraro, 2011a, 8 ss.; Magnani, 2013, 780. (17) D’Antona, 1990, ora 2000, 60, affermazione ripresa da Persiani, 2000, 29. 70 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore maggior parte degli studi in materia, sebbene questa scelta, come si vedrà, non rappresenti l’unica opzione teorica praticabile. Del resto, anche entro i più circoscritti confini della legislazione lavoristica, il ventaglio delle disposizioni normative rientranti in quest’area viene considerato da molti interpreti, da buona parte della giurisprudenza nonché, ora, dal legislatore (art. 30 della legge 4 novembre 2010, n. 183) come un territorio più vasto rispetto al ridotto perimetro degli obblighi di correttezza e buona fede (18). Di qui la scelta (le cui motivazioni saranno illustrate più dettagliatamente nel paragrafo successivo) dell’adozione, in questa sede, di un campo di osservazione più esteso, composto in prevalenza da previsioni legislative che vengono nella maggior parte dei casi definite non come clausole generali, bensì come norme di tipo “aperto” o “elastico”. Previsioni legislative che appaiono tra loro accomunate dal fatto di prestarsi connaturalmente ad essere riempite di contenuto (principalmente) dalla contrattazione collettiva, efficacemente definita come “il principale se non esclusivo canale di mediazione tra l’astratto precetto legale e la concretezza dei rapporti di produzione” (19). Da questo punto di vista la ricognizione non potrà, comunque, non risultare in una certa misura limitata, in ragione della potenziale vastità di questo ipotetico aggregato normativo. Il criterio selettivo e di orientamento che sarà seguito, oltre all’inevitabile componente soggettiva insita nella valutazione di importanza dei diversi referenti normativi, trova nell’intitolazione la sua sostanza e la sua giustificazione: ciò in quanto l’attenzione sarà concentrata sulle fattispecie normative che, oltre a possedere le caratteristiche normalmente ascritte alle “clausole generali” in senso ampio, presentano al contempo maggiori elementi di interconnessione con le manifestazioni dell’autonomia collettiva. (18) Per esempi dell’attribuzione di un significato maggiormente ampio all’espressione “clausola generale” possono essere esemplificativamente citati, sin da ora, Napoli, 1980, 105 (a proposito della giusta causa di licenziamento; più recentemente, Carinci, M.T., 2011, 796 ss. contro questa qualificazione, Nogler, 2007, 621; e si veda, comunque, in senso diverso, ancora, Napoli, 1993, 91); Brollo, Vendramin, 2012, 546 (con riferimento al concetto di equivalenza delle mansioni; e in precedenza, nello stesso senso, Liebman, 1993, 207); Vallebona, 2001, 62 (sulla generale condizione di legittimità del contratto a tempo determinato come definita dall’art. 1 del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, nella sua originaria formulazione). (19) De Luca Tamajo, 1976, 141. 71 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore 1.3. Sul rapporto tra clausole generali (anche in veste di “norme elastiche”) e funzioni del contratto collettivo. Come terza premessa, l’angolo visuale qui prescelto induce a confrontarsi con alcuni profili di ordine più generale in merito alla funzione regolativa del contratto collettivo (20) e al suo rapporto con alcune particolari tipologie di norme inderogabili ossia, come già detto, quelle che si caratterizzano rispetto ad altre sottocategorie di precetti legislativi, per una connotazione che riceve, nei differenti studi civilistici e di teoria generale, le variabili e per lo più fungibili denominazioni di elasticità, apertura, indeterminatezza, vaghezza. Si può dire che l’analisi di questa forma di applicazione o attuazione delle norme generali attraverso l’intervento integrativo dell’autonomia collettiva, almeno in una visione di insieme, rappresenti tuttora una prospettiva che non viene frequentemente visitata (21). Questo accade anche perché in generale si rimane prevalentemente ancorati, a partire dalla manualistica, ad una concezione sotto certi aspetti monolitica della funzione normativa del contratto collettivo come atto negoziale preordinato in generale alla regolamentazione dei rapporti individuali di lavoro. Adottando questa prospettiva, tuttavia, si omette di distinguere tra i contenuti del contratto collettivo che sono frutto esclusivo dell’incontro di volontà delle parti e le diverse statuizioni a monte delle quali si colloca un fondamento legale, spesso rinvenibile proprio in una clausola generale. Non manca certamente, tuttavia, seppur raramente esplicitata, la consapevolezza dell’esistenza di diversi piani di rilevanza giuridica del contratto collettivo, a seconda che esso si sostanzi esclusivamente in un atto di autonomia privata collettiva ed investa materie non riconducibili a diritti attribuiti al prestatore di lavoro da specifiche disposizioni normative, ovvero che concorra (20) Il termine viene utilizzato in un’accezione prossima a quella proposta da Nogler, 1997, spec. 137 ss. (21) Spicca per densità, tra i pochi approfondimenti del tema, quello di De Luca Tamajo, 1976, 108 ss. 72 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore all’attribuzione di diritti soggettivi riconosciuti da norme inderogabili di legge (22). Le clausole del contratto destinate ad incidere sul rapporto individuale di lavoro (e prescindendo tanto dalle clausole riconducibili alla parte obbligatoria quanto da quelle attuative di specifici rinvii legali di carattere integrativo o derogatorio) da questo punto di vista, potrebbero essere suddivise in tre raggruppamenti, a seconda: — che, in mancanza di un fondamento normativo puntuale e, quindi, di uno specifico obbligo legale, rappresentino il solo ed esclusivo frutto dell’incontro di volontà delle parti e che, dunque, rappresentino una mera esplicazione dell’autonomia negoziale collettiva garantita dall’art. 39 Cost. (gli esempi potrebbero essere i più svariati; si pensi a tutti i trattamenti connessi all’anzianità di servizio, e in generale, almeno secondo la giurisprudenza prevalente, a tutti i trattamenti retributivi accessori che non rientrano nel trattamento minimo “coperto” dalla garanzia costituzionale dell’art. 36, primo comma, Cost. (23); ovvero, in ogni caso, a tutti i trattamenti che trovano la loro esclusiva fonte regolativa nel contratto collettivo); — che, nell’ambito della generale funzione di determinazione dei trattamenti minimi legalmente riconosciuti, provvedano ad operare una individuazione puntuale, per lo più di carattere meramente quantitativo dei contenuti di un diritto garantito da norme inderogabili di legge (come accade, ad esempio, per le ferie ovvero per il periodo di comporto; non rientrano in questo raggruppamento le clausole relative al trattamento retributivo, la cui articolata composizione, come è noto, rinvia a referenti normativi molteplici e distinti); — ovvero, che intervenendo a valle e in attuazione di un disposto normativo di carattere “generale” ossia “elastico”, assolvano la funzione di concretizzazione dello stesso, realizzando le direttive ricavabili dalla formulazione legale al fine di adattare il precetto al contesto sociale in cui lo stesso deve trovare applicazione. (22) In questa prospettiva, in particolare, Vardaro, 1985, 412 s. (23) da ultimo, si vedano Cass. 17 aprile 2004, n. 7353; Cass. 13 maggio 2002, n. 6878; Cass. 12 dicembre 1998, n. 12528; Cass. 6 aprile 1998, n. 3532; in dottrina, recentemente, Ichino, 2010, 740. 73 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore L’attenzione verrà focalizzata sugli istituti collocabili all’interno di quest’ultimo raggruppamento, concentrandosi, pertanto la visuale su quelle che sono state definite (24) come qualificazioni derivate di tipo mediato, nelle quali la legge enuncia una fattispecie congenitamente bisognosa di integrazioni o comunque aperta, anche in via alternativa rispetto alla regolamentazione legale, a questo tipo di interventi finalizzati ad integrare o specificare una previsione legislativa di carattere generale, anche in assenza di un rinvio espresso alla contrattazione collettiva. In ambedue le ipotesi b) e c) sopra elencate, l’efficacia del contratto collettivo si combina con quella della norma legale, con la differenza che, nel primo caso, prevale l’aspetto della mera commisurazione, ossia della determinazione, si è detto, di tipo quantitativo dei trattamenti che la norma legale definisce come dovuti, a fronte di un rinvio espresso o tacito, senza che per ricostruire il significato della norma sia necessario ricorrere a sistemi valoriali diversi da quelli espressi dall’ordinamento positivo. Invece nell’ultimo caso, quello sub c), l’operazione di adattamento della fattispecie assume una connotazione del tutto differente perché si sostanzia nell’elaborazione e nel conferimento di un significato puntuale ad espressioni legislative che necessitano, per poter acquisire una compiutezza di significato, di essere sempre “filtrate” attraverso la lente della realtà sociale, nella veste degli schemi comportamentali (autorevole dottrina — A. Falzea (25) — parla di “regole etiche”, con un’espressione estensibile anche all’ethos dei rapporti economici), schemi che assumono la denominazione di standards valutativi. In altri termini, l’autonomia collettiva concorre alla determinazione del significato di norme che, da sole (ma si è consapevoli che questa lettura non riscuote un consenso unanime), non potrebbero mai prestarsi a costituire la premessa maggiore di un sillogi(24) Si intende qui riprendere la classificazione operata all’interno di uno studio in cui è stata proposta una raffigurazione assai dettagliata delle diverse sfaccettature del generale fenomeno dell’efficacia normativa dei contratti collettivi, con particolare riferimento alla funzione di qualificazione della fattispecie: Pedrazzoli, 1990, 562. Sul possibile modello di interazione permanente e di continuità dinamica tra legge e contratto collettivo cfr. anche Ferraro, 1981, 294. (25) Falzea, 1987, 3 ss. 74 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore smo applicativo, perché necessitano sempre di una “traduzione” a cui si perviene attraverso l’utilizzo di criteri di valutazione esterni rispetto a quelli legali da ricercare, secondo la terminologia più frequentemente utilizzata dai civilisti, nella “realtà sociale”. Si sottoporranno ad analisi, dunque, le varie forme nelle quali si manifesta questo particolare risvolto del rapporto tra legge e contrattazione collettiva ovvero, come si vedrà, prende corpo una particolare ed implicita figura di rinvio legale, spesso implicito, al contratto collettivo, della quale sono emerse solo parzialmente o per lo meno raramente sono state contestualmente passate in rassegna le diverse implicazioni di sistema. L’utilità di un avvio di riflessione organica su questa particolare forma di intervento dell’autonomia collettiva trova, peraltro, conforto proprio nelle più recenti riletture del tema delle clausole generali da parte della dottrina civilistica, dove è avvertita come un elemento di novità la circostanza che, in molti settori dell’ordinamento, la realizzazione delle finalità affidate alle clausole generali non è più rimessa in via esclusiva alla mediazione del giudice, ma viene realizzata ricorrendo a diversi strumenti e a più varie tecniche legislative (26). Eppure, queste forme di “concretizzazione” alternativa e, in particolare, mediante la mediazione dell’autonomia collettiva costituiscono una realtà talmente consolidata nel diritto del lavoro da aver meritato anche, nel periodo più recente, alcune importanti puntualizzazioni a livello legislativo. La molteplicità e il grado di eterogeneità di queste fattispecie sono tali da meritare un’indagine che, una volta chiarite le giustificazioni teoriche della delimitazione del campo di indagine, si orienterà verso un’analisi di tipo funzionalistico, ossia improntata prevalentemente alla ricognizione delle diverse modalità e rationes con le quali opera il connubio tra la previsione legislativa e la sua concretizzazione ad opera del contratto collettivo, nel tentativo di ricavare, da questa visione di insieme, alcune indicazioni in merito a queste particolari forme di integrazione tra fonti operanti nell’area dell’ordinamento statuale e fonti operanti in quella dell’ordinamento sindacale. (26) Rodotà, 2009, 107. 75 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore 2. La nozione di riferimento: asserita dicotomia tra “clausole generali” e “norme elastiche” e spunti per un suo possibile superamento. I temi o motivi principali del dibattito civilistico sui quali si ritiene utile soffermarsi sono tre e riguardano i sottotemi della nozione o le nozioni di riferimento; del concetto di standard valutativo; della distinzione tra clausole o norme generali e principi. Il primo sottotema evoca l’interrogativo, da tempo discusso e oggi tornato di attualità in ragione dei recenti sviluppi legislativi, del significato attribuibile all’espressione “clausola generale” e della delimitazione contenutistica di questa categoria della scienza giuridica. Si sta parlando — è opportuno rammentarlo perché nella teoria delle clausole generali il discorso ricostruttivo e quello prescrittivo tendono a sovrapporsi —, non di una categoria del diritto positivo e come tale definita dallo stesso legislatore, ma di una categoria che è frutto di una formulazione teorica che l’interprete potrebbe anche riscrivere ex novo, con il solo onere di chiarire i termini della convenzione stipulativa che induce a formulare tale nuova proposta di categorizzazione (27). Non sembra necessario, tuttavia, cimentarsi in alcun nuovo tentativo definitorio, apparendo sufficiente spiegare le ragioni per le quali, nell’ottica del presente lavoro, la categoria “clausola generale” possa essere intesa come comprensiva anche di alcune fattispecie come quelle che vengono abitualmente ascritte al sottogruppo delle c.d. norme elastiche e che secondo alcune impostazioni teoriche dovrebbero rimanerne escluse. È stato riconosciuto come in prima stagione di studi, trascorsa tra gli anni sessanta e settanta, quello di clausola generale era stato considerato un concetto di cui non si avvertiva la necessità teorica di spiegare più minuziosamente il significato, venendo assunto come una nozione giuridica non bisognosa di più puntuali chiari(27) Conforme, nella letteratura recente, l’opinione di Guarneri, 1999, 133, il quale osserva come “le opposizioni concetti indeterminati/determinati, concetti normativi/descrittivi, concetti discrezionali/concetti a valutazione oggettivamente vincolata, regole casistiche/clausole generali sono soltanto relative, ben potendo una fattispecie essere classificata ora in un modo ora, invece, in modo opposto, in relazione al tipo di parametro preso a riferimento”. 76 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore menti (28).Viceversa, la ripresa del dibattito sulle clausole generali negli anni ottanta è coincisa con il proliferare di una serie di tentativi tassonomici così fitta da indurre una dottrina a constatare come la varietà tassonomica delle clausole generali possa apparire ormai per alcuni tratti assolutamente labirintica (29). Ai fini che qui interessano e nell’impossibilità di confrontarsi con una serie molto ampia di classificazioni, distinzioni e sottodistinzioni via via proposte nel corso degli anni (30), appare sufficiente dare risalto a quella che riveste maggiore importanza ai fini che qui interessano. Si allude alla linea di demarcazione che separa le clausole generali, per così dire in senso stretto o tradizionale (tra le quali si richiamano, ad esempio, quelle di buona fede, correttezza, buon costume) che, seguendo l’insegnamento di Mengoni, sarebbero definibili come “frammenti di norme” che “non hanno una propria autonoma fattispecie, essendo destinate a concretizzarsi nell’ambito dei programmi normativi di altre disposizioni (31)”, e quelle che, con terminologia varia, sono state denominate come norme “elastiche” (32), “generali” (33), “aperte” (34), “concetti giuridici indeterminati” (35), ovvero “norme di condotta a fattispecie indeterminata” (36). In questa ricostruzione, tuttora ampiamente accettata e seguita (37) nei nostri studi settoriali (38), le norme o precetti generali (il cui più importante e citato esempio sarebbe offerto dalle disposizioni in materia di giusta causa e giustificato motivo soggettivo di licenziamento) per le quali viene prevalentemente utilizzata la definizione di norme elastiche, rappresenterebbero un (28) Castronovo, 1986, 21. (29) Libertini, 2011, 345 ss. (30) Sul rischio latente che tale impegno classificatorio rischi di risolversi in una mera questione nominalistica, tra gli altri, Guarneri, 1999, 134. (31) Mengoni, 1986, 13. (32) Di Majo, 1984, 539. (33) Mengoni, 1986, 9. (34) Taruffo, 1989a, 312. (35) Rodotà, 1987, 726. (36) Libertini, 2011, 363. (37) Si veda, ad es., Gazzoni, 2006, 49. Per una rivisitazione del pensiero di Mengoni in materia di clausole generali si veda Nivarra, 2007, spec. 165 ss. (38) In particolare, si vedano Carinci, M.T., 2011, 789 ss.; Nogler, 2011, 928; Perulli, 2014, 281; nello stesso senso, a quanto sembra, Speziale, 2001, 374. 77 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore aliud rispetto alle clausole generali in senso proprio. Le norme generali o “elastiche” (39), sarebbero, a differenza delle clausole generali, norme già “complete”, composte di una fattispecie e di un comando, con la sola particolarità che la prima sarebbe formulata non in maniera puntuale ma mediante una categoria riassuntiva, “per la cui concretizzazione il giudice è rinviato volta a volta a modelli di comportamento e a stregue di valutazione obiettivamente vigenti nell’ambiente sociale in cui opera (40)”. In questa prospettiva, solo in sede di applicazione delle clausole generali stricto sensu ricorrerebbe l’esigenza di pervenire ad un significato “sintetizzato” (ad opera del giudice) mediante il confronto con altri sub sistemi sociali, i cosiddetti standard valutativi. Viceversa, nel caso delle norme aperte o elastiche, detto significato sarebbe frutto di una “selezione” rispetto ad una serie di significati già “dati”, ossia immanenti, preesistenti e richiamati dalla legge con un’espressione di tipo sintetico o riepilogativo. Di guisa che i concetti indeterminati accolti nelle norme elastiche sarebbero tali solo linguisticamente, mentre le clausole generali lo sarebbero sul piano del valore (41). Molti studi, nel recente passato, hanno accettato il postulato della radicale eterogeneità tra questi due fenomeni normativi e dunque l’idea che quelle tradizionalmente definite quali norme generali o elastiche non possano ascritte alla categoria delle clausole generali. Questa opzione teorica viene motivata anche evidenziando che la sopravvalutazione dell’elemento dell’indeterminatezza quale connotato caratterizzante delle clausole generali recherebbe in sé il rischio di condurre ad “identificare queste ultime con ogni concetto indeterminato o elastico cosicché la categoria in esame, dilatata a dismisura, verrebbe a perdere ogni autonoma rilevanza giuridica per tramutarsi in una mera formula linguistica e descrittiva” (42). Con l’accentuazione dell’inidoneità dell’elemento della “vaghezza” delle norme a fungere da tratto unificante della categoria (39) La scelta lessicale è condivisa da Rescigno, 1998, 3 e da Roselli, 1983, 153 s. (40) Mengoni, 1986, 9. (41) Castronovo, 1986, 24. (42) Tullini, 1990, spec. 19 ss. nella stessa prospettiva, successivamente, Saffioti, 1999, spec. 6 ss.; sulla indeterminatezza quale caratteristica di tutte le norme giuridiche, sebbene presente in grado diverso, classicamente, Hart, 2002, 146 ss. 78 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore si replica indirettamente a quelle critiche che, viceversa, erano state sollevate già negli anni ottanta nei confronti della distinzione tra clausole generali e norme elastiche da parte di chi evidenziava come tale suddivisione rischiasse di apparire come una mera questione nominalistica (43). Questa critica espressa, tra i primi, da Rodotà veniva ad inserirsi in quel filone di pensiero (44), secondo i cui esponenti il tratto comune e quantitativamente (non qualitativamente) più accentuato tanto delle disposizioni tradizionalmente qualificate come clausole generali in senso stretto, quanto di quelle rientranti nella categoria delle norme elastiche/aperte/a contenuto indeterminato, sarebbe rappresentato dall’elemento dell’indeterminatezza che pure, in misura maggiore o minore caratterizza ogni enunciato normativo. Questo a significare che, per rifarsi ad un esempio frequentemente utilizzato, quella intercorrente tra le clausole generali di buona fede e correttezza e la “giusta causa” di recesso, potrebbe essere letta come una mera differenza di grado (maggiore o minore indeterminatezza) e non di natura del precetto. Posto che l’interpretazione si concretizza sempre nella scelta tra più significati normativi, è stato sottolineato come “ciò che varia da caso a caso non è la necessità della scelta, ma la gamma di alternative entro la quale essa va compiuta: essa è più limitata per enunciati tecnicamente formulati in modo dettagliato e preciso ed è progressivamente più ampia se si tratta di enunciati generali e ambigui, se essi contengono ‘concetti valvola’ o clausole generali o se si tratta di affermazioni di principio come nel caso di norme costituzionali” (45). Secondo questa corrente critica, i tratti dell’indeterminatezza e dell’apertura non rappresenterebbero, pertanto, i requisiti esclusivi di quelle che in altri scenari dottrinali assumono la denominazione di “clausole” generali “in senso tecnico” o stretto (ad es. correttezza e buona fede), ma ricorrerebbero in ogni previsione normativa caratterizzata da una struttura semantica aperta, le quali tutte presenterebbero una identica sequenza di ragionamento diversa dal classico schema sussuntivo. (43) (44) (45) Rodotà, 1987, 725. Cfr. D’Amico, 1989, 426 ss.; Belvedere, 1989, spec. 633 ss. Taruffo, 1989b, 5. 79 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Tale differenza si basa sul fatto che per la ricostruzione del significato della norma è sempre necessario rifarsi ad un elemento esterno rispetto al dato testuale, vale a dire il c.d. standard valutativo. La fattispecie concreta, anziché essere esaminata sulla base dei significati espressi dalla norma, viene valutata sulla base degli standards che il giudice individua come più consoni al significato della norma e diviene oggetto di decisione sulla base di questa valutazione. Tale procedimento viene adottato, in realtà per l’applicazione sia delle clausole generali tradizionalmente intese sia delle norme elastiche, riconoscendosi che “concetti indeterminati e clausole generali, forse distinguibili ex latere legislatoris, perdono la loro diversità nel momento dell’applicazione” (46). In altri termini, secondo questa lettura, anche la formulazione della fattispecie “in termini riassuntivi” ossia secondo il modello della c.d. norma generale descritto da Mengoni, non esime l’interprete dal compito di operare una concretizzazione della fattispecie stessa che si risolve nella valutazione della rispondenza del fatto alla misura di comportamento indicata dal legislatore e desumibile da quei parametri extralegali (ossia dagli standards) valevoli per la categoria sociale alla quale la norma stessa si riferisce (47). Il che equivale, in buona sostanza, a riconoscere che anche le norme generali o elastiche, in realtà, necessitano di quella specificazione del significato mediante quel ricorso a standard che viene normalmente denominata, in dottrina, con l’espressione “integrazione valutativa”; ciò che ha indotto una dottrina tra le più sensibili alle problematiche dell’applicazione giurisprudenziale di tali precetti normativi, a riconoscere come i concetti di clausola generale e di norma elastica siano sostanzialmente equipollenti (48), ovvero ha portato altri ad ammettere la difficoltà di individuare criteri distintivi realmente attendibili con riguardo alle modalità di concretizzazione di queste due sottospecie di enunciati normativi (49). (46) Castronovo, 1986, 24; l’osservazione è condivisa da Zoli, 1988, 228. (47) Castronovo, 1979, in particolare 102 ss., dove è richiamata adesivamente, tra le altre, la definizione di Class, 1961, che identifica i “lineamenti” della clausola generale nel rinvio a determinazioni extragiuridiche e nell’indeterminatezza del suo contenuto. (48) Roselli, 1983, 7 ss.; per la identificazione tra concetti ampi ed elastici e clausole generali cfr. anche Roppo, 2010, 13. (49) Nivarra, 2002, 374 s. 80 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Questi rilievi critici inducono a revocare in dubbio la nitidezza della distinzione dogmatica tra clausole generali e norme elastiche sebbene, d’altro canto, sia condivisibile il rilievo per cui la qualificazione di una norma come clausola generale non può farsi dipendere esclusivamente dal suo grado di vaghezza. Venendo su un terreno a noi più prossimo, i dubbi che giustificano tali tentativi di superamento della distinzione trovano ulteriori spunti di conferma, proprio con riferimento al rapporto di lavoro, nell’apparente o a volte esplicitamente dichiarata circolarità di quelle ricostruzioni che, partendo dall’accettazione assiomatica di tale distinzione, finiscono però paradossalmente per offuscarla laddove prefigurano l’assoggettabilità a controllo degli atti di esercizio dei poteri imprenditoriali il cui esercizio è regolato da norme elastiche (ad es. in tema di esercizio del potere disciplinare) indicando come referenti normativi di tale controllo gli stessi principi di buona fede e correttezza (50). In effetti, affermando che anche le norme generali o elastiche divengono suscettibili di valutazione alla luce delle clausole generali si perviene implicitamente, o almeno così pare, a rimettere in discussione proprio ciò che in partenza si vorrebbe rimarcare, ovvero la separatezza e l’intrinseca diversità tra i due gruppi di norme. In chiave attuale, la questione relativa alla possibile dicotomia tra clausole generali e norme elastiche è tornata in evidenza con riferimento all’interpretazione dell’art. 30, primo comma, della legge 4 novembre 2010, n. 183, in materia di controllo giudiziale sull’applicazione delle clausole generali nei rapporti di lavoro subordinato e nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa: alcuni hanno letto il richiamo alle clausole generali come una mera imprecisione terminologica (51), altri hanno tratto argomento dall’asserita improprietà linguistica per esprimere l’idea che la norma sia praticamente inapplicabile proprio perché non include nel richiamo normativo le norme elastiche (52). Secondo una recente e più articolata lettura dedicata al significato di questa norma, invece, se da una parte il richiamo legislativo può essere letto come effettivamente riferito alle norme ela(50) (51) (52) Di Majo, 1983, 350. Carinci, M.T., 2011, 790; Ferraro, 2011a, 6; Pellacani, 2010, 230. Nogler, 2011, 929. 81 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore stiche, l’applicazione di tale norma influirebbe indirettamente anche sull’applicazione delle clausole generali, per così dire stricto sensu. Questo perché è stato sostenuto che, secondo una logica di necessaria e imprescindibile circolarità, all’applicazione delle norme elastiche si abbinerebbe sempre una contestuale valutazione della fattispecie concreta alla luce delle clausole generali di correttezza e buona fede (53), “in quanto le prime forniscono precipitato di criteri e parametri derivanti dall’ambiente sociale e dei suoi valori, anche integrativi rispetto al dettato contrattuale e legale, alla luce del quale valutare il comportamento delle parti; le seconde, che pure abbisognano di un intervento anche integrativo del giudice, recepiscono e modellano quei criteri e parametri nella fattispecie considerata dalla norma elastica” (54). Da una parte, una simile ricostruzione alimenta l’idea di una stretta compenetrazione, se non quasi di commistione, tra le norme elastiche e le clausole generali degli artt. 1175 e 1375 c.c. Per altro verso, occorre prendere atto che si perviene in tal modo ad avallare l’idea di un’applicazione delle clausole generali che richiede una serie di passaggi estremamente tortuosa e complessa: prendendo le mosse dalla norma elastica, l’interprete sarebbe chiamato in ogni caso ad operarne una lettura alla luce dello standard valutativo tratto dal contesto sociale. Gli esiti di questa lettura, però, in seconda battuta, richiederebbero di essere ulteriormente “filtrati” e “reinterpretati” dal giudice mediante l’applicazione delle clausole generali di buona fede e correttezza. Ci si deve chiedere se tale ricostruzione risponda effettivamente alla logica funzionale delle clausole generali, riassunta nelle tradizionali metafore delle “finestre affacciate sulla realtà” ovverosia di “organi respiratori” (55) del diritto oppure se, per sfruttare ulteriormente la metafora, non sia una visione che finisca per esaltare oltremisura le pretese virtù purificatrici del “filtro” giudiziale, prestando per altro verso il fianco a possibili alterazioni di (53) Simile, quindi, a quella già prefigurata da Di Majo, 1983, 349 s. (54) Perulli, 2014, 283. Non rientrano tra i temi affrontati in questa sede le implicazioni, anche di legittimità costituzionale, che vengono tratte in questa ricostruzione dalla teorizzata incidenza della norma del “collegato lavoro” sull’applicazione delle clausole generali. (55) Polacco, 1908, ora 1928, 61. 82 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore significato degli elementi di realtà sociale che, attraverso il sistema di osmosi garantito dalle clausole generali, dovrebbero coadiuvare la concretizzazione del precetto legislativo. Se la generale finalità cui questi precetti legislativi rispondono è quella di consentire l’integrazione tra il dato normativo e quelli offerti dai sub-sistemi di regole sociali esterni al sistema delle fonti in senso formale, permettere al giudice di rielaborare i secondi in nome di un’astratta coerenza con i primi rischia, in altre parole, di vanificare il senso dell’apertura. Ciò che Di Majo e successivamente Persiani hanno colto con grande acutezza quando hanno sottolineato come non possa pervenirsi a spiegare il contenuto di una clausola generale con un’altra clausola generale (56). In buona sostanza, questo è proprio quello che accadrebbe se, seguendo l’impostazione alla quale si è fatto riferimento, il significato di ogni norma elastica dovesse essere sempre messo a fuoco attraverso la lente degli obblighi di buona fede e correttezza ovvero, ed è questo il rischio implicito in tale lettura, attraverso le non sempre prevedibili declinazioni giurisprudenziali del contenuto di tali obblighi. Per questa ragione l’impostazione che esalta la pretesa “propensione espansiva” degli obblighi di correttezza e buona fede, ossia la loro influenza sull’applicazione delle c.d. norme elastiche non sembra apportare argomenti decisivi né ai fini di né di chiarire le differenze di contenuto e di struttura tra queste ultime e le norme elastiche, né al contempo appare come un utile via di approccio per l’individuazione di elementi comuni alle une e alle altre. 3. Le clausole generali come norme di rinvio. Sono state esposte le ragioni che inducono a nutrire riserve sulla onnivalente utilità teorica della distinzione tra clausole generali e norme elastiche così come è stata data per acquisita per quasi un trentennio nell’ambito della nostra materia. Procedendo alla ricerca di un criterio di aggregazione alternativo si parte, come già detto, dalla constatazione per cui l’idea che il tratto unificante delle varie sottospecie normative potenzialmente rientranti nella (56) Di Majo, 1989, 2758; Persiani, 1995a, 138. 83 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore categoria delle clausole generali in senso ampio possa essere rappresentato solo dall’elemento della loro vaghezza o indeterminatezza, non appare da sola persuasiva. Da un lato, infatti, occorre tener conto della già riferita osservazione secondo cui tutti gli enunciati normativi presentano un certo grado, a volte minimo in altri casi più pronunciato, di vaghezza o possibile incertezza di significato, così che da sola questa caratteristica non sembra poter consentire di isolare una categoria normativa autonoma. D’altra parte si deve riconoscere che, quanto più si riconosce rilevanza, nel delineare la fisionomia delle norme rientranti nella definizione di clausola generale, all’elemento della vaghezza o indeterminatezza della norma, tanto più risulta elevato, nella ricostruzione del suo significato, il “peso” della concretizzazione di matrice puramente giudiziale. Così che quanto più la norma venisse intesa come vaga o a fattispecie indeterminata, tanto più la sua attitudine a regolare comportamenti sociali attraverso criteri di valutazione sufficientemente prevedibili a priori risulterebbe messa in discussione. Vi è, per converso, sufficiente concordia sul fatto che la conoscibilità e prevedibilità dei criteri valutativi sono le condizioni che più di ogni altra garantiscono l’assolvimento da parte delle clausole generali di quella funzione di adeguamento dell’ordinamento alla tipicità sociale che attraverso esse il legislatore intende perseguire (57). In una prospettiva diversa e maggiormente persuasiva si orienta un diverso approccio dottrinale, per alcuni versi di lontana (57) Tra gli altri, Mengoni, 1986, 15; Rodotà, 1987, 726; Di Majo, 1985, 304. In tema di prevedibilità dei comportamenti dovuti giova il classico riferimento a Neumann, 1983, 398, per l’affermazione secondo la quale la visione del contratto di lavoro come contratto obbligatorio implica che le prestazioni siano esattamente determinate e calcolabili “per cui né le autorità giudiziarie né quelle amministrative possono imporre ulteriori obblighi o sopprimere diritti esistenti” (sulla valenza “straordinariamente progressista” di tale impostazione cfr. Gaeta, 2003, 191 e, più recentemente, Viscomi, 2012, 446). Calcolabilità che dovrebbe essere garantita dalla “massima precisione” nella delimitazione per via legislativa o negoziale delle rispettive sfere obbligatorie. Osserva Viscomi, 1997, 138 commentando Neumann, che proprio nelle riflessioni sulle clausole generali si registrerebbe un grave deficit di precisione e dunque potenziale un punto di instabilità dell’assetto obbligatorio; proprio ciò che induce a verificare in questa sede la possibilità di qualche margine di progresso in questa direzione. 84 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore ascendenza ma reinterpretato in chiave moderna; approccio che prende le mosse dalla già ricordata constatazione per cui non sembra configurabile un nesso necessario tra la caratteristica della generalità o indeterminatezza della norma ed il concetto di clausola generale, cosicché il tratto saliente delle clausole generali deve essere ricercato altrove. Secondo questa impostazione, il connotato caratterizzante delle norme o frammenti di norma rientranti nella definizione di “clausola generale” va individuato nella loro essenza di enunciati normativi che sia pure in maniera implicita e potenzialmente pluralistica (ossia lasciando all’interprete l’opzione tra la scelta dello standard più adeguato), funzionano come vere e proprie norme di rinvio a parametri o standards definiti come extralegali, ossia a criteri di valutazione, sistemi valoriali o regole etiche (la terminologia usata in dottrina è varia) che vengono elaborati al di fuori dell’ambito del sistema delle fonti formali (58). In questi termini, appare maggiormente evidente come le clausole generali non vadano intese come fondamento di un potere “creativo” originario del giudice (59), quanto piuttosto come fondamenti di un suo dovere “ricettivo” degli elementi di realtà sociale (60). Si sottolinea, per enfatizzare il senso del “rinvio”, che la c.d. concretizzazione in sede giudiziale della clausole generali non implica mai il conferimento al giudice del potere di produrre una norma totalmente nuova. Queste premesse hanno offerto lo spunto alla dottrina richiamata da ultimo per elaborare uno sviluppo ricostruttivo ulteriore. Questo perché, in luogo della concezione che le qualifica come la (58) Per una recente riaffermazione dell’idea secondo cui “la funzione della clausola generale è quella di arricchire l’ordinamento giuridico attraverso la possibilità concessa al giudice che applica la clausola di utilizzare parametri provenienti da sistemi di regole e valori non giuridici” si veda Patti, 2013, 55. (59) Luzzati, C., 2013, spec. 178 ss. Come ricordato recentemente da Pedrini, 2009, l’idea delle clausole generali come norme di rinvio a cognizioni di carattere non giuridico è ben più risalente, essendo già stata affacciata nella dottrina germanica di fine XIX — inizio XX secolo (Zitelmann, 1879, 19 e successivamente Heck, 1933, 21). (60) E si veda, in tal senso, Betti, 1949, 55 s., il quale si diffonde su quei concetti normativi che richiederebbero un “apprezzamento condotto alla stregua di ‘nozioni elastiche’ e di ‘concetti di valore’, ossia di criteri desumibili dalla coscienza sociale, di per sé extragiuridici, ma rilevanti per il trattamento giuridico, ai quali rinviano le norme giuridiche da interpretare e da applicare”. 85 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore fonte di una sorta di “delega in bianco” al giudice, si osserva che le clausole generali appaiono, piuttosto, leggibili come una sollecitazione allo stesso giudice affinché proceda alla ricerca dei parametri sociali di comportamento più adeguati, ossia all’individuazione delle specifiche regole che governano le reciproche attese in uno specifico sottogruppo sociale o professionale; regole che, come tali, sono riconosciute, pur rimanendo al di fuori del perimetro delle fonti in senso formale, come norme c.d. micro sociali che il giudice deve porre necessariamente a base della sua decisione. In questo senso, dunque, risulta calzante la definizione delle clausole generali (intese in senso ampio, ossia come inclusive anche del sottogruppo delle c.d. norme elastiche) come delle meta-norme, ossia come norme che vertono su un’altra norma o su un’altra attività regolativa, che nel caso delle clausole generali è caratterizzata dal fatto di svolgersi in ambiti diversi da quelli entro i quali opera la legge in senso formale (61). Da un lato, si ritiene che questa lettura permetta di porre in luce e di elevare a elemento caratterizzante della categoria giuridica delle clausole generali (intesa a questo punto in senso ampio, come comprensiva cioè anche delle c.d. norme elastiche) il tratto comune e caratteristico (62) dell’appartenenza all’area dei precetti legali aperti verso l’esterno, nel senso che attraverso essi il fatto, anziché essere sussunto in una norma di per sé dotata di un significato desumibile in via esclusiva dall’ordinamento giuridico positivo o meglio dalla legge in senso formale, viene piuttosto valutato alla stregua di uno o più parametri extralegali. Dall’altro, l’enucleazione di questo tratto caratterizzante permette di tracciare una linea di demarcazione tra le clausole generali così intese e le altre norme a contenuto indeterminato. Questo perché, se si conviene che quello implicitamente leggibile nella clausola generale è un rinvio a sistemi valoriali e connessi schemi etici esterni alla legge formale, ossia a criteri di valutazione dei comportamenti umani espressi dai sub-sistemi sociali, ne consegue che non rientrano in questa categoria giuridica quelle previsioni che, invece e in ragione della loro indeterminatezza rinviano non a criteri valutativi, bensì ad altre tipologie di “dati” conoscitivi (61) Sul concetto di meta-norma cfr., in particolare, Guastini, 1998, 122 s. (62) Negli studi di diritto del lavoro, nello stesso senso, Calcaterra, 2000, 317. 86 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore che rimangono indeterminati nella norma perché necessariamente ricavabile dall’applicazione di altri saperi (potrebbe farsi l’esempio della nozione di malattia, la cui concretizzazione non può prescindere dall’accertamento medico; ma questo accertamento certamente non si risolve in un giudizio di conformità rispetto a determinati “valori” sociali) ovvero perché richiama elementi di fatto destinati a manifestarsi in maniera differente caso per caso (63). L’idea di clausola generale che meglio si presta all’analisi delle varie forme di interazione con l’autonomia collettiva coincide, pertanto, con la descrizione che ne ritrae i tratti caratteristici qualificandola come una disposizione di legge formulata attraverso espressioni linguistiche generali; espressioni da intendersi come implicitamente rinvianti ai valori e alle relative regole di condotta che siano condivisi all’interno dei raggruppamenti sociali nei quali la disposizione deve trovare applicazione oppure ai valori e alle regole di condotta promananti da altri ordinamenti (64). Come si desume dall’ultima parte della citazione, l’utilità di tale prospettiva teorica è correlata, soprattutto, al fatto che l’accoglimento di questa nozione di clausola generale conduce a valorizzare, sulla scia di precedenti ricostruzioni (65) dedicate al tema dei rapporti tra legge, contratto collettivo e giurisdizione, quella specifica connotazione funzionale di numerosi precetti appartenenti a tale categoria che si sostanzia nella loro attitudine ad operare come canali di comunicazione tra l’ordinamento legale e le regole di fonte collettiva. L’opzione di fondo che assegna al collegamento con le scelte attuative compiute dall’autonomia collettiva una netta preminenza rispetto ad altri possibili percorsi di concretizzazione delle (63) Ed a questo proposito può essere utile il richiamo al giustificato motivo oggettivo di licenziamento, il cui accertamento non implica la valutazione di comportamenti secondo schemi valutativi offerti dalla realtà sociale, bensì la mera enucleazione di un determinato risvolto dell’esercizio della libertà di iniziativa economica (cioè la decisione di addivenire al mutamento organizzativo che determina la soppressione del posto di lavoro), unita alla valutazione del riflesso di tale mutamento sulla motivazione del licenziamento: l’estraneità del giustificato motivo oggettivo rispetto agli standard di comportamento accettati dalla coscienza sociale è sottolineata da Carinci, M.T., 2005, 104; Ead., 2011, 791. (64) La definizione è adottata da Grossi, 2012, 32 e ripresa, da ultimo, da Roselli, 2014, 222.. (65) Oltre a De Luca Tamajo, 1976, spec. 140 ss. in particolare si vedano Liebman, 1993, spec. 192 ss., Pedrazzoli, 1990, spec. 575 ss. e Nogler, 1997, spec. 109 ss. 87 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore clausole generali richiede, tuttavia, di essere ulteriormente giustificata. Una volta definita la nozione è, infatti, necessario confrontarsi con i temi connessi alla scelta dei referenti extralegali (cioè esterni alla legge formale) deputati alla concretizzazione delle clausole generali, per comprendere se siano desumibili dall’ordinamento alcune generali linee di orientamento che agevolino anche la definizione di un ordine di priorità valutativa tra i diversi sottosistemi regolativi. 4. Clausole generali e standards valutativi. Indissolubilmente legato a quello di clausola generale, nel senso ampio e comprensivo delle c.d. norme elastiche che in questa sede si ritiene di poter condividere, è quello di standard valutativo, dal cui esame emergono alcuni elementi che consentono di progredire verso gli specifici profili oggetto della relazione. Fattispecie ad alto tasso di genericità testuale come quelle delle quali ci si occupa prendono vita nell’ordinamento, si osserva, grazie a parametri e schemi comportamentali attraverso i quali diviene possibile individuarne i contenuti più puntuali e compiuti (66). Il ricorso allo standard è visto in prevalenza come indicazione di metodo che rinvia ad un’idea di “normalità”, prospettata in termini tali da accrescere l’accettabilità sociale delle decisioni che su tale idea si fondano (67) in quanto garantisce una loro sufficiente prevedibilità. In questo senso lo standard può prestarsi a fungere da antidoto al soggettivismo giudiziale, o meglio al pericolo che, riprendendo una metafora un po’ aulica ma efficace, il giudice si trovi a volteggiare senza rete nei cieli dell’etica (68). Si registra sufficiente convergenza sul fatto, è opportuno precisare, che lo standard non costituisce oggetto di un rinvio di tipo rigidamente recettizio ad una norma sociale di condotta, ma va inteso, piuttosto, come una direttiva o linea di riflessione per la ricerca della regola (69) da applicare al caso concreto (70). (66) Falzea, 1987, 9. (67) Rodotà, 1987, 726. (68) Morelli, 1994, 2173. (69) Sulla necessaria dimensione regolativa dello standard, il quale “equivale a regola di comportamento e si esprime in norme”, da ultimo, Perulli, 2011, 407. 88 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Dell’utilizzo giulavoristico degli standards si rinviene una traccia esplicita nella giurisprudenza che è stata impegnata sulle più evocate e discusse norme elastiche/clausole generali (a seconda delle diverse letture) in materia di lavoro, quelle in tema di licenziamento. Se in ambiti diversi da quello giuslavoristico la Corte di Cassazione ha dato corpo, talvolta, alle preoccupazioni di chi ha paventato la possibile confusione tra clausole generali e standards (71), nella giurisprudenza in tema di licenziamento per giusta causa si registra una più nitida percezione della concatenazione logica tra le prime e i secondi (72), attestata dai non infrequenti richiami al dovere del giudice di seguire una metodologia decisionale che includa la “conformazione” ad adeguati standard valutativi; richiami normalmente abbinati alla precisazione secondo cui il primo dato di riferimento per la concretizzazione della norma elatica/clausola generale mediante il ricorso a standards è rappresentato dalla contrattazione collettiva (73). L’evocazione dei criteri desumibili dalla disciplina negoziale di fonte collettiva come riferimenti imprescindibili per l’operatività concreta della norma elastica viene operata con regolarità, del resto, nelle motivazioni delle sentenze della Cassazione, unitamente e in correlazione con l’avvertenza secondo cui l’utilizzo doveroso degli standards rinvenibili nella disciplina negoziale del rapporto costituirebbe uno degli snodi del percorso valutativo fisiologicamente destinato a scorrere lungo le coordinate fornite “dalle fonti normative superiori sino a quelle di rango inferiore, nonché dalle disposizioni negoziali eventualmente esistenti”, coordinate che dovrebbero impedire al giudice di debordare su “vaghi criteri morali o politici” adottandoli come principali argomenti della decisione (74). Di conseguenza, secondo questa giurisprudenza, l’assunzione di una decisione di merito non fondata su di un’autentica attività (70) Mengoni, 1986, 12. (71) Per un esempio tratto dalla materia del diritto societario, Cass. civ., Sez. I, 12 dicembre 2005, n. 27387. (72) Come attestato da Fabiani, 1999, 3558. (73) Cfr. Cass., 25 giugno 2013, n. 15926; Cass., 22 dicembre 2006, n. 27452; Cass. 2 novembre 2005, n. 21213. (74) Cass., 22 aprile 2000, n. 5299. 89 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore interpretativa del parametro di valutazione offerto dal contratto collettivo dà luogo ad un’erronea integrazione della norma elastica e come tale implica una violazione della stessa, suscettibile di ricorso per cassazione (75). Il riferimento allo standard che assegna al contratto collettivo il ruolo di primo ed essenziale parametro per l’integrazione valutativa della norma elastica in materia di giusta causa di recesso costituisce il passaggio argomentativo certo meno controverso di un orientamento giurisprudenziale che per altri versi ha suscitato perplessità in chi ha rimarcato quanto sfuggente possa apparire quella nozione, proposta come riepilogativa e per così dire sincretica (e come tale oscura, per non dire vagamente oracolare), di “civiltà del lavoro” (76). Una nozione, quest’ultima, la cui autonomia concettuale e la cui attitudine a fungere da adeguato criterio orientativo della decisione giudiziale, alla luce dell’esperienza giurisprudenziale maturata in più di un decennio, sono state messe in discussione in ragione della più che dubbia idoneità di questa nozione a rappresentare un’adeguata fonte di regole di decisione sufficientemente prevedibili e socialmente accettabili per i singoli casi concreti (77). All’interno di una definizione così vaga come quella di “civiltà (75) Cass., 18 gennaio 1999, n. 434. (76) Montuschi, 1999, 735. Il richiamo e le critiche di questo autore sono rivolti a quei passaggi argomentativi delle note pronunce di Cassazione in materia di sindacato di legittimità delle decisioni di merito che facciano applicazione di norme definite “elastiche” e segnatamente dell’art. 2119 c.c. (Cass. 22 ottobre 1998, n. 10514; Cass. 18 gennaio 1999, n. 434, cit.; Cass. 13 aprile 1999, n. 3645; più recentemente, Cass. 18 agosto 2004, n. 16037) secondo i quali la Corte di Cassazione può essere chiamata a verificare se il giudice di merito abbia o meno deciso in conformità “ai principi dell’ordinamento (espressi dalla giurisdizione di legittimità) e quegli standard valutativi esistenti nella realtà sociale — riassumibili nella nozione di civiltà del lavoro”. (77) Osserva, ancora, Montuschi, 1999, ult. loc. cit, che “pur consapevole che occorre conferire un’oggettiva concretezza alle clausole generali per completare il frammento di norma con l’ausilio di standards socialticipi, la Corte ha omesso di individuarli in concreto e anzi li ha sostituiti con il rinvio a regole (la ‘civiltà del lavoro’) che si assumono essere state previamente codificate nell’esercizio della funzione nomofilattica”. ‘Codificazione’ che, è appena il caso di puntualizzare, non è intervenuta, neanche a livello di enunciazione giurisprudenziale. Nello stesso senso Calcaterra, 2000, 338, il quale osserva che in mancanza di una sua traduzione in una serie di regole concrete, l’elaborazione di questa espressione non determina alcun progresso, ma si traduce in un mero mutamento di denominazione della clausola generale. In realtà, si potrebbe ritenere che i problemi si siano accresciuti, in quanto l’adozione di una nozione così generica come quella di “civiltà del lavoro” può autorizzare ad includere 90 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore del lavoro”, infatti, si aprono spazi per operazioni combinatorie, per non dire “creative”, spesso marcatamente empiriche, assolutamente non riconducibili ad una ratio unitaria e spesso se non sempre prive di un reale aggancio con schemi valutativi esterni. Viceversa, il dato di fonte collettiva, quando viene assunto come criterio di valutazione rilevante ai fini del giudizio sulla legittimità del recesso (78), rappresenta per certo un elemento dotato un solido ed incontestabile collegamento oggettivo con il quadro di realtà sociale preso a riferimento dal giudicante. È in questo ambito problematico, come si dirà più avanti (al successivo paragrafo n. 9.1), che si presta ad essere calata la previsione introdotta dall’art. 30, comma 3, della legge 4 novembre 2010, n. 183. Quello ricavabile dalla giurisprudenza in materia di licenziamento rappresenta solo uno, seppur di importanza certamente nodale, dei momenti di emersione di un ben più vasto e ramificato intreccio di connessioni tra clausole generali, norme elastiche, standard e autonomia collettiva. Le interrelazioni tra norme elastiche/clausole generali e regole di fonte collettiva investono, infatti, uno spettro di istituti assai ampio, anche dal punto di vista della varietà delle tecniche legislative. Ciò in considerazione del fatto che nell’ambito di un aggregato di norme tutte rientranti nella definizione di clausola generale che si intende, per le ragioni già illustrate, prendere a riferimento, si riscontrano differenti modalità di concorso del contratto collettivo alla concretizzazione del significato del precetto legale, con le quali ci si propone di confrontarsi. 5. Differenziazioni contenutistiche e funzionali tra clausole generali, standards valutativi, principi giuridici e norme costituzionali. Prima che il discorso si avvii, tuttavia, verso le diverse ramificazioni normative di questo collegamento, è utile soffermarsi all’interno di questa espressione i più svariati criteri di giudizio, ancor più di quanto non appaia ammissibile con riferimento all’astratta nozione di clausola generale. (78) Tra le sentenze che attribuiscono rilevanza decisiva alla sussumibilità del fatto nelle fattispecie contemplate dal contratto collettivo tra i comportamenti che giustificano il licenziamento ai fini della decisione sulla legittimità del recesso, Cass., 15 luglio 2013, n. 17315; Cass., 15 ottobre 2009, n. 21917; Cass., 29 settembre 2009, n. 20846, Cass., 3 gennaio 2005, n. 17. 91 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore brevemente sulla distinzione, spesso rimarcata in dottrina, tra clausole generali e principi, siano essi identificabili con i principi generali dell’ordinamento evocati dall’art. 12 disp. prel. c.c. ovvero, soprattutto, con i principi costituzionali o, ancora quelli rinvenibili nelle fonti del diritto dell’Unione europea. Di qui l’interrogativo se la concretizzazione della clausola generale e, dunque, il controllo giudiziale sulla sua corretta applicazione possa risolversi, in tutto o in parte, nell’applicazione di un determinato principio giuridico, accanto o in alternativa agli elementi extralegali offerti dalla realtà sociale. Il tema dell’incidenza dei principi sull’applicazione delle clausole generali assume importanza in connessione con la questione generale della natura degli standards valutativi. È necessario, infatti, chiarire se il “rinvio” implicitamente rivolto dal legislatore a sistemi regolativi e criteri da ricercare aliunde, ossia al di fuori del testo legislativo, debba essere inteso come riferito solo a parametri e dati extralegali ovvero anche (o prevalentemente) a principi interni al diritto positivo. Solo in quest’ultimo caso, infatti, potrebbe ipotizzarsi che il significato delle clausole generali possa essere ricostruito in tutto o in parte mediante l’applicazione di determinati principi, in prevalenza riconducibili a norme di rango sovraordinato ovvero ricavabili dal complesso del sistema giuridico. L’interrogativo assume concretezza, anche se non è l’unico punto di emersione di questo problema teorico, con riferimento a quelle decisioni giudiziali, anch’esse per lo più riguardanti la materia dei licenziamenti, che includono tra gli standards valutativi principi definiti come ricavabili dal “diritto vivente”. Si pensi, ad esempio, al vastissimo filone giurisprudenziale che allinea le pronunce secondo le quali il giudice sarebbe legittimato a valutare la legittimità del recesso senza necessità di ricorrere a standard bensì esclusivamente sulla base di un’astratta “nozione legale” del contenuto della clausola generale, contrapponibile alla previsione enunciata dal contratto collettivo (79) e destinata a prevalere su quest’ultima (sebbene, in realtà, si tratti di una puntualizzazione espressa a titolo di obiter dictum nell’ambito di (79) Cass. 14 febbraio 2005, n. 2906, Cass. 18 febbraio 2011, n. 4060, Cass. 31 gennaio 2012, n. 1405. 92 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore decisioni che si orientano, poi, in senso completamente opposto, accogliendo in sostanza la qualificazione del comportamento operata dall’autonomia collettiva). Motivazioni che si pongono accanto alla già ricordata ed ellittica giuridificazione dei (vaghi) principi di “civiltà del lavoro”. Passando ad un altro profilo di questa problematica si rammenta che nel panorama dottrinale, soprattutto a seguito della sentenza della Corte Costituzionale del 9 marzo 1989, n. 103, pure rimasta del tutto isolata, la questione del possibile collegamento tra alcuni principi costituzionali e le clausole generali è stata affrontata in numerosi studi, anche di recentissima apparizione. L’orientamento maggiormente condiviso, come noto, è quello secondo il quale deve escludersi che le clausole generali possano fungere da mero meccanismo di “raccordo” tra i comportamenti delle parti del rapporto di lavoro e i principi fondamentali dell’ordinamento (80). La possibile identificazione tra clausole generali e principi generali di matrice costituzionale è stata, però, ultimamente riproposta da chi ha ritenuto di poter scorgere, in particolare nell’”utilità sociale” richiamata dal secondo comma dell’art. 41 Cost. una clausola generale, giudizialmente applicabile quale parametro di legittimità dell’esercizio della libertà di organizzazione di impresa nei rapporti di lavoro (81). A tal proposito occorre, innanzitutto, evidenziare come i principi, quali espressioni di valori fondativi di un ordinamento (82), siano collocati in posizione diversa rispetto alle clausole o norme generali sì da non potersi al contempo identificare con queste ultime. Lungi dal fornire indicazioni stabili ed immutabili, le clausole generali sono piuttosto, come già evidenziato, espressione di una tecnica legislativa e (al contempo, ma non esclusivamente) “una tecnica di formazione giudiziale della regola da applicare al caso concreto, senza un modello di decisione precostituito da una fattispecie astratta” (83), ma si collocano pur sempre entro il perimetro delle regole. (80) Ferraro, 1991a, ora 1992, 175. (81) Bavaro, 2012, 73 e in precedenza Scarpelli, 1996, 25 ss. nonchè, più classicamente, Natoli, 1955, 99 ss., spec. 107 s. (82) Rodotà, 1987, 721; Falzea, 1987, 12 ss. (83) Mengoni, L., 1986, 10. 93 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore In ragione di questa collocazione, la clausola o norma generale non può essere né ricondotta né ridotta, quindi, per il tramite della mera evocazione del referente costituzionale, ad una mera espressione dell’uno o dell’altro principio, dovendo peraltro, nella sua concretizzazione, certamente conformarsi ad alcuni dei principi generali espressi dall’ordinamento, ma senza perdere la sua sostanza di ricettore di regole (84). Con particolare riferimento ai concetti di matrice costituzionale, è utile rifarsi agli studi dedicati, anche in tempi recenti (85), alla tematica dell’esistenza, all’interno del testo della Costituzione, di norme o frammenti di norme strutturalmente affini alle clausole generali e della loro coesistenza con i più “stabili” principi generali, sempre rinvenibili nella Costituzione (86). Accanto a questi principi, il cui nucleo concettuale appare destinato a rimanere fisso e immutabile nel tempo, nel testo costituzionale sono presenti numerosi richiami a referenti metagiuridici, assimilabili a quelle che nel diritto civile assumono la denominazione di clausole generali. Richiami che ricorrono con particolare frequenza, va detto, nel titolo III dedicato ai rapporti economici (sui allude, come già rammentato, all’“utilità sociale” menzionata nell’art. 41, secondo comma, così come alla “funzione sociale” della proprietà nel secondo comma dell’art. 42 o all’”utilità generale” che legittima le espropriazioni e nazionalizzazioni a norma dell’art. 43). In ragione dello specifico contesto normativo in cui questi enunciati si inseriscono, tuttavia, si riconosce che rispetto alle clausole generali esistenti a livello di legislazione ordinaria permangono delle profonde differenze in termini di applicabilità (87). (84) Sulla collocazione “sequenziale” e sulla non sovrapponibilità di valori, principi e regole, Zagrebelsky, 2002, 877, nonché Mengoni, 1996, 126, e, più recentemente, Garofalo, M.G., 2008, 34, il quale evidenza come la lettura dei principi costituzionali non debba tradursi nella descrizione della fattispecie che condiziona l’applicazione della regola, proprio in quanto muovendosi sul piano costituzionale non si individuano regole, bensì principi. (85) Da ultimo, in argomento, Pedrini, 2009, al quale si rinvia anche per la ricchezza di richiami bibliografici. (86) Tra i quali potrebbero ad es. annoverarsi quelli espressi dagli artt. 3 (uguaglianza) e 2 (diritti inviolabili), 22 (divieto di limitazioni della capacità giuridica per motivi politici), 97 (imparzialità delle Pubbliche Amministrazioni) ecc. (87) Come evidenzia Luciani, 1983, 82, con riferimento al raffronto tra le clausole generali presenti a livello di legislazione ordinaria e gli analoghi rinvii alla tipicità sociali 94 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Solo in alcuni casi, tutto sommato eccezionali (88), la loro precettività si traduce in una applicabilità immediata, mentre in via ordinaria gli “interpreti” dei rinvii ai valori sociali operati nelle norme costituzionali vanno individuati, per gli ambiti di rispettiva competenza, nel legislatore e nella Corte costituzionale (89); ciò che trova ampia conferma proprio nella giurisprudenza costituzionale, che spesso si richiama ad alcune previsioni costituzionali qualificandole come clausole generali nel momento in cui procede ad utilizzarle come parametri di costituzionalità delle leggi ordinarie (90). presenti nel testo costituzionale, “le somiglianze fra le due categorie non possono però far dimenticare gli elementi di distinzione. In particolare, la qualifica di clausola generale va riservata (se si vuole restare all’uso tradizionale) a quella previsione che sia (per sua natura e/o per la fonte che la prevede) atta all’immediata applicazione nei rapporti interprivati. In questo senso, è inopportuno estendere questa qualifica ai principi costituzionali, la cui immediata applicabilità non è mai scontata, ed opera comunque, anche quando vi sia, in forme diverse da quelle proprie delle clausole generali. Meglio dunque definire come principi valvola le norme costituzionali che presentano le caratteristiche di cui nel testo, quasi a segnarne lo stacco dall’altra più tradizionale categoria. Il che, ovviamente, non comporta adesione alla vecchia tesi secondo cui i principi costituzionali sarebbero mere “disposizioni programmatiche” (...). Non si tratta infatti di negare la precettività dei principi costituzionali, ma soltanto di affermarne la diversa precettività, dovuta al loro operare ad un livello distinto da quello della norma ordinaria”. In argomento, si veda, anche, Belvedere, 1989, 639 s. (88) Tra i quali, rientrano, certamente, i precetti, certamente rinvianti ai dati di realtà sociale, espressi dagli artt. 36, primo comma, e 40 Cost. (senza necessità di argomentare ulteriormente tale affermazione, che si ritiene generalmente condivisa: cfr. Mengoni, 1996, 131 s.). (89) Per usare le espressioni di Pessi, 2009a, 11, “in carenza di una tavola astratta dei principi, a ragione dell’inesistenza di una gerarchia assiologica dei valori, la quale, tra l’altro, contrasterebbe con le esigenze del pluralismo, è necessario operare un controllo sulla razionalità di ogni contemperamento operato dal legislatore. E, del resto, lo stesso non è effettuato solo tra valori, ma anche tra diritti, che sono spesso desumibili da regole puntuali presenti nel testo costituzionale. Un controllo, quindi, che non può che essere svolto dall’organo di chiusura del sistema”. (90) Cfr. a titolo di esempio, le sentenze del 23 gennaio 2014, n. 4, 19 luglio 2012, n. 192, 28 marzo 2012, n. 70 (con richiamo all’art. 81, quarto comma, Cost.); 22 maggio 2013, n. 94, 22 luglio 2010, n. 270 (dove si ribadisce che la realizzazione delle clausole generali dell’“utilità sociale” e dei “fini sociali” enunciate dai commi secondo e terzo dell’art. 41Cost. compete al legislatore); 18 dicembre 2009, n. 335 (sulla clausola generale di “compatibilità” tra le tutele accordate ai figli nati fuori dal matrimonio ed i diritti dei membri della famiglia legittima) e 28 novembre 2002, n. 494 (sul riconoscimento dei diritti della famiglia riconosciuti dall’art. 29, primo comma, Cost.); 29 luglio 2005, n. 345 (sul principio di ragionevolezza espresso dall’art. 3 Cost. come clausola generale); sull’utilizzazione del limite dell’utilità sociale, intesa quale “vincolo al conseguimento del bene comune”, nell’ambito del giudizio 95 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Di conseguenza, e secondo l’ordine di idee già espresso dalla dottrina civilistica, simmetricamente a quella costituzionalista, l’esistenza a livello costituzionale di concetti elastici implica comunque delle differenze rispetto all’operatività degli stessi in ambito privatistico, “non esaurendosi nel profilo interpretativo, ma comprendendo anche l’eventuale svolgimento di attività legislativa” (91). Ciò vale a maggior ragione per il limite dell’utilità sociale, la cui concretizzazione postula il compimento di scelte puntuali e l’accoglimento di specifiche opzioni di politica del diritto entro un ventaglio di possibilità estremamente ampio, così da non apparire realizzabile se non per il tramite di uno specifico intervento legislativo (92) anche proprio in ragione della genericità e indeterminatezza del testo costituzionale (93). 5.1. Alterità tra principi e dati di realtà sociale nel momento applicativo delle clausole generali. Assodato che, di per sé, le clausole generali non contengono né esprimono dei principi fondamentali né possono autorizzare l’interprete ad accogliere e ad imporre come immediatamente precettive alcune opzioni attuative delle norme costituzionali il cui accoglimento rimane di competenza del legislatore, rimane da valutare, come anticipato, se l’influenza degli stessi sulla concretizzazione del significato delle clausole generali possa riaffacciarsi, come ipotizzato nelle ricostruzioni dottrinali alle quali si è già fatto riferimento, mediante la loro inclusione tra gli standards valutativi. Una delle questioni che rientrano nell’ambito del generale dibattito in materia di clausole generali, infatti, è se l’idea degli standards valutativi rinvii esclusivamente a criteri e parametri esterni al diritto positivo e quindi alluda ad una riconosciuta necessità di eterointegrazione dell’apparato delle fonti formali, di legittimità costituzionale si veda già la più risalente Corte cost., 22 gennaio 1957, n. 29, GCost., 1957, 404. (91) Rodotà, 1960, 1287. (92) In termini di esistenza di una specifica riserva di legge in materia di utilità sociale, Santucci, 1997, 68 e, in precedenza, Santoro-Passarelli, G., 1990, 570; Luciani, 1983, 160 ss.; Galgano, 1982, 42. (93) In particolare, per questa notazione, Minervini, G., 1958, 623. 96 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore ovvero possa estendersi anche a dati tratti da quest’ultimo o, addirittura, esaurirsi nel richiamo ad essi (94). Viene rilevato che, nella maggior parte dei casi, la formulazione delle clausole generali non contiene elementi che facciano risalire alla natura necessariamente esterna al diritto dello standard (95) e con indubbio realismo è stato scritto che “appare improbabile che, di fronte a una norma a contenuto indeterminato il giudice non possa tentare di attribuirle un significato facendo appello ai principi formalmente sanciti nell’ordinamento”; puntualizzandosi, comunque, come le motivazioni autoreferenziali che si richiamino esclusivamente a “interpretazioni consolidate”, piuttosto che a specifici dati testuali riconosciuti come espressivi di precetti vincolanti non rappresentino un corretto utilizzo dell’argomentazione per principi (96). L’idea prevalente rimane, tuttavia, quella secondo cui le clausole generali debbono essere intese come punti di contatto tra diritto e modelli di comportamento offerti dalla vita sociale, ossia come strumenti di “ricezione sostanziale (97)” di valori e schemi di condotta che assumono rilevanza giuridica in quanto espressi e condivisi dai componenti di determinati gruppi sociali. È la necessità del richiamo a tali elementi esterni, si evidenzia, che costituisce il più solido argine al rischio che le clausole generali siano intese come una delega in bianco al giudice e finiscano per trasformarsi in un enorme contenitore “stipato di valori e concetti eterogenei” (98); ciò anche in considerazione del fatto che gli standards assumono una maggiore nitidezza per il fatto di essere completamente calati nella storicità, laddove, invece, i principi, per il fatto di essere caricati di una forte idealità, “costituiscono le norme più generiche dell’ordinamento giuridico (99)”. Trova conferma, in questa prospettiva, l’idea che per la loro struttura e funzione le clausole generali non possono né debbono (94) Sul “rischio di inutilità che si corre se si giunge a ridurre l’attività applicative delle clausole generali a una semplice iterazione dei precetti costituzionali”, Belvedere, 1989, 639. (95) Velluzzi, 2010, 65 ss. (96) Libertini, 2011, 351. (97) Falzea, 1987, 3. (98) Luzzati, 2013, 183. (99) Falzea, 1987, 14. Cfr. anche Ferraro, 1992, 175, che manifesta aperto scetticismo in merito alla possibilità di individuare linee costituzionali o ordinamentali precise e costanti suscettibili di conformare i comportamenti privati. 97 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore essere convertite in norme-ponte che in via mediata consentano l’applicazione di principi giuridici generali e segnatamente di quelli costituzionali nei rapporti interprivati (100); e ciò non in nome di un anacronistico ossequio ad una lettura di quei principi in chiave esasperatamente programmatica, quanto per la più convincente ragione, maggiormente pertinente rispetto al tema qui trattato, che la genericità dei principi entra in conflitto con l’obiettivo, perseguito dal legislatore mediante l’inserzione delle clausole generali nel diritto positivo, di assicurare il contatto con le ragionevoli aspettative della vita sociale. In senso diverso, è stato recentemente asserito che l’immissione del limite dell’utilità sociale nella ratio delle clausole generali potrebbe rappresentare un modo per proteggere la parte debole (101). Ma questa lettura ancora una volta, come spesso accade nei discorsi in tema di clausole generali nel diritto del lavoro, trascura di considerare che in un numero considerevole di casi la concretizzazione delle clausole generali avviene con la mediazione dell’autonomia collettiva, che è già riconosciuta dall’ordinamento quale adeguata forma di riequilibrio del divario di posizioni tra le parti del rapporto di lavoro individuale. Sicché una simile ricostruzione non può non apparire, prima ancora che sbilanciata, come poco aderente rispetto alle concrete dinamiche regolative dei rapporti di lavoro. Dal momento che secondo la corrente di pensiero più fedele alla vocazione “ricettiva” delle clausole generali, queste ultime sono preordinate a recepire la “vita ordinaria” al fine di assecondare la relativa prevedibilità dei comportamenti negoziali, se ne dovrebbe far discendere che queste non rappresentino lo strumento opportuno per introdurre nell’ordinamento valori nuovi e rivoluzionari o per fondare nuovi istituti (102). Secondo la visione più accreditata e qui condivisa, la finalità generale a cui tali enunciati normativi obbediscono rimane, piuttosto, quella di tracciare una linea di collegamento tra ordinamento giuridico positivo e dati, tipi di comportamento o standard sociali, come tali esterni al diritto ma destinati a divenire elementi di riferimento per il giudice proprio in forza della direttiva ricava(100) Come ricordato da Nogler, 2007, 596. (101) Franzoni, 2011, 801. (102) Luzzati, 2013, 182. 98 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore bile dalla clausola generale, quali forme di valutazione degli interessi in gioco che, pur esterne all’ordinamento giuridico, per riprendere un’espressione di Persiani, “assumono tuttavia un valore determinante per l’interpretazione della legge” (103). Sono molti gli esempi che potrebbero essere richiamati sin da ora al fine di corroborare l’idea dell’imprescindibilità di tali dati di riferimento esterni, dal richiamo alla “natura della prestazione dovuta” (art. 2104 c.c.), alle tematiche connesse allo ius variandi, al potere disciplinare il cui esercizio deve essere valutato sulla base del criterio di proporzionalità, tutte previsioni legislative che non paiono suscettibili di acquisire un significato sufficientemente definito se non attraverso il riferimento a criteri certamente esterni al sistema giuridico. Ma la veridicità di questo assunto potrà essere verificata in maniera più circostanziata all’esito di una ricognizione a più ampio raggio, seppur non esaustiva, come quella che ci si appresta a svolgere. 6. L’intervento dell’autonomia collettiva in funzione di integrazione della fattispecie legale. L’esempio paradigmatico dell’applicazione per via giudiziale dell’art. 36, primo comma, Cost. Definito il quadro teorico generale e passando all’esame più diretto di elementi normativi appartenenti allo “specifico” giuslavoristico, è possibile avviare la ricognizione delle differenti modalità in cui si esplica questa particolare forma di interazione tra legge e contratto collettivo, ossia alle diverse forme attraverso le quali prendono corpo le distinte fattispecie di tacito rinvio agli standard rinvenibili nella realtà sociale. Un primo raggruppamento di clausole generali che presentano tra loro un’affinità strutturale rispetto al loro modo di atteggiarsi nei confronti dell’autonomia collettiva è rappresentato da quelle disposizioni con riferimento alle quali quest’ultima opera in funzione di integrazione della fattispecie legale. Qui il contratto collettivo rappresenta implicitamente (o, più di rado, viene definito esplicitamente come tale) la forma di concretizzazione naturale, ovvero di completamento di significato, della fattispecie delineata nei suoi tratti basilari dal legislatore. (103) Persiani, 1966, 239. 99 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore In queste ipotesi l’interdipendenza tra la clausola generale e la sua declinazione pratico-operativa, come risultante dall’elaborazione compiutane dall’autonomia collettiva, si atteggia come una naturale sequenzialità logica, che può essere interrotta solamente dall’accertamento della palese inidoneità del contratto collettivo “a fornire quei criteri di tipicità sociale e ambientale e soprattutto a testimoniare quella sintesi conflittuale in vista della quale diviene destinataria del « rinvio » da parte del legislatore” (104). Le fattispecie nelle quali si realizza questo tipo di integrazione sono molteplici, anche se va detto che assai di rado la prossimità strutturale tra queste diverse norme ha sinora rappresentato un elemento che inducesse gli interpreti riunirle entro un quadro analitico di insieme. Così come non sono unitarie le giustificazioni teoriche che sono state formulate per spiegare la rilevanza prioritaria del contratto collettivo quale strumento integrativo essenziale per l’individuazione del concreto significato assegnabile al precetto legale. L’esempio storicamente più risalente e per molti versi paradigmatico di questa forma di interazione tra legge e contrattazione collettiva può essere rinvenuto in quella che, con una espressione riassuntiva viene definita come attuazione per via giurisprudenziale dell’art. 36, primo comma, Cost. (105) Si può ritenere che la previsione costituzionale in materia di giusta retribuzione integri una clausola generale (106) nell’accezione qui accolta per la duplice ragione che, in primo luogo, tale disposizione esprime sì un principio, ma si tratta di un principio che si concretizza in un rinvio a parametri esterni rispetto alle norme di diritto positivo, almeno sin quando non verrà accolta l’esortazione, ancora recentemente ribadita, all’introduzione nel nostro ordinamento dell’istituto del salario minimo legale (107). In secondo luogo, perché si tratta di un un precetto generalmente ed immediatamente vincolante — per le molteplici e notissime ragioni (104) De Luca Tamajo, 1976, 144. (105) Per un richiamo al valore esemplare di questa vicenda giurisprudenziale nel panorama teorico delle clausole generali, da ultimo, Roselli, 2014, 227. (106) Non è concorde l’opinione espressa da ultimo da Ghera, Garilli, Garofalo D., 2013, 165. (107) Da ultimo, in argomento, Treu, 2010, Magnani, 2010, Marinelli, M., 2010 e 2011, Ricci, G., 2011, 654 ss. 100 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore sistematiche che hanno condotto al quasi unanime rigetto della tesi della c.d. sua programmaticità e al di là delle possibili originarie intenzioni dei costituenti (108) — e quindi direttamente applicabile da parte del giudice. Le modalità applicative della previsione in materia di giusta retribuzione si prestano a considerazioni di respiro più vasto rispetto al suo contenuto specifico non solamente in ragione della natura di clausola generale di questa norma; spunti ulteriori si traggono dall’esperienza giurisprudenziale progressivamente dipanatasi lungo un arco temporale più che cinquantennale, durante il quale si è assistito inizialmente al riconoscimento di una amplissima libertà di apprezzamento del giudice, ritenuto libero di discostarsi, soprattutto in senso riduttivo dai parametri offerti dalla contrattazione collettiva. Se parte della dottrina, variamente argomentando, ha espresso l’idea che l’esercizio di questo potere di “reinterpretazione” giudiziale del diritto alla retribuzione proporzionata e sufficiente — anche in termini sensibilmente difformi rispetto alle determinazioni dell’autonomia collettiva — costituisca una forma di corretta applicazione della norma costituzionale (109), nell’ultimo ventennio si può dire che siano, viceversa, prevalse le voci fortemente critiche rispetto a quella che è stata letta come una ingerenza, il più delle volte del tutto autoreferenziale, rispetto all’esercizio della competenza istituzionale del sindacato quale “autorità salariale”. Un orientamento critico che si richiama, da un lato, al riconoscimento del contratto collettivo quale ordinario strumento attuativo del precetto costituzionale, risultante dal combinato disposto degli articoli 36 e 39 Cost., dall’altra appare trovare sostegno nella valutazione di insieme della sempre più fitta trama di rinvii legali che, nel loro complesso, inducono a scorgere nel sistema di contrattazione collettiva di cui sono protagoniste le organizzazioni (108) In argomento, recentemente, Ichino, 2010, 739, che si richiama a Giugni, 1971. (109) Cfr., riepilogativamente, Roma, 1993 e Zoppoli, 1994. Una giustificazione implicita di questa libertà di apprezzamento da parte del giudice si rintraccia all’interno di quelle ricostruzioni che attribuiscono alla determinazione giudiziale della giusta retribuzione la natura di giudizio sostanzialmente equitativo. Per critiche a questa qualificazione ci si permette di rinviare a Bellomo, 2002, 85 ss. Sulla distinzione tra applicazione giudiziale delle clausole generali e giudizio equitativo si veda il precedente § 1.1. e si veda, anche, il successivo § 12, nota 313. 101 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore sindacali dotate di particolari requisiti di rappresentatività l’imprescindibile dato di riferimento per la quantificazione di trattamenti, in particolare di quelli retributivi, coerenti con gli equilibri economici e con gli assetti occupazionali dei diversi segmenti nei quali tale sistema si articola (110). La prossimità fra la tematica dell’applicazione giurisprudenziale dell’art. 36 Cost. e le coordinate teoriche lungo le quali procede la ricostruzione delle dinamiche di concretizzazione delle clausole generali diviene evidente nel momento in cui si riscontra che il precipitato giurisprudenziale di questo dibattito si condensa nel sempre più marcato riconoscimento del dovere del giudice non tanto e non solo di assumere come principale parametro di riferimento il contratto collettivo, ma anche di individuare, in caso di scostamento, un parametro alternativo altrettanto attendibile e verificabile (ad es. dati economico-statistici provenienti da istituti di provata autorevolezza). Questo principio di diritto, ormai universalmente accettato e condiviso, viene oggi completato — ed è un elemento di significativo progresso rispetto al precedente scenario giurisprudenziale — con una puntualizzazione tutt’altro che secondaria. Nelle sentenze emesse a partire dall’inizio degli anni duemila, (110) In particolare, per una esposizione minuziosamente argomentata di tali critiche, cfr. Liso, 1998, 191 ss. In forza di tali argomenti, ad esempio, è prevalsa l’idea che i contratti collettivi di riallineamento introdotti nella metà degli anni novanta fossero legittimati a rimodulare i minimi retributivi in connessione con le finalità di emersione perseguite da questi provvedimenti legislativi e che gli interventi di riduzione dei minimi non fossero sindacabili dal giudice per possibile contrasto con la previsione costituzionale. Una conclusione non giustificata da una ipotetica (e di assai problematica ammissibilità) efficacia derogatoria di tali contratti rispetto al riconoscimento costituzionale del diritto alla giusta retribuzione, quanto, piuttosto, dalla considerazione secondo cui tali interventi rappresentano una delle estrinsecazioni della ordinaria competenza negoziale delle organizzazioni sindacali operanti a livello aziendale o locale, nell’ambito della quale possono rientrare anche possibili adattamenti della disciplina retributiva dettata dal contratto collettivo nazionale alle specificità del contesto territoriale o alla situazione di una determinata impresa (in generale, per la legittimità dell’adozione del contratto collettivo aziendale o locale quale parametro per la verifica di conformità de trattamento retributivo all’art. 36 Cost., cfr. Cass. 31 gennaio 2012, n. 1415; Cass., 3 dicembre 1994, n. 10366, GI, 1996, I,1, 546, con nota di Madera, M.; Cass. 23 gennaio 1988, n. 536). In argomento, oltre a Liso, 1998, Viscomi, 1999; Lambertucci e Maresca, 1997; Bellavista, 1998; Garofalo, D., 1997; Stolfa, 1997; Lambertucci, 1995; Lambertucci, 1992; in giurisprudenza, cfr. Cass. 13 marzo 2008, n. 6755. 102 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore il giudice di legittimità si preoccupa di precisare che il giudice è tenuto, in ogni caso, a motivare la propria decisione, nell’eventualità di uno scostamento dal parametro, sulla base di “elementi concreti”. Il che significa se ben si intende l’ammonimento espresso dal giudice di legittimità, che non possono essere ritenute conformi a legge quelle sentenze, spesso tendenzialmente orientate verso una quantificazione della giusta retribuzione “al ribasso” rispetto al parametro collettivo (111), che in passato sono pervenute a giustificare questo scostamento attraverso motivazioni di tipo “discorsivo” nelle quali lo scostamento rispetto al parametro collettivo si riteneva giustificabile con il richiamo generico ad una pluralità di elementi, quali la quantità e qualità del lavoro prestato, le condizioni personali e familiari del lavoratore, le tariffe sindacali praticate nella zona, il carattere artigianale e le dimensioni dell’azienda, ma senza necessità per il giudice di dedurre alcun concreto elemento a supporto della effettiva incidenza di tali “fattori” di riduzione sulla fattispecie concreta, tanto con riguardo all’an quanto con riferimento al quantum (112). Sulla base di questa nuova impostazione, il dato di tipicità sociale offerto dal contratto collettivo rimane il parametro di riferimento primario, necessario e tendenzialmente sufficiente in forza della riconosciuta presunzione di rispondenza dei trattamenti previsti dal contratto collettivo ai criteri enunciati dalla norma costituzionale (113), con onere a carico di chi ne contesti l’attendibilità di indicare gli elementi dai quali risulti l’inadeguatezza in eccesso del parametro in considerazione di specifiche situazioni locali o della qualità della prestazione offerta dal lavoratore (114). Tale onere, nel caso opposto, si trasferisce su chi lamenti l’inadeguatezza della retribuzione percepita; il lavoratore, però, non può dedurre la sola astratta insufficienza dei trattamenti (111) Da ultimo, in argomento, Ricci, G., 2011, 647 ss. (112) In questo senso, ad esempio, Cass. 17 gennaio 2011, n. 896, FI, 2011, I, 765, la quale ha cassato la sentenza di merito che aveva reputato adeguata la retribuzione del lavoratore inferiore ai minimi fissati dal contratto collettivo di categoria facendo generico riferimento alle retribuzioni correnti nelle piccole imprese operanti nel meridione d’Italia invece che a quelle della specifica categoria. Cfr. anche Cass. 1 febbraio 2006, n. 2245. (113) Così, Cass. 15 ottobre 2010, n. 21274; Cass. 28 ottobre 2008, n. 25889, LG, 2009, 302. (114) Cass. 13 novembre 2009, n. 24092. 103 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore retributivi fissati dal contratto collettivo, ma è tenuto ad indicare il parametro esterno che conferisce oggettività alla contestazione di inadeguatezza (115). Rimane escluso in ogni caso, secondo questo indirizzo, che il giudice possa operare una quantificazione della giusta retribuzione discostandosi dal parametro offerto dal contratto collettivo sulla mera base della sua scienza privata (116) e lo stesso dovrebbe dirsi di quelle pronunce, anch’esse in passato frequenti, nelle quali il giudice provvede a quantificare in termini sintetici, ma anche in questo caso senza alcun conforto oggettivo, la simultanea incidenza di molteplici fattori quali la quantità e qualità del lavoro prestato, le condizioni personali e familiari del lavoratore, le tariffe sindacali praticate nella zona, il carattere artigianale e le dimensioni dell’azienda quali possibili elementi che autorizzano uno scostamento in senso riduttivo dal medesimo parametro (117). In questa fattispecie, così come nelle altre che verranno esaminate, più che muovere alla ricerca di argomenti a sostegno di una giuridica vincolatività del parametro collettivo (118) — che incontrerebbe una serie di possibili obiezioni generalmente note e peraltro non tutte superabili nemmeno nella già di per sé comunque avveniristica prospettiva de iure condendo di un intervento legislativo in materia di efficacia generale dei contratti collettivi — l’adozione della chiave di lettura che fa leva sulla attitudine del contratto collettivo ad integrare, o meglio a concretizzare il contenuto del precetto generale permette di formulare alcune precisazioni. Nelle clausole generali che posseggono una struttura affine a quella dell’art. 36 Cost. permane una nozione legale (nell’esempio ora richiamato, la nozione legale di retribuzione proporzionata e sufficiente) che mantiene la sua autonomia e la sua imperatività rispetto alle previsioni del contratto collettivo. Il giudice chiamato ad applicare la norma deve, al fine di verificare conformità a legge della condotta delle parti, compiere (115) Cass. 8 gennaio 2002, n. 132, FI, 2002, I, 1033. (116) Cass. 26 luglio 2001, n. 10260, RIDL, 2002, II, 299, con nota di Stolfa. (117) In questo senso, recentemente, Cass. 28 agosto 2004, n. 17250, MGL, 2004, 950. (118) Diversamente, nel senso della vincolatività per il giudice degli interventi dell’autonomia collettiva di specificazioni o integrazioni di fattispecie generiche o di clausole generali, Pedrazzoli, 1990, 565. 104 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore un’operazione di “riempimento” della clausola generale per poterne ricostruire il significato in termini di giustiziabilità e a questo fine è tenuto a selezionare gli standards, che nel caso della retribuzione proporzionata e sufficiente sono i parametri socialmente attendibili attraverso i quali il contenuto della norma arriva ad assumere una sua consistenza concreta. Nel compiere tale operazione il giudice deve tener conto del fatto che rispetto ai possibili dati ricavabili dalla realtà sociale e che permettono la concretizzazione della clausola generale, il contratto collettivo costituisce la sede in cui le generiche indicazioni del legislatore vengono tradotte in contenuti specifici che presentano una particolare attendibilità. Questo sia perché tali contenuti provengono dal sistema di relazioni industriali, i cui attori sono dotati della competenza tecnica derivante dalla conoscenza delle tipicità sociali che caratterizzano i rapporti di produzione, sia perché espressivi dei valori che si perfezionano nella sintesi tra le forze contrapposte che all’interno di questo sistema si confrontano e degli equilibri che nella realtà del confronto maturano tempo per tempo. Il riconoscimento di questa priorità del contratto collettivo rispetto ad altri possibili dati di tipicità sociale si traduce in quella che, con particolare riferimento, pur non esclusivo, all’applicazione dell’art. 36 Cost., viene definita come “presunzione” di adeguatezza della previsione collettiva rispetto alla ratio della clausola generale (119). L’esemplificazione alla quale si è fatto ricorso può fungere da adeguata base di partenza per un discorso di tipo induttivo, ispirato all’idea che questa preminenza del dato di realtà sociale offerto dal contratto collettivo non possa essere ricondotta ad una risultanza di ordine meramente fattuale. Piuttosto, si può avanzare il sospetto che questo primato trovi (119) Recentemente, in tal senso, Cass. 28 ottobre 2008, n. 25889, LG, 2009, 302; Cass. 16 maggio 2006, n. 11437, RCDL, 2006, 439; Cass. 8 gennaio 2002, n. 132, FI 2002, I, 2033, nel solco, comunque, di un indirizzo assai risalente; cfr., tra le altre, Cass. 14 dicembre 1990, n. 11881; Cass. 29 agosto 1987, n. 7131 sottolinea come tale presunzione possa essere superata solo in presenza di una rigorosa prova contraria, Cass., 19 marzo 1981, n. 1332; in materia di recesso, sull’idoneità del contratto collettivo a definire situazioni presuntivamente integranti una giusta causa o un giustificato motivo, Cass. 19 aprile 1982, n. 2366, MGL, 1982, 387. 105 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore un duplice fondamento, da un lato, nella ratio interna delle clausole generali in materia di rapporto di lavoro, in base alla quale l’interprete deve farsi carico di selezionare gli standards valutativi più appropriati, ossia quelli che meglio riflettono i modelli di comportamento generalmente condivisi nel contesto sociale di riferimento. Dall’altro lato, su questa selezione non è ininfluente il riconoscimento della rilevanza prima di tutto costituzionale del fenomeno dell’autonomia collettiva competenza negoziale attribuita dall’ordinamento all’autonomia collettiva (con particolare riferimento, quanto ai referenti normativi di tale riconoscimento, agli artt. 39 Cost. e 1322 c.c.) (120). Una influenza a cui si può convenire che non ostino né l’inesistenza, più volte rimarcata dalla Corte costituzionale, di una “riserva” esclusiva di competenza dell’autonomia collettiva (121), né la mancata attuazione della seconda parte dell’art. 39 Cost. Anche a prescindere dal problematico completamento del disegno costituzionale, rimane indiscussa ed è stata ugualmente posta in risalto dalla stessa Corte costituzionale, proprio con riferimento alla sua funzione di integrazione delle clausole generali, la tendenziale e generale attitudine del contratto collettivo quale punto di equilibrio tra gli interessi delle parti (122). (120) Ogni tentativo di sintesi bibliografica sul punto sarebbe naturalmente velleitario. Per ampi richiami alla dottrina che si è cimentata con il tema dei referenti ordinamentali del riconoscimento dell’autonomia collettiva cfr. riepilogativamente, da ultimo, Bellocchi, 2013, spec. 332 ss.; Santoro-Passarelli, G., 2007, 18; Rusciano, 2003, spec. 54 ss. e, in precedenza, Balducci, Carabelli, 1984, 71 ss. In particolare, per l’individuazione dell’art. 39 Cost. come fondamento dell’autonomia negoziale collettiva cfr., tra gli altri, Giugni, 1979, 280; Scognamiglio, R., 1971 (ora 1996), 1538; Pedrazzoli, 1990, 364 ss. (121) In argomento, da ultimo, Persiani, 2006, 1033. (122) Nella motivazione della sentenza n. 103 del 1989, con riferimento ad una materia regolata da una clausole generale, quella contenuta nell’art. 2103 c.c., si evidenzia, ad esempio come “nella determinazione delle mansioni e dei conseguenti livelli retributivi, l’autonomia del datore di lavoro, cui spetta l’organizzazione dell’azienda, è fortemente limitata dal potere collettivo, ossia dai contratti collettivi e dai contratti aziendali. Tali contratti, quali estrinsecazioni del potere delle associazioni sindacali, sono frutto e risultato di trattative e patteggiamenti e costituiscono una regolamentazione che, in una determinata situazione di mercato, è il punto di incontro, di contemperamento e di coordinamento dei confliggenti interessi dei lavoratori e degli imprenditori”. Sottolineatura poi ripresa dal giudice di legittimità nella articolata motivazione della sentenza del 2006 in tema di legittimità delle clausole di fungibilità professionale (Cass. S.U. 24 novembre 2006, n. 25033, RIDL, 2007, II, 336, con nota di Occhino). Sul riconoscimento in capo al contratto collettivo della funzione “di fonte regolatrice dei modi di attuazione della garanzia costituzio- 106 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore La convergenza di queste due indicazioni permette all’interprete di orientarsi verso coordinate valutative che non possono essere qualificate come finite, autosufficienti e insuscettibili di alternative rispetto all’adozione del contratto collettivo come parametro di riferimento per la determinazione della “giusta” retribuzione, ma possono, piuttosto essere sì rappresentate come tappe obbligate del percorso decisorio, superabili solo in presenza di dati extralegali alternativi concreti, oggettivi, contrastanti e riconoscibili come maggiormente attendibili. In altri termini, il superamento dei criteri offerti dal contratto collettivo appare plausibile nel momento in cui il contrasto con altri dati di tipicità sociale renda palese la loro inadeguatezza. Eventualità comunque ipotizzabile, seppur, va detto, destinata a rimanere circoscritta entro un ambito di probabilità fisiologicamente limitato, perché tale inadeguatezza appare fenomenicamente distonica rispetto alle normali dinamiche della realtà sociale. 7. Diligenza e autonomia collettiva. L’esempio del diritto alla giusta retribuzione, che si è ritenuto di richiamare per primo, si ricollega ad una fattispecie con riferimento alla quale l’osmosi tra la fonte legale e il dato integrativo di fonte collettiva appaiono così interdipendenti da apparire coessenziali. Questo schema, va evidenziato, è adattabile a numerosi altri istituti, con riferimento sia alla normale esecuzione del rapporto di lavoro sia alle sue patologie, sfocianti nell’inadempimento e nell’eventuale recesso per un inadempimento gravissimo o notevole. È stata già evocata la tematica riguardante la regola di diligenza sancita dall’art. 2104 c.c., sulla quale può essere opportuno tornare per evidenziare una serie di punti di convergenza con le considerazioni sin qui sviluppate. Prendendo le mosse dalla concezione della diligenza come criterio (123) o misura (124) di valutazione del comportamento nale del salario sufficiente”, Corte Cost. 26 marzo 1991, n. 124, FI, 1991, I, 1333, con nota di Amoroso, G. (123) Persiani, 1966, 214. (124) Ghera, 2002, 157. 107 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore dovuto dal prestatore di lavoro, e sulla scorta dell’ormai generalizzato dissenso verso l’idea di ascendenza barassiana della misurazione della diligenza sulla base dell’intensità con l’intensità o bontà dello “sforzo di volontà” compiuto dal debitore (125), la diligenza è a tutt’oggi al centro di un dibattito in merito alla connotazione esclusivamente oggettiva o in parte soggettiva (in termini di duty of care) della diligenza dovuta (126). Ciò su cui si registra, a prescindere dalle specifiche “componenti” della diligenza, una significativa convergenza, viceversa, è l’idea della diligenza come standard (127), ossia come norma di rinvio alle pratiche sociali o, più appropriatamente, professionali diffusamente condivise. Si è precisato come l’art. 2104 c.c., nel differenziarsi tanto dalla nozione di regola puntuale, quanto da quella di principio giuridico in senso proprio, non ponga un autonomo criterio di decisione, bensì si configuri come estrinsecazione di una tecnica normativa di reperimento di criteri di decisione: criteri ricavabili da regole tecniche che “non sono, in sé, regole giuridiche ma appartengono a campi diversi del sapere e delle relazioni intersoggettive, campi ai quali l’ordinamento giuridico fa tuttavia riferimento per dare un contenuto ad un suo precetto” (128). In definitiva, si può osservare come la nozione di diligenza conforme alla natura della prestazione dovuta venga, in effetti, ricondotta ad una clausola generale nel senso qui proposto. Di qui l’esigenza di individuare le fonti di tali regole tecniche, cioè quei parametri di valutazione del comportamento diligente che appaiano inequivocabilmente come provenienti dall’ambiente (125) Si vedano, per le più recenti disamine critiche rivolte alle concezioni della diligenza di stampo prettamente soggettivistico o volontarista, Viscomi, 1997, 133 ss.; Id., 2010, spec. 615; Menegatti, 2012, 925. Sul rifiuto della concezione soggettiva della diligenza, in giurisprudenza, si veda, da ultimo, Cass. 9 ottobre 2013, n., 22965. (126) Oltre agli autori citati in precedenza, si vedano,in particolare, Mancini, 1957, 27 ss.; Magrini, 1973, 410; Grandi, 1987, spec. 341 ss.; Ghezzi, Romagnoli, 1995, 34; Rusciano, 2000, 656 ss. e, anche per ulteriori e completi richiami bibliografici, Cester, Mattarolo, 2007, spec. 108 ss.; De Simone, 2007, 281 ss.; Perulli, 1998, 596; Fiorillo, 2010, 515 ss.; Marazza, 2013, 272 ss. (127) In questi termini, Viscomi, 1997, 137 ss.; Rusciano, 2000, 658; De Simone, 2007, 283. (128) Ancora Viscomi, 1997, 145 e Cester, Mattarolo, 2007, 126 (dai quali è tratta l’ultima citazione). 108 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore sociale e professionale in cui lo standard di diligenza deve trovare attuazione e che, al contempo, non lascino spazio a decisioni che, dissolvendo il dovere di diligenza nel generico rinvio ad un coacervo di regole comportamentali estremamente vaghe, si risolvano in una decisione molto prossima a una valutazione equitativa. La soddisfazione di tale esigenza passa imprescindibilmente, si osserva, per l’assunzione della contrattazione collettiva quale termine di riferimento per l’individuazione delle forme esemplari o figure paradigmatiche di lavoratore diligente, al fine di azzerare o ridurre il possibile margine di arbitrarietà delle decisioni giudiziali attraverso il richiamo alle regole professionali applicate nel particolare settore interessato (129). In questa prospettiva, la contrattazione collettiva assume un peso determinante ai fini della ricostruzione delle ordinarie forme di estrinsecazione dell’agire sociale e, conseguentemente, del significato della norma (130). Se è vero che l’esperienza giurisprudenziale offre riscontri nella maggior parte dei casi poco perspicui (131) e spesso contraddittori (132) a proposito della distinzione tra specifici doveri di diligenza e generali contenuti dell’attività lavorativa, è possibile evidenziare, viceversa, come la contrattazione collettiva offra alcuni significativi ed eloquenti esempi di determinazione di specifici vincoli comportamentali prettamente riconducibili al dovere di diligenza. Ciò avviene, ad esempio, quando le parti sociali provvedono a (129) Viscomi 1997, 148-151. (130) Viscomi, 1997, 312 e Id., 2010, 640. Sulla qualificazione delle valutazioni dell’autonomia collettiva come determinanti per la comprensione delle norme in materia di lavoro, in quanto “espressione di quella coscienza sociale in corrispondenza della quale la legge deve essere interpretata” si veda già Persiani, 1966, 240; più recentemente, per la riconducibilità della diligenza ad “una serie di prescrizioni concrete che sono solitamente contenute nei contratti collettivi”, Ferraro, 2004, 128. (131) In argomento cfr., ad es. Cass. 27 settembre 2000, n. 12769, RIDL, 2001, II, 446, con nota di Nadalet; Cass. 11 maggio, 1985, n. 2951, GC, 1986, I, 483 sull’inclusione nel dovere di diligenza di comportamenti ulteriori rispetto a quelli connessi all’attività dovuta come risultante dalle mansioni assegnate; Cass. civ., sez. III, 21 ottobre 1991, n. 11107. (132) In totale contrasto con quanto asserito nel testo e in termini ictu oculi difficilmente condivisibili, Trib. Perugia, 8 maggio 2012, tratta dal Repertorio di giurisprudenza de Le leggi d’Italia, secondo la quale le posizioni giuridiche discendenti dall’art. 2104 c.c. troverebbero la loro unica fonte nella legge, “restando pertanto irrilevante, al fine della sua configurabilità, il grado di specificazione con cui tale concetto è recepito nella contrattazione collettiva e nel codice disciplinare”. 109 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore definire standard di diligenza nell’espletamento delle mansioni (ad es. in materia di rapporti con la clientela (133)) ovvero, in alcuni casi, quando prevengono a definire specifici vincoli comportamentali non direttamente e/o necessariamente correlati con le stesse (134). È indubbio che la diligenza rimanga una nozione di fonte legale e che il giudice sia autorizzato a isolarne ed applicarne caso per caso il significato concreto, valutando in comportamenti del lavoratore in relazione ai contenuti della prestazione e al grado di osservanza delle istruzioni del datore di lavoro (135). Laddove i contenuti della diligenza siano, però, predefiniti o puntualizzati dal contratto collettivo, tali indicazioni assumono un valore normalmente considerato come dato di orientamento necessario e sufficiente ai fini della valutazione in sede giudiziale della condotta del prestatore di lavoro, riconoscendosi le statuizioni della contrattazione collettiva quali imprescindibili fonte di elementi chiarificatori e di esemplificazioni (136). Anche dove tale predefinizione manchi, tuttavia, deve ritenersi che alla delimitazione dell’ambito della diligenza debba ugualmente e necessariamente pervenirsi attraverso il rinvio a specifici standard tecnici e sociali, ossia a “regole” di comporta(133) Può farsi l’esempio delle linee generali di condotta definite dal CCNL del settore del credito (art. 25 del CCNL 17 febbraio 1983), la cui violazione “giustifica l’irrogazione di una sanzione disciplinare, il comportamento di un lavoratore bancario che, nell’espletamento della propria attività lavorativa, rifiuti di completare una operazione richiesta da un cliente sul presupposto che l’orario di apertura dello sportello al pubblico era scaduto da circa tre minuti” (Pret. Roma, 3 maggio 1991, NGL, 1993, 72). (134) Ciò che si verifica, tra gli altri casi, nell’ipotei di individuazione di specifiche regole comportamentali durante le assenze per malattia e non solamente in relazione all’esigenza di un pronto recupero dell’efficienza psicofisica, ma anche con riferimento alla conformità della condotta del lavoratore rispetto all’esercizio del potere di controllo da parte dei medici pubblici. Nel senso che l’assenza alla visita domiciliare di controllo costituisce un inadempimento disciplinarmente sanzionabile solo se previsto come tale dal contratto collettivo, Cass. 9 agosto 1996, n. 7370, RIDL, 1997, II, 553; Cass. 14 luglio 1994, n. 6597 e, in precedenza, Cass. 9 marzo 1987, n. 2452, FI, 1987, I, 3082. (135) Cfr., tra le altre, Cass. 8 giugno 2001, n. 7819, ADL, 2003, 351, con nota di Fiata; Cass. 27 maggio 1998, n. 5258; Cass. 13 dicembre 1995, n. 12758, RIDL, 1996, II, 530. (136) Sulla attendibilità delle previsioni del contratto collettivo in merito alle conseguenze sul fronte disciplinare delle violazioni del dovere di diligenza, tra le altre, Cass.10 dicembre 2004, n. 23120; Cass. 11 novembre 2000, n. 14615; Cass. 14 luglio 2004, n. 6597 cit.; Cass. 13 giugno 1984, n. 3521. 110 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore mento formatesi nell’ambito di sistemi esterni a quello legale, ma in ogni caso attinte da un’esperienza sociale concretamente pertinente all’ambito professionale interessato e non genericamente desumibili dalle dimensioni etiche e moralistiche della “buona volontà” (137), svincolate da ogni specifica concretizzazione delle stesse in un determinato “sotto-sistema” di regole sociali. Condizione, questa, invece imprescindibile per una realistica calcolabilità in via preventiva dell’impegno esigibile dal lavoratore. Non si condivide, quindi, l’idea che il sindacato di legittimità sul rispetto del dovere di diligenza e il conseguente bilanciamento tra gli interessi economici e finanche morali delle stesse parti e degli eventuali stakeholders possa risolversi (138) in un mero esercizio di ponderazione del tutto interno alla sfera decisionale del giudice, senza necessità di rapportare la fattispecie concreta a paradigmi comportamentali espliciti ai fini della valutazione di rispondenza o meno della condotta del lavoratore alle prassi specifiche del settore o dell’azienda. 7.1. Diligenza, codici etici, “credo aziendali” e rapporti con gli standard comportamentali ricavabili dalla contrattazione collettiva. Una sede nella quale la diligenza può andare incontro a ulteriori tiva che appare destinata ad espandersi, nei codici etici, di cui le imprese sono chiamate a dotarsi in relazione allo svolgimento di determinate attività economiche (139) ovvero nell’ambito degli adempimenti finalizzati a prevenire particolari forme di responsabilità (140). A fronte della vivacità del dibattito sui livelli di vincolatività (137) Evidenzia la distinzione, Viscomi, 2010, 638. (138) Come ammettono, invece, tra le altre, Cass. 16 agosto 2004, n. 15932; Cass. 14 aprile 1994, n. 3497; Cass. 28 marzo 1992, n. 3485; Cass. 11 maggio 1985, n. 2551. (139) Cfr. in tal senso l’art. 31, comma 3, lett. d ed e, del d.lgs. 26 marzo 2010, n. 59, di attuazione della direttiva 2006/123/CE, del Parlamento e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno. (140) Ed è questa l’ipotesi dei codici etici adottati nell’ambito dei modelli di organizzazione e controllo previsti dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, quali condizioni per l’esenzione delle imprese dalla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche derivante da reato. Sul punto, anche per ulteriori, ampi, richiami di dottrina, Bernasconi, 2008, 111 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore dei codici etici e in particolare sulla loro idoneità ad operare quali fonti di obbligazioni nei confronti dei diversi portatori di interessi con i quali l’impresa intrattiene rapporti (141), è sufficientemente pacifico e normalmente ribadito dagli stessi come tali codici definiscano una serie di vincoli comportamentali i quali arricchiscono e puntualizzano i doveri del prestatore di lavoro, contribuendo a delimitare l’area della responsabilità per inadempimento. Conseguentemente, i codici etici appaiono investiti di una funzione integrativa nel senso che, seguendo l’ordine di gerarchia delle fonti (in senso sostanziale), il codice etico opera come una puntualizzazione teleologicamente orientata dei doveri del prestatore di lavoro e come tale rappresenta un parametro per l’individuazione degli standard ricollegabili alla diligenza di cui all’art. 2104 c.c. Dalla matrice normalmente unilaterale dei codici (di cui la legge richiede l’imputabilità al soggetto imprenditoriale e perciò solitamente adottati dai datori di lavoro — società di capitali con delibera del consiglio di amministrazione, anche se non mancano significative esperienze di coinvolgimento del sindacato (142)) discende, però, sul fronte degli obblighi imposti ai prestatori di lavoro, la loro subalternità al contratto collettivo quale prima e inderogabile sede di puntualizzazione dei doveri del lavoratori e di delimitazione e procedimentalizzazione dei poteri imprenditoriali (143). 132 ss. nonché, in tema di linee guida per la definizione dei contenuti del codice etico, Confindustria, 2008, 26 ss.; Abi, s.d., 22 ss. (141) In argomento, da ultimo, Senigaglia, 2013, 73 ss. (142) Esiste anche, come evidenza Del Punta, 2006, 49, un potenziale e consistente spazio di intervento della contrattazione collettiva, come dimostrato da importanti esperienze pionieristiche come quella degli accordi Merloni del 2002. Per una ricognizione dei codici di condotta / accordi quadro in materia di responsabilità sociale delle imprese cfr. Lama, 2005. (143) Nello stesso senso, con riferimento alle interrelazioni tra contrattazione collettiva e modelli di Corporate Social Responsibility, Ferrante, 2006, 95. Questo vincolo di coerenza tra il codice etico e il contratto collettivo viene normalmente rimarcato sia dagli interpreti sia dai codici stessi con riferimento, ad esempio, all’apparato sanzionatorio connesso al rispetto dei codici, ossia al sistema disciplinare facente parte del modello di organizzazione e di gestione di cui al d.lgs. n. 231 del 2001 ma per chiare ragioni sistematiche si estende sicuramente anche alla parte prescrittiva, oltre ad interessare quella punitiva. Si v., con riferimento ai codici etici adottati in attuazione del d.lgs. n. 231 del 2001, Bernasconi, 2008, 152. 112 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Così come, in applicazione della previsione dell’art. 7, primo comma, della legge n. 300 del 1970 si attribuisce al codice disciplinare aziendale la funzione di specificare le enunciazioni delle clausole del contratto collettivo in materia disciplinare, operanti quale paradigma generale delle modalità e dei limiti di esercizio del relativo potere, così i codici etici appaiono definibili, per la parte dedicata alla condotta dei prestatori di lavoro, come versioni teleologicamente orientate dei regolamenti aziendali (144). Ancora più emblematica della necessità di chiari criteri di selezione tra i diversi potenziali standards si rivela l’esperienza, caratterizzata da un minor grado di diffusione, dei c.d. “credo” aziendali che provvedono a definire, è stato detto, in termini prossimi a quelli dei dettami religiosi, i sistemi valoriali ai quali l’impresa dichiara di volersi ispirare in ogni suo contatto con la società (145). Al di là delle possibili interferenze con la garanzie di rispetto della vita privata e delle opinioni del lavoratore riconosciute dalle disposizioni costituzionali e statutarie (interferenze che risultano connesse alla circostanza della “necessitata” condivisione dei “valori” aziendali da parte del prestatore di lavoro (146)), va evidenziato come non solo per la loro provenienza unilaterale ma anche perché, al contempo, i “credo” si pongono come frutto di una visione “atomistica” e fisiologicamente autoreferenziale dell’etica d’impresa, accolta da una particolare e specifica componente sociale (ossia in quanto espressione della prospettiva di un singolo soggetto, vale a dire della singola impresa), ai fini che qui interessano questi documenti non appaiono immediatamente assimilabili, a differenza del contratto collettivo, al concetto di standard valutativo. Questo soprattutto perché, diversamente da quest’ultimo, i “credo” aziendali di per sé non rappresentano, in considerazione (144) In ragione della loro provenienza e collocazione nel sistema delle fonti di disciplina del rapporto di lavoro, pertanto, la funzione tanto precettiva quanto integrativa del generale dovere di diligenza assolta da tali codici non può non esplicarsi in via subalterna rispetto alla fonte collettiva, rispetto alla quale non è configurabile, come è stato anche recentemente rimarcato in dottrina (Pedrazzoli, 2012), una sostituibilità o una modificabilità da parte del regolamento aziendale. (145) Viscomi, 2010, 599; Di Toro, s.d.; Azzoni, 2003; D’Oronzo, 2006. (146) Giustamente Viscomi, 2010, ult. loc. cit. parla di “espropriazione del consenso”. 113 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore del loro consueto processo genetico, il momento di sintesi del confronto fra gli attori riconosciuti dall’ordinamento come interpreti della realtà sociale a cui le clausole generali, come più volte ricordato, intendono rinviare. Si tratta, diversamente, di testi che accolgono o fanno propri unilateralmente e “dall’alto” determinati “valori” i quali, tuttavia, non possono assurgere al rango di standard per il solo fatto di essere accettati dall’impresa, circostanza di per sé — a ben vedere — del tutto neutra. Questa visione, è stato detto, “aziendalmente identitaria” potrà influire sui contenuti della sfera debitoria sono qualora esprimano o si richiamino a sociali condivise anche oltre i confini dell’azienda, o meglio, dei suoi organi di vertice. È possibile, in linea ipotetica, che dall’adesione individuale “indotta” al “credo” aziendale discendano, quando siano puntualmente esplicitati, specifici vincoli comportamentali sostanzialmente analoghi a quelli dettati dai codici etici; vincoli che, in ossequio al principio di inderogabilità del contratto collettivo da parte degli accordi individuali, non potranno operare se non in funzione integrativa degli obblighi previsti dal contratto collettivo. In alternativa i “credo” aziendali, in quando atti unilaterali pur accettati dal lavoratore saranno leggibili come adesione o recepimento di determinate Weltanschauungen le quali, tuttavia, potranno assumere rilevanza ai fini della concretizzazione della clausola generale di diligenza solo se e nella misura in cui rispecchino modelli di comportamento socialmente — e non solo aziendalmente — considerati come dovuti, ossia legittimati dalla realtà sociale esterna all’azienda e come tali recepiti e condivisi dall’impresa quali adeguati standard di responsabilità sociale corrispondenti al modello etico prescelto. A differenza del contratto collettivo, pertanto, tali atti, a meno che non siano concordati con le organizzazioni sindacali (con l’obiettivo di una accettazione condivisa della necessaria considerazione di alcuni fattori socialmente rilevanti nell’adozione delle decisioni aziendali (147)), non operano, di per sé stessi, come fonti costitutive di determinati valori e relativi sistemi di valutazione, potendo acquisire rilevanza giuridica, anche ai fini del rispetto della regola di diligenza, in quanto si conformino a determinati e (147) Lama, 2005, 100 s. 114 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore pressistenti standard, generalmente o largamente condivisi nel mondo della produzione o nello specifico settore in cui opera l’impresa datrice di lavoro (148). 8. Ius variandi e autonomia collettiva. È certamente sul terreno dello ius variandi e, in particolare, con riguardo alla clausola generale dell’equivalenza delle mansioni che l’impostazione qui sperimentata può essere sottoposta ad un più attento collaudo; a partire, appunto, dalla qualificazione della stessa equivalenza come clausola generale, che viene da alcuni interpreti esplicitamente riconosciuta (149) (così come, si vedrà, le sue implicazioni in termini di rinvio ai dati di realtà sociale), mentre appare da altri condivisa implicitamente, al di là del riferimento espresso, quando se ne sottolinea la straordinaria flessibilità concettuale e l’attitudine ad adattarsi al mutare delle esigenze del contesto di riferimento (150). Con riferimento alle modalità ed ai canali attraverso i quali tale attitudine interviene a dispiegarsi, la tensione dialettica tra ricostruzioni teoriche, evoluzione della contrattazione collettiva e interpretazioni giurisprudenziali continua tuttora ad essere oltremodo elevata, offrendo spesso l’immagine di una contrapposizione un po’ manichea tra due apparentemente opposte concezioni attuative della previsione legale. Vale a dire che sembrano continuare a fronteggiarsi un orientamento maggiormente incline al riconoscimento dell’insostituibile attitudine del contratto collettivo a fornire regole di giudizio (151), al quale fa da contraltare la diversa tendenza che antepone alle (148) Nello stesso senso Viscomi, 2010, 646, il quale evidenzia come le statuizioni dei “credo” aziendali di per sé non possono essere ritenute come descrittive di comportamenti propri del buon debitore, dovendosi ricercare aliunde la giustificazione della loro rilevanza nell’ambito del rapporto obbligatorio. (149) Recentemente, in tal senso, Brollo, Vendramin, 2012, 540. (150) Cfr., anche qui per la dottrina più recente, Gargiulo, 2008, 11 e 44; Zoli, 2014; in precedenza, cfr. Giugni, G., 1975, 555; Liso, 1987, 54. Adattamento ai mutamenti del quadro economico-sociale, detto per evidenziare il parallelismo, che nel contesto delle letture del fenomeno delle clausole generali viene individuato come l’essenza teleologica del ricorso del legislatore alle clausole generali (cfr., recentemente, Guarneri, 1999, 134). (151) Sul punto, Nogler, l. 1997, 114. 115 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore classificazioni elaborate (o ri-elaborate, nel caso della c.d. “riclassificazione”) dal contratto collettivo il potere giudiziale di controllo e di individuazione in via empirica di cosa debba intendersi con l’espressione “mansioni equivalenti”. Questa contrapposizione non appare risolvibile — e i risultati di un dibattito più che quarantennale stanno lì a dimostrarlo —, nell’ambito del raffronto tra posizioni miranti alla dimostrazione o, all’opposto, alla confutazione della “vincolatività” delle previsioni dei contratti collettivi in materia di inquadramento e (se esistenti) delle clausole di fungibilità/equivalenza tra diverse mansioni; questo perché non appare revocabile in dubbio che la ratio di effettività (152) del limite di salvaguardia della professionalità fissato dalla disposizione legale imponga il superamento delle possibili contraddittorietà, ambiguità e carenze della concretizzazione attuativa della contrattazione collettiva. Una trascendenza e una necessaria imperatività del dato legale che si giustificano non solo in considerazione del dato testuale offerto dalla previsione normativa in tema di nullità dei patti contrari, ma anche — seguendo la tipologia della realtà — alla luce della tutt’altro che puntuale, alle volte, inclinazione della contrattazione collettiva alla rigorosa delimitazione dell’equivalenza attraverso l’individuazione di specifici profili professionali (153). Eppure è altrettanto pacifico e comunemente riconosciuto come le qualifiche e le mansioni (similmente alla retribuzione) configurino un’area nella quale la contrattazione collettiva vanta una propria competenza istituzionale (154) ed appare per ciò prioritariamente legittimata ad intervenire in funzione di concretizzazione dell’equivalenza così come definita, in termini ampi, dalla previsione legale (155). Del resto è bene rammentare come sia per prima la stessa giurisprudenza a manifestare, in alcuni casi, una adesione, più che compatta totalitaria, a questa idea di fondo, per lo meno in relazione ad alcuni risvolti applicativi correlati all’art. 2103 c.c. (152) Maresca, A., 1978, 423-4. (153) Già Persiani, 1971, 14 e 18; Scarpelli, 1994, 50; Magnani, 2004, 169; Brollo, Vendramin, 2012, 527-8. (154) Miscione, 1987, 162. (155) Bianchi D’Urso, 1987, 118.; in senso adesivo v. Liebman, 1993, 208 e Castelvetri, 1992, 86. 116 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Così accade ad esempio quando — accogliendo l’impostazione c.d. “a doppia chiave” (156) che innesta una valutazione (che ci si attenderebbe essere solo) di tipo qualitativo su un plafond di ordine quantitativo — la giurisprudenza fa discendere automaticamente la violazione dell’art. 2103 c.c. dall’inquadramento delle mansioni di destinazione in un livello retributivo inferiore rispetto a quello delle mansioni di provenienza (157); laddove tale conclusione non sarebbe autorizzata da una valutazione dell’elemento della professionalità del tutto autonoma rispetto ai giudizi di valore retributivo espressi dall’autonomia collettiva, come si continua costantemente a rimarcare da parte della quasi totalità degli interpreti e, univocamente, della giurisprudenza (158). Ben più consistenti sono i contrasti e le incertezze affiorate a fronte dell’evoluzione della negoziazione collettiva nel settore privato, la quale in alcune occasioni (159) ha avviato dinamiche di “riclassamento” ovvero accorpamento di più livelli contrattuali in aree di inquadramento più ampie, supportate da previsioni di appositi meccanismi di fungibilità o rotazione (160). Questa particolare modalità di esplicazione dell’attitudine (156) Garilli, 1989, 176. (157) Da ultimo v. Cass. 25 gennaio 2006, n. 1388, GL, 2006, 36; v. l’ulteriore giurisprudenza citata da Pisani, 2009, 18-9; cfr. però Liso, 1982, 226 e Grandi, 1987, 267-8. (158) Per le tesi, rimaste minoritarie, che hanno ritenuto di poter ancorare l’equivalenza alla parità di valore delle mansioni o della professionalità espressa attraverso l’esercizio delle attività in esse ricomprese, Persiani, 1971, 16-7; Pisani, 1988, 300 ss.; Id. 1996, 130-1. (159) In questo senso già Scarpelli, 1994, 47. (160) Tra gli esempi più significativi: artt. 43 e 46 del CCNL 26 novembre 1994 per i dipendenti delle Poste Italiane, recante la clausola di fungibilità di mansioni equivalenti, accordo del 23 maggio 1995 e art. 5 all. art. 24 del CCNL 1998-2002, nonché nota a verbale art. 20 CCNL Gruppo Poste del 14 febbraio 2011; art. 4 del CCNL Industrie chimiche 19 marzo 1994, LI, 1994, 6, 47 ss., poi confermato nei rinnovi del 4 giugno 1998, 12 febbraio 2002, 10 maggio 2006, 18 giugno 2009 e 4 marzo 2013 (v. premessa all’articolo); artt. 36 e 37 CCNL per il personale delle Ferrovie dello Stato S.p.a. 6 febbraio 1998, ma v. poi l’art. 21 del CCNL del 16 aprile 2003 (oggi art. 27 del CCNL per il personale della mobilità del 20 luglio 2012); art. 75 CCNL per le aziende di credito del 11 luglio 1999, poi confermato negli accordi del 12 febbraio 2005 e 8 dicembre 2007; art. 17 CCNL agenzie di assicurazione in gestione libera del 4 febbraio 2011; art. 21 CCNL imprese del settore elettrico del 5 marzo 2010, da ridimensionare, però, alla luce delle constatazioni e del rinvio espressi dal rinnovo del 18 febbraio 2013. A livello aziendale sono noti i contratti Zanussi del 10 dicembre 1993, LI, 1994, 1, 77 ss.; Dalmine del 1998, LI, 1998, 21, 67 ss.; e più di recente l’accordo Fiat di Pomigliano del 15 giugno 2010, RIDL, 2010, III, 329 ss. 117 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore della contrattazione collettiva all’integrazione del dettato legale ha rappresentato l’occasione per il riconoscimento, da parte delle Sezioni Unite, della legittimità delle clausole collettive che, per “contingenti esigenze aziendali” e, quindi, entro un’ottica di temporaneità, consentono al datore di lavoro l’esercizio dello ius variandi, indirizzando il lavoratore verso altre mansioni equivalenti contrattualmente, ma che in mancanza di tale giustificazione organizzativa non sarebbero state considerate come tali (161). In alternativa, le Sezioni unite della Cassazione — recependo le proposte dottrinali (162) tese al riconoscimento della legittimità di uno scambio tra formazione professionale e adibizione a mansioni diverse dalle ultime svolte — hanno riconosciuto come legittima quella che viene definita come una deroga al “livello minimo di professionalità acquisita” sulla base di meccanismi di scambio, avvicendamento o rotazione, ma per consentire la valorizzazione della professionalità potenziale di tutti i lavoratori inquadrati in quella qualifica (163). Una duplice operazione di adattamento (164) “travestita”, come non è insolito nelle letture giurisprudenziali dell’art. 2103 c.c., da deroga eccezionale, si potrebbe dire in anticipazione della logica ispiratrice dell’art. 8, commi 2, lett. b), e 2-bis, l. n. 148/2011 (165). (161) Cass. S.U. 24 novembre 2006, n. 25033; Cass. 11 novembre 2009, n. 23877; Cass. 4 marzo 2014, n. 4989. (162) Bianchi D’Urso, F., 1987, 132; Liso, F., 1987, 62-4; Treu, T., 1989, 35; Scarpelli, F., 1994, 51. (163) Cass S.U. 24 novembre 2006 n. 25033, cit.; Cass., ord. 31 ottobre 2011, n. 17956; Cass. 10 settembre 2013, n. 20718. (164) Secondo questa giurisprudenza, il giudice sarebbe autorizzato non soltanto a valutare se l’inquadramento sia conforme al patrimonio di professionalità acquisito dal lavoratore, ma anche di valutare se ricorrano esigenze aziendali che ne giustifichino la sotto-utilizzazione verso mansioni diverse, se esse siano temporanee e contingenti, o ancora di verificare se i meccanismi di formazione siano adeguati secondo la logica di scambio tra “deroga” e “formazione”. A commento della svolta giurisprudenziale operata dalla sentenza delle Sezioni Unite, Santoro-Passarelli, G., 2009a, 207, pone in secondo piano il collegamento con le contingenti esigenze aziendali, evidenziando come l’orientamento accolto dalla Corte di Cassazione proceda decisamente nel senso del riconoscimento al contratto collettivo “e non più al giudice” della competenza a definire l’equivalenza delle mansioni. (165) Sul punto v. Brollo, 2012, 383 ss. e spec. 394 ss. In senso favorevole alle rielaborazioni o riscritture dell’equivalenza da parte della contrattazione collettiva nella direzione del suo ampliamento si esprime, altresì, Carinci, M.T., 2013, 228, puntualizzando come, tuttavia, questo incremento della flessibilità funzionale dovrebbe essere orientato “in una necessaria prospettiva di temporaneità”. L’idea è condivisa da Sciarra, 2013, 289. 118 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Attraverso questo percorso tutto sommato obliquo la giurisprudenza di legittimità ha finito con il confermare, in sostanza, come la salvaguardia di “quel complesso di capacità e di attitudini che viene definito con il termine professionalità” si esplichi, in condizioni di normalità sociale, nella concretizzazione della disciplina delle mansioni operata dall’autonomia collettiva. È noto, del resto, come alla base del rapporto tra nozione legale e collettiva dell’equivalenza si collochino le problematiche interpretative circa la nozione di professionalità da tutelare. Esclusa la configurabilità di un obbligo di formazione del lavoratore (166), è indubbio come oggi l’interpretazione si ponga in termini più delicati anche in ragione della più rapida evoluzione tecnologico-organizzativa dell’impresa e dei profili ivi operanti (167). Così, all’orientamento consolidato che riferisce l’art. 2103 c.c. alla protezione del complesso di capacità e competenze acquisite dal lavoratore, è seguita l’attribuzione di rilievo alla “storia professionale” del lavoratore o alla “perdita delle potenzialità professionali acquisite o affinate” da questi sino al mutamento delle mansioni (168), fino a considerare rilevanti, nella c.d. prospettiva “dinamica”, il potenziale arricchimento del bagaglio di conoscenze ed esperienze (169) o il mantenimento delle occasioni di crescita professionale (170) del prestatore di lavoro. A monte di queste formulazioni, tuttavia, non può non collocarsi la generale consapevolezza del fatto che i contenuti e l’intensità della protezione legale, in quanto destinati a ricevere la loro concretizzazione all’interno di un determinato contesto professionale caratterizzato da determinati assetti di interessi e tempo per tempo influenzato da una pluralità di fattori evolutivi, non possono essere dissociati dai significati che alle stesse espressioni (prime fra tutte “equivalenza” e “professionalità”) vengono asse(166) Cfr. Romagnoli, 1972, 185; ma si vedano, di recente, le ricostruzioni di Guarriello, 2000, sul punto 218 e di Alessi, 2004, spec. 140 ss. (167) Pisani 2009, 446. (168) Rispettivamente, Cass. 10 dicembre 2009, n. 25897 e Cass. 4 marzo 2014, n. 4989. (169) Cass. 2 ottobre 2002, n. 14150; Cass. S.U. 24 novembre 2006, n. 25033; Cass. 23 luglio 2007 n. 16190; Cass. 5 aprile 2007, n. 8596; Cass. 10 dicembre 2009, n. 25897, cit. (170) Cass. 29 settembre 2008, n. 2493. 119 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore gnati nelle sedi più idonee a rappresentare il punto di sintesi di tali interessi (171). Così delineate le linee applicative di fondo, si comprende come la locuzione “mansioni equivalenti” si presti, ad essere messa a fuoco come “una formula aperta, suscettibile di specificazioni tramite l’autonomia collettiva, secondo la vocazione storica di quest’ultima ad integrare le clausole generali di estrazione legale ed anzi sarebbe lecito supporre che tale formulazione generica sia stata adottata di proposito nella consapevolezza che sarebbe spettata all’organizzazione sindacale la funzione di tradurre in concretezza quella genericità sulla scorta delle peculiarità inerenti alle singole realtà produttive” (172). Di conseguenza, e ricollegandosi a considerazioni già svolte (cfr. il precedente paragrafo n. 6), va condivisa l’idea che “la determinazione contrattuale dell’area di fungibilità delle mansioni dovrebbe avere la stessa forza di resistenza della determinazione contrattuale della retribuzione ex art. 36 Cost.” (173). Si può, cioè convenire sul fatto che tale determinazione, in ragione della sua provenienza dal sub-sistema sociale maggiormente attendibile rinvenibile nell’ambito professionale di riferimento, sia assistita da una presunzione di conformità alla legge; nel senso che, come già puntualizzato da Grandi, una valutazione giudiziale che si distacchi dalle previsioni del contratto collettivo presuppone o un vuoto di disciplina da parte del contratto medesimo ovvero dovrà essere necessariamente motivata “sulla base di altri dati di fatto oggettivi, desunti dall’esperienza tecnica del lavoro o da altre variabili organizzative e ambientali” (174). (171) Di qui la conseguenza, sulla quale convengono molti interpreti, che il giudizio di equivalenza debba essere sempre “fondato su dati di tipicità ambientale registrati e valutati, con maggiore consapevolezza, dalla contrattazione collettiva la quale, pertanto, è in grado di formulare appropriati giudizi in ordine al valore di certe prestazioni, di operare la loro modificazione e addirittura di creare nuove figure professionali alla luce dei dati emergenti dai concreti assetti produttivi” e si riveli, di fatto, lo strumento più idoneo a individuare i fattori di affinità qualitativa tra mansioni relative a diverse posizioni: Bianchi D’Urso, 1987, 130-32; nello stesso senso Ghera, 1984, 396-7; Liebman, 1993, 209; Cfr. anche Brollo, 1997, 162, Carabelli, 2004, 59 e Magnani, 2004, 172; Liso, 1982, 178 e v. Id., 1987, 63. (172) Bianchi D’Urso, ult. loc. cit., e in senso adesivo Liebman, 1993, 209-10. A sostegno di una nozione convenzionale di equivalenza anche Ichino, 2005, 506 e Pedrazzoli, 1990, 559. (173) Magnani, 2004, 179. (174) Grandi, 1986, 267. 120 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore In questa prospettiva, le clausole del contratto collettivo dalle quali si arriva a desumere o sulla base delle quali è possibile argomentare, certo con diversi gradi di immediatezza e di evidenza testuale, la fungibilità tra diverse mansioni collocate nello stesso livello o area professionale rappresentano il dato sociale presuntivamente idoneo a fungere da regola di giudizio per la soluzione delle eventuali controversie. Un dato la cui conformità alla clausola generale dell’equivalenza potrà essere, sì, contestata, ma solo deducendo, con onere a carico di chi sollevi tale contestazione, elementi di valutazione ulteriori e diversi e comunque anch’essi ricavati dalla realtà sociale e non esclusivamente ascrivibili all’attività valutativa del giudice. Elementi di valutazione, quindi, “altri” e diversi rispetto al contratto collettivo, ma comunque espliciti, oggettivi e controllabili: si pensi, a titolo di esempio, al raffronto con i programmi di studio per il conseguimento del titolo professionale necessario per lo svolgimento delle mansioni di provenienza in rapporto ai contenuti delle nuove, ovvero alla valutazione circa il possesso delle conoscenze tecniche per l’utilizzo di determinati programmi o macchinari, come individuati dal produttore o dal fornitore; per non parlare, ma è invero l’ipotesi meno problematica, delle certificazioni di competenze o altre attestazioni conseguite a seguito della partecipazione ad attività formative realizzate o promosse dal datore di lavoro. Tutti elementi, questi, che assecondano la connessione tra il contenuto della norma e una visione della professionalità non circoscritta all’angusto e per certi versi claustrofobico perimetro della “storia professionale individuale” ripercorsa in sede giudiziale, bensì orientata verso una visione dinamicamente rivolta verso il contesto organizzativo (175). Il potenziale margine di “scollamento” tra la ratio della norma e la sua applicazione giudiziale non sembra, quindi annidarsi nell’eventualità di un controllo giurisdizionale in materia di equivalenza — anche diretto alla verifica del rispetto di questo requisito da parte del contratto collettivo — quanto piuttosto nelle (175) Una dinamicità, si badi intesa non nel senso, respinto dall’interpretazione maggioritaria, di un diritto alla progressione professionale, bensì come riflesso dell’evoluzione organizzativa e come riposizionamento dei confini dell’obbligazione lavorativa in termini coerenti con tale evoluzione: sul punto, in particolare, Carabelli, 2004, spec. 59 ss. 121 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore letture “monistiche” o “personalizzate” dell’equivalenza stessa, svincolate da ogni altro richiamo agli elementi e ai dati oggettivi che secondo le pratiche sociali osservate nel contesto professionale e socio-economico di riferimento ne confermerebbero o ne confuterebbero la sussistenza. In sintonia con la lettura di questa disposizione in chiave di rinvio, pur teleologicamente orientato, ai dati di realtà sociale, si comprende come le letture critiche più consapevoli non si siano appuntate direttamente sui rischi di autoreferenziale reinterpretazione del requisito dell’equivalenza quanto, piuttosto, sull’intrinseca contraddittorietà di possibili declinazioni giudiziali in senso involutivo o comunque di cristallizzazione di una nozione logicamente e fisiologicamente dinamica (176); una dinamicità che non opera, peraltro, solamente sul versante delle innovazioni organizzative interne all’azienda ma dipende da una molteplicità di fattori anche più generali, come i cambiamenti introdotti nei sistemi di istruzione e formazione professionale e l’ampliamento dei corredi di “competenze” il cui possesso si dà per acquisito ai fini dell’accesso a determinate posizioni professionali. 8.1. Equivalenza delle mansioni e lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni. L’attitudine del contratto collettivo a definire esaustivamente l’equivalenza professionale trova riscontro nell’art. 52, comma 1, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, nel testo risultante dalle numerose modifiche subite da questa norma, dapprima, dalla c.d. seconda privatizzazione del lavoro pubblico e, successivamente, ad opera dell’art. 62, comma 1, del d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150. Sono note le questioni interpretative connesse a tale previsione legislativa, così come è stato fatto oggetto di un ampio dibattito l’accoglimento ormai generalizzato, da parte della più recente giurisprudenza di legittimità, della tesi della c.d. equivalenza for(176) Ed in questo senso appare attuali l’analisi critica di Carinci, 1985, 228, laddove sottolineava il pericolo che l’applicazione dell’art. 2103 c.c. rimanesse eccessivamente attestata sul fronte del garantismo individuale “costruito a misura di un dato assetto organizzativo e di un dato quadro economico-sociale”. Nello stesso senso anche le considerazioni di Treu, 1989, 35 e di Proia, 1990, 158 ss. 122 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore male (177); tesi secondo la quale nell’area del lavoro pubblico il contratto collettivo costituirebbe la fonte esclusiva dell’equivalenza delle mansioni e non autorizzerebbe un intervento giudiziale che si orienti in senso diverso rispetto alle previsioni del contratto collettivo in nome ed in applicazione di un concetto legale di equivalenza svincolato dalle stesse previsioni contrattuali, né, tanto meno, alla stregua di un giudizio condotto sulla base di una valutazione soggettiva della professionalità posseduta dal dipendente pubblico. Pur nella consapevolezza dell’ampiezza complessiva di questa tematica, il tratto che qui ci si può limitare a porre in evidenza è individuabile nella generale premessa interpretativa secondo la quale la formulazione di questa previsione legislativa non è leggibile come una mera variante linguistica dell’art. 2103 c.c. È stato affermato, coerentemente con tale esigenza ermeneutica come, nella logica dell’art. 52 d.lgs. n. 165/2001, che “l’equivalenza tra le mansioni non si presta ad essere rappresentata come la risultanza di un accertamento in concreto, ex post, condotto sulla base di parametri — soggettivi e oggettivi — riferibili all’esecuzione della prestazione lavorativa essendo, invece, affidata al sistema di inquadramento professionale la sua definizione esplicita nel contesto dell’area di inquadramento del lavoratore”; di qui il convincimento che “il perimetro dell’equivalenza vada in ogni caso delineato dalla contrattazione collettiva...con l’auspicio che i contratti collettivi siano più puntuali nel definire coerentemente gli ambiti dell’equivalenza professionale...abbandonando il ricorso a formule equivoche e insignificanti, non di rado meramente ripetitive del dettato legislativo” (178). Ne discende che, in coerenza con lo specifico assetto delle fonti regolato dall’art. 2 del d.lgs. 165 del 2001, l’art. 52 attribuisce alla contrattazione collettiva, anche nella versione odierna del disposto legislativo (179), una piena riserva di competenza in materia di (177) Sull’affermazione di questa tesi, da ultimo, Mezzacapo, 2014, 2581 ss. Tra le molte pronunce in tal senso, Cass. S.U. 29 maggio 2012, n. 8520, GC, 2012, I, 2460; Cass. 5 agosto 2010, n. 18283, LPA, 2010, II, 710; Cass. 11 maggio 2010, n. 11405; Cass. 21 maggio 2009, n. 11835, FI, 2010, I, 1, 78; Cass. S.U. 4 aprile 2008, n. 8740, ibidem, 2008, I, 2534. Per una valutazione complessiva di tale orientamento giurisprudenziale si veda Viscomi, 2013, 83 s. (178) Esposito, 2010, 171 s. (179) In tal senso, tra gli altri, Ferrante, 2011, 1338; criticamente, Vendramin, 2009, 1035 ss. e, soprattutto, Viscomi, 2013, 64 il quale osserva che “l’equivalenza è ora affermata 123 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore equivalenza (180), che riflette quella più generale in materia di regolamentazione del rapporto di lavoro operata nei confronti del contratto collettivo dal comma 1 dell’art. 40. Rispetto all’esercizio di tale competenza, l’eventuale intervento giudiziale si configura come avente funzione integrativa delle possibili carenze o lacune della regolamentazione di fonte collettiva, nella logica dell’art. 1419, secondo comma, c.c. (oggi richiamata anche dall’art. 2, comma 3-bis del d.lgs. n. 165 del 2001) (181). A maggior ragione, quindi, un controllo giudiziale sulle clausole collettive alla luce di un preteso generale e sovrastante concetto legale di equivalenza (182) si risolverebbe in un sostanziale ribaltamento di questo assetto di fonti; laddove, piuttosto, solo in presenza di dati ed elementi oggettivi ed esterni che attestino l’inidoneità professionale del dipendente pubblico allo svolgimento delle nuove e diverse mansioni (183) potrebbe risultare ammissibile come caratteristica assoluta, sciolta cioè da ogni valutazione formalmente operata dalla contrattazione collettiva, potendosi così aprire un varco alla valutazione sostanziale, non diversamente che nel settore privato”; rimane tuttavia da comprendere, accedendo a questa tesi, quali siano allora le differenziazioni sostanziali correlate alle due diverse enunciazioni legislative, quella contenuta nella norma codicistica e quella dettata dealla disposizione speciale in materia di lavoro pubblico. (180) Come già puntualizzato, in precedenza, tra le altre, da Trib. Milano, 27 marzo 2002, LG, 2003, 90. (181) Nel senso della possibile censura di nullità del contratto individuale per indeterminatezza dell’oggetto in presenza di declaratorie contrattuali e di clausole di fungibilità professionale eccessivamente generiche, Gargiulo, 2008, 86 s. (182) Per esempi in tal senso cfr., tra le altre, Trib. Milano, 11 dicembre 2007, LG, 2008, 537; Trib. Trieste, 8 febbraio 2002, LG, 2003, 465. (183) Cfr. in tal senso Trib. Ravenna 9 aprile 2002, Risorse Umane, 2004, 3, 168 (e in Repertorio di giurisprudenza de Le leggi d’Italia online) secondo la quale “l’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001 dispone che il lavoratore dipendente di pubbliche amministrazioni deve essere adibito alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi; a differenza dell’art. 2103 c.c., quindi, tale norma non riferisce il giudizio di equivalenza, secondo i principi generali, alle mansioni da ultimo effettivamente svolte ma rinvia alle espresse previsioni in materia della contratta-zione collettiva, che acquista pertanto un ruolo decisivo in materia. Pertanto, la pubblica amministrazione datrice di lavoro può legittimamente adibire il lavoratore a tutte le mansioni dichiarate equivalenti dal contratto collettivo in quanto ricomprese nella stessa categoria contrattuale di inquadramento. Il giudice potrà sindacare l’operato della pubblica amministrazione soltanto con riferimento all’onere di mettere in grado il lavoratore di procurarsi i titoli professionali o abilitativi eventualmente necessari allo svolgimento delle nuove mansioni richieste”. 124 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore un intervento integrativo che circoscriva in maniera più puntuale l’ambito dello ius variandi del datore di lavoro pubblico rispetto a previsioni eccessivamente generiche dei contratti collettivi. 8.2. Mobilità geografica e ragioni giustificative del trasferimento. Un’ultima considerazione in materia di ius variandi riguarda il tema della mobilità geografica; si potrebbe essere indotti, data l’estrema prossimità delle formulazioni testuali, che il richiamo alle ragioni tecniche, organizzative e produttive, così come in altri contesti normativi, precluda all’interprete e al giudice qualunque spazio di valutazione fondato su schemi etici o sistemi valoriali, così come è per altre fattispecie nelle quali l’esercizio dei poteri datoriali è condizionato alla sussistenza di presupposti affini, prima fra tutte l’ipotesi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. L’assimilazione di queste diverse fattispecie (pur nella diversità di rationes) è senz’altro giustificata, ma non assoluta. Questo perché tra le ragioni giustificative del trasferimento possono rientrare anche motivazioni di natura etico-comportamentale. Da questo punto di vista, la tematica del trasferimento connesso a determinate valutazioni etiche assume rilevanza in relazione ai profili del trasferimento come sanzione disciplinare e, soprattutto, della contigua figura del mutamento della sede di lavoro conseguente a problematiche relazionali, normalmente qualificato, per affinità con le previsioni normative contrattuali relative a diverse categorie di pubblici dipendenti, come trasferimento per incompatibilità ambientale (184). Questi due particolari versanti della mobilità geografica, normalmente ma non necessariamente alternativi tra loro (185), dal (184) Sulla legittimità del trasferimento disposto in conseguenza di tensioni e contrasti insorti tra il lavoratore trasferito ed i colleghi, Cass. 5 novembre 2013, n. 24775 (con riferimento al trasferimento di lavoratore disabile in deroga all’art. 33, comma 6, della legge 5 febbraio 1992, n. 104); Cass. 13 maggio 2013, n. 11414, LG, 2013, 738; Cass. 10 marzo 2006, n. 5320, FI, 2007, I, 1588; Cass. 9 marzo 2001, n. 3525; Trib. Agrigento, 20 marzo 2001, RCDL, 2001, 691; Cass. 16 aprile 1992, n. 4655, RIDL, 1993, II, 571, con nota di Proia. (185) Ma si veda, per una possibile commistione generata da situazioni nelle quali la Cassazione ha riconosciuto da che un fatto disciplinarmente rilevante e sanzionato come tale 125 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore punto di vista delle possibili interrelazioni con l’autonomia collettiva rinviano a forme e tecniche di intervento alquanto dissimili. Con riferimento alla tematica del trasferimento per motivi disciplinari può parlarsi di un intervento di integrazione della clausola generale da parte del contratto collettivo conseguente, tuttavia, al mutato fondamento giuridico del trasferimento, non più rinvenibile nell’art. 2103 bensì nell’art. 2106 c.c. (186), sebbene tale “trasmigrazione” dall’area dello ius variandi a quella delle sanzioni disciplinari continui a scontare le obiezioni di quella dottrina che la qualifica come uno sconfinamento rispetto ai limiti legali della competenza riconosciuta all’autonomia collettiva, che non si estenderebbe alla facoltà di introdurre nell’apparato sanzionatorio misure punitive idonee a determinare mutamenti definitivi del rapporto di lavoro (187). Con riferimento, viceversa, alle situazioni nelle quali il trasferimento costituisce la risposta organizzativa ad una situazione di disfunzione organizzativa correlata alla presenza di un lavoratore in una determinata unità produttiva e al deterioramento di determinati rapporti interpersonali, è innegabile che si tratti di fattispecie difficilmente tipizzabili a priori. Ciò a maggior ragione se si conviene (188) che in questo caso i comportamenti idonei ad integrare le ragioni del trasferimento non siano riconducibili all’inadempimento (anche perché in questo caso si ricadrebbe nella fattispecie disciplinare), potendo concretizzarsi in condotte, pur non qualificabili né in ogni caso rilevanti come inadempimento, che possano divenire fonte di disagio interpersopossa altresì scaturire una ragione tecnica, organizzativa o produttiva che può legittimare il trasferimento, Cass. 1 settembre 2003, n. 12735, MGL, 2004, 91; Cass. 21 ottobre 1997, n. 10333, NGL, 1997, 761; Cass. 16 giugno 1987, n. 5339. (186) Per la tesi di matrice giurisprudenziale che condiziona la legittimità del trasferimento per motivi disciplinari all’inclusione dello stesso nei codici disciplinari incorporati nei contratti collettivi, Cass. 21 novembre 1990, n. 11233, GC, 1991, I, 583; Cass. 28 settembre 1995, n. 10252, GI, 1996, I, 1, 730, con nota di Marazza. (187) In questo senso, tra gli altri, Brollo, 1997, 552 ss.; Angiello, 2012, 725; contra, nel senso della legittimità del trasferimento disciplinare, Proia, 1993, 577; Levi, 2000, 138; Liso, 1982, 282. (188) In dissenso con alcune posizioni dottrinali. in particolare, cfr. Vallebona, 1987, 78; Carinci, M.T., 2005, 57. 126 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore nale e, conseguentemente, di potenziale disfunzionalità organizzativa (189). Di conseguenza, in questi casi, tanto — e soprattutto — la valutazione della fondatezza delle ragioni (al di là della loro scontata non interferenza con i limiti esterni posti dalle norme antidiscriminatorie), quanto la valutazione della giustificatezza della specifica misura organizzativa del trasferimento adottata nei confronti di quel determinato prestatore di lavoro, dovranno essere condotte con riferimento a canoni di accettabilità sociale e saranno suscettibili di un controllo giudiziale diretto alla verifica della rispondenza tra le motivazioni addotte e la decisione di procedere al trasferimento (190). Stante il carattere fortemente empirico delle situazioni di incompatibilità ambientale, si deve riconoscere che con riferimento a questa ipotesi non appare immaginabile un intervento dell’autonomia collettiva quale possibile fonte di standard valutativi. Piuttosto e in alternativa, le forme di intervento dell’autonomia collettiva che appaiono maggiormente appropriate ai fini della prevenzione e della composizione delle controversie vanno individuate nelle garanzie di tipo procedurale, introdotte in alcuni contratti collettivi (191) e la cui finalità, diversamente dalle ipotesi che sono state sin qui esaminate, non è quella di prefigurare un riempimento di significato della clausola generale, bensì di assecondare il controllo sulla sua applicazione. Un controllo che si svolge simultaneamente sul duplice piano del controllo sociale (anche attraverso l’eventuale intervento dei rappresentanti sindacali), sia del controllo tecnico-giuridico sulla sussistenza del requisito di legittimità del trasferimento, al cui compimento sono finalizzati gli obblighi strumentali che impongono al datore di lavoro di esaminare le eventuali obiezioni e contestazioni del lavoratore e di esplicitare le ragioni della decisione finale attraverso un provvedimento motivato. (189) Ammette questa eventualità, da ultimo, Angiello, 2012, 726; in precedenza, nello stesso senso, Calà, 1999, 221. (190) Si veda Cass. 23 febbraio 2007, n. 4265, LG, 2007, 1028 la quale puntualizza come non sia necessario che la scelta del datore di lavoro presenti i caratteri dell’inevitabilità, “essendo sufficiente che il trasferimento concreti una delle tra le scelte ragionevoli che il datore di lavoro possa adottare sul piano tecnico, organizzativo e produttivo”. (191) Per una panoramica, Brollo, 1997, 600 ss. 127 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore In questo caso l’intervento dell’autonomia collettiva non risponde, quindi, all’esigenza di integrazione della clausola generale bensì (in possibile raccordo con gli obblighi di correttezza e buona fede nell’esercizio dei poteri imprenditoriali) ad una esigenza di carattere gestionale anche finalizzata alla composizione dei possibili conflitti, con l’imposizione alle parti dell’onere di esplicitare le rispettive posizioni anche in considerazione di un possibile accertamento giudiziale. 9. Inadempimento, potere disciplinare, licenziamento. Sebbene sia riscontriavile un’evidente analogia strutturale con le previsioni legislative sinora prese in considerazione — con riferimento alle quali, come è stato osservato nei precedenti paragrafi, parte della dottrina manifesta minori riserve rispetto alla loro possibile qualificazione come clausole generali, talvolta anzi sostenendola apertamente — la tematica dell’inadempimento disciplinarmente sanzionabile e, in particolare, dell’inadempimento gravissimo o notevole e per ciò rientrante nelle fattispecie risolutorie della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, rappresenta l’ambito entro il quale rimane più acceso il confronto tanto sulla qualificazione come clausole generali delle previsioni di legge che definiscono le condizioni di legittimità del recesso, quanto sulla rilevanza delle previsioni dei contratti collettivi nell’ambito del controllo giudiziale sulla legittimità della sanzione, conservativa o espulsiva. Un dibattito, questo, all’interno del quale sono stati immessi alcuni nuovi, significativi elementi a seguito delle innovazioni legislative del 2010 e del 2012, che proprio in tema di rapporti tra potere disciplinare e potere di licenziamento, da un lato, e tipizzazione delle ipotesi di esercizio di tali poteri, dall’altro, hanno operato delle puntualizzazioni di cui appare necessario valutare la rilevanza sistematica. Aggiustamenti che, potrebbe dirsi, interessano trasversalmente l’intero complesso normativo che include le previsioni legislative in materia di sanzioni disciplinari, a partire dall’art. 2106 c.c., per giungere all’apparato sanzionatorio definito dal nuovo testo dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, con particolare riguardo al suo quarto comma. In particolare, quello del licenziamento “ontologicamente” 128 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore disciplinare è un ambito tematico entro il quale le interrelazioni tra clausole generali e i sottosistemi regolativi rappresentati dalle previsioni dei contratti collettivi in materia di sanzioni disciplinari e di licenziamento, oltre ad infittirsi, sono andate assumendo una rilevanza normativa sempre più marcata. Il nucleo centrale ed il principale snodo problematico di questo collegamento trovano, oggi, i loro punti di emersione, innanzitutto, nel richiamo alle “tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi” formulato nell’art. 30, comma 3, della legge 4 novembre 2010, n. 183; richiamo a cui oggi si ricollega — con qualche discontinuità logica che non esime, tuttavia, l’interprete dal perseguire l’obiettivo di coordinamento sistematico tra i due enunciati —, l’altro e complementare riferimento rivolto nell’art. 18, quarto comma, agli illeciti disciplinari non sanzionabili con il licenziamento perché rientranti “tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili” formulato nell’ambito della nuova disciplina sanzionatoria del licenziamento illegittimo. È stato già ricordato (nel paragrafo n. 4) come la materia dei licenziamenti per mancanze del lavoratore rappresenti il terreno sul quale la dicotomia tra clausole generali e norme elastiche viene più frequentemente evocata. Stante l’impossibilità e del resto in’inopportunità di un riepilogo, anche sommario, della sterminata letteratura in tema di licenziamenti, è sufficiente rammentare come buona parte della dottrina sia orientata (non senza eccezioni) a ritenere che la giusta causa e il giustificato motivo soggettivo non costituiscano delle clausole generali in senso tecnico ma, piuttosto, delle norme elastiche/vaghe (192), laddove la giurisprudenza di legittimità oscilla fra il ricorso alla categoria delle clausole generali (193) e quella delle norme elastiche (194). Al di là di queste oscillazioni, che per quanto riguarda il versante giudiziale non sempre corrispondono ad una precisa e coerente opzione classificatoria e spesso tradiscono, in realtà, un uso (192) (193) (194) Tra gli altri, Mengoni, 1986, 9; Ballestrero, 1991, 104; Nogler, 2007, 651. Ad esempio, si veda Cass. 29 aprile 2004, n. 8254. Fra tante, Cass. 12 agosto 2009, n. 18247. 129 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore atecnico e sinonimico delle differenti qualificazioni (195), la stessa giurisprudenza si esprime con riferimento alla sostanza del dato legislativo evidenziando come la giusta causa e il giustificato motivo soggettivo siano “disposizioni di limitato contenuto, delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama” (196); e in ogni caso il primo di questi “fattori esterni” considerati quali espressioni della coscienza sociale viene rinvenuto proprio nello standard offerto dalla disciplina collettiva (197) che esprime delle valutazioni che rispondono a canoni di normalità (198). Al contempo, viene frequentemente puntualizzato (199) che “nella valutazione del presupposto della giusta causa di licenziamento, il giudice non è vincolato dalla eventuale previsione del contratto collettivo applicato, dovendo conformarsi, esclusivamente, alla nozione legale recata dall’art. 2119 c.c.” (200). Questa linea interpretativa si spinge, a volte, più innanzi, nella direzione di una forte relativizzazione del “peso” di tali clausole ai fini del “riempimento di senso” delle espressioni generali utilizzate dal legislatore. Siffatta relativizzazione si combina, poi, con una omologazione di strumenti e tecniche interpretative, in realtà, assai eterogenei. Si afferma che le tipizzazioni collettive di g.c. e di g.m.s. hanno una valenza meramente esemplificativa e non tassativa (201), potendo il giudice discostarsi dalle regole di fonte collettiva sia quando le ritenga, già in astratto, espressione di una sanzione eccessiva (195) Come dimostrano emblematicamente quelle pronunce che qualificano la giusta causa come clausola generale e, al tempo stesso, come norma elastica. Cfr: Cass. 13 dicembre 2010, n. 25144; Cass. 22 aprile 2000, n. 5299; Cass. 15 aprile 2005, n. 7838; Cass. 4 dicembre 2002, n. 17208, secondo le quali “l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare le clausole generali come quella dell’art. 2119 c.c., che, in tema di licenziamento per giusta causa, detta una tipica « norma elastica », non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità”. (196) Cass. 2 marzo 2011, n. 5095. (197) Cass. 19 agosto 2004, n. 16260; Cass. 22 dicembre 2006, n. 27452. (198) Cass. 14 febbraio 2005, n. 2906. (199) Cass. 10 agosto 2006, n. 18144, OGL, 2006, I, 880. (200) Ciò in quanto, si prosegue, “non può essere consentito all’autonomia privata, individuale o collettiva, di introdurre ipotesi estintive del rapporto di lavoro a tempo indeterminato diverse da quelle tassativamente fissate dal legislatore”: Cass. 18 ottobre 2006, n. 22342. (201) Cass. 18 novembre 2009, n. 24329. 130 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore rispetto alla gravità della mancanza (202). Laddove, al contrario, solo le previsioni collettive che prevedano sanzioni conservative sarebbero, in quest’ottica, vincolanti per il giudice, in quanto espressione di una norma di miglior favore per il lavoratore (ossia l’art. 12 della legge n. 604 del 1966). Un’ulteriore manifestazione di questo approccio più spiccatamente relativista nei confronti delle tipizzazioni operate dal contratto collettivo si riscontra nelle pronunce secondo le quali l’applicazione delle norme elastiche può essere censurata in sede di legittimità ex art. 360 n. 3, c.p.c. “nei casi in cui gli standards valutativi sulla cui base è stata definita la controversia finiscano per collidere con i principi costituzionali, con quelli generali dell’ordinamento, con precise norme suscettibili di applicazione in via estensiva o analogica, ed infine anche nei casi in cui i suddetti standards valutativi si pongano in contrasto con regole che si configurano, per la costante e pacifica applicazione giurisprudenziale e per il carattere di generalità assunta, come diritto vivente” (203). È certo indiscutibile che gli standards promananti da un subsistema sociale, sinanche derivanti dall’esercizio di una competenza costituzionalmente riconosciuta dall’ordinamento come quelli offerti dal contratto collettivo, debbano conformarsi ai principi legali sovraordinati — nei limiti in cui si ritenga che tali principi possano tradursi in comandi direttamente applicabili nei rapporti tra privati — nonché agli altri limiti esterni puntualmente definiti dal legislatore (come quelli, esemplari, promananti dalla normativa in materia di contrasto alle discriminazioni) ed oggi richiamati in forma aggregata dal primo comma del “nuovo” art. 18 della legge n. 300 del 1970. Più ambiguo e sfuggente, in questa giurisprudenza, il richiamo alle “regole di diritto vivente” che riceverebbero la loro legittimazione in forza di una “costante e pacifica applicazione giurisprudenziale”. Appare ancor più difficile ritenere in linea con l’idea di clausola generale e del correlato standard valutativo l’ipotesi che il giudice possa provvedere alla sua concretizzazione in termini diversi rispetto alla tipizzazione operata dal contratto collettivo mediante un empirico ed estemporaneo “bilanciamento” dei contrapporti inte(202) 2010, 237. (203) Ballestrero, 2012, 799; Carinci, M. T., 2011, 797; Niccolai, 2008, 98; Pellacani, Tra le molte pronunce in tal senso, Cass. 17 agosto 2004, n. 16037, cit. 131 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore ressi costituzionalmente tutelati, normalmente formulato in forma “discorsiva” e non supportato da elementi oggettivi e controllabili ulteriori rispetto alla mera sequenzialità logica della motivazione (204). Diversa è l’ampiezza del margine di valutazione giudiziale nel caso in cui il licenziamento sia intimato in conseguenza di una condotta non contemplata dal contratto collettivo (205), sebbene anche in questo caso dovrebbe considerarsi coerente con la ratio della norma che la valutazione giudiziale sia compiuta attraverso la ricerca degli standard etico-comportamentali più appropriati (anche ad esempio attraverso un riscontro sulla percezione di determinati comportamenti nel contesto imprenditoriale di riferimento) e non di un’operazione di “libero” ed empirico bilanciamento tra i contrapposti interessi e i relativi referenti di ordine costituzionale. Per converso e quanto concerne la clausola generale di proporzionalità contenuta nell’art. 2106 c.c. con riguardo alle sanzioni disciplinari di tipo conservativo, l’impostazione che assegna al contratto collettivo la funzione di specificazione dei comportamenti disciplinarmente illeciti e delle relative sanzioni ha trovato una stabile conferma nella concreta applicazione dell’istituto. Ciò anche in considerazione del fatto che nella lettura adeguata al quadro normativo odierno, il richiamo contenuto nella previsione del codice civile, alle norme corporative va riferito (come confermato oggi dal quarto comma dell’art. 18 riformulato dalla legge n. 92 del 2012) alla contrattazione collettiva di diritto comune (206), autorizzata dall’art. 7, primo comma, della legge n. 300 del 1970 ad individuare i comportamenti disciplinarmente rilevanti e le relative sanzioni (207). L’operatività congiunta di queste due componenti del medesimo complesso normativo (art. 2106 c.c. e art. 7 St. Lav.), come è stato rimarcato anche di recente, “implica la identificazione, ad (204) Per applicazioni recenti del metodo del bilanciamento degli interessi cfr. Cass. 28 agosto 2013, n. 19834; Cass., 25 giugno 2013, n. 15926, cit.; Cass. 2 novembre 2005, n. 21213, cit.; Cass. 9 settembre 2003, n. 13194. (205) Sul punto cfr. Carinci, M.T., 2011, ult. loc. cit.; Niccolai, 2008, 99. Cass. 18 febbraio 2011, n. 4060, Cass. 9 luglio 2007, n. 15334, Cass. 16 marzo 2004, n. 5372. (206) Mainardi, 2002, 116; e si veda già Assanti, 1964, 7 e ss.; Amoroso, 2014, 951. (207) Con riferimento ad alcuni spunti di superamento della distinzione tra sanzioni conservative e sanzioni estintive ai fini del loro inserimento nel codice disciplinare, da ultimo, Del Conte, 2012, 833 s. 132 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore opera dell’autonomia collettiva, in via esemplificativa e ragionevolmente circostanziata, delle condotte e dei fatti rilevanti come inosservanza/inadempimento/infrazione, non già per la loro considerazione in sé, ma per la loro valutazione, appunto, in termini di graduazione della gravità e per la commisurazione della sanzione da applicare, secondo una scelta di valorizzazione delle clausole generali...una attività di specificazione che risulta intimamente e funzionalmente connessa con l’esercizio del potere organizzativo e che incorpora un significativo grado di soggettività, solo contenuto dalla esistenza a monte di divieti legali specifici ...il cui apprezzamento è bilateralmente effettuabile in sede contrattuale collettiva” (208). Nonostante la natura anch’essa sanzionatoria del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo determinato da gravi mancanze del lavoratore, con riferimento al licenziamento disciplinare il quadro delle opinioni e degli orientamenti appare estremamente più frastagliato. A partire dalla stessa applicabilità al licenziamento disciplinare dell’art. 2106 c.c., data per pacifica da alcuni interpreti (209) ed energicamente respinta da altri (salvo, poi, puntualizzare che il licenziamento rimane comunque soggetto ad un giudizio di proporzionalità (210)). L’incidenza della clausola generale di proporzionalità sulla valutazione di legittimità del licenziamento poteva già risultare corroborata, come già accennato, dalla copiosissima giurisprudenza che ha riconosciuto, anteriormente alla riforma del 2012, l’illegittimità del licenziamento disciplinare nell’ipotesi in cui il contratto collettivo prevedesse una sanzione meramente conservativa per il medesimo comportamento addebitato al lavoratore (211). Constatazione che aveva indotto un’attenta dottrina a (208) Sandulli, 2013, 348. (209) Recentemente, in tal senso, Ballestrero, 2013, 51; Carinci, F., 2013, 43; Tremolada, 2013, 111. (210) O, per meglio dire, di adeguatezza in ragione dell’interpretazione conforme al principio dell’extrema ratio dell’art. 3 della legge n. 603 del 1996. Così Nogler, 2007, 628. (211) Cfr., tra le altre, Cass. 7 novembre 2011, n. 23063, NGC, 2012, 489; Cass. 17 giugno 2011, n. 13353, la quale puntualizza come “deve escludersi che, ove un determinato comportamento del lavoratore, invocato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento, sia contemplato dal contratto collettivo come integrante una specifica infrazione disciplinare cui corrisponda una sanzione conservativa, essa possa formare oggetto di una autonoma e più grave valutazione ad opera del giudice”; Cass. 20 marzo 2007, n. 6621, NGC, 2007, 1225, nel condividere questo principio di diritto, ha, tuttavia, soggiunto che “per escludere che il 133 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore leggere tale orientamento come indice di una forza vincolante, sia pur indiretta, del contratto collettivo nei confronti del giudice (212). La previsione dell’art. 18 St. lav., quarto comma, nel nuovo testo, recepisce questo principio di diritto conferendogli ora il valore di regola legale, in quanto stabilisce che ogni qual volta il fatto contestato sia punito con una sanzione conservativa dal contratto collettivo o dal codice disciplinare applicabile il giudice è tenuto a recepire il giudizio di minore gravità espresso dalla tipizzazione operata da tali fonti e a disporre la reintegrazione con tutela risarcitoria attenuata (213). Occorre puntualizzare che le previsioni richiamate dal quarto comma, secondo una prima opzione interpretativa (214), devono essere sufficientemente specifiche e tali da consentire alle parti di poter preventivamente apprezzare l’insufficiente gravità del fatto, con la sostanziale esclusione — anche alla luce dell’eliminazione, nel testo definitivo approvato dalla Camere, del riferimento alle “previsioni di legge” (215) — di ogni valutazione giudiziale della proporzionalità ex art. 2106 c.c. ai fini dell’individuazione della sanzione applicabile. Secondo una diversa lettura (216), proposta da chi pone in rilievo che il quarto comma richiama il contratto collettivo in giudice possa discostarsi dalla previsione del CCNL, è necessario che vi sia integrale coincidenza tra la fattispecie contrattualmente prevista e quella effettivamente realizzata, restando per contro una diversa e più grave valutazione possibile e doverosa quando la condotta del lavoratore sia caratterizzata da elementi aggiuntivi estranei ed aggravanti rispetto alla fattispecie contrattuale”; Cass. 29 settembre 2005, n. 19053. Sul punto, per la dottrina più recente, si veda Del Conte, M., 2012, 848. (212) Napoli, 1993, 91. (213) Fra i commenti sull’art. 18, St. Lav., come modificato dalla legge n. 92 del 2012 vedi, tra gli altri, Tremolada, 2013, 107 ss.; Carinci, F., 2013; Maresca, 2012, 415 ss.; Marazza, 2012c, 612 ss.; Vallebona, 2012; Pisani, 2012a, 741; Speziale, 2012. (214) Vallebona, 2012, 57-8; Tremolada, 2013, 126, secondo il quale le disposizioni disciplinari devono soddisfare “un requisito di specificità ‘qualificata’, cioè tale da consentire al datore di lavoro di rappresentarsi agevolmente, senza dover compiere particolari valutazioni, che il tipo di mancanza commessa dal lavoratore poteva essere punita esclusivamente con una sanzione conservativa”. Marazza, 2012c, 624, che esclude l’applicabilità del quarto comma quando le disposizioni disciplinari sono stabilite definendo separati elenchi per le mancanze e per le sanzioni che possono essere irrogate. (215) Eliminazione auspicata da Maresca, 2012, 445 ss. e poi valutata positivamente da Tremolada, 2013, 124 ss. (216) Speziale, 2012, 35 ss.; Carinci, F., 2013, 44 ss. 134 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore generale e dunque tutte le previsioni disciplinari — incluse quelle non puntuali — l’eliminazione del riferimento alle previsioni di legge non consente di escludere che il giudice debba comunque svolgere una valutazione di proporzionalità sulla base dell’art. 2106 c.c. Anche coloro che accedono a questa interpretazione riconoscono, tuttavia, che il nuovo quarto comma accentua la rilevanza della valutazione di gravità del fatto espressa dal contratto collettivo (217). Per converso, l’onere di predeterminazione tassativa delle infrazioni connesse alle sanzioni di carattere estintivo, ineludibile con riguardo alle sanzioni conservative, è sempre stato escluso dalla giurisprudenza; ciò normalmente con riguardo, quanto meno, alle condotte contrarie alla comune etica o del comune vivere civile (riconducibilità che, per le motivazioni già accennate, il giudice è tenuto di volta in volta a motivare, non potendo fari riferimento esclusivamente a generici e astratti “cataloghi” di “principi”) (218); anche se non mancano pronunce (219) che, più radicalmente, si sono espresse nel senso dell’assoluta inesistenza di tale onere con generale riferimento a tutte le sanzioni di carattere espulsivo, “atteso che, indipendentemente dal richiamo o dalla previsione di determinate analoghe condotte, punibili con il recesso, nella pattuizione collettiva, il potere di licenziamento è attribuito direttamente dalla legge al verificarsi di situazioni che ne integrino la giusta causa o il giustificato motivo”. Una conclusione che, alla luce della novità legislativa intervenuta nel 2010, deve essere necessariamente sottoposta a revisione. 9.1. Licenziamento e “tipizzazioni” di fonte collettiva Nei numerosissimi commenti all’art. 30, comma 3 del “colle(217) In particolare Speziale, 2012, 35, osserva come “il giudizio di proporzionalità, dunque, è confermato come elemento essenziale dell’accertamento del giudice, seppure delegato ad atti esterni, contrattuali o unilateralmente disposti dal datore di lavoro”. (218) Per tutte, esemplificativamente, Cass. 16 marzo 2004, n. 5372, LG, 2004, 995; Cass. 1 settembre 2003, n. 12735, MGL, 2004, 91. (219) In questi termini, Cass. 10 novembre 2004, n. 21378. A tal proposito, ancora Napoli, 1993, 87, rilevava come, nonostante quanto statuito dalla Corte costituzionale con la sentenza 30 novembre 1982, n. 204, l’estensione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970 al licenziamento abbia riguardato, in realtà, i soli commi secondo e terzo e non anche il primo. 135 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore gato lavoro”, la maggior parte degli interpreti (220) si sono espressi nel senso della sua nulla o scarsissima incidenza rispetto ad un asseritamente consolidato panorama giurisprudenziale in tema di rapporti tra le fattispecie legali di giusta causa e giustificato motivo soggettivo e le ipotesi predefinite dai contratti collettivi; si è osservato, per lo più, come l’espressione “tiene conto” appaia troppo prudente (221) e blanda (222) per consentire un superamento della regola dell’inderogabilità in pejus della disciplina legale dei licenziamenti. In questa prospettiva si è ritenuto che l’art. 30 comma 3 possa, a tutto concedere, imporre un rigoroso onere di motivazione al giudice che voglia discostarsi dalla tipizzazione collettiva (223). Nonostante l’indubbio realismo che accomuna queste ricostruzioni, è innegabile che una lettura della previsione legislativa che perviene al risultato di assegnarle un significato meramente confermativo di costruzioni giuridiche preesistenti e generalmente accettate non può non suscitare un senso di insoddisfazione. Né, del resto, l’espressione “tiene conto” va letta necessariamente nell’accezione così debole (224) che è stata pressoché generalmente avallata. Le considerazioni espresse da chi ha osservato come la disposizione del “collegato lavoro” non possegga un carattere innovativo prendono a riferimento le sentenze che, come è stato ricordato, identificano nel contratto collettivo il principale standard valutativo (225), puntualizzando, al contempo, che quand’anche la disciplina collettiva preveda un determinato comportamento come giusta causa o giustificato motivo soggettivo di recesso, il giudice dovrebbe comunque valutare l’effettiva gravità del comportamento, tenendo conto del caso concreto e della portata soggettiva della condotta (226). (220) Fra i commenti che hanno preceduto e seguito la legge n. 183 del 2010 si vedano Ferraro, 2009; Ballestrero, M.V., 2009; Vallebona, 2010; De Angelis, 2010; Tiraboschi, 2010; Pellacani, 2010; Zoli, 2011; Carinci, M.T., 2011; Nogler, 2011; Pisani, 2012b; Perulli, 2014. (221) Pellacani, 2010, 243. (222) Carinci, M.T., 2011, 797. (223) Vedi, tra gli altri, Zoli, 2011, 839-840; Pellacani, 2010, 243-244. (224) Utilizza questo aggettivo Del Punta, 475. (225) Cfr. le già citate Cass., 25 giugno 2013, n. 15926; Cass., 22 dicembre 2006, n. 27452; Cass. 22 aprile 2000, n. 5299. (226) Cass. 18 gennaio 2007, n. 1095; Cass.24 ottobre 2000, n. 13983; Cass. 16 febbraio 1998, n. 1604. 136 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Qualora non siano riscontrabili, tuttavia, specifiche circostanze “attenuanti” e la fattispecie concreta sia completamente sussumibile nella previsione del contratto collettivo, alcuni interventi del giudice di legittimità si orientano con maggiore decisione nel senso che “la specifica previsione contrattuale di un illecito disciplinare, con la corrispondente sanzione, impedisce al giudice di sostituire le proprie valutazioni a quelle dell’autonomia privata, individuale o collettiva, salvo il controllo sulla nullità ex art. 1418 c.c. ...più precisamente, quando la clausola generale di licenziamento venga definitiva, ossia specificata, attraverso la volontà negoziale, il giudice è tenuto ad uniformarsi alla definizione contrattuale, salva l’ipotesi che questa permetta il licenziamento arbitrario o discriminatorio” (227). Non vi è però, come si è visto, un’assoluta convergenza di opinioni e di orientamenti giurisprudenziali in questo senso. Si incontrano pronunce che relegano la previsione comminatoria del licenziamento disciplinare contenuta nel contratto collettivo al rango di mera esemplificazione e si esprimono nel senso della pratica inammissibilità di una vera e propria tipizzazione, quando statuiscono che “la contrattazione collettiva è nulla e, perciò, inapplicabile, per contrasto con norme imperative dello stato tutte le volte in cui essa preveda una ipotesi automatica di sanzione disciplinare conservativa o espulsiva che prescinda dalla valutazione della sua proporzionalità rispetto all’infrazione commessa dal lavoratore sia sotto il profilo soggettivo e sotto quello oggettivo” (228). Queste pronunce rivelano uno scenario, quindi, in cui la valutazione empirica di “proporzionalità” compiuta a posteriori sul caso concreto finisce per assumere un peso largamente preponderante rispetto alla qualificazione di determinati comportamenti quali giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento da parte del contratto collettivo. In un panorama così nebuloso interviene il legislatore dettando, con l’art. 30, comma 3, una norma che, per la prima volta, riconosce espressamente al contratto collettivo la competenza a “tipizzare” ipotesi di giusta causa e giustificato motivo, compe(227) Cass. 1 aprile 2003, n. 4932 e nello stesso senso Cass. 8 aprile 1991, n. 3681; Cass. 15 dicembre 1989, n. 5645. (228) Cass. 27 settembre 2002, n. 14041, ma si veda anche Cass. 2 novembre 2005, n. 21213. 137 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore tenza già riconosciuta dalla legge n. 300 del 1970 con riferimento alle sanzioni aventi carattere conservativo. È possibile osservare che questo riconoscimento può essere letto in connessione con l’idea di fondo, ampiamente condivisa — e si potrebbe dire implicita nel riconoscimento della centralità dell’art. 2106 c.c. nella ricostruzione del potere disciplinare (229) — della riconducibilità all’inadempimento e dunque, al contratto, dell’esercizio del potere disciplinare (230). In ragione di tale riconducibilità e sino ad ora con riferimento alla tematica delle sanzioni di tipo conservativo, si riconosce che il binomio infrazione disciplinare/ sanzione disciplinare, governato dal criterio della proporzionalità sancito dall’art. 2106 c.c., presuppone sempre un inadempimento in senso tecnico agli obblighi di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c. (231). Ciò induce a prendere atto che l’accertamento del rilievo disciplinare di un determinato fatto o comportamento, affidato dagli artt. 2106 c.c. e 7 comma 1, della legge n. 300 del 1970 ai contratti collettivi (232), oltre alla funzione di specificare le conseguenze dell’inadempimento e prioritariamente rispetto all’assolvimento di tale funzione, ha la funzione di delimitare l’area del debito di prestazione del lavoratore (233), cristallizzando l’insieme di regole generali di condotta, e tra queste quelle attinenti la “esecuzione e la disciplina del lavoro” (234), che il lavoratore deve osservare per adempiere correttamente alla propria obbligazione (235). Ciò che contribuisce a spiegare perché, tradizionalmente, il tema della valutazione giudiziale di proporzionalità non abbia interessato le previsioni dei contratti collettivi in materia di illeciti punibili con sanzioni di tipo conservativo. (229) Sottolineata, da ultimo, da Carinci, F., 2012, 43. (230) Tra gli altri, Montuschi, 1973, 17 ss., nonostante le conclusioni critiche cui perviene: 154 ss; Spagnuolo Vigorita, 2011, 818. (231) Mainardi, S., 2002, 115 e ss. Molto significativa, ai fini che qui interessano, ossia con riferimento al licenziamento, appare la puntualizzazione di Napoli, M., 1980, 159, il quale sottolinea come “per la legittima utilizzazione di uno strumento contrattuale, quale è il recesso, è possibile addurre, in quanto notevoli, inadempimenti che, ove non notevoli, darebbero luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari”. In argomento cfr. anche, recentemente, Cester, Mattarolo, 2007, 246 ss. (232) Del Punta, 1991, 90 ss. (233) Chieco, 1996, 219. (234) Montuschi, 1973, 163; Spagnuolo Vigorita, Ferraro, 1975, 167. (235) Montuschi, 1991, 13. 138 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Ne discende che le clausole del contratto collettivo che contengono l’elencazione dei comportamenti disciplinarmente rilevanti (le infrazioni) e delle relative sanzioni, incluse espressamente, oggi, le “tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo” richiamate dall’art. 30, comma 3, si muovono tutte, senza distinzione fra sanzioni conservative ed espulsive, sul piano degli artt. 2106 c.c. e 7 St. Lav., nel senso che tali elencazioni hanno la funzione di delimitare l’area del debito di prestazione e, al tempo stesso, di esprimere dei giudizi sintetici di gravità degli inadempimenti del lavoratore ai quali consegue l’individuazione delle sanzioni che andranno applicate; sanzioni che, secondo la graduazione insita nel principio di proporzionalità, andranno da quelle più lievi, per gli inadempimenti di scarsa importanza, a quelle più gravi, per gli inadempimenti di maggior importanza, fino ad arrivare, in caso di notevole o gravissimo inadempimento, al licenziamento disciplinare con o senza preavviso. In questa prospettiva si potrebbe ritenere che la previsione dell’art. 30, comma 3, della legge n. 183 del 2010 riconosca la competenza del contratto collettivo in materia di tipizzazione dei comportamenti sanzionabili con il licenziamento in quanto tale tipizzazione esprime, in applicazone degli artt. 2106 c.c. e 7 St. Lav., un giudizio di gravità dell’inadempimento che delimita ex ante le aree del debito di prestazione e del gravissimo (e del notevole) inadempimento. Un riconoscimento che opera, è necessario puntualizzare, senza incidere sull’assetto e sulla gerarchia delle fonti ma che ha il più circoscritto significato, per tornare su un terreno più prossimo al tema qui affrontato, di rimarcare, questo sì inderogabilmente, la priorità della valutazione compiuta dal contratto collettivo (236) nella determinazione della gravità dell’inadempimento (237). (236) Tremolada, 2011, 176-178. In senso assai prossimo alla lettura qui tratteggiata Carinci, M.T., 2011, 797, secondo la quale “si tratta di una norma che non limita i poteri del giudice e non modifica le nozioni di giusta causa e giustificato motivo soggettivo invalse nel diritto vivente, ma conferma ancora una volta l’orientamento giurisprudenziale dominante - si potrebbe aggiungere, dominante ma non incontrastato — che legge le nozioni legali come clausole generali ed utilizza i contratti collettivi come standard sociali di riferimento”. (237) Occorre specificare che la norma, riferendosi in generale alle tipizzazioni di “giustificato motivo”, non preclude all’autonomia collettiva di intervenire anche con riferimento alle ipotesi di giustificato motivo oggettivo. Un esempio in tal senso è offerto dal contratto collettivo per le agenzie di somministrazione di lavoro, che ha previsto all’art. 23 bis una procedura di confronto sindacale e un periodo di riqualificazione per i lavoratori 139 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Questo riconoscimento, è necessario soggiungere, non preclude il controllo della previsione sanzionatoria tanto — ed è pacifico — dal punto di vista del possibile contrasto con i limiti esterni, quanto anche dal punto di vista della proporzionalità ma piuttosto, potrebbe dirsi, da un lato àncora questo controllo alla necessità di elementi oggettivi, dall’altro, potrebbe aggiungersi, lo contestualizza, ossia lo riconduce all’interno del complessivo “sistema disciplinare” (ossia dell’insieme delle sanzioni conservative e di quelle estintive) definito dal contratto collettivo, come può essere denominato prendendo a prestito la terminologia adottata nella normativa in materia di responsabilità amministrativa delle imprese (d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231). Con ciò si vuol dire che, anche in coerenza con il canone interpretativo dell’art. 1363 c.c., il giudice potrà valutare, nel giudizio sulla legittimità del licenziamento, se il comportamento per il quale è prevista dal contratto collettivo la sanzione espulsiva appaia caratterizzato dalla gravità estrema o notevole che caratterizza le fattispecie contemplate dagli artt. 2119 c.c. e 3 della legge n. 604 del 1966; e ciò anche in rapporto alla gravità degli illeciti per i quali lo stesso contratto collettivo prevede la comminazione di sanzioni di carattere conservativo (238). Così come rimane in ogni caso rimessa al giudice, con riferimento alla fattispecie concreta, la valutazione circa la sua concreta sussumibilità nella fattispecie astratta tipizzata dal contratto colassunti a tempo indeterminato per i quali si riscontri la mancanza di occasioni di lavoro. Nel caso in cui al termine di tale periodo il lavoratore non sia comunque occupabile, la previsione contrattuale autorizza l’intimazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. La giurisprudenza di merito (Trib. Milano, 29 luglio 2011, inedita per quanto consta; ma si v. il breve commento su Il Sole 24 Ore del 17 agosto 2011) si è espressa, pur senza richiamare l’art. 30 della legge n. 183 del 2010, nel senso che l’avvenuto adempimento degli obblighi contrattuali e la permanenza dello stato di mancata occupazione valgono a dimostrare la sussistenza delle obiettive carenze di mercato e, dunque, del giustificato motivo di licenziamento. Conviene sulla “tipizzabilità” di ipotesi di giustificato motivo oggettivo Zoli, 2011, 838. (238) Del resto, anche il nuovo art. 18 comma 4, da tale punto di vista, sembra porsi in linea con l’art. 30 comma 3 e entrambe le disposizioni, nonostante le tante diversità, evidenziate da Carinci, F., 2013, 42 ss., sembrano segnalare una tendenza legislativa nella quale la valutazione di proporzionalità sintetizzata nel giudizio di gravità espresso dalla previsione collettiva assume un peso sempre più crescente rispetto alla valutazione empirica di “proporzionalità” compiuta a posteriori sul “caso concreto” ai sensi dell’art. 2106 c.c. (e si veda ancora, sul punto, Id., 2013, 44). 140 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore lettivo (239), cioè quando in sede di accertamento di fatto emerga che non vi è una precisa coincidenza, sia sotto il profilo dell’elemento soggettivo sia sotto il profilo di quello oggettivo, fra la previsione contrattuale che dispone la sanzione espulsiva e l’infrazione oggetto di addebito (240). In alternativa potrebbe accadere che, a fronte di un’astratta rispondenza del fatto contestato alla fattispecie sanzionata dal contratto collettivo, venga accertata l’esistenza di standard o schemi comportamentali differenti, normalmente risultanti dalla prassi (241), i quali, sempre in coerenza con la dinamica di concretizzazione delle clausole generali che impone al giudice di attingere dalla realtà sociale gli elementi che permettono di riempire di contenuto il precetto legale (in questo caso quelli relativi al gravissimo o notevole inadempimento) e di escludere, in una simile ipotesi, la configurabilità dell’inadempimento o di ridurne la gravità. Residua, in questo quadro, il coordinamento del richiamo alle tipizzazioni presenti nei contratti collettivi con il riferimento a quelle ipoteticamente previste nei contratti individuali stipulati con l’assistenza e la consulenza delle Commissioni di certificazione dei contratti di lavoro. L’art. 30, comma 3, infatti, sembrerebbe a prima vista riconoscere all’autonomia privata individuale certificata la stessa competenza riconosciuta a quella collettiva manife(239) Il che, in fondo, è quanto sembra sostenere la stessa giurisprudenza di legittimità quando, da una parte, rimarca il carattere non vincolante delle esemplificazioni collettive di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, e poi, dall’altra, soggiunge che il giudice può però discostarsi dalla valutazione del contratto collettivo solo “in considerazione delle circostanze concrete” che hanno caratterizzato il comportamento del lavoratore. Tra le molte decisioni in tal senso Cass. 18 febbraio 2011, n. 4060 ed ancor più esemplarmente, Cass. 2 novembre 2005, n. 21213, cit. sulla non equiparabilità all’“assenza ingiustificata” (punita dal contratto collettivo, in caso di reiterazione, con il licenziamento) del mero ritardo nella fornitura delle giustificazioni. (240) Tremolada, 2011, 178, secondo il quale l’uso dell’espressione “tiene conto” si spiega non già in ragione della non vincolatività della tipizzazione collettiva, bensì in ragione della necessità che il giudice provveda alla valutazione di tutti gli aspetti della fattispecie concreta (intensità della colpa, esistenza di attenuanti o cause esimenti) che potrebbero condurre a ritenere ingiustificato un licenziamento astrattamente riconducibile all’ipotesi tipizzata dal contratto collettivo. (241) In tal senso, ad es., Trib. Firenze, 26 settembre 2008, FIR, 2009, voce Lavoro [rapporto], n. 1113. 141 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore stata dai sindacati comparativamente più rappresentativi (242). Tuttavia, se si considera, da una parte, che gli artt. 2106 c.c. e 7 St. Lav. riconoscono al contratto collettivo la competenza in materia disciplinare, e, dall’altra, che l’art. 30, comma 3, deve essere letto in combinato disposto con le disposizioni ultime richiamate, va escluso che i contratti certificati possano legittimamente modificare in senso peggiorativo le tipizzazioni definite dal contratto collettivo, potendosi limitare a recepirle ovvero a prevedere un trattamento di miglior favore per il lavoratore (243). Il diverso ruolo assegnato al contratto collettivo e ai contratti individuali certificati sembra aver trovato, peraltro, una ulteriore conferma nella previsione dell’art. 18 St. lav., quarto comma, nuovo testo (244), nella quale si fa richiamo, ai fini dell’applicazione della tutela reale attenuata, unicamente alle previsioni “dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”. 10. Autonomia collettiva e clausole generali (in senso atecnico) nella legislazione in materia di lavoro flessibile: contratto di lavoro a tempo determinato e somministrazione di lavoro a termine. Nelle fattispecie normative sinora prese in considerazione, la ricostruzione del rapporto tra le previsioni legislative contenenti clausole generali ed il contratto collettivo si delinea nei termini di una relazione tra un precetto necessariamente, fisiologicamente, bisognoso di integrazione valutativa e il contratto collettivo quale sottosistema regolativo più di ogni altro idoneo, per competenza istituzionale e attinenza specifica, a completarne il significato. In alternativa, la legislazione in materia di forme flessibili di lavoro subordinato offre notoriamente un campionario di differenti soluzioni tecniche e di differenti rapporti funzionali tra legge e contratto collettivo, a volte sperimentati dal legislatore in successione diacronica con riferimento ai medesimi istituti. (242) Così per Tremolada, 2011, 179-180. (243) Carinci, M.T., 2011, 796; Pellacani, 2010, 245; Zoli, C., 2011, 840. Contra, Tremolada, 2011, 180, che sembra attribuire alle tipizzazioni del contratto individuale certificato lo stesso valore di quelle contenute nel contratto collettivo stipulato dai sindacati comparativamente più rappresentativi. (244) V. sul punto, criticamente, Cester, 2012, 571. 142 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Occorre rilevare che non sempre, anzi raramente, le disposizioni legislative contenenti un rinvio al contratto collettivo in materia di forme di impiego flessibile presentano quella connotazione di fisiologica incompletezza e di apertura ai sistemi valoriali sub legislativi che è stata sin qui assunta come tratto saliente delle clausole generali. Imprescindibile, a tal proposito, il richiamo all’istituto del contratto di lavoro a tempo determinato ed in particolare alla condizione di legittimità dell’apposizione del termine, nella sequenza di passaggi che, prima dell’ultima tappa rappresentata dal d.l. 20 marzo 2014, n. 34, convertito dalla legge 16 maggio 2014 n. 78, ha visto avvicendarsi dapprima il sistema improntato alla tipizzazione legislativa per causali specifiche e tassative, quali quelle della legge 18 aprile 1962, n. 230, successivamente affiancato ed assorbito dal conferimento della c.d. delega in bianco alla contrattazione collettiva (245) e sostituito, a partire dal 2001, dalla generale condizione giustificativa delle “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” richieste dall’art. 1, comma 1, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368. Analoga generale condizione giustificativa riferita alle “ragioni di carattere tecnico, produttivo organizzativo o sostitutivo” come è noto era richiesta, prima delle modifiche apportate recentemente dal d.l. 20 marzo 2014 n. 34 all’art. 20, comma 4, d.lgs. 20 settembre 2003 n. 276 e all’art. 1, comma 1, d.lgs. n. 368 del 2001, anche per il ricorso alla somministrazione di lavoro a tempo determinato. Si è progressivamente consumato, in questo modo, nelle due principali forme di impiego temporaneo, il superamento della flessibilità negoziata che aveva caratterizzato la stagione legislativa dei due decenni precedenti attribuendo all’autonomia collettiva un’indispensabile funzione di controllo qualitativo della flessibilità (246). Della condizione di giustificazione del termine introdotta nel 2001 sono state proposte numerose differenti definizioni: da quella, (245) In merito alla quale cfr. Cass. S.U. 2 marzo 2006, n. 4588, ADL, 2006, 1649; Cass. civ. [ord.], 16 novembre 2010, n. 23119. (246) Da ultimo, sugli spazi di intervento dell’autonomia collettiva in materia di regolazione dei rapporti di lavoro tempo determinato v. Alvino, 2013, 35. 143 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore inizialmente più ricorrente, di clausola generale (247) o clausola generica (248), alle diverse qualificazioni quale norma generale (249), fattispecie generale (250), norma aperta (251), fattispecie aperta a un numero indeterminato di ipotesi (252). Definizioni, queste ultime, maggiormente appropriate in quanto, indipendentemente dal venir meno di un rinvio esplicito al contratto collettivo in funzione integrativa e/o specificativa del disposto legale, le previsioni legislative del 2001 sul contratto a termine e del 2003 sulla somministrazione a termine venivano certamente a configurarsi quali fattispecie pur generali, ma caratterizzate da completezza ed autosufficienza, come tale non bisognose di integrazione valutativa bensì enunciata dal legislatore mediante il ricorso ad una categoria riassuntiva (253). Questo perché e prescindendo, naturalmente, dall’estesissimo ed assai articolato dibattito sulla questione della “temporaneità oggettiva” o meno delle ragioni giustificative, non è revocabile in dubbio come tali ragioni dovessero sussistere ed essere provate su di un piano oggettivo e fattuale e si ponessero, pertanto, su un piano del tutto diverso rispetto alle scelte valoriali o eticocomportamentali associate all’idea di standard valutativo. Dato atto del ridimensionamento del ruolo del sindacato nella regolamentazione dell’istituto (254) rispetto all’assetto legislativo consolidatosi dopo il 1987, il dibattito sviluppatosi dal 2001 in avanti ha toccato, tra gli altri, anche il tema degli eventuali interventi della contrattazione collettiva finalizzati alla specificazione delle causali giustificative di matrice legale. Appare più corretto definire tale forma di intervento come di (247) Pera, 2002, 18; Menghini, 2002, 28; Tiraboschi, 2002, 93; Vallebona, 2002b, 62; Altavilla, 2001, 242 s. (248) Montuschi, 2002, 55. (249) Vallebona, Pisani, C 2001, 25 (ma si veda anche Pisani, 2003, 69, per l’affermazione secondo cui la distinzione tra clausole generali e norme generali cambierebbe ben poco i termini della questione perché in ogni caso si rende necessaria un’opera molto accentuata di concretizzazione della norma stessa da parte del giudice); Maresca, 2008, 292; Speziale, 2001, 374; Proia, 2002, 428; Ciucciovino, 2002, 45; Id., 2008, 93 ss. (250) Santoro-Passarelli, G., 2002, 179. (251) Perulli, 2002 372. (252) Napoli, 2003, 88, Magnani, 2008, 635. (253) Carabelli, 2001. (254) Su cui, in particolare, si veda Giubboni, 2002. 144 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore specificazione anziché integrazione (255), trattandosi, in sostanza, non del completamento del significato del precetto legale, bensì dell’enucleazione da parte dell’autonomia collettiva di alcuni significati “particolari” dello stesso, comunque sussumibili nella generale causale definita dal legislatore. Una forma di intervento la cui legittimità era stata inizialmente messa in discussione (256), obiezione superata (257), tuttavia, non solo in ragione dell’assenza di un esplicito divieto legale (258) quanto, soprattutto, in considerazione della possibile incostituzionalità di una generale preclusione dei possibili interventi regolativi dell’autonomia collettiva (259) nonché della possibile qualificazione quali condizioni di miglior favore rispetto alla legge dell’eventuale individuazione per via convenzionale di ipotesi tassative di ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato (260). Ciò che si pone in linea di continuità con le considerazioni espresse nei paragrafi precedenti, a dispetto della diversa natura dell’intervento dell’autonomia collettiva, è l’opzione di fondo — che conferma l’impostazione proposta nei precedenti paragrafi — nel senso della presuntiva rispondenza a legge delle ragioni giustificative espressamente previste in via eventuale, anche nel vigore della nuova disciplina, dai contratti collettivi (261). Si sono orientati nel senso dell’accoglimento di questa opzione gli interventi della Cassazione secondo i quali, anche in questo (255) Come ritiene, invece, Ghera, 2002, 628. (256) Cfr. Speziale, 2001, 369 (nota 26); Altavilla, 2001, 247. (257) Oltre a Ghera, 2002, ult. loc. cit., si vedano, in particolare, Napoli, 2003, 92; Montuschi, 2006, 188. (258) Sulla quale, in particolare, Marinelli, 2003, 69. Per converso, nel Preambolo (punto 12) e nella clausola 8.4 della direttiva 1999/70/CE viene puntualizzato come “l’accordo non pregiudica il diritto delle parti sociali di concludere, al livello appropriato, ivi compreso quello europeo, accordi che adattino e/o completino le disposizioni del presente accordo in modo da tenere conto delle esigenze specifiche delle parti sociali interessate”. (259) Sul punto, per tutti, Montuschi, 2006, 118. (260) In merito alla qualificazione come condizioni di miglior favore di tali clausole, cfr. Marinelli, 2003, 70; Quaranta, 2006, 502; Aimo, 2006, 473; per considerazioni dubitative, invece, Ciucciovino, 2007, 496, Passalacqua, 2005, 178. (261) Cfr. Magnani, 2008, 636, secondo cui il vaglio giudiziale, pur formalmente non impedito, è caratterizzato da una sorta di self restraint riguardo alle tipizzazioni collettive. Precedentemente Montuschi, 2006, 117, per la puntualizzazione secondo cui il controllo del giudice sarà verosimilmente “più intenso e penetrante quando la causale è farina del sacco del datore”; Lunardon, 2007, 54. 145 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore caso, così come per altri istituti del rapporto di lavoro, la valutazione giudiziale assume l’ipotesi regolata dal contratto collettivo quale primo elemento paradigmatico ai fini della decisione sulla legittimità del contratto (262).Un elemento rispetto al quale si conferma come la specificazione operata dal contratto collettivo sia assistita da una presunzione di legittimità (263), fermo restando il potere/dovere del giudice di valutare la rispondenza della causale individuata dalle parti del contratto di lavoro rispetto alla generale condizione di legittimità posta dalla legge, anche in presenza di una preventiva tipizzazione di questa causale da parte della fonte collettiva (264). Un controllo che sarebbe stato definibile in questo caso come bidirezionale, perché volto a verificare la sussumibilità sia della previsione collettiva nella previsione legale aperta (265), sia quella (262) Di conseguenza, come specificato dalla Cassazione, il giudice non può limitare “il proprio esame alle ragioni indicate nella singola clausola riportata in seno al contratto di assunzione, ritenendole vaghe e meramente apparenti, ma deve valutare l’incidenza che sulla posizione del dipendente possono dispiegare gli accordi collettivi indicati nello stesso contratto” (Cass. 10 novembre 2010, n. 22866; Cass. 25 maggio 2010, n. 8286). (263) Come riconosciuto da Trib. Firenze 23 aprile 2004, RIDL, 2005, II, 195 “la previsione in sede collettiva della possibilità di assunzione a termine in determinate circostanze costituisce un elemento di garanzia e di riscontro oggettivo in ordine alla reale sussistenza delle ragioni giustificatrici richieste dalla legge... garantisce contro ogni arbitrarietà datoriale e assicura l’effettiva sussistenza della ragione oggettiva nello specifico settore”; nello stesso senso App. Milano, 25 ottobre 2005, LG, 2006, 7, 710. (264) Napoli, 2003, 92; Bellavista, 2009, 27; Magnani, Bollani, 2008, 353, nota 33; Franza, 2010, 214. (265) Con conseguente inammissibilità, nel quadro generale del d.lgs. n. 368 del 2001, del procedimento inverso, ossia della sussumibilità della causale collettiva in quella legale ad es. con riferimento ad ipotetiche causali soggettive, stante il criterio esclusivamente oggettivo indicato dalla medesima norma: sulla questione v. Cass. sez. un. 2 marzo 2006, n. 4588, cit. Fatta eccezione, evidentemente, per gli accordi collettivi stipulati ex art. 8, d.l. 13 agosto n. 138 del 2011, convertito dalla legge 14 settembre 2011 n. 148, in forza del quale è stata attribuita ai contratti di prossimità la competenza non soltanto a regolamentare l’applicazione degli istituti utilizzati per la realizzazione delle finalità individuate dal comma 1 dello stesso art. 8, ma anche derogare con efficacia erga omnes, le regolamentazioni contenute nella legge (in argomento, da ultimo, Bollani, 2013, 95 ss. e Saracini, 2013, 144 s. nonché in precedenza, Menghini, 2012a, 444 ss.). In questi casi si può senz’altro ritenere che alle parti sociali sia stato attribuito il potere di individuare causali di legittima apposizione del termine, come accadeva nel vigore dell’art. 23, comma 1, legge n. 56 del 1987, con la differenza che tale potere è stato riconosciuto, ex art. 8, a livello di negoziazione aziendale o territoriale, ma non nazionale. 146 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore della clausola del contratto individuale nell’ipotesi “tipizzata” dal contratto collettivo. Ciononostante, proprio perché in un contesto normativo governato da una norma generale non è né può essere messa in discussione la preminenza della “nozione legale” della cui concretizzazione (salvi gli eventuali interventi specificativi dell’autonomia collettiva) rimane investito il giudice, anche il riconoscimento della tendenziale e presuntiva rispondenza della previsione di fonte collettiva a tale nozione non poteva non risultare un argine troppo sottile (266) rispetto alla prospettiva di una frammentazione interpretativa come quella che, come l’esperienza ha insegnato, è stata alimentata dalla tecnica legislativa adottata per il contratto a termine e per la somministrazione di lavoro a termine, almeno a livello di giurisprudenza di merito, per più di un decennio (267). La necessità di rimediare all’intrinseca debolezza di sistema prodotta dalla combinazione tra l’ambiguità del dato legislativo, il cui scioglimento veniva rimesso sostanzialmente alla sensibilità del giudice, da un lato, e il depotenziamento dell’autonomia collettiva, dall’altro, costituisce, pertanto, la più appropriata chiave di lettura dei cambiamenti introdotti nella disciplina del contratto a termine e della somministrazione a termine a partire dal 2012 e dei relativi avvicendamenti di modelli regolativi. Per quanto riguarda il contratto di lavoro a tempo determinato, in un primo momento la soluzione prescelta dal legislatore è risultata quella del sostanziale ritorno alla flessibilità contrattata, dapprima compiuto in forma in verità esitante e “vischiosa” dall’art. 1, comma 9, della l. 28 giugno 2012, n. 92 (268) e poi con (266) Di diverso avviso, da ultimo, Menghini, 2012b, 278, secondo il quale la contrattazione collettiva, provvedendo a specificare la clausola generale, avrebbe attribuito al sistema “un po’ di certezza” e ridotto il contenzioso sul punto. (267) Ed a tal proposito cfr. Viscomi, 2003, 220, il quale sottolinea come il passaggio a tale tecnica abbia segnato la transizione “da una flessibilità concertata ad un governo togato della flessibilità”. Sul punto, con riferimento sia al contratto a termine sia alla somministrazione di lavoro, Romei, 2012, 969. (268) Che conferiva alla contrattazione collettiva la competenza ad autorizzare assunzioni “acausali” nell’ambito di un “processo organizzativo” determinato da una serie di ragioni genericamente descritte nei termini: di avvio di una nuova attività; lancio di un prodotto o di un servizio innovativo; implementazione di un rilevante cambiamento tecnologico; fase supplementare di un significativo progetto di ricerca e sviluppo; rinnovo o dalla proroga di una commessa consistente. 147 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore maggiore decisione dall’art. 7 del d.l. 28 giugno 2013, n. 76, convertito dalla l. 9 agosto 2013, n. 99. Più precisamente, quest’ultimo intervento aveva dato vita ad un sistema misto, risultante dalla combinazione tra la generale causale legale, la speciale figura di contratto acausale “di primo impiego” (art. 1, comma 1-bis, lett. a) e le ulteriori “ipotesi” introdotte dai contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi (art. 1, comma 1-bis, lett. b, d.lgs. 368 del 2001 introdotto dal d.l. 76 del 2013 (269)), sia in termini di espansione della “acausalità” (270), sia dell’introduzione di nuove ipotesi di natura soggettiva legittimanti il ricorso al contratto a termine per lavoratori facenti parte di categorie deboli (271). Anche sul fronte della somministrazione di lavoro si è registrato un processo parallelo di articolazione dei presupposti di legittimo ricorso all’istituto, che sostanzialmente ha depotenziato il regime di giustificazione causale della somministrazione a termine, introducendo quella acausale per il primo utilizzo del lavoratore somministrato (cfr. la riformulazione dell’art. 20, comma 4, d.lgs. n. 276 del 2003 e del comma 1-bis dell’art. 1 d.lgs. 368 del 2001 ad opera dell’art. 1, comma 10, lett. b, l. 92 del 2012), nonché quella di natura soggettiva in funzione promozionale dell’impiego dei lavoratori svantaggiati (cfr., prima l’art. 20, comma 5-bis, d.lgs. 276 del 2003, introdotto dall’art. 2, comma 143, l. 191 del 2009 e, poi, l’art. 5-ter dell’art. 20, aggiunto dall’art. 4, comma 1, lett. c, d.lgs. 24 del 2012). Ma soprattutto ha restituito all’autonomia collettiva un ruolo significativo nella individuazione di “ulteriori (269) Con riferimento a quest’ultima previsione, per rilievi critici e dubbi di legittimità costituzionale connessi all’ampiezza del rinvio, si veda, da ultimo, Saracini, 2013, 112. (270) Cfr. art. 38 del CCNL Alimentari-Panificazione — accordo di rinnovo del 19 novembre 2013 — che prevede l’ampliamento della durata massima del rapporto a termine senza causale fino a 24 mesi con la precisazione che “tale tipologia di contratto a termine potrà essere adottata anche con soggetti che abbiano avuto un rapporto di lavoro subordinato con la medesima impresa”. (271) Cfr art. 28 CCNL Trasporto Aereo del 28 agosto 2013 secondo cui possono essere assunti in regime di c.d. acausalità i percettori di ammortizzatori in deroga, i disoccupati da almeno un mese, donne con figli, giovani fino a trentacinque anni d’età, lavoratori svantaggiati, studenti delle scuole superiori durante gli intervalli di frequenza per realizzare collegamento scuola-lavoro; v. anche art. 23 CCNL Occhialeria del 9 novembre 2013; art. 79 Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro per i dipendenti da aziende del settore turismo — accordo di rinnovo del 18 gennaio 2014. 148 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore ipotesi” di somministrazione sia a termine (art. 20, comma 5 quater, d.lgs. 276 del 2003 introdotto dal d.lgs. 24 del 2012) che a tempo indeterminato (art. 20, comma 3, lett. i, d.lgs. n. 276 del 2003 introdotto dalla l. n. 191 del 2009). Il baricentro dei limiti legali posti dall’ordinamento come condizione per la stipulazione del contratto di lavoro a tempo determinato e per il ricorso alla somministrazione di lavoro è andato, quindi, riposizionandosi, in un primo momento, dal fronte del controllo causale in sede giurisdizionale a quello del controllo sindacale mediante la riattribuzione alla contrattazione collettiva del compito di definire modalità, forme e condizioni (sia pure in alternativa a quelle definite dalla legge) del ricorso all’impiego temporaneo. La “delega in bianco” è stata, quindi, inizialmente restituita alle parti sociali ed è stata, anzi, formalmente ampliata rispetto alla previsione del 1987, con l’estensione diretta alla contrattazione aziendale della competenza ad individuare specifiche ipotesi oggettive o soggettive di assunzione a tempo determinato (272) e di somministrazione (273). Questa fase ha però avuto una durata oltremodo breve, in quanto il sistema a tre vie inaugurato dal d.l. n. 76 del 2013 (274) è stato drasticamente superato dalla generalizzazione del contratto di lavoro a termine e di somministrazione a termine acausale operata dall’art. 1 del d.l. n. 34 del 2014 e dalla soppressione di ogni richiamo alle ragioni giustificative, tanto di fonte legale quanto di fonte collettiva. Con questo mutamento di tecnica legislativa il legislatore ha dato mostra della intervenuta consapevolezza, alla luce della perdurante crisi occupazionale richiamata nel preambolo alle nuove previsioni legislative (come riformulato in sede di conversione del decreto legge), dell’opportunità di un superamento dei limiti e dei controlli, anche affidato alle parti sociali, di tipo qualitativo sull’accesso al lavoro a tempo determinato, con l’intento di sottrarre (272) Rispetto alla possibile estensione indiretta alla contrattazione aziendale, dietro delega da parte dei contratti collettivi nazionali o locali, della competenza ad individuare le causali di assunzione a tempo determinato nel vigore della legge n. 56 del 1987, si veda, da ultimo, Cass. 22 ottobre 2012, n. 18118. (273) Cfr. da ultimo Alvino, 2013, 54, che parla al riguardo di clausole collettive “autorizzatorie”. (274) Ciucciovino, 2013, 99. 149 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore definitivamente al sindacato giudiziale la valutazione dei presupposti oggettivi di ricorso all’impiego temporaneo. Un superamento forse in parte comprensibile anche in considerazione della forte trasversalità degli effetti della crisi occupazionale e, quindi, della ridotta utilità di un’impostazione di tipo “selettivo”, quand’anche affidata alla conduzione delle parti sociali. Lo schema della giustificazione causale e, dunque della rispondenza delle ragioni determinative del contratto rispetto ad una fattispecie generale di legge o a specifiche ipotesi oggettive o soggettive delineate dal contratto collettivo è, quindi, stato definitivamente abbandonato, allo stato, in favore di un controllo di tipo meramente quantitativo (275), ancora una volta compartito tra la legge e la contrattazione collettiva (che conserva le competenze connesse al c.d. contingentamento sia nella disciplina del contratto a termine sia in quella della somministrazione a tempo determinato ai sensi degli artt. art. 10, comma 7, del d.lgs. n. 368 del 2001 e 20, comma 4, d.lgs. n. 276/2003). Una metamorfosi sistemica che, indipendentemente da ogni valutazione in termini di politica del diritto e in attesa dell’annunciato provvedimento di riordino delle forme contrattuali flessibili previsto dal disegno di legge delega n. 1428 presentato dal Governo al Senato lo scorso aprile, presenta almeno due innegabili pregi sul piano tecnico. Il primo appare quello della semplificazione e del più elevato margine di certezza che sottrae i due istituti alla nebulosità interpretativa che per più di dieci anni ne ha condizionato l’applicazione. Il secondo è ravvisabile nel mantenimento di un significativo margine di controllo sindacale, che si esplicita nelle limitazioni consentite attraverso lo strumento delle clausole di contingentamento. Un controllo, è utile puntualizzare, che potrà essere esercitato anche in forma “modulare”, ossia attraverso limitazioni non uniformi come quelle consentite dall’art. 10, comma 7, del d.lgs. n. 368 del 2001 e che potrà anche essere amministrato dalle parti sociali in modo da canalizzare il flusso delle assunzioni verso determinate figure di lavoratori o privilegiando determinate categorie di esigenze organizzative, con individuazione di specifiche ipotesi di (275) Per una proposta di evoluzione in questo senso della disciplina legale si veda già Maresca, 2010,87. 150 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore contratto assoggettate a limiti percentuali differenziati; non appare, quindi, del tutto preclusa per le parti sociali, attraverso un adattamento del limite quantitativo, la strada per pervenire alla definizione di un assetto non troppo dissimile da quello prefigurato dal legislatore con le modifiche introdotte nel 2013 (276). 11. Le ipotesi di rinvio al contratto collettivo quale canale primario o esclusivo di concretizzazione delle clausole generali. Dall’evoluzione legislativa che ha interessato l’istituto del contratto di lavoro a tempo determinato si ricava anche una suggestione di respiro più ampio, con riferimento, è stato già anticipato, alla pluralità dei moduli legislativi entro i quali possono trovare accoglienza le clausole generali. Non sempre, infatti, l’utilizzo da parte del legislatore di questo strumento implica e sottintende il rinvio ad una potenziale pluralità di standard, tra i quali il giudice viene chiamato ad operare una selezione e a motivare le proprie scelte interpretative. Rientra tra le possibili opzioni entro le quali si muove la discrezionalità legislativa anche la scelta della combinazione tra la tecnica della clausola generale e l’investitura delle contrattazione collettiva quale possibile canale diretto di concretizzazione del contenuto della stessa clausola, in via esclusiva o in via alternativa rispetto ad altre possibili metodologie attuative. In questo caso, l’esplicito rinvio legale esclude, laddove le parti stipulanti il contratto collettivo ritengano di accogliere la sollecitazione del legislatore, il ricorso ad altri possibili, differenti standard. Questo perché il contratto collettivo viene a priori individuato come lo schema attuativo più adeguato, sia sul fronte della competenza “settoriale”, riferita allo specifico ambito professionale entro il quale la clausola generale deve trovare attuazione, sia sul versante dell’adeguatezza sociale ai fini della concretizzazione del precetto legale; concretizzazione che, dunque, non passa in questo caso per il controllo giudiziale, salvo che per quanto concerne il (276) Carinci, F., 2014 ritiene invece fortemente ridimensionato, nel nuovo assetto regolativo dell’istituto, il margine di intervento della contrattazione collettiva. 151 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore rispetto dei limiti esterni, generali e specifici, a cui le parti sociali debbono in ogni caso sottostare (277). Le clausole generali operano dunque, in queste fattispecie normative, come strumenti di valorizzazione della mediazione collettiva in netta alternativa e non in abbinamento a quella giudiziale, nella prospettiva già indicata diversi anni fa da Liso (278). La differenza ulteriore rispetto ad altre forme di rinvio al contratto collettivo e connessa all’utilizzo della clausola generale, è che in questo caso la funzione del rinvio non è meramente autorizzatoria. Diversamente, il ricorso alla clausola generale implica il riconoscimento al contratto collettivo della competenza ad operare determinate scelte valoriali al fine di pervenire alla “perimetrazione” (per mutuare una felice espressione accolta dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento al contratto di lavoro a tempo determinato (279)) della possibilità di accesso a determinati segmenti normativi. Ciò che caratterizza queste fattispecie, dunque, è che si tratta di casi nei quali la funzione del contratto collettivo non è solamente quella di permettere che l’esercizio dell’autonomia negoziale individuale si orienti verso forme contrattuali o specifici contenuti a cui altrimenti le rimarrebbe interdetto l’accesso (come è invece avvenuto, ad esempio, nel caso dell’individuazione da parte del contratto collettivo delle “ipotesi” che legittimano la stipulazione del contratto di lavoro a tempo determinato e come avviene con riferimento alle “condizioni” che legittimano l’inserimento delle clausole elastiche e flessibili nel contratto di lavoro a tempo parziale). Diversamente, in queste l’ipotesi, l’accesso alla flessibilità viene ancorato all’individuazione di specifiche precondizioni organizzative che trascendono le singole posizioni individuali, per inve(277) Per una recente rilettura e per una conferma della validità della tecnica dei limiti esterni quali strumenti di controllo dei poteri imprenditoriali si veda Pessi, 2009b, spec. 678 ss. (278) Liso, 2002, 213. (279) A partire, come è noto, da Cass. 26 gennaio 2010, n. 1576 e 1577, quest’ultima in FI, 2010, I, 1169; tra le molte pronunce negli stessi termini, successivamente, Cass. 7 settembre 2010, n. 15005; riassuntivamente, per una ricognizione aggiornata della giurisprudenza in materia, Preteroti, 2014, 362 ss. 152 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore stire un determinato assetto dell’intera compagine aziendale; e sono queste precondizioni, se e quando riconosciute come meritevoli dalle parti sociali, che giustificano la scelta del legislatore di autorizzare il ricorso a questi specifici strumenti normativi. Negli esempi di utilizzo di questa tecnica legislativa può essere fatta rientrare la previsione dell’art. 34, comma 1, del d.lgs. n. 276 del 2003, riguardante l’istituto del lavoro intermittente (280) che rimette alla contrattazione collettiva l’individuazione delle esigenze per le quali è ammesso il ricorso alle prestazioni di carattere discontinuo o intermittente; esigenze che di per sé legittimano la stipulazione del contratto, almeno sulla base della ricostruzione che respinge l’idea di un immanente (od ontologico) carattere discontinuo o intermittente delle prestazioni per riconoscere che tale carattere costituisce “un riflesso normativo delle scelte compiute dalla fonte competente, che non un carattere intrinseco dell’attività come tale” (281). Un rinvio che, da un lato, legittima la contrattazione collettiva a “calibrare” il grado di ampiezza e specificità di tali esigenze (282), (280) Il quale, pur oggetto delle note vicende legislative di soppressione e riattivazione (art. 1, comma 45, legge 24 dicembre 2007, n. 247 e art. 39, comma 10, lett. m, del d.l. 25 giugno 2008, n. 112 convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133) ha registrato, almeno sino al 2012, una fase di significativa crescita: in argomento: cfr. il Quaderno sul primo anno di applicazione della legge n. 92 del 2012, diffuso dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali nell’ambito del sistema permanente di monitoraggio delle politiche del lavoro, www.lavoro.gov.it. (281) Bellocchi, 2007, 529, la quale rammenta anche (nota 6) come la circolare del Ministero del Welfare del 2 febbraio 2005, n. 4 abbia escluso l’ammissibilità di “un giudizio caso per caso circa la natura intermittente o discontinua della prestazione essendo questo compito rinviato ex ante alla contrattazione collettiva o, in assenza, al Decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali cui spetta il compito di individuare, mediante una elencazione tipologica o per clausole generali, quelle che sono le esigenze che consentono la stipulazione dei contratti di lavoro intermittente”; si veda, in senso conforme, anche Nuzzo, V., 2005, 9. Per una possibile diversa lettura a “doppio filtro”, secondo la quale la legge consentirebbe solo la stipulazione del contratto di lavoro intermittente per prestazioni di carattere strutturalmente o ontologicamente intermittente, che, al contempo però, sarebbero utilizzabili solo al ricorrere delle specifiche esigenze determinate in sede collettiva, cfr., Ales, 2005, 863. (282) Sicché, è stato affermato che la contrattazione collettiva “ben potrebbe o adottare la tecnica normativa consueta, quella cioè di individuare le specifiche ipotesi in cui è consentito ricorrere al lavoro intermittente; ovvero, limitarsi ad individuare tali esigenze mediante una clausola generale, similmente a quanto avviene per il contratto a termine e per la somministrazione a tempo determinato” (Romei, 2004, 422 e, nello stesso senso, Mattarolo, 2004, 26; Passalacqua, 2005, 164). Sulla concreta attuazione del rinvio da parte della contrattazione collettiva, da ultimo, Voza., 2013, 360. Per la necessità di una casistica analitica, 153 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore dall’altro implica la definizione, in via esplicita o implicita, della correlazione tra il contenuto del contratto e la soddisfazione delle esigenze medesime, soddisfazione a cui le prestazioni lavorative debbono essere preordinate per poter essere fatte rientrare nei “casi” di legittimo ricorso al lavoro intermittente (art. 40, comma 1, d.lgs. n. 276 del 2003) (283). Se il controllo giudiziale potrà investire senz’altro questo secondo versante, ossia quello della coerenza tra l’ipotesi indicata nel contratto di lavoro intermittente stipulato ai sensi sell’art. 35, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 276 del 2003 e le esigenze individuate dal contratto collettivo, dovrà viceversa essere escluso, stante la natura “aperta” del rinvio legale, un controllo di merito sulle scelte dell’autonomia collettiva (284); e ciò in considerazione della evidente impossibilità di isolare, sul piano oggettivo, esigenze che siano oggettivamente od ontologicamente satisfattibili con prestazioni di lavoro intermittente anziché con il ricorso ad altri modelli contrattuali. Si pone in linea con questa lettura la nuova previsione legislativa, introdotta dal d.l. 28 giugno 2013, n. 76, convertito dalla legge 9 agosto 2013, n. 99, la quale ha inserito nella disposizione di legge che definisce i casi di ricorso al lavoro intermittente rimettendoli, in primo luogo, alle determinazioni dell’autonomia collettiva un contrappeso limitativo di ordine quantitativo (quello dell’impiego del lavoratore per un massimo di quattrocento giornate di lavoro effettivo nell’arco di tre anni previsto dall’attuale comma 2-bis dell’art. 34) che, in verità, avrebbe ben poca ragion d’essere se la natura “ontologicamente” intermittente delle esigenze e delle prestazioni ad esse correlate fosse in ogni caso suscettibile di verifica giudiziale, indipendentemente dalla sua durata. Evidente, è appena il caso di notare, la parziale affinità ante invece, Perulli, 2004, 145. Per osservazioni di segno critico, invece, sull’abbinamento tra il rinvio alla contrattazione collettiva e la contemporanea previsione autorizzatoria di tipo “soggettivo” che consente la stipulazione del contratto di lavoro intermittente con lavoratori collocati in fasce anagrafiche a rischio di esclusione sociale, si veda Sciarra, 2006, 61. (283) Può dirsi che in questo caso la clausola generale (destinata a trovare la sua concretizzazione attraverso il contratto collettivo) viene integrata all’interno del più diffuso e versatile schema legislativo della flessibilità, dove il contratto collettivo “è un mezzo per adattare al caso specifico una regolamentazione di legge che ha carattere generale” (così, da ultimo, Romei, 2011a, 197). (284) Bellocchi, 2007, ult. loc. cit. 154 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore litteram con le trasformazioni che di lì a poco avrebbero interessato anche il contratto di lavoro a tempo determinato, anche lì con l’introduzione di un limite oggettivo di tipo quantitativo e con la conseguente, radicale sottrazione al controllo giudiziale delle motivazioni del ricorso alla forma contrattuale flessibile, non più sussumibile in una o più ragioni giustificative di fonte legale. Ricorso che il legislatore delegato, tuttavia, dati i possibili margini di “antagonismo” tra la figura del lavoro intermittente e quella dell’ordinario rapporto di lavoro subordinato, ha ritenuto di condizionare anche ad un controllo ex ante, rappresentato dall’intervento autorizzativo delle parti sociali chiamate a concretizzare, almeno in via prioritaria rispetto alla decretazione ministeriale suppletiva, le “esigenze” giustificative dell’utilizzo di questo particolare strumento flessibile. Una tecnica similare, seppur in chiave di adattamento o “temperamento” (285) di vincoli già regolati in forma autosufficiente dalla legge, è quella adoperata dal legislatore delegato nella regolamentazione dell’orario massimo di lavoro, come risultante dal combinato disposto dell’art. 4, commi 2 e 4, del d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66. Va detto che, in questo caso, struttura e contenuto del precetto non sono frutto di un’elaborazione compiuta dal legislatore nazionale, in quanto la formulazione legislativa riprende letteralmente la previsione contenuta nella direttiva europea (cfr., ora, l’art. 19, secondo capoverso, della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 4 novembre 2008, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro). Ci si riferisce alla possibilità che i contratti collettivi “a fronte di ragioni obiettive, tecniche o inerenti all’organizzazione del lavoro” elevino sino a dodici mesi il periodo di riferimento per il calcolo della durata massima media dell’orario di lavoro, fissata in quarantotto ore settimanali. Condizione per l’esercizio di tale facoltà è che — con scelta discrezionale questa, sì, imputabile al legislatore nazionale — tali esigenze siano “specificate” dai contratti collettivi destinatari del rinvio (286). (285) Così definito da Carabelli, Leccese, 2006, 199. (286) Tra le competenze riconosciute al contratto collettivo dal d.lgs. n. 66 del 2003 rientrano anche quelle di carattere derogatorio previste dall’art. 17, comma 1, che il comma 4 dello stesso articolo condiziona alla concessione di periodi di riposo compensativo ovvero al 155 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Una scelta che come comunemente si riconosce — anche in considerazione, peraltro, della riconducibilità della stessa alla normativa europea — non appare suscettibile di controllo dal punto di vista di una astratta rispondenza alla ratio della norma delle “ragioni” concretamente individuate dalle parti (287). All’autonomia collettiva è, pertanto, riconosciuta la competenza a selezionare, tra i diversi “eventi”, anche di carattere esterno, o tra i molteplici interventi organizzativi che possono dar luogo a riflessi sul fronte dell’orario di lavoro, quelli che possono implicare un più intenso ricorso a forme di flessibilizzazione dei tempi di lavoro, tali da incidere potenzialmente sul computo dell’orario massimo medio come quantificato dal comma 2 dello stesso art. 4. Una selezione che appare evidentemente come il frutto di una libera scelta delle parti sociali piuttosto che di una ricognizione di situazioni oggettive. Per questo motivo e nonostante le analogie lessicali, le “ragioni” in relazione alle quali il contratto collettivo può autorizzare il più elastico criterio di computo dell’orario massimo medio non sono assimilabili a quelle menzionate dagli artt. 2103 c.c. e 3 della legge n. 604 del 1966. fato che ai lavoratori interessati dalle deroghe sia accordata una “protezione appropriata”. Nonostante il tenore generale di questa espressione, in questo caso l’ambito delle scelte rimesse all’autonomia collettiva è limitato dalla necessità di salvaguardia dell’integrità psicofisica del lavoratore, ossia di un elemento fattuale che impedisce di considerare questa previsione legislativa come un rinvio finalizzato alla semplice concretizzazione di comportamenti caratterizzati da una mera adeguatezza sociale; un profilo che, in relazione alla ratio della deroga, appare sicuramente secondario rispetto all’esigenza di garanzia della tollerabilità individuale delle differenti modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa previste dall’accordo derogatorio. Il controllo del giudice, in questo caso, è di natura e contenuto diversi rispetto a quello che, teoricamente potrebbe investire gli accordi derogatori ai sensi dell’art. 4, comma 4, in quanto viene condotto al fine di verificare che dalle scelte dell’autonomia collettiva non scaturiscano conseguenze pregiudizievoli e tecnicamente verificabili (sulla base delle conoscenze offerte dalla scienza medica e dagli altri saperi specialistici) sulla salute del lavoratore: sul punto si rinvia a Ferrante, 2004, 1404 e a Ricci, G., 2004, 466 ss. (287) Fatta eccezione per i casi, che potrebbero definirsi di sostanziale inattuazione del rinvio, in cui manchi del tutto la specificazione delle ragioni giustificatrici ovvero il contratto collettivo abbia autorizzato la deroga sulla base di ragioni palesemente incongrue, vale a dire sulla base di ragioni non sussumibili nelle “ragioni obiettive, tecniche o inerenti l’organizzazione del lavoro” indicate dalla norma: in tal senso Del Punta, 2003, XIII; per l’affermazione secondo la quale la verifica giudiziale sulle ragioni individuate dal contratto collettivo si risolverebbe in un sindacato sulla contrattazione collettiva che quelle ragioni aziendali ha riconosciuto ed attestato, Mariani, 2013, 1930. 156 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Questo perché le “ragioni” del trasferimento e del licenziamento non si identificano con la scelta imprenditoriale effettuata a monte, ma ne costituiscono le oggettive e ineluttabili conseguenze, le quali rimangono esterne e si collocano a valle degli eventi, volontari o meno, che si riflettono, si ripete, in termini oggettivi sulla situazione individuale del prestatore di lavoro trasferito o licenziato. Al contrario, negli esempi che sono stati sin qui esaminati con riferimento al lavoro intermittente e all’orario massimo medio, l’individuazione delle “ragioni” e delle “esigenze” da parte del contratto collettivo assolve una finalità duplice. Da un lato, infatti, in contratto collettivo provvede a giustificare la scelta della misura di flessibilità o della specifica forma contrattuale per la quale la legge richiede il previo intervento autorizzativo. Dall’altro, proprio “selezionando” queste specifiche ragioni ed esigenze, il contratto collettivo concorre a circoscrivere ossia delimitare cioè a “perimetrare” gli effetti della previsione legale: ed è proprio il connubio di queste due funzioni (selezione delle “ragioni” od “esigenze” e delimitazione degli effetti della norma legale) che autorizza a leggere tale attività negoziale quale concretizzazione di clausole generali. Ancora diversa e comunque distante dal territorio delle clausole generali appare, per concludere sul punto, la tecnica utilizzata dal legislatore per delimitare le competenze negoziali attribuite ai contratti collettivi di prossimità dall’art. 8 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito dalla legge 14 settembre 2011, n. 148. Il comma 1 dell’art. 8, ai fini della delimitazione dell’ambito di applicazione della norma, stabilisce che le “intese” legittimate ad intervenire nelle materie di cui al comma 2, anche operando in deroga alle relative norme di legge ai sensi del comma 2-bis dello stesso articolo, debbono essere “finalizzate” al perseguimento di una serie di obiettivi generali, obiettivi che vengono predefiniti dallo stesso legislatore nello stesso ultimo inciso del comma 1 (288). Nelle numerosissime analisi della norma che si sono succedute nel periodo trascorso dalla sua emanazione non è stato dedicato molto spazio, pur con qualche eccezione, a questo “vincolo di (288) Tali intese debbono essere preordinate, stabilisce la norma, “alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività”. 157 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore scopo” (289). Sul quale è invece opportuno soffermarsi brevemente per evidenziare come in questa fattispecie legislativa il rinvio al contratto collettivo non implichi la rimessione all’autonomia collettiva di una scelta assiologia e valoriale, già operata a priori dal legislatore. Le finalità (ovvero, per usare la terminologia adoperata dal legislatore in altre previsioni legislative, le “esigenze” o le “ragioni”) che giustificano il conferimento di un’efficacia così penetrante, tanto dal punto di vista soggettivo quanto sul piano dei contenuti, degli accordi di prossimità sono e rimangono quelle dettate dalla legge, la quale rimette alle parti sociali la scelta delle soluzioni, ossia delle concrete misure che possano favorirne la realizzazione. È stato osservato come, nella pratica attuazione della disposizione legislativa, a questo vincolo potrebbe essere attribuito un livello più o meno elevato di intensità, a seconda che lo si intenda come un onere delle parti di specificare in termini oggettivi e specificamente verificabili i risultati che le stesse si prefiggono di conseguire ovvero che lo si interpreti in senso “debole”; vale a dire come mera necessità di una espressa dichiarazione che attesti la comune aspettativa nutrita dalle parti circa l’effettiva strumentalità dell’accordo rispetto alle finalità elencate dalla legge (290). Se si conviene sulla maggiore aderenza della prima interpretazione alla lettera e alla ratio della norma, occorre, in via ulteriore, interrogarsi sui contenuti e sui limiti del possibile controllo giudiziale degli accordi di prossimità dal punto di vista della loro rispondenza a questo specifico requisito di legge; un controllo di cui alcuni si sono limitati a sottolineare la problematicità, laddove altri hanno ritenuto di poterlo assimilare ad un controllo di ragionevolezza e proporzionalità delle condizioni pattuite rispetto ai benefici che le parti si sono riproposte di conseguire (291). (289) Come viene definito da Perulli, e Speziale, 2012a, 205. Per alcuni cenni sul punto si veda anche Romei, 2011b. (290) In questo senso ed escludendo l’ipotesi di un controllo giudiziale, o per lo meno di un controllo penetrante, Treu, 2011, 635; Vallebona, 2011, 684. Nello stesso senso Ferraro, 2011b, 21, secondo il quale “in una situazione di crisi economica planetaria non sarà mai difficile indicare una motivazione giustificatrice”. (291) Perulli, Speziale, 2012a, 206 e, pur dubitativamente, De Luca Tamajo, 2012, 293; Brollo, 2012, 387; Ales, 2011, 20; negli stessi termini, ma con accenti critici, Bellavista, 2012, 312. 158 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Il tema generale del controllo giudiziale sugli atti di esercizio dell’autonomia collettiva è troppo imponente ed eccedente i limiti di questo lavoro per poter sviluppare ulteriori approfondimenti di questa problematica (se ne affronteranno alcuni profili nel paragrafo che segue). È solo possibile evidenziare come la stipulazione di un accordo del tipo di quelli delineati dall’art. 8 implichi due distinte valutazioni, non rimesse dall’ordinamento ai medesimi soggetti. Da una parte, il raggiungimento di un’intesa ai sensi del comma 1 dell’art. 8 implica una necessaria correlazione causale tra le condizioni pattuite nell’accordo e le finalità a cui l’accordo stesso è preordinato (se, cioè, vi sia effettivamente, nell’accordo, una compresenza e una connessione logica — per meglio intendersi, una non contraddittorietà — tra le misure previste, le eventuali deroghe pattuite e le concrete modalità definite dall’accordo per il conseguimento delle finalità con esso perseguite). Da questo punto di vista, l’eventualità che il giudice valuti la rispondenza alla legge dell’accordo, verificando l’effettiva sussistenza di tale correlazione (292), non appare eccentrica rispetto al consueto schema del sillogismo giudiziale e può non trascendere (il condizionale è l’obbligo, trattandosi di una valutazione che richiede grandissimo senso di equilibrio e una notevole dose di self restraint) in un sindacato di merito sulle scelte dell’autonomia collettiva. Altra e diversa valutazione è quella relativa all’adeguatezza degli interventi pattuiti ossia alla già ricordata proporzionalità degli stessi rispetto ai risultati che con l’accordo le parti si propongono di conseguire. Si tratta di una valutazione che rimane nella sfera esclusiva dell’autonomia collettiva, e rispetto alla quale non (292) Cfr., sul punto, Carinci, F., 2012, 35, che nel senso che tali finalità debbano essere esplicitate a premessa delle intese e possano essere sindacate dalla giurisprudenza nella loro capacità di giustificare le misure ivi adottate (e già in tal senso Santoro-Passarelli, G., 2011, 1243). Cfr. anche Marazza, 2012b, 44; sul controllo dei “presupposti oggettivi ai quali va ancorato il perseguimento della finalità modificativa” Zoppoli, L., 2011. Sembrano ammettere un controllo di questo tipo anche Leccese, 2013, 51, nota 61 e Magnani, 2012, 8, la quale, da un lato, osserva che la ragionevolezza dell’art. 8 (dal punto di vista della discrezionalità legislativa) sembra sostenibile in considerazione del fatto che l’intervento dei contratti di prossimità è previsto solo in presenza di determinate esigenze del contesto produttivo e, per altro verso, esclude l’eventualità di un controllo giurisdizionale/ amministrativo sul perseguimento delle finalità medesime da parte degli accordi di prossimità. 159 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore appare ammissibile, neanche in questa materia, configurare un’ingerenza del giudice nell’esercizio di prerogative negoziali di cui l’ordinamento garantisce la libertà e l’affrancamento da vincoli funzionali incompatibili con la natura tuttora privatistica dell’autonomia collettiva (293). 12. Ragionevolezza, clausole generali e autonomia collettiva. Per molti versi il tema del rapporto tra clausole generali e sindacato di legittimità del giudice sugli atti di esercizio dell’autonomia collettiva risulta, ad oggi, definito in termini piuttosto stabili da una giurisprudenza ormai consolidata; ci si può esimere almeno in parte, quindi, dal riepilogare in dettaglio le varie fasi del dibattito in tema di parità di trattamento e azionabilità giudiziale delle relative violazioni, nonché dei collegamenti tra questo dibattito e la tematica delle clausole generali. Vi è, tuttavia, la necessità di dedicare uno spazio ad una delle ramificazioni di tale dibattito che presenta perduranti profili di vivacità e con riferimento alla quale la tensione tra le modalità di esercizio delle competenze regolative attribuite al contratto collettivo e le valutazioni giudiziali è andata elevandosi al punto di sfociare in contrapposizioni radicalmente antitetiche: cosa che si può dire accada tuttora in materia di licenziamenti collettivi, con particolare riferimento all’individuazione dei criteri di scelta ex art. 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991. Un terreno di confronto, si potrebbe dire, coltivato fuori dalle righe dei testi legislativi, posto che in questo caso il parametro ordinamentale che legittimerebbe il controllo giudiziale non è rappresentato né da una clausola generale in senso proprio né, comunque, da un elemento di fonte legale, bensì da un “principio”, sinteticamente definito come principio di razionalità, enucleato da alcune statuizioni espresse, nella loro forma più evidente, in due notissime sentenze interpretative della Corte costituzionale, la n. 103 del 1989, in materia di parità di trattamento retributivo a (293) Sull’inammissibilità di un controllo giudiziale di proporzionalità, con riferimento alle differenze di trattamento economico tra i lavoratori determinate dal loro differente inquadramento come regolato dal contratto collettivo, in particolare, Cass. 7 gennaio 1999, n. 62, oltre alla notissima Cass. S.U. 29 maggio 2003, n. 6030. 160 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore parità di mansioni, e la n. 268 del 1994, per l’appunto dedicata all’efficacia degli accordi sui criteri di scelta previsti dall’art. 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991 (294). Le costruzioni elaborate a partire da quegli interventi, che traggono origine e alimento, comunque, da un retroterra più radicato e risalente (295) di cui tra poco si dirà, hanno inciso profondamente entro alcuni ambiti di intervento dell’autonomia collettiva e ancora oggi trovano un riscontro “settoriale” nella giurisprudenza in materia di sindacabilità giudiziale degli accordi sui criteri di scelta dei lavoratori nell’ambito dei licenziamenti per riduzione di personale. Una giurisprudenza, quest’ultima, che in materia di controllo di razionalità degli accordi in materia di riduzione di personale si è in parte allineata alle indicazioni della Corte costituzionale (o, per lo meno, ad alcune letture della sentenza n. 268 del 1994), dimostrandosi da questo punto di vista più ricettiva rispetto a quanto avvenuto in materia di differenziazioni retributive tra lavoratori a parità di mansioni, dove la prospettiva di un controllo di razionalità appare ormai definitivamente tramontata dopo gli interventi delle Sezioni Unite del 1993 e del 1996 (296). Viceversa, nelle motivazioni delle pronunce del giudice di legittimità relative ai criteri di scelta individuati dai contratti collettivi ai sensi dell’art. 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991 è a tutt’oggi ricorrente il richiamo ad una generica “ragionevolezza” come necessaria qualità intrinseca dei criteri di scelta nego- (294) Sull’impatto della riforma della disciplina dei licenziamenti operata dalla legge n. 92 del 2012 su questo specifico versante cfr., in particolare, Sitzia, 2013. (295) Cfr., tra gli altri, Buoncristiano, 1986, spec. 259 ss.; Balletti, 1990, spec. 237 ss.; criticamente, Tullini, 1990, 277 ss. (296) Cass. S.U. 17 maggio 1996, n. 4570, RIDL, 1996, II, 765, preceduta da Cass. S.U. 29 maggio 1993, n. 6030-6034, FI, 1993, I, 1794, con nota di Mazzotta. Nell’intervallo tra i due interventi si collocano quelle sentenze che, discostandosi dall’orientamento accolto dalle pronunce del 1993, si erano espresse a favore di un onere, gravante sia sul datore di lavoro sia sulle parti stipulanti il contratto collettivo, di addurre “apprezzabili e giustificate motivazioni” delle differenze di trattamento retributivo a parità di mansioni: cfr. Cass. 8 luglio 1994, n. 6448, RIDL, 1994, II, 304 e 535, con note di Bolego, Bianchi D’Urso (e sulla quale si veda anche, criticamente, Castelvetri 1995); Cass. 17 febbraio 1994, n. 1530, GI, 1995, I, 1, 464, con nota di Bellomo; Cass. 11 novembre 1995, n. 11515. 161 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore ziali (297) ovvero alla rispondenza dei criteri di fonte negoziale ad un asserito “principio” legale di ragionevolezza (298). La prospettiva nella quale ci si è sinora collocati nell’esaminare la dinamica applicativa delle clausole generali sembra qui sostanzialmente ribaltata: questo perché non è più il contratto collettivo ad operare come possibile forma di concretizzazione del precetto legale. Il c.d. principio di ragionevolezza, non configurabile, in verità, come “fonte” di specifiche direttive comportamentali sintetizzabili a priori e suscettibili di “implementazione” da parte del contratto collettivo (299), si configura all’atto pratico come un criterio di giudizio applicabile dal giudice in via successiva, ossia in sede di valutazione dei contenuti dell’accordo (300). Così come detto a proposito dell’asserito principio di parità di trattamento, i termini e le posizioni del vastissimo dibattito scientifico attorno all’assoggettabilità degli atti del datore di lavoro al controllo giudiziale di “razionalità” o “ragionevolezza” sono troppo noti per essere esaustivamente passati in rassegna in questo contesto, così come le articolazioni di tali dibattito riguardanti l’ammissibilità di un controllo di questa natura sulle manifestazioni dell’autonomia collettiva. Né, peraltro, questo confronto scientifico si è risolto nella spaccatura tra le posizioni di chi, da un lato, si è espresso a favore (297) Ad es. 3 dicembre 2013, n. 27059, per il riconoscimento della razionalità del criterio di scelta che consentiva il licenziamento dei lavoratori che avessero rifiutato la trasformazione part time del contratto di lavoro. (298) Cfr. Cass. 3 ottobre 2013, n. 22612 e Cass. 9 maggio 2013, n. 10985, sulla conformità a tale principio del criterio della prossimità al pensionamento. (299) Si vuol dire che, data la sua incommensurabile vastità, per la varietà di significati e per la sua portata generale (cfr., su questa ampiezza di significato, Perulli, 2005, 2) questo principio (non a caso principio e non clausola generale) non appare comparabile con concetti oggettivamente più circoscritti quali, ad es. quelli di diligenza conforme alla natura della prestazione o di equivalenza professionale e conseguentemente non si presta ad essere calato in una serie più o meno circoscritta di comportamenti socialmente tipi definibili ex ante. (300) E si potrebbe evocare, a questo proposito, l’immagine, proposta in dottrina a proposito del rapporto tra scelte dell’autonomia collettiva e successiva loro sottoposizione al controllo giudiziale, dei possibili margini di conflitto tra due componenti della cultura giuslavoristica, identificabili nella “cultura dell’autotutela” e nella “cultura dei diritti” (Del Punta, 1993, 2370), due culture che nell’ottica del controllo giudiziale operato “a valle” delle scelte dell’autonomia collettiva finiscono per trovarsi fatalmente a grave rischio di contrapposizione. 162 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore di tale controllo, prospettando una possibile valutazione delle scelte (anche) dell’autonomia collettiva sotto la lente dei criteri di proporzionalità e necessità visti come un “portato” dei valori accolti nelle norme costituzionali in materia di lavoro, ovvero giustificandolo come controllo di “coerenza” di tali scelte con la ratio dell’istituto della mobilità (301). Mentre sull’altro versante sono andati collocandosi coloro i quali respingono l’idea che anche su questo specifico versante i poteri del datore di lavoro e l’autonomia collettiva siano assoggettati a limiti interni e sottoponibili a un controllo di merito, rilevando, in particolare la contraddittorietà tra il riconoscimento costituzionale dell’autonomia collettiva e la previsione di un controllo di razionalità da parte del giudice, la quale “altro non significherebbe che abilitare il giudice a sostituirsi alle parti” (302). Non sono mancate, in passato, posizioni diversificate sul punto, come quella assunta da chi, su un piano generale, ha ritenuto conciliabile la salvaguardia dell’autonomia collettiva e l’affermazione di un generale principio di imparzialità delle scelte operate dal datore di lavoro o dalle parti collettive, accogliendo un’impostazione di tipo procedimentale e traducendo in sostanza l’idea di ragionevolezza nella generalizzazione dell’obbligo di giustificazione (303). Procedimentalizzazione che da altri è stata letta, invece, nella più rigorosa accezione di puntuale adempimento degli obblighi legali ed è la posizione espressa da chi, con riferimento agli accordi sindacali a cui la legge demanda l’individuazione dei criteri di scelta nell’ambito della procedura di mobilità, difende una concezione essenzialmente procedurale della razionalità, intesa come corretto adempimento degli obblighi che la legge e in particolare l’art. 4 della legge n. 223 del 1991, pongono a carico dell’impresa, escludendo che l’esito finale di tale percorso procedurale — frutto (301) In questi termini, in particolare, Perulli, 2005, spec. 17 ss. e in una prospettiva più ampia Id., 2011; Scarpelli, 1996, 30 ss.; Natullo, 2004, 147 ss. (302) Così Persiani, 1995b, spec. 7 e 11; Id., 1999, spec. 13 ss.; nello stesso senso, tra gli altri, Pera, 1989, 398; Scognamiglio, R., 1989a; Id., 1989b; Id., 1990; Id., 1993 SantoroPassarelli, G., 1990 e 1994, ora 2006; Mazzotta, 1990, ora 1994 e 1993, ora 1994; Ferraro, 1991b, ora 1992; Liso, 1998. (303) Del Punta, 1993, 2368. Per alcune critiche a questa ricostruzione, SantoroPassarelli, G., 1994, ora 2006, 560. 163 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore di una dinamica negoziale complessa attraverso la quale le parti pervengono a superare possibili lacerazioni trovando un delicato punto di equilibrio — possa essere vagliato alla luce di una riformulazione astratta del canone di razionalità (304). Per evidenziare i collegamenti tra questo dibattito e il tema qui affrontato, è utile partire, sperimentando un tragitto di tipo induttivo, dalla presa d’atto della persistenza di contrasti e di elementi di ambiguità nella giurisprudenza in materia di criteri di scelta, che la metodologia del “controllo di ragionevolezza” non ha contribuito a risolvere. Per esemplificare, oltre alla questione dell’adozione quale criterio di scelta della prossimità al pensionamento, sulla quale la giurisprudenza ha espresso orientamenti fortemente divergenti (305), rimane controversa, almeno secondo alcune opinioni dottrinali, la legittimità della scelta delle parti sociali di dare rilievo, ai fini della individuazione dei lavoratori da licenziare, alle sole esigenze tecnico-produttive senza considerare i criteri del carico di famiglia e dell’anzianità di servizio, così limitando la scelta dei lavoratori ad una categoria di dipendenti o prevedendo che la scelta debba essere effettuata reparto per reparto o limitatamente ad un solo settore e non con riferimento a tutti i dipendenti in servizio nell’azienda (306). Al di là di tali risvolti specifici, l’osservazione di un panorama (304) In particolare, per questa posizione, Liebman, S., 1999, spec. 140 ss.; Castelvetri, L., 1999 e Ead., 2000, spec. 84 s. Nello stesso senso, seppur in una prospettiva più ampia, Marazza, M., 2001, 271. (305) Sulla legittimità di tale criterio, oltre alle sentenze già citate, Cass. 11 novembre 1998 n. 11387, MGL, 1999, 153, Cass. 2 marzo 1999, n. 1760; Cass. 11 maggio 1999, n. 4666, MGL, 1999, 935, con nota di Castelvetri. Altra giurisprudenza ha, viceversa, reputato il criterio della prossimità al pensionamento: in alcuni casi, non conforme alle finalità dell’istituto della mobilità poiché impedirebbe una effettiva comparazione fra le posizioni dei lavoratori, consentendo invece una immediata identificazione dei lavoratori da licenziare (c.d. “criterio fotografia”): così Cass. 24 aprile 1999, n. 4097, anch’essa in MGL, 1999, 935 e RIDL, 1999, II, 866. Altre sentenze hanno ritenuto il criterio illegittimo perché tale da realizzare una discriminazione fra i lavoratori per età: App. Firenze 27 marzo 2006, RCDL, 2006, 910, con nota di Calafà; Trib. Milano, 27 ottobre 2005, OGL, 2005, I, 938. Sul tema si vedano anche le osservazioni di Del Punta 1999. (306) Cfr. in tal senso Cass. 6 novembre 2013, n. 24990; Cass., 19 maggio 2006, n. 11886; Cass. 26 gennaio 2006, n. 1405, NGL, 2006, 209. Analogamente: Cass., 17 febbraio 1999, n. 1335, MGL, 1999, 421, con nota di Liebman; Cass., 24 marzo 1998, n. 3133, NGL, 1998, 475; contra le opinioni di Scarpelli 1996, 35 e Perulli, 2005, 19. 164 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore giurisprudenziale non solo composito e frammentario, ma nel quale il passaggio cruciale di ciascuna decisione si condensa e si esaurisce il più delle volte nel perentorio riconoscimento (o disconoscimento) della “razionalità” e della “coerenza con il fine dell’istituto della mobilità” (307) dei criteri adottati dalle parti sociali può indurre ad ammettere che si sia in qualche misura avverato il pericolo, paventato all’indomani dell’intervento della Corte costituzionale, che l’applicazione di tale limite interno potesse tramutarsi in una troppo agevole sponda per qualsiasi decisione il giudice ritenga di adottare (308). Cercando di trarre da questa vicenda particolare elementi che si prestino a considerazioni di taglio più generale, rimane difficilmente contestabile che basi normative e puntuali referenti di significato di questo ipotetico principio, come già detto, rimangono oltremodo difficili da isolare. L’evocazione della figura della clausola generale, che pure emerge in alcune delle trattazioni in cui la tesi del controllo di razionalità è stata sviluppata (309), appare problematico nella misura in cui questa stessa tesi sembra escludere che l’idea di razionalità possa essere ricostruita attraverso il ricorso a standard valutativi tratti dalla realtà sociale. Anche perché, nel caso dei criteri di scelta pattizi, sono proprio questi dati e più precisamente il più significativo tra questi, vale a dire il contratto collettivo, ad essere assoggettati al controllo giudiziale. Ad essere sottoposto a controllo, come già accennato, non è l’atto che l’ordinamento vorrebbe come conforme al parametro comportamentale socialmente più adeguato, ma, piuttosto, il parametro stesso. Per altro verso e pur essendo stata definita come un “principio” (si direbbe, di portata generale), la “ragionevolezza” come (307) Ad es. Cass. 28 ottobre 2013, n. 24263; Cass. 21 settembre 2011, n. 19233; Cass. 10 giugno 1999, n. 5718, FI, 1999, I, 2520. (308) Persiani, 1995b, 4. Cfr. anche Castelvetri, 1999, 944, per la constatazione che, alla luce della produzione giurisprudenziale, resta “del tutto imprecisato cosa debba intendersi per giustificazione ragionevole”, ed altresì per il richiamo a Irti, 1980, ora 1984, 304, sul pericolo di fuoriuscita dal sistema giuridico a cui l’interprete si espone nel salto dalla “ragione della legge” alla “legge della Ragione”. Per la presa d’atto che le decisioni giudiziali sulla valutazione di legittimità dei criteri di scelta “esprimono posizioni differenti quando non antitetiche, dichiarando, tutte, di ispirarsi ai principi enucleabili dal dictum della Consulta”, Natullo, 2004, 149. (309) Cfr., in particolare, Perulli, 2007, 446 ss. 165 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore criterio di controllo degli atti dell’autonomia collettiva non appare puntualmente ricollegabile a specifiche previsioni costituzionali; anche considerando i possibili referenti che sono stati evocati nei discorsi relativi a questa tematica, proprio per la loro essenza di principi e anche strutturalmente, per la loro estrema latitudine (oltre all’art. 3 Cost. si pensi all’art. 4, primo comma o al generale principio di tutela del lavoro espresso dall’art. 35, primo comma), si tratta di norme che non possono strutturalmente trovare applicazione nei rapporti interprivati (310), in quanto possono essere lette sì come vincoli alla discrezionalità legislativa ma sono intraducibili in precetti applicabili alle relazioni contrattuali. Di qui le perplessità che sono state avanzate di fronte alla prospettiva dell’estensione agli atti tra privati di una forma di controllo alla quale si fa normalmente ricorso nel diverso ambito dell’esame di legittimità costituzionale delle leggi (311). Ancora e stavolta con riferimento specifico alle ramificazioni della verifica giudiziale di razionalità degli accordi in tema di riduzione di personale, la stessa configurabilità astratta delle ipotetiche “linee di coerenza con l’istituto della mobilità” che siano idonee a fungere da adeguati criteri di valutazione delle soluzioni raggiunte dalle parti sociali appare ostacolata, si direbbe irrimediabilmente, dal fatto che il rinvio operato dalla legge alle scelte operate dall’autonomia collettiva non si presta ad essere letto né interpretato come una funzionalizzazione della stessa alla soddisfazione di interessi predeterminati come quelli, peraltro inespressi, della garanzia del “minore impatto sociale e della tutela degli interessi dei lavoratori” (312), da considerare ipoteticamente (310) La necessità di individuare un tramite legislativo è stata colta da Cass. 11 maggio 1999, n. 4666, cit. che qualifica la ragionevolezza come “un’estensione del principio di non discriminazione tipizzato dalle fattispecie previste dall’art. 15 St. lav. al (più ampio) principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., il quale altrimenti non opererebbe nei rapporti privatistici”. (311) Così Ferraro, 1991b, ora 1992, 209 e nello stesso senso Persiani, 1995b, 5, nota 15. In giurisprudenza, per una notazione nello stesso senso, Cass. 25 settembre 1999, n. 10581, NGL, 2000, 49. (312) È peraltro opportuno rammentare, a conferma della scarsa o nulla univocità del teorizzato “principio” di ragionevolezza e della possibile, forse inevitabile, potenziale antiteticità delle decisioni che possono essere assunte sulla sua base, che, in passato è stato sottolineato come lo stesso principio potesse essere anche declinato in termini esattamente opposti a quelli più recentemente ipotizzati, paventandosi che la valutazione di ragionevo- 166 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore prevalenti rispetto al valore della produzione e alle esigenze di recupero dell’efficienza produttiva. Ciò non solo in relazione alla persistente natura privatistica degli atti di esercizio dell’autonomia collettiva a cui la legge rinvia, rimettendo alle parti sociali la definizione degli equilibri e l’assunzione delle scelte che riflettono gli equilibri congiunturalmente raggiungibili. Ma anche perché, per pervenire a soluzioni diverse, sarebbe necessario individuare i supporti di diritto positivo che possano operare quale fondamenti di questo diverso assetto dei rapporti tra iniziativa economica privata e contropotere sindacale, autorizzando il giudice a valutare la rispondenza a tali indicazioni legislative delle soluzioni negoziali concretamente raggiunte (313). Diversamente, anche in questa materia, la legge non definisce specifici limiti interni dell’azione sindacale, bensì attribuisce alle parti sociali competenze negoziali che sono sì oggetto di interesse pubblico, ma destinati ed essere esercitati con gli ordinari metodi di composizione degli interessi privati (314). Conseguentemente, si è detto che il giudice “può e deve interpretare la disciplina legale e quella sindacale in un’ottica conforme ai valori umani ad esse sottese, lezza potesse implicare “il rischio di privilegiare, ancora una volta, le ragioni dell’efficienza economica e le esigenze organizzative dell’impresa” (così Tullini, 1990, 281). (313) Sulla separazione tra il momento dell’individuazione dei criteri, rimesso all’autonomia collettiva e quello della verifica della loro applicazione, di competenza del giudice, cfr. anche D’Antona, 1994, 931. È stato osservato come vi siano esempi nei quali la giurisprudenza è intervenuta operando una valutazione di tipo proporzionalistico trascendente le determinazioni dell’autonomia collettiva, come nel caso della celebre giurisprudenza in materia di licenziamento per eccessiva morbilità, a partire dalla fondamentale Cass. S.U. 29 marzo 1980, n. 2072, 2073, 2074 (Perulli, 2005, 16). In tal caso, tuttavia, l’intervento giudiziale trovava la propria giustificazione nell’espresso riconoscimento del potere equitativo del giudice in materia di quantificazione del periodo di comporto, operato dal secondo comma dell’art. 2110 c.c.: non può parlarsi, quindi, di scrutinio di “razionalità” bensì di determinazione equitativa. Ed è possibile soggiungere, se si vuole, che anche l’art. 2106 c.c., sul quale ci si è già soffermati, riconosce direttamente al giudice la competenza ad operare un controllo di proporzionalità tra infrazione e sanzione. Ma in questo caso non può parlarsi — pacificamente — di un giudizio di proporzionalità/razionalità in cui il giudice è chiamato a farsi l’unico ed esclusivo interprete (o autore?) di tale principio. Viceversa, il controllo avviene nei diversi termini della concretizzazione della clausola generale, con il conseguente dovere del giudice di ricavare gli elementi posti a base della decisione dagli standard valutativi esterni ritenuti più attinenti al caso di specie (primo fra tutti il contratto collettivo, stando anche all’art. 7, primo comma, dello statuto). (314) Santoro-Passarelli, G., 1989, ora 2006, 75. 167 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore ma non può svincolarsi dalla dimensione testuale di quelle discipline per sovrapporsi ad esse” (315). In altri termini, e richiamandosi a quanto già accennato (al precedente par. n. 5), è difficile sottrarsi all’impressione che, al fondo, l’idea di un controllo di razionalità (316), di cui la materia dei criteri di scelta nei licenziamenti per riduzione di personale ha rappresentato per così dire uno dei fronti avanzati, si riallacci ed evochi l’immagine di quell’applicazione diretta e per via giudiziale, estesa anche agli atti di esercizio dell’autonomia collettiva (e comunque in quei termini potenzialmente espandibile “a tutto campo”, al di là specifici rinvii legali all’autonomia collettiva (317) del limite dell’utilità sociale (318), il quale però allude e postula l’assunzione di specifiche scelte legislative per poter assumere concretezza precettiva ed acquisire una connotazione di azionabilità. La tecnica della limitazione funzionale dell’autonomia collettiva non è, del resto, ignota al legislatore, che vi è ricorso (319) a proposito di una componente di grande peso rispetto agli equilibri negoziali di alcune categorie di imprese o comparti, ossia gli accordi sulle prestazioni indispensabili ai cui si applica il combinato disposto degli artt. 2, comma 2 e 13, comma 1, lett. a della legge 12 (315) Persiani, 1995b, 31. Oltre al controllo sui limiti esterni come quelli di non discriminazione, è stato affermato che l’accordo sui criteri di scelta è suscettibile di valutazione giudiziale nel caso in cui i criteri di scelta appaiano “incomprensibili, illogici o tra loro contraddittori” (Castelvetri, 2000, 95): affermazione che riterrei spiegabile, più che come una riapertura per una via laterale al controllo di razionalità, alla luce della previsione legislativa in materia di determinatezza e determinabilità del contratto (1346 c.c.). (316) Con riferimento al quale si veda anche, nella letteratura recente, Fontana, 2010, spec. 294 ss., nella cui ricostruzione lo scrutinio di ragionevolezza si espliciterebbe, a seconda dei casi, nel controllo di “proporzionalità” o nel “bilanciamento” tra posizioni contrapposte ed entrambe tutelate dall’ordinamento; per la dimostrazione di questo assunto, tuttavia, questo autore ricorre ad esempi, come la materia delle sanzioni disciplinari o l’esercizio del diritto di sciopero, nelle quali la valutazione di proporzionalità ovvero il necessario contemperamento delle contrapposte posizioni, attraverso l’applicazione dei limiti esterni, conseguono a specifiche e palesi opzioni legislative, non estensibili o trasponibili automaticamente su altri e diversi terreni. (317) Come evidenzia, ancora, Santoro-Passarelli, G., 1993, ora 2006, 558 s. (318) Conforme l’opinione di Carinci, F., 2007, XCIII; in precedenza, sul punto, Santoro-Passarelli, G., 1981, ora 2006, 487. (319) per questa notazione Persiani, 1995b, 10; Id., 1999, 15 ss.; D’Antona, 1991, 422. Più recentemente, Santoro-Passarelli, G., 2009b, 971. 168 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore giugno 1990, n. 146 ed ai fini della concretizzazione di una condizione di legittimità formulata in termini generali come è quella delle “prestazioni indispensabili” (320). Anche l’applicazione di questa norma si sviluppa, almeno nei suoi tratti iniziale e finale, in termini non dissimili dalle altre fattispecie qui esaminate, con l’intervento di concretizzazione realizzato in prima battuta dall’autonomia collettiva e l’intervento di verifica del giudice che assume il contratto collettivo come principale standard (321). Nel mezzo si colloca la valutazione di idoneità della Commissione di garanzia, alla quale è attribuita dalla legge la competenza allo svolgimento di un giudizio di adeguatezza e in particolare, di “adeguatezza proporzionale” delle limitazioni definite nell’accordo, quale garanzia del contemperamento tra gli interessi collettivi dei lavoratori, di quelli degli utenti e dell’interesse pubblico ad un equilibrato contemperamento che (322). Ma in questo caso l’assoggettabilità del contratto collettivo ad una valutazione di proporzionalità è il frutto di una chiara scelta legislativa ed è, inoltre, rimessa ad un soggetto istituzionalmente preposto alla valutazione del corretto bilanciamento tra differenti posizioni le- (320) Per una messa a fuoco della nozione di “prestazioni indispensabili” nella prospettiva teorica delle clausole generali, Curzio, 1992, 109 ss. E sul punto si vedano anche le osservazioni di Pascucci, 1999, 118, il quale, pur senza prendere posizione sul punto, evidenzia come gli accordi sulle prestazioni indispensabili esplichino “una funzione definita (con termini diversi ma sostanzialmente di identico significato) come dichiarativa, specificativa, ricognitiva, esplicativa, ermeneutica, di un precetto che la legge ha già dettato”. (321) Come evidenzia Curzio, “il giudice interviene in generale, a posteriori, quando la lesione del bene giudirico tutelato è già avvenuta; la specificazione svolta dalla contrattazione collettiva si colloca, invece, prima di tale momento... La presenza di una regolamentazione peculiare, ma pur sempre generale, perché predisposta a monte e a prescindere dal singolo episodio conflittuale, comporta evidenti effetti positivi sulla certezza dei rapporti” (Curzio, 1992, 134 s.). (322) Così la “relazione Ghera” del 23 gennaio 1991 alla Commissione di garanzia sui criteri di valutazione delle prestazioni individuate negli accordi, in RGL, 1991, I, 544 s.; in argomento cfr., anche Pino, 2005, spec. 256 ss. Sulla Commissione di garanzia, da ultimo, Ferrari, 2011, spec. 436 ss. Sulla valutazione della Commissione cfr. anche, in particolare, Pascucci, 1999, spec. 131 e 133, il quale, tuttavia, considera l’accordo sulle prestazioni indispensabili come eterogeneo rispetto alla generale categoria degli atti di esercizio dell’autonomia collettiva con cui le parti provvedono, tra l’altro, a disporre degli strumenti organizzativi propri della gestione dei rapporti di lavoro. 169 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore galmente garantite, piuttosto che non all’organo investito della (diversa) funzione giurisdizionale (323). 13. L’applicazione giudiziale delle clausole generali di correttezza e buona fede in funzione di integrazione degli obblighi posti dal contratto collettivo. Le ricostruzioni che ipotizzano un controllo giudiziale di razionalità e di proporzionalità dell’agire datoriale si pongono in linea di continuità, è stato già accennato, con un filone di pensiero ampiamente coltivato negli ultimi decenni, le cui linee portanti sono andate indirizzandosi verso l’incidenza delle clausole generali di correttezza e buona fede sul comportamento delle parti del rapporto di lavoro. Vi sarebbe una contiguità strettissima, in questa prospettiva, e a tratti un’identificazione, tra controllo degli atti di esercizio dei poteri datoriali (nonché, come è stato chiaramente puntualizzato, degli atti di esercizio dell’autonomia collettiva) secondo “razionalità” e “proporzionalità” e l’applicazione delle clausole generali rinvenibili negli artt. 1175 e 1375 c.c. Sono due, come è già stato accennato i nodi problematici evocati da queste ricostruzioni e che possono contribuire a spiegare le diverse soluzioni che nel periodo più recente hanno riscosso maggior consenso. Il primo di questi nodi, a cui già si è fatto riferimento nel (323) Un contemperamento tra esigenze imprenditoriali e diritti inviolabili della persona (ovvero che, eventualmente, di bilanciamento tra esigenze di tutela dei lavoratori di diversa natura, visto il richiamo, tra le altre esigenze, alla sicurezza) è anche quello rimesso agli accordi previsti dagli artt. 4 e 6 St. lav. Anche qui rinvio al contratto collettivo non può essere inteso come autorizzazione alla libera definizione in sede collettiva di regole socialmente adeguate, essendo finalizzato al bilanciamento tra le esigenze di impresa e posizioni giuridiche individuali il cui contenuto e i cui limiti di compressione conservano la loro natura di limiti legali; il contemperamento tra queste diverse posizioni potrà essere verificato ex ante in sede amministrativa (in caso di mancato raggiungimento dell’accordo e di conseguente provvedimento di autorizzazione adottato dalla direzione territoriale del lavoro), ovvero potrà essere fatto oggetto di esame giudiziale in caso di contestazione in sede giudiziale dei contenuti dell’accordo da parte dei singoli prestatori di lavoro che lamentino la lesione dei loro diritti alla riservatezza e all’inviolabilità della persona: in argomento, da ultimo, Trojsi, 2013, 305 ss., anche con riferimento al problematico raccordo con le previsioni derogatorie dell’art. 8, comma 2, lett. a e comma 2-bis del d.l. n. 138 del 2011. 170 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore precedente paragrafo è rappresentato dalla difficoltà di ricavare stabili e costanti direttive di giudizio, per l’esclusivo tramite della mediazione giudiziale, da principi come quelli costituzionali; principi la cui ampiezza e generalità che non sembrano facilmente conciliabili con l’esigenza di individuare parametri prevedibili, controllabili e avallati dalla realtà sociale. Il secondo è rappresentato dalla possibile pervasività di tale controllo, con particolare riferimento agli atti di esercizio dell’autonomia collettiva, rispetto ai quali rimane l’interrogativo sulla loro assoggettabilità a limiti interni che, secondo questa prospettazione troverebbero nelle clausole generali il loro fondamento legislativo. La risposta a cui l’elaborazione giurisprudenziale è addivenuta, con specifico riferimento al peso assegnabile ai risultati dell’azione sindacale è, come noto, di segno contrario. Questo approdo può essere condensato negli assunti per cui le clausole generali di buona fede e correttezza “consentono al giudice di accertare che l’adempimento di un obbligo, contrattualmente assunto o legislativamente imposto, avvenga avendo come punto di riferimento i valori espressi nel rapporto medesimo e nella contrattazione collettiva”, inferendosene che “esse attengono alle modalità comportamentali ed esecutive del contratto quale esso è e non quale si vorrebbe che fosse. Tali regole non possono quindi essere forzate al punto di introdurre nel rapporto diritti e obblighi patrimoniali che il contratto non contempla e anzi esclude” (324). Statuizioni giurisprudenziali che sono state riconosciute come una conferma “della storica funzione integratrice degli effetti contrattuali, come tali specificatrice di obblighi e doveri già testualmente previsti dalla legge o dall’accordo collettivo” (325). Non occorre diffondersi sui punti di contatto e soprattutto, di complementarietà ordinamentale tra le conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza e gli indirizzi lungo i quali è proceduta la contrattazione collettiva, a partire dal momento in cui quest’ultima ha (324) Così Cass. S.U. 17 maggio 1996, n. 4570; in linea con questo principio, tra le altre, Cass. 25 marzo 2009, n. 7202; Cass. 29 maggio 2006, n. 12721. Per rilievi critici in merito a quest passaggio della motivazione della pronuncia delle Sezioni Unite, in particolare, Barbera, 2000, 256. (325) Montuschi, 1996, 147. Più recentemente si veda Marazza, 2001, 265 ss., spec. 271. 171 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore iniziato ad includere tra i suoi obiettivi privilegiati quello della procedimentalizzazione dei poteri imprenditoriali (326). Una realtà il cui consolidamento ha indotto a constatare come l’esigenza di un controllo di buona fede dei poteri datoriali si sia andata attenuando a fronte dell’ampliamento delle forme di controllo dell’esercizio dei poteri datoriali definite dalla contrattazione collettiva (327). Se è vero, quindi, che in presenza di una regolamentazione contrattuale sufficientemente puntuale il ricorso alla regola di correttezza può apparire nella maggior parte dei casi come un elemento sovrastrutturale (328), nondimeno permangono spazi, nel concreto esercizio dei poteri imprenditoriali, entro i quali l’applicazione di tali clausole rimane un passaggio imprescindibile per la valutazione di legittimità degli atti del datore di lavoro. Rispetto a tale esigenza di fondo, sino alle svolte giurisprudenziali di metà degli anni novanta si è assistito al confronto tra impostazioni di segno diverso orientate, per un verso, verso la definizione di un quadro di doveri integrativi ulteriori, accessori o strumentali direttamente riconducibili ai principi di correttezza e buona fede (con particolare riguardo all’esternazione delle motivazioni poste alla base degli atti datoriali (329)), ovvero improntate, sul fronte opposto, al mantenimento della coerenza “fra il disegno contenuto negli impegni contrattuali e la scelta puntualmente operata” posto che “le clausole generali non operano quali strumenti integralmente sostitutivi della volontà delle parti ...ma solo quali integratori di quella volontà in funzione di riequilibrio e di misura dei poter concretamente esercitabili” (330) e, dunque, “come parametri di adeguamento dell’obbligato all’esattezza dell’adempimento” (331). La scelta interpretativa che ha finito con il prevalere, come premesso, è stata nel secondo senso, dovendosi, comunque, puntualizzare che l’accoglimento di questa opzione non ha precluso (326) Sul rapporto tra tecniche di procedimentalizzazione e regole di correttezza e buona fede, in particolare, Tullini, 1990, 176 ss.; Zoli, 163 ss., 214 s. (327) Persiani, M., 1995a, 147. (328) Tullini, 1990, 200, con richiamo a Rodotà, 1969, 179. (329) Tullini, 1990, spec. 199 ss., Zoli, 1988, 231 ss. e, sulla stessa linea, Barbera, 1991, 265 ss. (330) Mazzotta, 1989, ora 1994, 148. (331) Mazzotta 1987, ora 1994, 180. E si veda, ora, Marazza, 2012a, 1309. 172 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore l’elaborazione di figure sintomatiche di comportamenti conformi a buona fede e correttezza entro il perimetro obbligatorio segnato dalla contrattazione collettiva, come è avvenuto, oltre che in materia di concorsi privati (332), con riferimento alle tematiche delle note di qualifica (333), di giustificatezza del licenziamento del dirigente (334), di modalità di esercizio del potere disciplinare (335). Questa dinamica di delimitazione dell’ambito di applicazione delle clausole generali, naturalmente, si presta a molteplici e non univoche chiavi di lettura. Una tra le più realistiche è connessa alla constatazione per cui l’ambito della solidarietà contrattuale, la quale potrebbe in astratto essere addotta quale giustificazione degli obblighi strumentali a garanzia della buona fede in executivis, nel diritto del lavoro incontra un limite fisiologico nella “forte” contrapposizione di interessi tra le parti, una contrapposizione che trova un punto di mediazione e insieme un confine nel contratto e segnatamente nel contratto collettivo (336). Ipotizzare che, al di là di questo confine, il giudice possa muovere alla ricerca di punti di riferimento che riflettano, anche per il tramite del richiamo alle clausole generali di buona fede e correttezza, valori e parametri esterni al comune sentire delle parti allora rischia di apparire, come confermato anche da una nota ricostruzione civilistica, non come un’operazione di ausilio alla cooperazione tra le parti medesime ai fini del completamento del regolamento contrattuale, bensì come rottura di una composizione di interessi antagonistici che anziché favorire la cooperazione tra le (332) Cfr., da ultimo, Cass. 7 febbraio 2014, n. 2836; Cass. 24 marzo 2009, n. 7053; Cass. 14 settembre 2005, n. 18198. (333) Ad es. Cass. 27 settembre 2011, n. 19710; Cass. 11 febbraio 2008, n. 3227; Cass. 8 agosto 2003, n. 12013. (334) A partire da Cass. S.U. 9 dicembre 1986, n. 7295; più recentemente, Cass.12 febbraio 2000, n. 1591; Cass. 8 novembre 2002, n. 15749, LG, 2003, 274; Cass. 28 ottobre 2005, n. 21010, ADL, 2006, 1356, con nota di Topo; sulla riconducibilità della nozione di giustificatezza al vincolo fiduciario e, quindi, all’oggetto del contratto di lavoro dirigenziale, Tosi, 2012a, 459; Id., 2012b, spec. 545 s.; Id., 1996, 393, per l’esplicita qualificazione della giustificatezza come clausola generale. (335) In materia di immediatezza della contestazione, ad es., Cass. 9 settembre 2003, n. 13190; Cass. 8 gennaio 2001, n. 150. (336) Mazzotta, 1989, ora 1994, 147; e si veda anche Persiani, 1995a, 139. 173 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore parti del contratto, rischia di alterarne irrimediabilmente gli equilibri (337). Di qui l’interrogativo se effettivamente sussistano condizioni e necessità per una revisione di quest’opzione. Se è vero, come pare, che la raffigurazione in chiave moderna del rapporto di lavoro come una relazione caratterizzata essenzialmente dalla supremazia datoriale e dallo stato di soggezione del prestatore di lavoro fornisce una visione tutto sommato parziale di un fenomeno giuridico che, nella sua concretezza attuale, appare come la risultante dell’equilibrio di tre sfere regolative, ossia quella legale, quella collettiva e quella dei poteri imprenditoriali — le quali, per così dire, si fronteggiano e si autolimitano vicendevolmente —, si potrebbe ritenere, allora, che le ragioni di conservazione delle pre-condizioni di questo equilibrio prevalgano tuttora sulle spinte favorevoli ad una maggiore influenzabilità di tale equilibrio da parte di attori esterni. Questo perché, se da una parte la fissazione di limiti esterni equivale ad una definizione preventiva delle “regole del gioco”, dall’altra l’eventuale espansione dei margini di controllo giudiziale attraverso la regola della buona fede implicherebbe l’eventualità che questi assetti regolativi siano rimessi in discussione nel loro complesso, ossia nella loro globalità, nel momento in cui l’area dei rispettivi obblighi viene ad essere estesa oltre il perimetro originariamente percepibile dalle parti (338). È un’eventualità che può essere considerata o meno come coessenziale all’esigenza di un’adeguata salvaguardia dei diritti fondamentali del prestatore di lavoro (ad anche qui il dibattito è troppo esteso per essere ripreso in questa sede, anche perché in massima parte declinato in prospettiva individualistica e perciò estraneo all’angolo visuale dell’autonomia collettiva), ma sulla quale non sarebbe realistico sorvolare. Ulteriori elementi di riflessione in tal senso vengono offerti, (337) Monateri, 2003, 413. (338) Evidenzia coerentemente questa implicazione Barbera, 2000, 265, quando rileva che l’accoglimento dell’impostazione accolta dalla sentenza n. 103 del 1989 della Corte Costituzionale, nella parte in cui prefigura il controllo giudiziale degli atti di esercizio dei poteri datoriali sulla base della loro coerenza con i principi fondamentali dell’ordinamento (con richiamo specifico all’utilità sociale) implica “la destrutturazione di alcune delle categorie su cui si è costituito il diritto del lavoro, a cominciare dalla categoria dell’interesse collettivo”. 174 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore anche su questo versante, dal diritto civile, dove la dottrina ha accolto in maniera fortemente critica, con valutazione pressoché unanime, alcuni recenti interventi giurisprudenziali orientati a favore di una lettura della buona fede che ne esaspera la portata correttiva o, meglio, destrutturante: al punto di spingersi a valutare quale abuso del diritto, qualificato dai giudici di legittimità come “criterio rivelatore dell’obbligo di buona fede oggettiva”, l’esercizio di una facoltà (nella specie, di recesso) contrattualmente prevista: ciò in considerazione della disparità di forze tra i contraenti e riconoscendosi la conseguente assoggettabilità a controllo dell’esercizio di tale facoltà sotto il profilo (rimesso all’apprezzamento del giudice) della “proporzionalità” dei mezzi usati per pervenire all’esito voluto (339). Con il risultato, è stato scritto, di mettere a nudo “le insidie implicite in un ‘paternalismo benevolente’ che, rivisitando ex post le opzioni contrattuali le ridisegni in funzione di apprezzamenti esterni e (suppostamente) oggettivi, deresponsabilizzando le parti in sede programmatica, salvo astringerle ad un contratto mai voluto” (340). Sono considerazioni che in certa misura potrebbero essere adattate anche al quadro dei diritti ed obblighi delle parti del rapporto di lavoro come definiti anche attraverso la mediazione dell’autonomia collettiva e che, dunque, in una certa misura, mettono in guardia rispetto alle prospettive di ampliamento dell’ambito del controllo giudiziale sulla base del parametro della buona fede in senso oggettivo; o, comunque, pongono in luce possibili implicazioni problematiche con le quali, nell’ambito dei discorsi orientati verso queste prospettive, risulterebbe indispensabile confrontarsi. (339) Cass. 18 settembre 2009, n. 20106, tra le altre in FI, 2010, 85, con nota di Palmieri e Pardolesi e in GI, 2010, I, 556, con nota di Scaglione, (e si vedano, ancora, i commenti di Orlandi e Scognamiglio, C., NGCC, 2010, 129 ss. e di Cenini, e Gambaro 2011, 109 ss.); in precedenza, valutazioni altrettanto critiche erano state espresse con riferimento a Cass. S.U. 15 novembre 2007, n. 23726, FI, 2008, I, 1514 e RDC, 2009, II, 347, con nota di Donati, secondo la quale “il frazionamento giudiziale di un credito unitario è contrario alla regola generale di correttezza e buona fede, in relazione agli inderogabili doveri di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.: tale comportamento si risolve in un abuso del diritto, in particolare del diritto di azione, che preclude l’esame della domanda. In presenza di un unico rapporto obbligatorio il credito non può essere parcellizzato al fine di adire, per ogni singola parcella, un giudice inferiore a quello competente alla cognizione del rapporto unitariamente considerato”. Per considerazioni in argomento si veda anche Scaglione, 2010, 103. (340) Così Palmieri, Pardolesi, 2010, 97. 175 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore 14. Conclusioni. La relazione tra clausole generali e autonomia collettiva come possibile percorso di “costruzione della normalità”. Nell’accingersi a formulare alcune brevi considerazioni di sintesi finale, si può partire dalla constatazione — certamente scontata, occorre ammettere — che l’ampiezza del tema e lo spessore degli interrogativi che esso evoca consentono certamente di orientare l’approfondimento del tema delle clausole generali verso una pluralità di direzioni e di sposare diverse opzioni di senso. Un’impostazione che sembra aver trovato alcune conferme nel tragitto sin qui compiuto è quella secondo la quale la riflessione sulle clausole generali può contribuire (come auspica C. Castronovo) a rendere meno labile il confine tra legislazione e giurisdizione (341) nel momento in cui venga impostata come un percorso di “costruzione della normalità” (342); percorso che può divenire praticabile se si accoglie l’idea che le clausole generali rappresentano degli strumenti per trasportare nella dimensione del diritto statuale i canoni di normalità, i valori della vita ordinaria accolti come tali in uno specifico gruppo sociale o professionale, operando come un indispensabile canale di adattamento del diritto agli “equilibri di coordinazione” raggiunti da parte dei privati. E da questo punto di vista, non sembra revocabile in dubbio come il raccordo con l’autonomia collettiva rappresenti uno snodo fondamentale di questa dinamica di collegamento. Sennonché si è avuto occasione di osservare che nei “discorsi” (dottrinali e giurisprudenziali) in materia di clausole generali nel diritto del lavoro, con particolare riguardo ai collegamenti con l’autonomia collettiva, è dato di cogliere, con una certa frequenza, alcuni passaggi caratterizzati da un incedere circolare dei ragionamenti che lascia aperto più di un dubbio sul lineare funzionamento di queste connessioni. Questo accade ad esempio quando, con riferimento a quelle che vengono correntemente definite come clausole elastiche, da un lato si accolgono le indicazioni del contratto collettivo, riconoscendolo espressamente come indicatore o fonte di appropriati standard valutativi, dall’altro e simultaneamente si ritiene che lo standard sia suscettibile di rilettura da parte del giudice alla luce di una non (341) Cfr. Castronovo, 1986, 29. (342) Luzzati, 2013, 185 ss. 176 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore altrimenti specificata “nozione legale” ovvero dei frequentemente richiamati ma mai specificati “principi di civiltà del lavoro” (343). Ovvero quando si teorizza un controllo di ragionevolezza o razionalità, estensibile anche alla contrattazione collettiva, attribuendo al giudice il ruolo di interprete e, si direbbe, si artefice di questa razionalità ma, al contempo, si evidenzia come tale controllo potrebbe consentire al giudice di individuare comportamenti socialtipici anche (facoltativamente, verrebbe da soggiungere) traendo ispirazione dai risultati raggiunti dalla stessa autonomia collettiva (344). Questa circolarità, così come il gioco di specchi tra gli interventi dell’autonomia collettiva e l’intermittente e sovente distorta “imitazione” giudiziale degli stessi che su di essa si innesta, come dimostrano tanto l’esperienza giurisprudenziale, quanto il confronto con alcuni orientamenti dottrinali, sono un punto di analogia che si riaffaccia sia nell’applicazione pratica delle clausole generali tradizionalmente intese, ossia quelle di buona fede e correttezza, sia in quella delle c.d. norme elastiche (prime fra tutte quelle, stando almeno alla qualificazione che ne dà buona parte della dottrina, sulla giusta causa e sul giustificato motivo soggettivo). È, questo, uno tra i molti elementi di prossimità tra le due categorie di “oggetti” normativi partendo dai quali si è cercato di argomentare la confluenza di entrambi i modelli all’interno di una (343) Cfr., recentemente, sul punto, Cass. 15 luglio 2013, n. 17315. Gli esempi più eloquenti dei paradossi o, per lo meno, delle macroscopiche divergenze valutative conseguenti a questa impostazione sono quasi sempre mutuati dalla materia dei licenziamenti: come, ad es., Cass. 13 agosto 2008, n. 21575, NGL, 2009, 67, che ha cassato la decisione del giudice di merito per cui l’allontanamento non autorizzato dei cassiere dal posto di lavoro, senza previa chiusura della cassa e il rifiuto opposto nei confronti dei clienti di svolgere operazioni specificamente regolate da procedure aziendali avrebbero potuto essere letti alla luce di una prassi “dettata dal buon senso” e come tali non meritevoli di essere sanzionati con il licenziamento. Per converso, secondo Cass. 26 giugno 2013, n. 16095, l’abbandono del posto di lavoro da parte dell’addetto alla vigilanza privata con mezz’ora di anticipo dalla fine del turno, comportamento espressamente previsto dal contratto collettivo come motivo di licenziamento, può essere qualificato come un inadempimento non meritevole della sanzione estintiva. Per ulteriori esempi si rinvia, da ultimo, a Nogler, 2014, 132 ss. (344) Zoli, 1988, 227; Perulli, 2006, 448, secondo i quali, tuttavia, il giudice sarebbe libero di estendere, in applicazione del principio di buona fede, soluzioni elaborate dall’autonomia collettiva anche a settori diversi da quelli in qui tali soluzioni sono state introdotte; contra Persiani, 1995a, 148. 177 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore definizione unitaria, inclusiva e ampia di clausola generale, peraltro in linea con alcuni orientamenti della moderna civilistica che fa leva sulla loro comune sostanza di norme di rinvio a parametri che riflettono le ragionevoli aspettative della vita sociale (345). Si è constatato, altresì, che l’ampliamento di prospettiva conseguente a questa ridefinizione della categoria delle clausole generali può essere di ausilio per una più nitida messa a fuoco dell’ambito o degli ambiti valoriali verso i quali le medesime si rivolgono; vale a dire, per sfruttare la celebre metafora, per meglio comprendere verso quale tipo di “realtà” giuridicamente rilevante sono orientate le “finestre” che il legislatore colloca nell’edificio ordinamentale attraverso le disposizioni di legge che contengono al loro interno delle clausole generali. Un interrogativo che induce ad interrogarsi in via ulteriore, si è detto, sulla scelta dei criteri di riferimento per l’integrazione delle clausole generali; i quali possono essere alternativamente ricercati, a seconda delle opzioni ricostruttive verso le quali ci si orienta, o negli standard che esprimono, al di fuori del sistema delle fonti in senso formale, la c.d. coscienza sociale o, diversamente nei “principi” giuridici espressi od accolti dall’ordinamento statuale o dagli ordinamenti sovranazionali ovvero da essi teoricamente “sintetizzabili” (346). La scelta verso la quale è apparso preferibile indirizzarsi, supportata del resto da più di un’opinione scientifica, procede nel primo senso, in base alla convinzione che il riferimento ai frutti dei c.d. sottosistemi regolativi extralegali sia il criterio che meglio esprime quella funzione di contatto con le valutazioni sociali generalmente o diffusamente condivise che può dirsi in generale assegnata alle clausole generali. L’ulteriore conseguenza di una delimitazione di tipo “ampio” del campo di indagine, è che essa ha reso possibile una perlustrazione trasversale e una ricognizione della pluralità e della diversificazione morfologica dei vari modelli di clausola generale che sono (345) Luzzati, 2013, 182, il quale, come già rammentato, manifesta contrarietà rispetto al possibile utilizzo delle clausole generali come strumento di introduzione nelle relazioni interprivate di “valori nuovi, rivoluzionari o principi etici esigenti” ovvero come mezzo “per fondare istituti e conferire al sistema una maggiore coerenza sistematica, data la costitutiva — e irrinunciabile — variabilità storico-contestuale degli standard cui è fatto rinvio”. (346) Libertini, 2011, 349. 178 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore andati ramificandosi nella crescita notoriamente alluvionale della legislazione lavoristica. E l’osservazione del fenomeno delle clausole generali, sviluppata in una prospettiva né atomistica (ossia con riferimento a singole e particolari fattispecie) né, all’opposto, generalissima e astratta, bensì percepita nelle dimensioni e nella consistenza che assume nello specifico giuslavoristico, permette di giungere a constatazioni che trascendono il piano descrittivo per investire quello del significato e delle modalità peculiari di concretizzazione giudiziale delle clausole generali. Questo perché all’elemento che si è identificato come strutturale e fisiologico del rinvio (347), viene ad abbinarsi quello, se si vuole ancor più consueto e dato per scontato ma raramente associato a questa prospettiva, della rilevanza presuntiva del contratto collettivo come dato di tipicità sociale idoneo alla concretizzazione, integrazione, specificazione della clausola generale. In questo abbinamento, si ribadisce, è sembrato di poter scorgere il punto di contatto più sostanzioso tra il fenomeno delle clausole generali e l’autonomia collettiva. Potrebbe forse dirsi che questa presunzione, nelle varie forme in cui si esplica all’interno di ciascuno dei diversi contesti legislativi esaminati, ponga in luce un particolare risvolto (o un possibile tratto di assottigliamento) della bivalenza normativa del contratto collettivo (348). Ciò nel senso, anche se è chiaro che si tratta di una considerazione che meriterebbe certo ulteriori approfondimenti, che questa interrelazione potrebbe essere letta (cosa che spiegherebbe, del resto, il fatto che il giudice possa essere chiamato a rapportarsi ai fini della concretizzazione della clausola generale non con un contratto collettivo monisticamente inteso, ma come prodotto di un sistema contrattuale, come tra poco si dirà) in termini di possibile declinazione, in chiave squisitamente privatistica, della prospettiva pluriordinamentale di matrice giugniana, raccogliendo, peraltro, un’esorta(347) Si è constatato che il concorso del contratto collettivo al completamento del significato della previsione legale si manifesta, nella maggior parte dei casi, nella forma del rinvio implicito; ma l’evoluzione legislativa induce a non considerare questa specifica modalità come una costante, dal momento che il legislatore individua, come si è visto, ipotesi nelle quali al contratto collettivo è attribuita una competenza esclusiva ad “individuare” o “specificare” i contenuti della clausola generale (cfr. il paragrafo n. 11). (348) Sulla cui persistente utilità ai fini della comprensione delle diverse forme di efficacia del contratto collettivo, Santoro-Passarelli, G., 2013b, 110; Ghera, 2012, 206 s. 179 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore zione in tal senso a suo tempo espressa dal suo stesso scopritore (349). Si è proceduto, in altri termini, nella direzione dello sviluppo e dell’adattamento, nella particolare direzione tematica delle clausole generali, di quell’enunciazione teorica, di portata più ampia, secondo la quale il contratto collettivo può ben assumere “una molteplicità di valenze giuridiche, sia dal punto di vista dell’ordinamento da cui proviene (cioè il sistema contrattuale) sia in relazione ai diversi apprezzamenti di cui è fatto oggetto nell’ordinamento giuridico-statuale” (350); nel senso che una utile chiave d’approccio alle complessità dei fenomeni normativi può essere quella di considerare “che ciascun sistema o contesto normativo determini un distinto campo di rilevanza del contratto collettivo, avendo le norme dei vari sistemi un contenuto precettivo diversamente orientato” (351). Volendo esplicitare i termini di tale rilevanza nel contesto preso in esame, dall’indagine compiuta è emerso che il raccordo tra le clausole generali e la fisiologica e irrinunciabile attitudine del contratto collettivo ad integrare il dato legale (352) implica, da una parte, la priorità valutativa accordata dall’ordinamento alla concretizzazione delle clausole generali da parte dell’autonomia collettiva e la necessità per il giudice di motivare eventuali scelte interpretativa differenti sulla base di parametri “esterni” e controllabili, spiegando le ragioni della loro maggiore aderenza alla ratio della norma legale. Dall’altra, tale correlazione comporta che l’incidenza delle clausole generali di buona fede e correttezza e la connessa elaborazione in via di integrazione di figure sintomatiche (349) Giugni, 1992, 75. Nella medesima prospettiva, recentemente, Ghera, 2009, spec. 361. In precedenza, sul “coordinamento tra sotto-sistema giuridico intersindacale e sotto-sistema giuridico statale” come possibile risultato della rilettura “funzionalisticosistemica” dell’ordinamento intersindacale, Vardaro, 1984, 123. (350) Mariucci, 1985, 452. (351) D’Antona, 1990, ora 2000, 62. E a tal proposito, nella prospettiva di questo studio, è possibile fare direttamente richiamo al pensiero di Giugni laddove, nella sua relazione al Convegno di Pescara-Teramo, del 1966 venivano simultaneamente evidenziate, da una parte la sostanza di dato di tipicità sociale del contratto collettivo, messo a fuoco anche nella sua dimensione storica, dall’altro la rilevanza specifica dallo stesso assunta quale canale di realizzazione dei principi costituzionali di tutela del lavoro (Giugni, 1967, ora 1989, 182 e 160). In argomento da ultimo, Speziale, 2012b, spec. 369 s. (352) Potendosi convenire senz’altro sulla sostanziale “impossibilità di fare a meno...della regolamentazione collettiva dei rapporti di lavoro, indispensabile per la stessa applicazione della legislazione lavoristica” (così Rusciano, 2003, 39). 180 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore da parte del giudice rimangono delimitate al perimetro degli obblighi contrattualmente definiti dal contratto collettivo (353). Disposizione legale e standard di fonte collettiva finiscono per trovarsi allineati, quindi, sull’asse di una sequenzialità (non in ogni caso sufficiente, ma) necessaria. Necessaria nel senso che il “tenere conto” delle previsioni del contratto collettivo — per mutuare la terminologia dell’art. 30, comma 3, della legge n. 183 del 2010 — rappresenta per il giudice un passaggio ineludibile per la costruzione della “regola” di decisione del caso concreto. Il procedimento di concretizzazione giudiziale della clausola generale a volte si esaurisce nell’ambito di questo passaggio per espressa volontà del legislatore (ed è ciò che accade quando la legge conferisce in via esclusiva al contratto collettivo la competenza alla concretizzazione delle clausole generali mediante un rinvio espresso). Nella maggior parte degli altri casi allo stesso risultato si perviene (affermazione che trova conferma nella quotidianità giurisprudenziale) in quanto il giudice accetta il dato proveniente dal contratto collettivo come espressione dello standard più confacente all’ambito professionale entro il quale la clausola generale deve trovare applicazione. Ferma restando, in caso di rinvio “implicito” la possibilità del giudice di richiamarsi, motivatamente — e potrebbe dirsi in seconda istanza —, a sistemi valoriali alternativi, la concretizzazione della clausola generale rimane comunque un percorso che si sostanzia nel collegamento tra la norma e le linee di condotta ricavabili da elementi “esterni” socialmente condivisi e controllabili, tra quali primeggia necessariamente il contratto collettivo. A tal proposito è stato recentemente evidenziato come, in sede di valutazione degli atti di esercizio dei poteri datoriali, non possa darsi per scontato “che il giudice possa o debba sempre sostituirsi al titolare per domandarsi cosa avrebbe fatto al suo posto”, dal momento che il potere “deve essere sentito dalle parti e valutato come espressione della convivenza e delle regole che questa proietta” (354). Un’affermazione che appare del tutto condivisibile, a condizione di ammettere che tali “regole” vadano ricercate, in primo luogo, nella (353) (354) Sul punto, nella letteratura recente, Carinci, F., 2007, XCV. Gragnoli, 2011, 537. 181 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore sede strutturalmente preordinata all’enunciazione di queste regole, che rimane fisiologicamente quella della contrattazione collettiva. Viene a porsi al di fuori di questa prospettiva, al contrario, una valutazione svincolata da questi riscontri ed espressa sulla base di “nozioni legali” ovvero di “principi” direttamente o indirettamente espressi dall’ordinamento ma non trasfusi né ricollegabili a norme direttamente vincolanti per i privati. Con ciò intendendo che una concretizzazione delle clausole generali realizzata attraverso la sovrapposizione di una “nozione legale” autonomamente espressa dal giudice (con il forte ed inevitabile rischio di solipsismo) alla lettura della clausola generale operata dalla contrattazione collettiva, è un’operazione che il giudice finirebbe (di fatto finisce, a volte) per compiere avventurandosi nella strettoia tra la valutazione equitativa, che pure rimane inammissibile in assenza di una esplicita autorizzazione legale, e la identificazione tra la clausola generale e il principio, che contraddice o quanto meno impoverisce senso e autonomia concettuale della seconda (355). Occorre segnalare, altresì, che il recepimento del dato di tipicità sociale offerto dal contratto collettivo implica anche una valutazione sulla sua provenienza, nel senso che l’attitudine del contratto collettivo a rappresentare un valido schema di concretizzazione della clausola generale si misura anche sulla base del livello di condivisione che il contratto collettivo riscuote nell’ambito del gruppo o settore professionale in cui il rapporto di lavoro si ambienta. Almeno nel caso di rinvio c.d. implicito non può certamente farsi riferimento a criteri selettivi di fonte legale (356), sicché sarebbe fuorviante il riferimento diretto alla rappresentatività dei soggetti stipulanti (357), quale criterio di selezione dello standard contrattual-collettivo maggiormente attendibile; nondimeno, si tratta di un elemento che, su un piano indiretto, il giudice è chiamato a prendere in considerazione. (355) È utile ancora una volta il richiamo a Belvedere, 1989, 639 ss. (356) Mentre non è così nel caso dei rinvii espressi richiamati al precedente paragrafo n. 11, nei quali il legislatore provvede a definire i criteri di selezione dei soggetti negoziali abilitati ad intervenire in funzione di concretizzazione della clausola generale. (357) Alla quale pure si è fatto richiamo in passato, ma sulla base di un modello ricostruttivo e con riferimento ad un quadro ordinamentale ormai profondamente mutato: cfr. Ferraro, 1981, 275 ss. 182 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Questo perché non è revocabile in dubbio che il “canone di normalità” offerto dal contratto collettivo appare meritevole di essere preso in considerazione se e in quanto risulti elaborato all’interno di un sistema negoziale in grado di rispecchiare fedelmente le aspettative del gruppo professionale di riferimento (358). È evidente come su questo versante non siano enucleabili rigide direttive di giudizio, ma è altrettanto plausibile riconoscere che le indicazioni desumibili dall’ordinamento sindacale in materia di assetti negoziali e di rappresentatività dei soggetti o delle coalizioni negoziali ai fini della legittimazione negoziale si profilano come altrettante linee di orientamento imprescindibili per il giudice. L’osservazione ha anche un risvolto di carattere, per così dire riflessivo che pertiene la stessa valutazione di rappresentatività che, a seconda dei contesti, il giudice viene chiamato a recepire dalle fonti legali o contrattuali che ne definiscono i criteri e le condizioni di attribuzione. Una valutazione che, alla luce dell’evoluzione legislativa e contrattuale, non segue lo schema dell’applicazione di clausole generali, in quanto rinvia a specifici criteri quantitativi o precisi riscontri oggettivi. Prima fra tutte, naturalmente, la fattispecie contemplata dall’art. 19 della legge n. 300 del 1970, nella quale il legislatore (con l’apporto “correttivo” della Corte costituzionale attraverso la sentenza n. 231 del 2013) ha individuato un criterio selettivo che non si concretizza né in una clausola generale né in una norma elastica, ma rinvia a circostanze oggettive e concrete come quelle della sottoscrizione del contratto collettivo o della partecipazione alle trattative. Si tratta, pertanto, di un dato normativo non suscettibile di valutazione e che, dunque, il giudice non ha il potere di riscrivere, sostituendo il dato normativo puntuale con una concezione di rappresentatività accolta o forgiata dallo stesso giudice per individuare le associazioni sindacali abilitate a costituire le r.s.a. vanificando la scelta del legislatore (359). (358) Per considerazioni sul collegamento tra rilevanza parametrica del contratto collettivo ai fini della determinazione della giusta retribuzione ex art. 36, primo comma, Cost. e rappresentatività degli attori negoziali, si veda Ichino, 2010, 742, e ci si permette, altresì, di rinviare a Bellomo, 2002, 66 s., 208 ss. (359) La problematica della rappresentatività sindacale e della sua regolazione nell’ordinamento statuale e in quello sindacale, così come la sterminata letteratura in 183 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Una scelta diversa, in definitiva, darebbe luogo ad un’autentica inversione di percorso, mediante la quale il giudice finirebbe con il trasformare una previsione puntuale in una norma elastica, autoattribuendosi al contempo il potere di operarne la concretizzazione sulla base della sua personale lettura della realtà delle relazioni industriali. Per chiudere e sfruttando ancora una volta le suggestioni offerte dal diritto civile, potrebbe ben dirsi che quello che si è ritenuto di poter scorgere nel collegamento tra le due categorie della scienza giuridica il cui connubio dà il titolo a questa relazione può prestarsi ad essere definito come un abbinamento caratterizzato, veniva anticipato nel precedente paragrafo, dalla “rudezza”, che riflette una concezione del contratto fisiologicamente antagonista nella quale l’accordo costituisce il punto di incontro fra parti naturalmente antagoniste e nel quale qualunque “riempimento” eteronomo “richiede una giustificazione ben più forte dell’usuale”, perché qualunque interferenza mette in discussione gli equilibri (non solo economici, ma nel caso dell’autonoma collettiva anche sociali) sottesi all’accordo stesso (360). Si ammette certo, anche in questa logica, che in nome della buona fede sia ammissibile un intervento di riequilibrio di posizioni contrattuali in origine diseguali, caratterizzate cioè da una disparità di potere negoziale (361). Ma è un distinguo che, proprio perché fa leva sul divario che può manifestarsi tra le parti del rapporto individuale, perde la sua giustificazione nel momento in cui tale divario viene colmato dall’intervento riequilibratore del contratto collettivo (che, per inciso, costituisce il modello di riferimento della concezione “rude” del contratto propugnata da Monateri). Che la riflessione sull’impiego delle clausole generali debba tener conto di queste connotazioni di sistema e delle controindicamateria, richiederebbero svolgimenti ben più diffusi (sulla pluralità di dimensioni giuridiche della rappresentatività, oltre al classico riferimento a Ferraro, 1981, passim, cfr., in particolare, Caruso, 1992, spec. 91 ss.; Campanella, 2000, sul punto 301 ss.), che, tuttavia, condurrebbero la trattazione oltre i limiti non solo dimensionali ma, soprattutto, tematici entro i quali deve essere mantenuta. Pertanto, si è ritenuto di limitare l’esposizione dei punti di contatto tra le due tematiche alle sole osservazioni formulate nel testo. (360) Monateri, P. 2003, ult. loc. cit. (361) Ancora, Monateri, 2005, 70. In argomento si veda, altresì, Barcellona, 2002, spec. 313 ss. 184 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore zioni da esse derivanti era già stato icasticamente sottolineato, come si rammentava, da Giugni, quando metteva in guardia la comunità scientifica dalla tentazione di ricavare da questi strumenti normativi “un concetto generale di discrezionalità da applicare al rapporto di lavoro”, con il connesso rischio di emarginare “definitivamente il diritto del lavoro dai suoi rapporti con l’economia di mercato” (362). La statura culturale e la sensibilità giuridica e sociale dell’autore di questo avvertimento possono essere di ausilio per andare oltre l’impressione tutto sommato semplicistica di un cedimento a pure logiche mercantilistiche e per risalire alla sua più profonda giustificazione ordinamentale, che permette di riconoscerne la perdurante validità. Nel senso che, come evidenziato successivamente da Persiani, qualunque verifica delle scelte valutative operata all’interno del sistema normativo del lavoro non può prescindere né dalla coessenzialità e dalla fisiologica compenetrazione tra i diversi valori che in esso si confrontano né del riconoscimento del contratto collettivo come sede in cui le parti definiscono il punto di equilibrio dei contrapposti interessi mediante l’individuazione dei diritti dei lavoratori e dei limiti ai poteri dei datori di lavoro (363). Tutte affermazioni, si potrebbe dire, che a ben vedere rispecchiamo la medesima impostazione di fondo laddove confermano, da angolature differenti, la convinzione che tra i presupposti degli equilibri di sistema del diritto del lavoro figura tuttora quello per cui il diritto privato è e deve necessariamente rimanere, innanzitutto, un terreno aperto alla libera espansione dell’autonomia collettiva e non uno strumento di compressione, di “preterintenzionali” attribuzioni di senso o di addomesticamento della stessa autonomia collettiva verso direzioni e obiettivi che le rimangono (362) Giugni, 1992, 74. (363) Così che lo stesso sindacato, in realtà, concorre alla “funzione di regolazione del lavoro in ragione dell’economia, cioè del mercato”: così Persiani, 2000, 25, nel testo e in nota 105. In precedenza, nello stesso senso, Scognamiglio, R., 1994, ora 1996, 949, il quale osserva come il codice civile, anche grazie all’opera di reinterpretazione realizzata dopo la soppressione dell’ordinamento corporativo, raggruppa “le regole disciplinatrici del lavoro subordinato ...senza voler interferire nel ruolo della contrattazione collettiva, di grande mediatrice dei conflitti di interessi collettivi che travagliano il mondo del lavoro, con una autoregolamentazione, destinata ad operare principalmente nell’ambito delle categorie, che appare insostituibile per i pregi della sua aderenza alla realtà concreta e alla sua specificità”. 185 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore estranei; una convinzione che, condensando in ultimo il risultato di queste riflessioni, merita ancora di essere coltivata. Riferimenti bibliografici. 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Il controllo sul processo di “concretizzazione” delle clausole generali: il controllo a “monte” e il rapporto delle clausole con gli standards e i principi generali dell’ordinamento. — 2.5. Segue: il controllo a “valle” e il sindacato di legittimità. — 3. Buona fede e correttezza: significati, ambiti e modalità di applicazione. — 3.1. Origini e contenuto della buona fede e della correttezza. Coincidenza o distinzione di nozioni? — 3.1.1. La prospettiva storica. — 3.1.2. Il codice civile vigente e la sostanziale identità dei concetti di correttezza e buona fede. — 3.1.3. Il contenuto delle clausole di correttezza e buona fede. — 3.2. Modalità operative della buona fede e della correttezza: in funzione integrativa del regolamento contrattuale. Gli obblighi di protezione ex artt. 1175 e 1375 c.c. — II. Rapporto di lavoro e obblighi del prestatore: il ruolo delle clausole generali di buona fede e correttezza. — 4. La buona fede e la correttezza come clausole generali: dal diritto civile al diritto del lavoro. — 4.1. Norme generali e clausole generali nel diritto del lavoro. — 4.2. Buona fede e correttezza nel diritto del lavoro. — 5. Correttezza e buona fede in executivis nel lavoro subordinato: gli obblighi di protezione e il contratto di lavoro. — 6. La “concretizzazione” delle clausole generali di correttezza e buona fede nei confronti del prestatore di lavoro: l’approccio giurisprudenziale. — 7. Correttezza e buona fede: il rapporto con la diligenza. Una prima conclusione. — 8. Segue: il dovere di obbedienza e il potere direttivo. — 9. Segue: ipotesi applicative. — 9.1. Comportamenti diretti all’adempimento della prestazione. — 9.2. Comportamenti diretti all’adempimento di compiti complementari e strumentali. — 9.3. Comportamenti diretti alla conservazione di beni del datore di lavoro in funzione della prestazione (dovere di custodia). — 9.4. Comportamenti diretti alla conservazione della propria persona in funzione della prestazione (dovere di cura della (*) Sono grata ai tanti amici e colleghi, che, con generosa disponibilità, hanno discusso con me il presente lavoro di ricerca, offrendomi preziosi spunti e riflessioni. Un sentito ringraziamento va, in particolare, a F. Carinci e, altresì, a E. Gragnoli, D. Garofalo, M.G. Greco, nonché a F. Pantano, L. Angelini, C. Lazzari. Ringrazio altresì V. Lamonaca, A. Biagiotti, M. Biasi, D. Casale, A. Lima per l’importante supporto nella ricerca del materiale bibliografico. 203 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore propria salute). — 9.5. Comportamenti diretti a conformare l’aspetto esteriore della propria persona in funzione della prestazione (dovere di cura del proprio aspetto personale). — 10. Correttezza e buona fede: il rapporto con la fedeltà. Una seconda conclusione — 11. Segue: ipotesi applicative. — 11.1. Comportamenti diretti alla salvaguardia dell’organizzazione in senso “statico” (dovere di protezione dell’organizzazione in senso “statico”). — 11.2. Comportamenti diretti alla salvaguardia dell’organizzazione in senso “gestionale” (doveri di avviso, informazione, comunicazione e altri doveri di protezione dell’organizzazione tecnico-produttiva). — 11.3. Comportamenti diretti alla salvaguardia dell’organizzazione in senso “dinamico” (dovere di protezione dell’organizzazione dal punto di vista economico e di mercato). — 11.3.1. Dovere di protezione dell’organizzazione dal punto di vista economico. — 11.3.2. Doveri di protezione e atti preparatori della concorrenza. — 11.3.3. Doveri di protezione e denuncia, critica o divulgazione di notizie pregiudizievoli per l’impresa. — 11.3.4. Doveri di protezione, vita privata e qualità personali del prestatore. 1. Premessa. È un tema ampio e complesso quello del rapporto tra clausole generali e diritto del lavoro, che si colora di profili di particolare delicatezza, se guardato dal punto di vista degli obblighi del prestatore nel rapporto di lavoro. L’ampiezza e la complessità del tema derivano dal fatto che la materia delle “clausole generali”, di portata trasversale rispetto alle diverse branche del diritto, tuttora « attende una sistemazione teorica definitiva » (1): a riguardo, il quadro non è mutato in modo sostanziale, benché il dibattito sul punto abbia conosciuto da ultimo un rinnovato interesse, anche alla luce degli sviluppi del diritto privato europeo (2). Approcciarsi al tema significa fare i conti anzitutto con l’ambiguità e l’elevata vaghezza del sintagma “clausola generale”. Le incertezze derivano dalla difficoltà di individuarne i tratti caratterizzanti e di delimitarne i confini rispetto ad altre nozioni giuridiche ruotanti anch’esse attorno all’indeterminatezza del testo della norma (3). Ciò ha finito per, dar vita, « nella cultura giuridica italiana », a « una situazione articolata, ma soprattutto confusa » (4); sicché oggi non è semplice capire a cosa ci si debba (1) (2) (3) (4) Mengoni, 1986, p. 8. Patti, 2013, p. 93 ss. In tema Fabiani, 2012, p. 191. Velluzzi, 2010, p. 1. 204 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore riferire, sul piano concettuale, quando si parla di “clausole generali”. A disorientare è in particolare un duplice fenomeno. V’è, da un lato, la tendenza di giudici e giuristi a una “moltiplicazione delle etichette” (5), con possibilità di assistere a un uso, a stregua di sinonimi — in tutto o solo in certa misura — di locuzioni quali “clausole generali”, “standard valutativi”, “standard”, “concetti indeterminati”, “norme elastiche”, “concetti-valvola”, “valvole di sicurezza”, “nozioni a contenuto variabile”, “formule aperte”, concetti valutativi caratterizzati da “vaghezza socialmente tipica”, “norme in bianco”, per citarne solo alcune (6). V’è, dall’altro lato, la concomitante propensione della letteratura giuridica a una “moltiplicazione delle nozioni” riferibili alla medesima “etichetta”, con il risultato di veder attribuiti significato ed estensione di volta in volta differenti all’espressione “clausola generale”, sì da consentirle di abbracciare — a seconda delle diverse opzioni interpretative e, quindi, delle nozioni adottate — i più disparati concetti: certamente la « correttezza », la « buona fede », l’« ordine pubblico », il « buon costume », l’« utilità sociale », ma anche, per certuni, la « giusta causa » e il « giustificato motivo », di immediato impatto sul versante giuslavoristico. Anche poi a volersi immediatamente orientare in direzione di una delle tante summenzionate opzioni e nozioni, i problemi non sarebbero comunque finiti, perché resterebbe pur sempre da fare i conti con un lungo ed eterogeneo catalogo di clausole, nel cui ambito selezionare quelle meritevoli di specifico esame. Tutto questo rischierebbe di complicare non poco l’operazione di delimitazione del campo di indagine, se non fosse per gli stessi (5) Pedrini, 2014, p. 32; v., del resto, già risalente dottrina tedesca, che, nel soffermarsi sulla « metodologia della legislazione nel caso di allentamento del vincolo dei tribunali e degli organi amministrativi alla legge », rinveniva « diverse forme di espressione legislativa, per le quali colui che applica la legge acquista autonomia nei confronti di essa », in quest’ambito distinguendo « i concetti giuridici indeterminati, i concetti normativi, i concetti di discrezionalità e le clausole generali » e lamentandosi del fatto che « purtroppo la terminologia non è unitaria »: così Engisch, 1970, p. 170. (6) « Tanti nomi per dire la stessa cosa o tante cose diverse? », si chiede Denozza, 2011, p. 2, rilevando che « se il dibattito anglosassone », sulla scorta del classico distinguo tra rules e standards, sembra soffrire di una certa semplicità e ripetitività degli argomenti, altrettanto non si può dire per quello continentale, che soffre del vizio opposto. Qui i poli del discorso non sono due o tre, ma una quantità pressoché indeterminata ». 205 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore termini dell’odierna riflessione — Clausole generali e diritto del lavoro — nel cui connubio è evidentemente implicito il richiamo a correttezza e buona fede. Ed invero non può dubitarsi di come la storia delle clausole generali nella nostra disciplina di settore abbia coinciso proprio con la penetrazione (altalenante nel corso del tempo) di tali clausole all’interno di quel peculiare rapporto obbligatorio, che è il rapporto di lavoro subordinato (7). Ne deriva una “sdrammatizzazione”, per così dire, dei problemi connessi alla delimitazione del campo di indagine: la collocazione, in forza del criterio storico, della buona fede e della correttezza al centro del percorso di ricerca non solo scioglie ogni possibile perplessità sulla scelta dell’una o dell’altra clausola generale meritevole di analisi nell’ipotesi de qua, ma sottrae altresì valenza propedeutica alla questione definitoria prima accennata, non potendo certo dubitarsi della qualificazione della buona fede alla stregua di « clausola generale per eccellenza » (8), indipendentemente dalla nozione che di quest’ultima s’intenda adottare. Piuttosto, la menzionata questione definitoria rileverà in funzione del discorso sulla correttezza e la buona fede. È pacifico, infatti, come le caratteristiche, le funzioni e le modalità applicative di tali regole discendano, anzitutto, dalla loro ascrivibilità, sul precipuo piano delle tecniche di normazione, alla categoria delle “clausole generali”, le cui modalità di funzionamento — sub specie di problemi interpretativi che sollevano e di ruolo che al giudice impongono — dipendono a propria volta dal loro inquadramento concettuale (9). (7) Come era già stato nell’ordinamento tedesco con riguardo alla clausola di Treu und Glauben del § 242 BGB, anche nel diritto del lavoro italiano delle origini è stata la bona fides dell’art. 1124 del vecchio codice civile del 1865 a fungere da fondamento normativo per « colmare le lacune del sistema in materia lavoristica e (...) stabilire in concreto le singole conseguenze dell’accordo fra l’imprenditore e i suoi sottoposti (...) »: Corradini, 1970, p. 407; sottolinea come « nell’ordinamento tedesco la problematica delle clausole generali ruoti « attorno al principio di buona fede, che ha determinato una vera e propria fase normativa ad opera della giurisprudenza » Patti, 2013, p. 85 s. (8) Castronovo, 1986, p. 29; Klinder, 1998, p. 59; Mazzamuto, 2011, p. 1699 parla di clausola generale « per antonomasia » e Di Majo, 1984, p. 541 di « tipica clausola generale ». (9) Per il rapporto tra normazione per clausole generali e tematica interpretativa v. Pedrini, 2014, p. 36 ss.; con riguardo altresì al ruolo del giudice cfr. Fabiani, 2012, p. 193, secondo il quale « la straordinaria ricchezza e complessità della tematica (delle clausole generali) (...) si coglie appieno (...) ove » si guardi alla sua « dimensione processuale » e non solo dal punto di vista del « ”giudizio” posto in essere dal giudice nella peculiare ipotesi in 206 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Come noto, è il diritto delle obbligazioni, specie quelle di origine contrattuale, a rappresentare lo scenario di fondo entro il quale si colloca il discorso sulla normativa di correttezza e buona fede. Detta normativa viene chiamata ad accompagnare tutto « l’iter, che dalle trattative giunge, tramite l’interpretazione del contratto, all’attuazione del conseguente rapporto » (10). Benché siano dunque, molteplici le norme codicistiche rilevanti in un tal contesto (artt. 1175, 1337, 1358, 1366, 1375 c.c.) l’attenzione si indirizzerà qui agli articoli 1175 e 1375. Non si tratta di una scelta di campo aprioristica, bensì della necessità di tener fede al tema stesso della relazione, che eleva a obiettivo della ricerca l’esame della relazione tra clausole generali e posizione debitoria del prestatore nello svolgimento del rapporto di lavoro. I Tra norma positiva e valori etico-sociali: la buona fede e la correttezza come clausole generali 2. Le clausole generali: nozione, struttura e funzioni. 2.1. Le clausole generali: origini della nozione. È stato a ragione osservato come sia inevitabile « che ogni discorso giuridico intorno al significato e al contenuto » della « buona fede coincida, in parte, con la teoria della clausole generali » (11). È, allora, importante risalire alle origini di questa teoria, origini quanto mai significative dell’ampio novero di questioni racchiusevi e, prim’ancora, dello stretto legame con le vicende della buona fede oggettiva nel diritto delle obbligazioni. Il concetto di “clausola generale” deriva « dall’osservazione di cui si trovi a dover interpretare ed applicare, con riferimento al singolo caso di specie, il testo di una norma contenente una clausola generale (...), ma anche sotto il profilo della controllabilità » di tale “giudizio” « in sede di impugnazione, se del caso di mera legittimità (quale il giudizio di cassazione) »: su quest’ultimo tema Roselli, 1983; Id., 1988; AA.VV., 2013, p. 5 ss. (10) Bigliazzi Geri, 1988, p. 177. (11) Tullini, 1990, p. 13. 207 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore certe norme (o di certe disposizioni) munite di determinate caratteristiche (che si presumevano) comuni » (12). Nasce come categoria del linguaggio dottrinale, per poi transitare parzialmente anche nel lessico giurisprudenziale. A lungo, il termine è stato sconosciuto (anche) al nostro legislatore nazionale, finché, proprio nella materia del lavoro, l’art. 30 l. n. 183 del 2010 non vi ha fatto esplicito richiamo (13). La sua genesi è strettamente legata alle vicende del diritto privato tedesco, in particolare al § 242 del Bürgerliches Gesetzbuch (BGB), redatto tra il 1873 e il 1896 ed entrato in vigore il 1° gennaio del 1900. La norma, rimasta a tutt’oggi immodificata, sancisce che il debitore è obbligato a effettuare la prestazione secondo quanto esige la “buona fede” (Treu und Glauben, alla lettera “fiducia e credere”), con riferimento agli usi del traffico (14). A suscitare interesse fu, al tempo, il peculiare impiego giurisprudenziale del § 242 BGB, dapprima occasionale, poi sempre più generalizzato, fino ad assumere i contorni di un vero e proprio disegno di politica del diritto (15), non certo destinato a passare inosservato presso la dottrina dell’epoca, in un primo momento ancora dominata da una forte ideologia positivista. È all’interno di un tale contesto che la locuzione “clausola generale” (Generalklauseln) viene alla luce, assurgendo a vera e propria categoria del diritto. Si trattava, per i giuristi del tempo, di attribuire connotati teorici a un fenomeno nuovo (16), consistente nell’uso preponderante di sintagmi normativi, quali la « buona fede », ma anche in certa misura il « buon costume » (Gute Sitten) di cui al § 138 BGB, capaci, per le loro caratteristiche, di rinviare sul (12) Pedrini, 2014, p. 13. (13) Per notazioni particolarmente critiche Rescigno, 2011, p. 1689 s.; Id., 2013, p. 321. (14) “Der Schuldner ist verpflichtet, die Leistung so zu bewirken, wie Treu und Glauben mit Rücksicht auf die Verkehrssitte es erfordern”: § 242 BGB. (15) Di Majo, 1984, p. 555. (16) Come osserva Klinder, 1998, p. 56, le clausole generali del BGB « rimasero per molti anni lettera morta » e ciò riesce ben comprensibile, se si considera che « i seguaci della pandettistica provavano (...) un palese disagio dinanzi alle clausole in bianco (...) »: Corradini, 1970, p. 487 e ivi per un ampia ricostruzione dottrinale del clima culturale dell’epoca. 208 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore piano contenutistico a criteri extragiuridici (17), sì da garantire quel collegamento con il sistema sociale, necessario a conferire « una certa flessibilità, una capacità di adattamento » all’ordinamento giuridico (18). Sebbene già nel periodo antecedente al primo conflitto mondiale la magistratura attribuisse ormai alla buona fede un ruolo cardine nel sistema del BGB, siccome deputata « a chiarire, ad ampliare o a limitare posizioni giuridiche previste dalla legge » (19), è solo nel periodo successivo a quel conflitto che il fenomeno viene a completa maturazione, in corrispondenza con il progressivo affermarsi di nuove tendenze dottrinali, la c.d. giurisprudenza degli interessi (Interessenjurisprudenz) e il movimento del diritto libero (Freirechtsbewegung) (20). Si tratta di correnti di pensiero, le quali segnavano un distacco dalle tradizionali teorie dommatiche, insistendo sul bisogno di connettere la ricerca del giureconsulto al mondo della prassi e della cultura, affinché il corpus iuris, ormai percepito come un organismo aperto, tutt’altro che completo, immutabile e privo di lacune, possa accogliere, con l’ausilio della magistratura, le istanze enucleate dalla società nel corso del tempo. In questo contesto la buona fede e altri precetti simili, con la loro straordinaria elasticità e ampiezza, rappresentano tutt’altro che « un ostacolo per l’indagine o un pericolo da cui è meglio allontanarsi subito per non cadere nell’arbitrio », come era stato in passato per l’esegesi e la pandettistica. « Analizzandoli, gli studiosi » vi scoprivano (21) non più solo la caratteristica di concetti « la cui funzione principale consiste nell’approntare una categorizzazione dell’imprevi(17) Come rileva Pedrini, 2014, p. 57 s. e nt. 7 « fra i precursori della categoria delle clausole generali s’annovera tradizionalmente Ernest Zitelmann, il quale distingueva i “reine Rechtsbegriffe” (termini giuridici chiari), che avrebbero assunto senso soltanto all’interno del diritto o della scienza giuridica, e concetti che invece avrebbero rinviato per la determinazione del loro contenuto a scienze esatte o comunque non giuridiche: queste ultime di ritroverebbero innanzi un Blankett, una sorta di assegno in bianco »: il richiamo è, in particolare, a Zitelmann, 1879, p. 19 ss. (18) Cfr. Wurzel, 1924, p. 86 richiamato da Pedrini, 2014, p. 58, che fa riferimento anche all’opera di Wendt, 1906, p. 106 ss. (19) Patti, 2013, p. 62. (20) Klinder, 1998, p. 56; Corradini, p. 429 ss. (21) Corradini, 1970, p. 491. 209 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore sto » (22), bensì i connotati di vere e proprie « clausole in bianco », necessarie a riempire le lacune legislative, al di là della tecnica interpretativa analogica (23), se non addirittura, i tratti di precipue « valvole di sicurezza », deputate ad allargare « le maglie del tessuto normativo », per saldarlo alla storia e alle consuetudini del popolo tramite l’opera creativa della magistratura (24), con funzione non solo correttiva dell’autonomia privata, ma anche di « rottura dell’ordinamento scritto » a fronte di esigenze di « equità generale » (25). « Un primo riscontro applicativo » (26) di tali innovativi indirizzi venne durante la Repubblica di Weimar, all’epoca della grande inflazione, quando i giudici, nell’intento di tutelare la piccola borghesia risparmiatrice, inaugurarono vere e proprie tecniche rivalutative dei crediti proprio sulla scorta del § 242 BGB (27). Così facendo, essi diedero un impulso decisivo a quel processo di rivisitazione del diritto delle obbligazioni a mezzo della “buona fede”, destinato ben presto ad assumere i tratti di una vera e propria « fuga nelle clausole generali » (Die Flucht in der Generalklauseln), secondo un’espressione passata alla storia, sì da elevare la locuzione “clausola generale” a termine di uso comune (28). È certo che in quel periodo i giudici « ebbero a confrontarsi con una vasta gamma di posizioni soggettive, difficilmente immaginabili » (29), nell’assenza peraltro di strumenti sufficienti a fronteggiare la situazione, data l’inadeguatezza e altresì la rigidità di un sistema codificato di stretta marca pandettistica (30). Il richiamo alla buona fede riusciva effettivamente a garantire un rapporto di continuità almeno formale con quel sistema. Nei fatti, però, apriva (22) In tal senso Wurzel, 1924, p. 19 ss. parlò di « concetti valvola (Ventilbegriffe), perché (...) paragonabili a delle valvole di sicurezza », secondo quanto riporta Pedrini, 2014, p. 58. (23) Corradini, 1970, p. 490. (24) Ibidem, p. 491. (25) Così Mengoni, 1986, p. 8, con riferimento alle tesi anche di giuristi di epoca successiva, come lo stesso Wieacker, 1956, p. 36 ss., che hanno perseverato nella direzione di una confusione tra clausole generali ed equità. (26) Guarnieri, 1988, p. 406. (27) Di Majo, 1984, p. 550 s. (28) Hedemann, 1933. (29) Di Majo, 1984, p. 551. (30) Tullini, 1990, p. 16. 210 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore le porte a una sostanziale “rifondazione” del diritto delle obbligazioni su fondamenta ideologiche e tecniche diverse da quelle classiche (31), non priva di pericoli ed eccessi. Il « grido d’allarme » (32) fu lanciato, da prospettive diverse, ad opera di più di un giurista dell’epoca. Si osservò che il § 242 BGB, « assunto (...) a pilastro della giurisprudenza », aveva finito ben presto per essere utilizzato allo scopo di sopprimere « istituti giuridici » e abrogare « espresse disposizioni di legge » (33). La direzione di marcia a favore di un uso politico delle clausole generali, destinato a maturare negli anni del nazionalsocialismo, era, insomma, segnata. Furono quasi profetiche, a riguardo, le parole di chi denunciò con forza il fenomeno di « fuga nelle clausole generali » (34), affermando che « dove un potere sovraordinato pone clausole generali e giudici indipendenti le adoperano, tali clausole restano, malgrado la loro flessibilità, dei parametri. Ma se lo Stato come supremo potere pone da sé le clausole generali per il proprio comportamento, il fattore della flessibilità si fonde con quello del potere e la clausola generale (...) diviene un’arma da adoperare in modo incontrollabile. E improvvisamente ci sta di nuovo dinanzi agli occhi l’Impero Romano », quando « cominciò a trasformarsi nello Stato bizantino. Infatti, proprio Costantino fu colui che di fronte al vecchio, autentico “ius” ha aperto una porta particolarmente ampia all’“aequitas”, riservando alla sua volontà imperiale la determinazione di ciò che è “equo” » (35). « La volontà imperiale » — si è commentato di recente — « quale fonte del diritto, insomma, come di lì a poco la “volontà del Führer” » (36). E non è un caso se il « flusso delle clausole generali » (Der Fluch der Generalklauseln) (37), ampiamente presenti nella dottrina dell’epoca, si intensificherà in particolar modo nei lavori preparatori del Volksgesetzbuch, pur mai divenuto legge dello Stato (38). (31) Di Majo, 1984, p. 552. (32) Corradini, p. 546. (33) Neumann, 1929, trad. it., 1983, p. 94. (34) Hedemann, 1933, p. 58, che indicava le clausole generali « direttamente come un pezzo di legislazione lasciata aperta » („ geradezu als ein Stück offengelassener Gesetzgebung“). (35) Ibidem, 1933, p. 51 s. (36) Wegerich, 2004, p. 46. (37) Bueckling, 1983, 190 ss. (38) Guarnieri, 1988, p. 406 con riferimento a clausole generali come « senso giuridico del popolo », « sano sentimento del popolo », « coscienza del popolo », « senso morale della 211 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore La fine del secondo conflitto mondiale e il ritorno alla democrazia non arresterà comunque quel « flusso » in ambito giurisprudenziale. L’attitudine dei giudici a far uso delle clausole generali perdurerà (39). Questo si spiega probabilmente alla luce dei connotati stessi del sistema giuridico tedesco, ad alto tasso concettuale e dogmatico, ove il rilievo di nuove esigenze provenienti dalla realtà sociale viene filtrato per il tramite « di nuove tecniche di formazione di regulae juris, tra cui, appunto, quella delle “clausole generali” » (40). Muteranno, invece, i valori veicolati per il tramite delle clausole generali. Dette clausole cominceranno a rappresentare « le porte (Einbruchstellen) che l’ordinamento privatistico tiene aperte per i valori della Costituzione » (41); sicché lo stesso obbligo di correttezza e buona fede si candiderà nel tempo a fungere da tramite per la penetrazione delle norme costituzionali nel diritto privato (c.d. Drittwirkung mediata). Questo sintetico spaccato sull’origine della locuzione “clausola generale”, benché volto a ripercorrere alcune risalenti e ormai acquisite vicende, peraltro affatto peculiari all’esperienza tedesca, si rivela comunque utile, perché in grado di dar conto dell’articolato e complesso campionario di temi che si agitano attorno alle clausole generali: il nesso con il diritto delle obbligazioni e, in particolare, con la buona fede oggettiva, di lontana matrice romanistica poi generalizzata dallo ius commune; il legame con l’evoluzione della cultura giuridica continentale, specie alla luce della storica dicotomia tra “formalismo” e “antiformalismo”; le commistioni con l’equità; il collegamento con il tema della divisione dei poteri; il ruolo del giudice nell’alternativa tra funzione suppletiva, comunità »; l’A. dà conto, peraltro, di come un uso massiccio di tali clausole fosse talvolta degenerato in forme di vera e propria perversione, allorché, ad esempio, si giudicò l’appartenenza del conduttore alla razza ebraica quale giusta causa di risoluzione del contratto di locazione. (39) Sulla concretizzazione delle clausole generali nella recente esperienza tedesca v. Patti, 2013, p. 37 ss. (40) Di Majo, 1984, p. 570; sulla scorta delle clausole generali si dà vita, ad esempio, al principio della culpa in contrahendo o allo Störung der Geschäftsgrundlage (declino dei presupposti del contratto), che troveranno poi tipizzazione nella riforma dello Schuldrecht del 2002 (§§ 311 e 313 BGB). (41) Klinder, 1998, p. 664 con riferimento all’orientamento della giurisprudenza costituzionale tedesca. 212 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore correttiva o integrativa della buona fede. Si tratta, in tutti i casi, di snodi fondamentali della materia, su cui avremo occasione di tornare più volte nel prosieguo. 2.2. Le clausole generali nella cultura giuridica italiana. Si è detto di come la cultura giuridica del primo trentennio del novecento sia stata percorsa in Germania e, si può aggiungere, nella stessa Francia, da profondi mutamenti, nel tentativo dei giuristi più aperti ai nuovi indirizzi di « infrangere i modelli rigidi delle costruzioni meramente logiche » e di aprire il sistema codificato a valori esterni all’ordinamento, espressione delle istanze provenienti dalla realtà sociale, tramite una valorizzazione del comando della buona fede (42). Bisogna ora osservare come l’esperienza italiana sia rimasta, per la verità, tendenzialmente impermeabile a ciò (43). Non che mancassero, già sul finire dell’Ottocento, testimonianze d’interesse per la tecnica legislativa delle “clausole generali”. Solo che esse dovettero scontrarsi con un duplice ostacolo: da un lato, il contesto culturale, assai poco aperto all’impiego di strumenti irriducibili « allo schema della normazione analitica »; dall’altro, il diffondersi, presso la scienza giuridica successiva al primo dopoguerra, del metodo sistematico, in una « sorta di reazione » alla c.d. scuola dell’esegesi (44). Da qui la tendenza a una sostanziale svalutazione della buona fede (45), per quanto temperata, già ai primi del novecento, da alcuni segnali diversi, collegati all’emergere di istanze di solidarietà in corrispondenza con l’ascesa dell’industrialismo e della c.d. questione sociale. Non è un caso che proprio in materia lavoristica si affievolisca il timore nei confronti dei giudizi di valore e affiori una prima tendenza all’impiego dell’art. 1124 c.c., nel desiderio di giudici e giuristi di far fronte a pressanti problemi concreti, dovuti (42) Corradini, 1970, p. 501. (43) Guarnieri, 1988, p. 406. (44) Rodotà, 1969, pp. 184 e 186. (45) Natoli, 1974, p. 31 parla di « sostanziale sordità dei nostri giudici al richiamo delle regole della correttezza e della buona fede; v. anche Nicolò, 1960, p. 247, laddove auspica che i giudici sappiano servirsi di tali regole, recepite nella nuova codificazione, « in modo più penetrante di quanto di solito facciano ». 213 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore alla presenza di significative lacune nel sistema codificato (46), lacune che la successiva codificazione si farà carico di riempire, con conseguente ridimensionamento degli spazi attribuiti alla bona fides quale tecnica di formazione di nuove regulae iuris. A differenza che in Germania, non fu comunque neanche il periodo corporativo a comportare un rinnovato interesse per le “clausole generali” in campo privatistico. La dittatura, nell’intento di sottolineare il legame con la tradizione romanistica e di esaltare il concetto idealistico di Stato, favorì piuttosto « la facciata “formalistica” del diritto » (47). Rimase minoritario il tentativo d’impiego di tali clausole quale tecnica di trasposizione nel sistema civilistico dei principi politici elaborati dal regime (48). Al di là dei classici omaggi alla politica fascista, i giudici, salvo eccezioni (49), non dedicarono soverchia attenzione alla buona fede dell’allora art. 1124 c.c. ed espressero estrema diffidenza verso ogni auspicio di « superamento dell’angusta lettera della legge » (50). Quel tentativo riuscì invece a far breccia nella redazione finale del successivo codice civile, dove il largo ricorso a clausole generali vecchie e nuove avrebbe dovuto garantire l’aderenza del diritto civile alle direttive del potere politico. Il che non valse, però, a modificare di fatto la situazione, poiché, anzi, il metodo sistematico riuscì obiettivamente rafforzato dalla novella codificazione, in quanto espressione fedele, quest’ultima, proprio di tale metodo. Neppure il tramonto dell’esperienza corporativa arrivò, del resto, a segnare il declino del formalismo giuridico, a cui fu piuttosto attribuito, negli anni del post-corporativismo, il merito di aver ostacolato la penetrazione nel sistema privatistico dei principi del regime. In un tal contesto, le clausole generali vennero considerate, salva la persistenza di isolate eccezioni (51), « strumenti imprecisi e pericolosi », capaci di « minare alla base l’ordinamento », di compromettere « la certezza del diritto » e consentire « un controllo discrezionale », dunque, « arbitrario del giudice sulla attività privata ». Correttezza e buona fede furono, in particolare, ritenute (46) (47) (48) (49) (50) (51) Corradini, 1970, p. 396. Luzzati, 2013, p. 166. Il riferimento è, in particolare, al pensiero di Betti, 1940, p. 222. Su cui v. Guarnieri, 1988, p. 407 e ivi per i relativi riferimenti giurisprudenziali. Corradini, 1970, p. 540. Ancora Betti, 1943, pp. 124 s., 245 ss. 214 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore prive di qualsivoglia rilevanza giuridica, giacché espressione di un ordinamento corporativo ormai non più vigente (52). Un rovesciamento di prospettiva si avrà presso la dottrina civilistica solo in tempi più recenti, sul finire degli anni sessanta dello scorso secolo, in corrispondenza con il progressivo abbandono del metodo sistematico ad opera di significativi settori della dottrina in direzione di nuove concezioni antiformalistiche. Come si è osservato, l’attenzione per le clausole generali costituì « l’avventura culturale forse più attraente e fascinosa per le generazioni giovani che in quegli anni si affacciavano all’arengo del dibattito scientifico » (53). Si arrivò, da parte di taluni, a caldeggiare una legislazione per principi (54) e, non senza un certo carico d’ideologia, si invocò, in corrispondenza con l’affermarsi di una nuova teoria delle fonti, un rinnovato modello di razionalità giuridica, nel cui ambito assegnare alle clausole generali, in particolare alla correttezza e buona fede, interpretate alla luce dell’art. 2 Cost., un ruolo integrativo del regolamento contrattuale in vista della penetrazione dei principi costituzionali nel diritto delle obbligazioni (55). A distanza di un ventennio, il discorso sarà ripreso e, sia pur all’interno di un contesto ormai « laicizzato », quindi, meno ideologico del passato, si ribadirà la bontà di una regolamentazione attraverso clausole generali, anche in ragione della necessità di arrestare il ben noto fenomeno di fuga verso la legislazione speciale e di garantire, al tempo stesso, l’apertura del sistema a quel pluralismo di valori, atteggiamenti e culture tipico delle attuali organizzazioni sociali (56). Per quanto « l’idea di governare società complesse ricorrendo (...) a clausole generali » si sia poi rivelata « illusoria » nel corso del tempo (57), poiché, anzi, in dimensioni organizzative non omogenee e pluraliste dette clausole rischiano, secondo taluni, addirittura (52) Guarnieri, 1988, p. 407. (53) Castronovo, 1986, p. 21. (54) Rodotà, 1967, p. 83 ss.; in tema v. però già le riflessioni di Nicolò, 1960, p. 241, per il quale « se il codice rinunzia alla pretesa di definire e regolare tutto, (...) se esso tende ad essere una articolazione di principi e di regole di ampio respiro (...), la stabilità di un codice è in definitiva assicurata (...) ». (55) Rodotà, 1969, p. 111 ss. (56) Rodotà, 1987, p. 718. (57) Denozza, 2011, p. 17. 215 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore di mostrarsi inadeguate (58), bisogna dar atto a questo indirizzo di pensiero di aver introdotto un salutare elemento di rottura rispetto alle tradizionali concezioni in materia di clausole generali, sottolineando quanto oggi sembra un dato acquisito presso la stessa giurisprudenza e cioè l’esser correttezza e buona fede espressione di un dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost. (59). È così che il dibattito ha potuto ripartire, e non più, come era stato in passato, da una denuncia di possibile « fuga nelle clausole generali », « che una società informata ai principi della democrazia e del pluralismo si rivela idonea a rimuovere », bensì, al contrario, « da un articolato discorso per impedire o fermare (piuttosto) quella « fuga dalle clausole generali », la quale « viene dichiarata o si nasconde in una impostazione che aspira alla “purezza” tecnica del linguaggio e ad un rigore indifferente ad ogni fonte esterna che cerca di integrarlo e di arricchirlo » (60). A tutt’oggi, la questione delle clausole generali continua a suscitare discussioni. Continua a farlo, però, in un clima più disteso, giacché dibattere del tema « ha cessato di comportare una presa di posizione pro o contro il formalismo interpretativo ». È, insomma, venuta meno « l’urgenza di risposte ideologiche » (61). Del resto, ai più, le clausole generali appaiono ormai « ineliminabili (58) Parla di « potenziale anacronismo » delle clausole generali Pedrini, 2014, p. 172; v. anche le osservazioni di Taruffo, 1989, p. 334 secondo il quale « un sistema di valori stabili e coerenti può essere individuato (...) nelle società statiche e omogenee, o omogeneizzate da un gruppo dominante. Questa non è però la situazione delle società moderne, dinamiche e conflittuali, in cui valori diversi caratterizzano i diversi gruppi sociali e politici, le classi, i movimenti d’opinione, gli strati sociali ed economici, ed anche i singoli individui. In queste condizioni, il rinvio alla morale sociale è pressoché privo di senso »; per alcune riflessioni sui rapporti tra pluralismo e clausole generali v. anche Carusi D., 2011, 1692. (59) Cass. civ., Sez. III, 10 novembre 2010, n. 22819, in NGCC, 2011, 4, 1, p. 355, con nota di Russo; Cass. civ., Sez. I, 22 gennaio 2009, n. 1618, in CED Cass., 2009; Cass. civ., Sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106, in RDC, 2010, p. 653 ss., con nota di Panetti; Cass. civ., Sez. Un., 25 novembre 2008, n. 28056, in CED Cass., 2008; Cass. civ., Sez. I, 6 agosto 2008, n. 21250, in G. Comm., 2010, II, p. 229 con nota di Grosso; Cass. civ. sez. I, 5 novembre 1999, n. 12310, in FP, 2000, I, p. 348 ss.; Trib. Genova, 11 aprile 2013, in RIDL, 2014, II, p. 185 ss., con nota di Donini. (60) Rescigno, 2011, p. 1689. (61) Luzzati, 2013, p. 170; in tema v. anche Astone, 2011, p. 1715, che ravvisa « il superamento della contrapposizione tra clausole generali e norme “comuni”, spesso vissuta come drammatica », giustificandolo « essenzialmente con il tramonto del positivismo »; più di recente, v. anche Del Punta, 2014, 373 ss., che, in posizione anti-cognitivista, sottolinea particolarmente il ruolo del giudice « quale soggetto che produce diritto » (p. 375). 216 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore dalla “tecnica” legislativa » (62). In buona sostanza, esse « non sono né la peste, né una panacea » (63). Alla luce di ciò, la stessa immagine della “fuga” (nelle o dalle clausole generali), che « si associa all’idea di una minaccia » dai « volti opposti e alquanto manierati dell’implacabilità della dura lex ovvero dell’arbitrio illimitato del giudice (fiat iustitia pereat mundus) », tende a scolorire (64). Si rafforza, invece, per converso, l’istanza di approfondimento analitico della materia e con essa la necessità di interrogarsi, secondo equilibrio e senza chiusure aprioristiche, su struttura e funzione di dette clausole. 2.3. Struttura e funzione delle clausole generali. È stato segnalato come « solo per comodità espositiva » si possano « distinguere con nettezza struttura e funzione delle clausole generali, in quanto (...) il modo » in cui le medesime sono « ricostruite sul piano strutturale » finisce in buona parte per incidere anche sul profilo funzionale (65). Se questo è vero, bisogna, allora, convenire sul fatto che qualsiasi indagine sulla funzione delle clausole generali debba prendere le mosse da uno studio della loro struttura (66). A riguardo, continua, tuttavia, a regnare molta (62) Rescigno, 2011, 1689; nello stesso senso D’Amico, 2011, p. 1704, il quale sostiene che sarebbe ingenuo porsi « tra le domande rilevanti l’alternativa “Clausole generali: sì o no?” (oppure, se si vuole riformulare in altro modo la domanda: “È preferibile una “legislazione per principi” o una legislazione basata sulla tecnica della “fattispecie”?) perché nessun ordinamento può fare a meno di ricorrere a “clausole generali”, ma al contempo nessun ordinamento potrebbe basarsi esclusivamente su clausole generali ». (63) Luzzati, 2013, p. 170; v., del resto, già lo stesso Rodotà, 1967, p. 720, il quale ammette come « le clausole generali non » possano, « per sé sole, costituire la soluzione per tutti questi problemi »: il riferimento è alla dissoluzione dell’impianto concettuale tradizionale, quale effetto dei mutamenti e dell’accresciuta complessità della società. (64) Breccia, 2007, p. 444; del resto, per l’idea secondo la quale le « clausole elastiche sono strumenti neutri il cui contenuto può essere determinato volta per volta mediante qualsiasi tipo di valutazione politica, v. già Alpa, 1971, p. 281; Roselli, 1983, p. 141, ad avviso del quale « norme elastiche, concetti indeterminati, clausole generali non sono (...) tipici di alcun ordinamento politico ». (65) Fabiani, 2012, p. 192, nt. 62. (66) Per questo si può dubitare di quanto sostiene Denozza, 2011, p. 4, secondo cui « la domanda fondamentale » è « cosa si può fare » di fronte a una norma contenente una clausola generale e non, invece, « cosa è » una clausola generale, secondo un’impostazione « spesso tanta cara ai filosofi », giacché deve ritenersi che la risposta al primo interrogativo presupponga necessariamente la soluzione della seconda. 217 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore incertezza, con ovvi riflessi problematici sull’inquadramento teorico, nonché sulle modalità applicative della stessa correttezza e buona fede. Si è rilevato che già la locuzione “clausola generale” porta con sé un equivoco di fondo. L’attributo “generale”, siccome evocativo « di una forma di fattispecie che — in alternativa alla tecnica legislativa “per casi e fattispecie” — descrive con grande generalità un àmbito di casi e li consegna alla valutazione giuridica » (67), rischia di ingenerare una deleteria confusione con i concetti indeterminati (o c.d. norme generali) (68). Da questi, invece, le clausole generali si distinguono ampiamente. Ciò perché la loro indeterminatezza, o alta capacità di astrazione (69), che dir si voglia, non è dovuta alla necessità, in certi contesti giuridici, di andare oltre una elencazione casistica delle singole ipotesi particolari. Essa si spiega, piuttosto, per l’esigenza di aprire il mondo del diritto a principi o criteri di valutazione metalegislativi, che il giudice non trova, dunque, nella legge, bensì in sistemi valutativi diversi ed esterni a essa (70). Se si intende “specializzare” il concetto di clausola generale, per coglierne tutto il suo proprium diventa insufficiente enfatizzare semplicemente quel tratto di « “indeterminatezza intenzionale” », che lo caratterizza, ma che lo accomuna, al tempo stesso, ai concetti indeterminati (71). Occorre, invece, chiarire come, a differenza di questi ultimi concetti, le menzionate clausole funzionino da congegni normativi finalizzati a garantire il rinvio a valori tratti (67) Engisch, 1970, p. 193. (68) Luzzati, 2013, p. 163, il quale osserva che « il termine tedeschizzante “clausole generali” (Generalklauseln) non è dei più felici. Troppo spesso a tale espressione si associa indebitamente l’idea di una formula ampia e comprensiva contrapposta all’elencazione casistica delle singole ipotesi particolari »; v. anche Castronovo, 1986, p. 26. (69) Di Majo, 1984, p. 546. (70) Mengoni, 1986, passim; D’Amico, 2011, p. 1705; Di Majo, 1984, p. 542 e passim; Belvedere, p. 642 e passim; Taruffo, 1989, p. 313; Rescigno, 1998, p. 2, che parla di « delega a ricercare “valori” fuori dei rigidi confini dell’ordinamento positivo »; riconduce, invece, le clausole generali « nell’ambito assai vasto delle norme elastiche » Roselli, 2013, p. 3; in giurisprudenza, da ultimo, cfr. Cass., sez. lav., 14 marzo 2013, n. 6501, in RIDL, 2013, II, pp. 888 ss., con nota di Ratti, ove si parla di « norme elastiche o clausole generali (entrambe le locuzioni possono adoperarsi fungibilmente, come altre di analoga valenza) ». (71) Rodotà, 1987, p. 728, il quale, non a caso, considera « fragile la distinzione tra concetti giuridici indeterminati e clausole generali » (p. 723 s.). 218 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore dall’esperienza sociale (72) e non si configurino quale semplici categorie riassuntive di una generalità di casi. Da tal punto di vista, sarebbe altresì riduttivo intenderle « come mera tecnica legislativa ossia una tra le tante tecniche che possono adoperarsi dal legislatore per meglio garantire il rapporto tra diritto e realtà sociale. L’uso delle clausole generali serve anche a consentire l’ingresso, nel mondo del diritto a principi o criteri extralegislativi. Sotto questo profilo l’uso delle clausole generali è una scelta di valore di un qualsiasi ordinamento, più o meno “aperto” a valori provenienti da altre realtà » (73). Se così stanno le cose, appare evidente che le Generalklauseln assumono i tratti di termini valutativi (74), contenuti in enunciati normativi (75) e caratterizzati da una forte « contaminazione valoriale » (76), nonché, per conseguenza, da una « naturale estroversione » (77), indirizzando il giudice nella ricerca “all’esterno” dell’ordine di valori da cui far discendere la decisione del caso concreto. È, del resto, proprio questa caratteristica e cioè il connotarsi in senso estroflesso della clausola generale a spiegarne la elasticità. Ed invero, nella sua funzione di strumento d’interazione tra ambiente (72) Betti, 1955, passim parlò di concetti connotati da una « eccedenza di contenuto assiologico »; v. anche Rescigno, 1998, p. 1. (73) Di Majo, 1984, p. 542; diversamente Engisch, 1970, p. 197, per il quale « il vero significato delle clausole generali risiede nel settore della tecnica legislativa » e in posizione sostanzialmente adesiva Rodotà, 1987, p. 723. (74) Cfr. Velluzzi, 2006, p. 8, che così definisce una serie di termini, tra cui la buona fede e il buon costume, in contrapposizione ai « termini non valutativi (ad esempio: impossibilità sopravvenuta) ». (75) Velluzzi, 2010, p. 26 ss.; Belvedere, 1988, p. 632. (76) Forcellini, Iuliani, 2013, p. 23, nt. 68 con richiamo a Piraino, 2010, p. 1186. (77) Mazzamuto, 2011, p. 1698; v. anche D’Amico, 2011, passim; Mengoni, 1986, passim; ciò impedisce di ritenere che i criteri di determinazione del significato delle clausole generali possano anche essere di natura interna al sistema giuridico, cui l’enunciato normativo contenente la clausola generale appartiene: per questa opinione v., invece, Velluzzi, 2010, p. 65 ss., dalla cui definizione di clausola generale prende le mosse anche Ballestrero, 2014, 392 ss., per poi, tuttavia, discostarsene in parte, quando afferma che « laddove la fattispecie sia completa (per quanto aperta) e il sintagma valutativo in essa contenuto rinvii l’interprete alla considerazione di standards che rientrano nella “cornice” disegnata da altre norme (o insiemi di norme) (...) saremmo al di fuori dell’ambito delle c.g. »; v. anche Fabiani, 2012, p. 217; per ulteriore tesi cfr., poi, Libertini, p. 352 e 354, secondo cui dovrebbe essere il ricorso a disposizioni di principio di diritto positivo a costituire il criterio integrativo fondamentale delle clausole generali. 219 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore giuridico e dimensione sociale, la clausola permette al sistema di “evolvere”, facendo propri — « per così dire “in automatico” » — i cambiamenti che si producono di in volta in volta all’interno dei vari sottosistemi socio-culturali, « senza bisogno (e prima ancora) che il legislatore “recepisca” attraverso le sue norme tali cambiamenti » (78). Si pensi, se non proprio all’elasticità della buona fede oggettiva dell’art. 1375 c.c., a quella del buon costume dell’art. 2035 c.c., che implica « l’enunciazione di regole via via mutevoli nel tempo » (79), al punto da legittimare, oggi, una concezione di “immoralità” riferita ad un giudizio di più generale disvalore sociale, con una lettura ampia dell’art. 2035 c.c. alla stregua di norma posta a tutela dei più generali e fondamentali interessi dell’ordinamento (80). Si comprende bene, dunque, quale straordinaria duttilità il legislatore attribuisca ad un enunciato normativo quando vi inserisca all’interno una clausola generale. Quest’ultima suona alla stregua di un’« autorizzazione » (81) al giudice a ricercare da sé la norma sociale di condotta da applicare al caso concreto, in assenza di una fattispecie astratta delineata dal legislatore medesimo (c.d. integrazione valutativa (82)). Siamo di fronte a un congegno normativo molto diverso — è bene ribadirlo ulteriormente — da quello sotteso alle “norme generali” o “elastiche”. Queste ultime conservano ancora una struttura tradizionale, data « da una fattispecie e da un comando », con la sola peculiarità che la fattispecie descrive una generalità di casi, sicché il giudice, nell’esercizio della sua attività interpretativa, sarà indotto a concretizzarli rinviando « volta a volta a modelli di comportamento e a stregue di valutazione obiettivamente vigenti nell’ambiente sociale in cui opera », con un ampiezza di giudizio significativa, sì, ma pur sempre espressiva di una « discrezionalità di fatto » (83). Si pensi all’ipotesi della « giusta (78) D’Amico, 2011, p. 1708. (79) Gazzoni, 2013, p. 49. (80) Caringella, De Marzo, 2008, p. 205. (81) Il termine è impiegato da Esser, 1983, p. 55, in riferimento a « fattispecie con riferimenti a parametri extrapositivi ». (82) Secondo un’espressione impiegata per la prima volta da Engisch, 1970, p. 199, sia pur con riguardo ai « concetti normativi in senso stretto ». (83) Mengoni, 1986, p. 9 s. 220 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore causa » e del « giustificato motivo » di licenziamento (artt. 2119 c.c. e 3 l. n. 604 del 1966), ove il giudice dispone comunque di una fattispecie astratta, ossia di una pre-valutazione del legislatore; sicché basterà sussumere il fatto concreto entro quella fattispecie per darle specifica concretizzazione. Il discorso cambia, invece, al cospetto di enunciati normativi contenenti clausole generali. Anche qui siamo in presenza di una delega al giudice, ma l’intervento giudiziale si svolge nell’assenza di un patrimonio di dati offerti dal testo normativo (84) e la discrezionalità valutativa richiesta all’organo giudiziario assume, dunque, connotati qualitativi peculiari: è una discrezionalità produttiva o integrativa di norme (85). Grazie all’impiego della clausola generale, il legislatore si astiene dal compiere una sua pre-valutazione, preferendo piuttosto formulare una direttiva al giudice per la ricerca “all’esterno” della regola di decisione, sì da consentire ai valori ivi consolidati di penetrare nel sistema giuridico proprio per il tramite dell’organo giudiziario, il quale funge, in tal modo, da “canale di collegamento” fra il mondo del diritto e la dimensione sociale. Alla luce di ciò, sembra, allora, condivisibile l’idea che « delle clausole generali può apprezzarsi » soprattutto « l’aspetto di rottura con il tradizionale sillogismo giudiziale, secondo il quale le regole dell’agire debbono essere sempre ricavate da giudizi e valutazioni pre-esistenti » (86). In maniera efficace, anche se tecnicamente imprecisa, per così dire, si è parlato di una “sussunzione” operante alla rovescia: quando è in gioco una clausola generale, (84) « Nel comune sentire, la norma giuridica è una regola generale, capace di adattarsi alle diverse situazioni della vita; le clausole generali presuppongono invece un sistema senza regole formulate ex ante, fondato sulla concreta giustificazione della soluzione accolta che l’interprete riesce ad offrire »: Astone, 2011, p. 1716. (85) Per la concezione “qualitativa” di clausola generale Di Majo, 1984, p. 539 ss.; Belvedere, 1988, p. 631 ss,; Mengoni, 1986, p. 5 ss.; Luzzati, 2013, p. 173 ss.; Forcellini, Iuliani, 2013, p. 425; D’Amico, 2011, p. 1704 ss.; contra Castronovo, 1986, p. 21 ss., che opta per una concezione “quantitativa” di clausola generale; cfr. pure Rodotà, 1987, p. 723, per il quale « rimane nella sostanza valida la sottolineatura di Engisch, quando mette in evidenza che “il vero significato delle clausole generali risiede nel settore della tecnica legislativa, senza che ciò comporti una diversa qualità delle norme che le prevedono ». (86) Di Majo, 1984, p. 569; nello stesso senso Mengoni, 1986, p. 16 s.; Taruffo, 1989, p. 319; D’Amico, 2011, 1709 ss.; Patti, 2013, p. 88; nonché già Esser, 1983, p. 55; contra Luzzati, 2013, p. 190; Velluzzi, 2010, p. 81 ss.; Carusi D., 2011, p. 1693. 221 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore « non è il fatto concreto che va “sussunto” nella “norma” (già data), bensì è il giudizio del fatto (...) a riempire di contenuto e a “concretizzare” la clausola generale » (87). Si pensi, ad esempio, all’art. 1175 c.c.: qui il legislatore « non compie una propria valutazione, ma si affida a quella altrui » (88). Com’è stato efficacemente rilevato, si ha una « sospensione del giudizio da parte del legislatore, la sua remissione a una competenza diversa » (89); sicché il giudice, quando applica l’art. 1175 c.c., trae dalla clausola generale ivi contemplata una regola, che la norma stessa, però, non contiene, avendo scelto il legislatore di devolvere all’organo giudiziario stesso il potere di ricercarla/ definirla a partire dal caso concreto e all’interno dell’ordine dei valori segnato dalla clausola medesima, nella specie la direttiva di correttezza. Ciò vuol dire, più in generale, che le clausole generali si configurano quali congegni volti a sollecitare la produzione di regole ulteriori, destinate a combinarsi, nell’ambito normativo in cui operano, con quelle già esistenti, talora integrandole, talaltra limitandone l’operatività (90). Siamo, insomma, certamente di fronte a un « fenomeno di produzione normativa » (91): in particolare, a una « tecnica di formazione giudiziale della regola da applicare al caso concreto, senza un modello di decisione precostituito da una fattispecie normativa astratta » (92). Da tal punto di vista, le clausole generali operano secondo modalità diverse anche dall’equità (93). Entrambe, clausole gene(87) D’Amico, 2011, p. 1710; v. anche Taruffo, 1989, p. 319. (88) Belvedere, 1988, p. 647, nt. 29. (89) Rodotà, p. 723. (90) Così Forcellini, Iuliani, 2013, p. 7, con specifico riferimento alla buona fede; secondo Mengoni, 1986, p. 11, « nell’ambito normativo in cui si inserisce la clausola generale introduce un criterio ulteriore di rilevanza giuridica (...) ». (91) Belvedere, 1988, p. 634. (92) Mengoni, 1986, p. 10. (93) Ibidem, p. 13, ove si insiste su tale distinzione, ritenendo « la confusione con l’equità una delle cause degli eccessi in cui cade la giurisprudenza tedesca nell’applicazione del § 242 BGB » (p. 8); e infatti v., nella dottrina tedesca, Esser, 1983, p. 55 secondo cui, nell’ipotesi di clausole generali, « il giudice viene rinviato all’apprezzamento di tutte le circostanze da considerare nel singolo caso, per l’equità della decisione, in modo tale che egli (...) esercita una giurisprudenza del caso singolo nel senso più schietto del termine, secondo una diretta normativa ad hoc »; v. anche Wieacker, 1956, p. 36 ss., richiamato in Mengoni, 1986, p. 8 e in Alpa, 2003, p. 1; Klinder, 1998, p. 54 ss., ove emerge chiaramente la funzione 222 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore rali ed equità, sollevano la questione del particolare ruolo attribuito all’organo giudiziario in funzione integrativa dell’autonomia privata (art. 1374 c.c.) (v. anche infra, in questa sezione, § 3.2.). Tuttavia, mentre l’equità autorizza il giudice a rintracciare la regola specifica in funzione della peculiarità del caso concreto, le clausole generali lo delegano, al contrario, a trarre dal dato sociale regole generali (di condotta) a partire dal caso concreto (94). Ciò implica che la valutazione integrativa dell’organo giudiziario potrà rivestire carattere suppletivo o correttivo dell’autonomia privata solo nel primo caso (quello della valutazione secondo equità), ove prevale l’esigenza di un giudizio tutto calibrato su circostanze di fatto che resterebbero altrimenti irrilevanti, non invece nel secondo (quello connesso al processo di “concretizzazione” della clausola generale), ove emerge piuttosto il bisogno di un’integrazione (in luogo di una modificazione) giudiziale del regolamento contrattuale tramite la formazione, sulla scorta dei dati reali del caso da decidere, di regole ulteriori, suscettibili di generalizzazione, espressione di valori inerenti all’esperienza sociale (95). 2.4. Il controllo sul processo di “concretizzazione” delle clausole generali: il controllo “monte” e il rapporto delle clausole con gli standards e i principi generali dell’ordinamento. Un nodo fondamentale del discorso sulle clausole generali riguarda il controllo sull’operato del giudice, giacché l’inclinazione altresì correttiva del regolamento negoziale attribuita nell’ordinamento tedesco alla buona fede, quale conseguenza del suo intrecciarsi al giudizio di equità. (94) L’equità non è, dunque, una clausola generale, come non lo è la “ragionevolezza”, che rappresenta, anch’essa un mero criterio di giudizio o canone di valutazione, non potendovisi ravvisare una delega a ricercare valori fuori dai confini dell’ordinamento positivo (Patti, 2013, p. 19 s.; v. anche Troiano, 2013, p. 784, che critica, peraltro, la tendenza europea — eclatante il caso olandese — all’abbandono della clausola di buona fede in favore della ragionevolezza); per alcuni potrebbe essere piuttosto utilizzata al fine di verificare la coerenza di standards e norme sociali di condotta ai principi generali dell’ordinamento, sul presupposto che quanto è ragionevole risulta altresì coerente con detti principi: D’Amico, 2007, pp. 429 ss. e 465 s., non vidi, ma cit. in Fabiani, 2012, p. 226; tuttavia, in senso critico nei confronti di tesi che tendono ad attribuire alla ragionevolezza la funzione di standard ai fini della corretta applicazione del dovere di buona fede, v. Patti, 2013, p. 25. (95) Sulla distinzione tra giudizio di equità e giudizio secondo buona fede, per la « funzione più integrativa che correttiva » svolta dalle clausole generali, v. Zoli, 1988, p. 223. 223 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore valoriale di dette clausole e l’assenza di una fattispecie normativa astratta di riferimento rimarca il ruolo creativo del magistrato e accentua il tasso di “pre-comprensione” (Vorverständniss) (96) della decisione, sollecitando, a “monte”, la ricerca di parametri oggettivi cui ancorare il giudizio — o, come è stato detto, « criteri generali » volti a « guidare l’interprete nell’applicazione delle clausole generali » (97) e, a “valle”, la possibilità di un sindacato, in sede di impugnazione, sulle scelte compiute dal giudice (98). Quanto alla questione a “monte” (99), bisogna osservare che, a dispetto di quanto potrebbe in prima battuta supporsi, l’organo giudiziario non gode di discrezionalità assoluta nel procedimento di concretizzazione della clausola generale (100). Ciò è palese se si considera, intanto, che ciascuna clausola, per quanto indeterminata, offre già all’interprete « certi criteri di valutazione e non altri ». A tal stregua, differenti saranno, ad esempio, le valutazioni di un dato comportamento, a seconda che le si effettui alla luce della “correttezza” o del “buon costume”, pur non potendosi ovviamente escludere un esito di egual « segno (positivo o negativo) » con rispetto al medesimo comportamento. Ogni singola clausola generale, insomma, nel suo atteggiarsi a direttiva indicativa dell’ordine dei valori dal quale far discendere la decisione, disegna una “cornice”, entro cui il giudice è chiamato a muoversi. Pertanto, questi sarà autorizzato a ricercare regole sociali di condotta del più vario contenuto ma pur sempre nel rispetto della ratio ascrivibile a quella “cornice” (101). (96) Esser, 1983; Di Majo, 1984, p. 547 s.; nella dottrina giuslavoristica, si sofferma sul punto Calcaterra, 2000, p. 318. (97) D’Amico, 1989, p. 451. (98) Cfr. Fabiani, 2012, p. 224 ss. e ivi per una esauriente analisi del problema sotto ambedue i profili; v. anche Roselli, 2013, p. 6. (99) Tale questione va affrontata sia pur nella consapevolezza di una sua connessione al tema della “giustificazione razionale” nel campo delle decisioni giudiziarie e, più in generale, del ragionamento giuridico, tema che qui non si può avere neppure la lontana pretesa di esplorare, data la sua complessità. (100) « Il fatto che la legge attribuisca al giudice ampi poteri creativi non significa, infatti, che essi possano essere esercitati in modo arbitrario, e che il giudice sia svincolato dal dovere di giudicare secondo criteri razionali e controllabili »: Taruffo, 1989, p. 314; v. anche D’Amico, 1989, p. 452, per il quale « lo “spazio di libero giudizio” che le clausole generali dischiudono non è uno spazio illimitato »; per questo le clausole generali non possono dirsi “norme in bianco”, come ritiene, invece, Esser, 1983, p. 55. (101) Belvedere, 1988, p. 635. 224 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Come si comprende, « l’attività di produzione normativa del giudice è condizionata e indirizzata », dunque, « da una attività interpretativa, esercitata sul termine (valutativo) che indica la clausola generale e volta ad individuare » la ragione ispiratrice « della disciplina che deve essere posta » (102). Nello svolgimento di questa attività, il giudice deve, anzitutto, porsi alla ricerca di modelli o parametri oggettivi di comportamento, riconoscibili come « forme esemplari dell’esperienza sociale » (103), i c.d. standards, che possano fungere da guida per la individuazione della regola di decisione (del caso in discussione). Al tal stregua, si tratterà di interrogarsi circa l’esistenza, all’interno della vita sociale, di condotte, opinioni, aspettative dotate di una tale regolarità da potersi ritenere socialmente accettate, nonché capaci di inverare l’ordine dei valori sotteso alla singola clausola generale, sì da offrirne precisa traduzione. Gli standards svolgono una funzione centrale in sede di “concretizzazione” della indeterminatezza propria delle clausole in parola, giacché da essi è possibile enucleare un catalogo di tipi normali (figure tipiche o sintomatiche) di comportamento (c.d. Fallengruppen) a disposizione dell’organo giudiziario per la ricerca della norma sociale di condotta da applicare al caso concreto. Gli standards restano, tuttavia, mere direttive, ossia strumenti orientativi non vincolanti per il giudice, poiché essi mantengono il loro connotato identificativo di criteri di « regolarità sociale » (104) e non sono, pertanto, idonei a esprimere un « dover essere ». Si è rilevato, a ragione, che il rapporto tra clausole generali e standards « non ha la natura di rinvio (recettizio) a una norma sociale di condotta », bensì di rinvio a modelli « riconoscibili come forme esemplari dell’esperienza sociale », costituenti « linee di riflessione per la ricerca della regola di decisione » (105). Si pensi così, ancora una volta, alla clausola di correttezza dell’art. 1175 c.c. Il giudice per offrirne una concretizzazione ai fini della soluzione del caso, dovrà individuare gli standards di riferimento e conseguentemente le figure tipiche di comportamento, cioè capire quali sono, tra le tante condotte tenute dai consociati, (102) Ibidem. (103) Mengoni, 1986, p. 15. (104) Per questa espressione Carusi D., 2011, p. 1691. (105) Mengoni, 1986, p. 13. 225 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore quelle che possono dirsi corrette nella sensibilità sociale consolidata del momento. Tuttavia, lo standard funzionerà, nei confronti del giudice stesso, alla stregua di mera linea direttiva, perché la clausola generale dell’art. 1175 c.c. non gliene imporrà il rispetto, come fosse una norma vincolante. È stato osservato che gli standards rappresentano solo il punto di partenza di « un’argomentazione dialettica strettamente aderente (..) al caso da decidere, il cui oggetto è la ricerca metodica del grado di verosimiglianza delle ipotesi di soluzione corrispondenti ai punti di vista valorativi messi a confronto ». Ne deriva che la concretizzazione di ogni singola clausola generale potrà realizzarsi anche attraverso « una decisione non corrispondente puntualmente a modelli di condotta già sperimentati » (106), purché formulata all’esito di un iter argomentativo guidato dai precipui standards sottesi a quella clausola. Ciò, del resto, è perfettamente coerente a una visione del diritto come branca del sapere capace di fungere da interprete e da guida del mutamento sociale. In un tal contesto, spicca il ruolo del “diritto vivente”, secondo una formula — da intendersi nell’accezione tecnica più diffusa, alla stregua di « risultato interpretativo consolidato » (107) — evocativa del « complesso problema della partecipazione del giudice alla formazione del diritto » (108), con inevitabili collegamenti al tema qui in discussione. Risalta, però, anche il ruolo della dottrina, che non potrebbe mai restare ai margini di una discussione sui rapporti tra dimensione giuridica e realtà sociale, limitandosi a registrare con approccio casistico le acquisizioni giurisprudenziali (109). (106) Ibidem, p. 15. (107) V. Fabiani, 2012, p. 219. (108) Mengoni, 1990b, p. 448. (109) Come osserva Rodotà, 1987, p. 728, « in questo senso la casistica giurisprudenziale costituisce sicuramente un punto di riferimento importante, ma non esclusivo, dal momento che la riflessione va in primo luogo rivolta ai dati sociali ed ai valori, nonché ai principi fondamentali, ai quali le clausole generali debbono necessariamente riferirsi, al fine di mettere a punto adeguati modelli operativi »; v. anche Falzea, 1987, p. 17, per il quale « sarebbe un grave errore di prospettiva avere riguardo soltanto alla » prassi giudiziale « e non anche alla » prassi sostanziale « nella identificazione della natura e del contenuto degli standards valutativi (...). Questo errore sarebbe tanto più inspiegabile ove si rifletta sul punto, che gli standards valutativi, trovando la loro radice nel tipo di esistenza e nello stile di vita della società, si uniformano, almeno tendenzialmente, agli standards etici, che, ancor prima del diritto, aggregano i gruppi sociali e li costituiscono in comunità politiche. Gli standards valutativi, dunque, debbono essere studiati nell’ambito del processo di determi- 226 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Come visto, l’applicazione o, meglio, la “concretizzazione” delle clausole generali pone anzitutto un problema di identificazione nell’esperienza sociale di figure sintomatiche dei valori cui le clausole generali rinviano. Queste ultime richiedono un’attività conoscitiva e interpretativa della realtà, volta a individuare dati, per verificare, anzitutto se certe regolarità meritino di assurgere a standards riconosciuti e se sì, con quali contenuti, ossia nelle vesti di quale norma di condotta. In un tal contesto, il ruolo della dottrina potrebbe, allora, essere prezioso, almeno se e nella misura in cui la stessa riuscisse a trarre dal discorso sulle clausole generali nuova linfa per una discussione concettuale sui valori, capace di captare e valutare nuove istanze, opinioni, aspettative di una società in rapido cambiamento, persino prima che queste trovino espressione nelle aule dei tribunali, sì da porre il confronto teorico al centro dell’interazione tra sistema giuridico e dimensione sociale (110). Nella riflessione sui limiti posti alla discrezionalità del giudice nel processo di “concretizzazione” delle clausole generali, un interrogativo di rilievo attiene al rapporto tra standards e principi generali dell’ordinamento. Ci si chiede, in particolare, se i primi debbano comunque essere sottoposti ad un test di compatibilità con i secondi, in particolare con le norme costituzionali. La risposta è positiva, giacché tali norme si collocano in posizione di evidente supremazia anche rispetto agli standards. Pertanto, non potrà darsi accoglienza a valori, desunti da “fonti” extralegali, che siano in contrasto con direttive costituzionali (111). nazione progressiva della realtà giuridica e sono di competenza, oltre della funzione pratica del giudice, del compito teorico del giurista, formando oggetto, rispettivamente, dell’ermeneutica empirica dell’attività giurisdizionale e dell’ermeneutica teorica dell’attività scientifica ». (110) Per alcune osservazioni sul punto, nell’ambito di una più generale riflessione sull’impiego delle clausole generali a fini limitativi dei poteri imprenditoriali, v. Gragnoli, 2010, p. 18 ss. (111) Fabiani, 2012, p. 219; D’Amico, 1989, p. 453; in giurisprudenza per la tesi (sia pur formulata in riferimento alla giusta causa) secondo cui l’operatività in concreto di clausole generali debba « rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale a cominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare in cui la concreta fattispecie si colloca », v. Cass. civ., sez. lav., 2 novembre 2005, n. 21213, in ADL, 2006, p. 903 ss., con nota di Garattoni; Cass. civ., sez. lav., 22 aprile 2000, n. 5299, in FI, 2003, I, c. 1847 ss., con nota di Fabiani; Cass. civ., sez. lav., 4 dicembre 2002, n. 17208, in LG, 2003, p. 344 ss., con nota di Mannacio. 227 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Da tempo la dottrina ritiene che il giudice, nell’applicare le menzionate clausole, debba ispirarsi ai principi della Costituzione (112). Questo è vero, ma solo nella misura in cui « ogni attività di produzione normativa (...) non può che costituire attuazione delle norme costituzionali » (113). Come già detto, gli enunciati contenenti clausole generali hanno natura estroflessa e se ne tradirebbe la ratio ove se ne concepisse l’applicazione nei termini di una mera ripetizione di precetti costituzionali (114). Le clausole generali, in quanto termini valutativi idonei ad orientare il giudice fuori dal campo del diritto, alla ricerca di regole di (112) Rodotà, 1969, pp. 134 ss., 163 ss. e 184 ss. (113) Belvedere, 1988, p. 639. (114) « Un problema di rapporti tra clausole generali e norme o principi vigenti indubbiamente sussiste, ma va risolto senza negare la natura creativa dell’attività del giudice, evitando cioè di ridurla a mera iterazione di precetti »: Belvedere, 1988, p. 638. Alla luce di ciò, il richiamo ai principi costituzionali non può essere concepito come strumento di determinazione del contenuto (ossia del significato) della clausola generale, ma va considerato quale mezzo di controllo della conformità a Costituzione dei relativi standards cui la clausola generale rinvia. Ai principi costituzionali può, al più, essere attribuito il significato di « peculiare chiave di lettura, confermativa — o meno — dei valori espressi dalla coscienza sociale »: Zoli, 1988, p. 226. Una dottrina (Roselli, 1983, p. 211) ha ritenuto i principi costituzionali « strumenti (“interpretativi”) che (...) possono essere usati dalla Cassazione civile per ridurre l’area di indeterminatezza delle disposizioni di legge elastiche », con ciò, però, « implicitamente riconoscendo » — come rileva opportunamente Di Majo, 1984, p. 570 e nt. 85 — « la estrema difficoltà di distinguere ciò “che appartiene” alla norma costituzionale e/o alla clausola generale. Quando es. si interpreta la buona fede alla stregua della “solidarietà sociale” espressa dall’art. 2 Cost. non è il richiamo alla prima un obiter dictum per dare ingresso alla seconda? ». Così il riferimento alle clausole generali sfuma e queste finiscono per essere offuscate dalla concorrenza dei principi costituzionali, cui si è ormai disposti tendenzialmente a riconoscere la diretta applicabilità ai rapporti tra privati (c.d. Drittwirkung): su tale diretta applicazione v. ad es. l’indirizzo inaugurato da Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972, in RIDL, 2009, II, p. 645 ss., con note di Scognamiglio R. e di Del Punta, che ha abilitato il giudice a risarcire il danno ex art. 2059 c.c. in presenza di lesioni di diritti o interessi inviolabili di natura non patrimoniale riconosciuti dalla Costituzione. Si capisce che in un tale scenario, il richiamo alle clausole generali, se concepito essenzialmente come veicolo di penetrazione della Costituzione nei rapporti privati, diviene superfluo. E, infatti, v. Belvedere, 1988, p. 639, per il quale « non va (...) sottovalutato il rischio di inutilità che si corre se si giunge a ridurre l’attività applicativa delle clausole generali ad una semplice iterazione dei precetti costituzionali, almeno se a questi ultimi si è disposti a riconoscere la possibilità di una diretta applicazione nella disciplina dei rapporti tra privati, senza il bisogno quindi di un tramite privilegiato rappresentato dalle clausole generali civilistiche »; hanno, tuttavia, sostenuto l’assenza di valore precettivo nei rapporti tra privati dell’art. 2 Cost., Mengoni, 1997, p. 3 s.; Saffioti, 1999, pp. 53 e 56; Lambo 2007, p. 75. 228 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore condotta (morali, etiche, di costume, ecc.) proprie di sottosistemi sociali, hanno struttura e funzione diversa dai “principi generali”, incluso quelli costituzionali, che racchiudono i valori fondamentali della civile convivenza secondo l’ordinamento giuridico (115). Perciò, potrà darsi l’ipotesi in cui norma costituzionale e clausola generale esprimano « valori distinti, anche se necessariamente compatibili ed eventualmente anche convergenti verso la medesima qualificazione positiva o negativa di determinati comportamenti », come pure potrà accadere che esse arrivino, invece, a manifestare una « coincidenza o almeno un rapporto di genere a specie » tra loro (116). Sempre nella logica di una “concretizzazione” delle clausole generali aderente alla razionalità complessiva del sistema si muove, infine, quella dottrina favorevole alla traduzione delle clausole medesime in corrispondenti categorie concettuali o « strutture dogmatiche assiologicamente orientate ». L’opinione è persuasiva, se si considera che i valori e le correlative regole sociali non sono suscettibili di una « visione immediata » e, pertanto, richiedono necessariamente di essere incorporati in categorie concettuali, per potersi integrare nel sistema giuridico. Così, ad esempio, la correttezza di cui all’art. 1175 c.c. si traduce nella categoria degli “obblighi di protezione” tanto da potersi inserire, con funzione (115) Come ben pone in luce Rodotà, 1987, p. 721, « le clausole generali non sono principi, anzi sono destinate ad operare nell’ambito segnato dai principi ». Da ciò bisognerebbe però dedurre, come già detto, che detti principi non possano essere utilizzati per riempire di contenuti le clausole generali (così invece Rodotà, 1969, p. 171 con riferimento alla clausola di correttezza). Tra queste ultime e i principi generali dell’ordinamento esiste un rapporto di forte correlazione, ma il significato e la funzione delle prime non può essere appiattito sui secondi. Se, infatti, i principi generali dell’ordinamento racchiudono i valori etici fondamentali su cui si fonda la convivenza civile, le clausole generali, presupponendo detti principi, spingono il giudice alla ricerca di regole di condotta, connesse a valori posti nell’ambito dei vari sottosistemi e gruppi sociali, dunque, espressione degli aspetti culturali, economici e mercantilistici della società: cfr. Forcellini, Iuliani, 2013, p. 14. Per questo, v’è da chiedersi fino a che punto sia corretto “concretizzare” una clausola generale mediante la tecnica di bilanciamento tra valori costituzionali (su cui v., di recente, nell’ambito di una ricostruzione dei lineamenti fondamentali del neocostituzionalismo, Bongiovanni, 2013, p. 84 ss. spec. p. 95 ss.): in giurisprudenza per l’opinione favorevole a tale bilanciamento in ipotesi di « giusta causa » di licenziamento, sul presupposto, peraltro, di una coincidenza tra la categoria della “norma elastica” e quella della “clausola generale” v., ad es. Cass. civ., sez. lav., 2 novembre 2005, n. 21213, cit. (116) Belvedere, 1988, p. 639. 229 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore integrativa, nell’ambito normativo di disciplina dei rapporti obbligatori. Concepite in tal modo, le categorie concettuali non esauriscono, pertanto, il contenuto delle clausole generali, sempre « aperte alla possibilità di nuove applicazioni, ma consolidano (...) una serie di ipotesi applicative » già verificatesi nella pratica, agevolando lo stesso « compito del giudice in ordine ai casi futuri » sussumibili entro le medesime categorie (117), in vista di un impiego accorto e consapevole delle clausole, nonché di un controllo razionale su di esso (118). 2.5. Segue: il controllo a “valle” e il sindacato di legittimità. Se da “monte” si scende a “valle”, il problema fondamentale diventa quello della sindacabilità della decisione di merito, emanata all’esito del processo di “concretizzazione” della clausola generale, ad opera della Corte di Cassazione, cui è attribuito il controllo finale di legittimità sulle pronunzie di merito (art. 360 c.p.c.) e altresì la c.d. funzione nomofilattica (art. 65 ord. giud.) (119). I problemi derivano dalle peculiarità del giudizio sotteso alle clausole in parola, in particolare, dalla circostanza che il giudice è qui chiamato a una integrazione della norma, per il tramite di (117) Mengoni, 1986, p. 19. (118) D’Amico, 1989, p. 461. L’Autore, peraltro, individua un ulteriore limite generalissimo, posto all’interprete nella “concretizzazione” delle clausole generali, quale rappresentato dalla c.d. natura del fatto (Natur de Sache), con ciò intendendosi « esprimere l’immanenza a ciascun “rapporto di vita” (Lebensverhältnis) di un principio ordinatore, o comunque di un quid di rilevante o tipico, che ne definisce la struttura essenziale, e che, come tale, condiziona lo stesso legislatore, il quale, nel valutare e qualificare i fatti di vita non può appunto prescindere dalla loro “natura” ». La Natur de Sache, se destinata a condizionare il legislatore, tanto più dovrebbe costituire un limite per la stessa attività creativa del giudice, il quale, per individuare la “natura del fatto”, dovrebbe affidarsi « non soltanto a dati, per dir così, “naturalistici” e “pregiuridici”, ma anche » a « principi e (...) regole giuridiche operanti nel particolare settore che viene in esame » (p. 457). Il che comporta che il contenuto di una medesima clausola possa essere diverso a seconda del contesto in cui opera, ossia « a seconda della “natura” dell’istituto o del settore dell’ordinamento rispetto al quale quella clausola deve essere applicata (...) »: cfr. D’Amico, 2008, pp. 429 ss. e 465 s., non vidi, ma cit. in Fabiani, 2012, p. 226. (119) Sul punto, è fondamentale il contributo di Roselli, 1983¸ Id., 1988, p. 667 ss.; Id., 2011, p. 1701; Id., 2013, p. 1 ss. 230 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore un’attività valutativa, la quale intreccia quasi inestricabilmente “fatto” e “diritto”, per di più ai fini della formulazione di una regola di condotta, che, rinviando a regole sociali, è destinata a rimanere fuori dall’ambito giuridico in senso puro. Siamo, allora, all’interno di quella « dimensione processuale » delle clausole generali (120), che non può certo essere trascurata in questa sede, per quanto la sua specificità ed elevata complessità, oggetto di rinnovato interesse nello stesso diritto del lavoro, ne imponga una trattazione sintetica. Al di là della più ampia problematica relativa alla delimitazione del sindacato della Cassazione, il discorso deve partire dal nuovo indirizzo inaugurato sul finire degli anni ’90, dalla giurisprudenza della Suprema Corte (121), la quale, (soprattutto) in tema di giusta causa di licenziamento, ma anche (più limitatamente) di buona fede e correttezza, ha affermato che « il giudizio di merito applicativo di norme elastiche è soggetto al controllo di legittimità al pari di ogni altro giudizio fondato su qualsiasi norma di legge » (122), secondo un orientamento espressamente fatto proprio oggi dallo stesso legislatore (art. 30 l. n. 183 del 2010). Successivamente, e da ultimo, la Cassazione è tornata più volte sul punto, sempre a proposito di giusta causa ex art. 2119 c.c., talora riproducendo espressamente il menzionato principio o comunque confermandolo nella sostanza, talaltra discostandosene in parte, senza assumere, tuttavia, una posizione univoca e consolidata. In talune ipotesi, i giudici, pur aderendo all’indirizzo sopra illustrato, hanno precisato come « il controllo di legittimità (...) della Cassazione » non si esaurisca « in una verifica del contenuto della norma, ma sia « esteso alla sussunzione del fatto, accertato dal giudice di merito nell’ipotesi normativa » (123). In altre, sono ricorsi alla “contrapposizione” fra « “specificazioni del parametro normativo”, che « hanno natura giuridica » e « “accertamento della (120) Fabiani, 2012, p. 193. (121) Panuccio, 2000, p. 85 ss.; Calcaterra, 2000, p. 315 ss. (122) Cass. civ., sez. lav., 22 ottobre 1998, n. 10514 e Cass. civ., sez. lav., 18 gennaio 1999, n. 434, in FI, 1999, I, c. 1891 ss., con note di Fabiani e De Cristofaro; Cass. civ., sez. lav., 13 aprile 1999, n. 3645, ivi, 1999, I, c. 3558, con nota di Fabiani; per un esame critico, nel merito, di tali sentenze, v. Nogler, 2014a, p. 131 ss. (123) Cass. civ., sez. lav., 22 dicembre 2006, n. 27464, in RIDL, 2007, II, p. 641, con nota di Zoppoli. 231 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore concreta ricorrenza”, nel fatto, « “degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni”, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento », accertamento che si colloca, invece, « sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici » (124). Infine, in ulteriori occasioni, la Corte, approfondendo ulteriormente, ha affermato che « solo l’“integrazione giurisprudenziale a livello generale ed astratto” della nozione di giusta causa (...) si colloca sul piano normativo e consente una censura per la violazione di legge; mentre l’“applicazione in concreto” del più specifico canone interpretativo, così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione insufficiente e contraddittoria » (125). Merita, allora, quanto meno un cenno — per gli effetti ulteriormente restrittivi del controllo di legittimità su norme e clausole generali (126) — l’intervenuta riforma dell’art. 360, 1° comma, n. 5, c.p.c., che ha cancellato il ricorso in cassazione per vizi della motivazione della sentenza impugnata, sostituendovi il motivo fondato sull’« omesso esame circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti ». La novella ha evidentemente inteso limitare il più possibile l’ambito del sindacato di legittimità sulla motivazione della sentenza, ma resta comunque aperta la via di un « controllo sull’esistenza (...) e sulla coerenza » della stessa; il che implica pur sempre la possibilità, per la Suprema Corte, di sindacare le gravi, evidenti illogicità e contraddizioni riscontrabili nell’anzidetta motivazione, tali, dunque, da integrare il vizio di violazione di legge, secondo il più recente insegnamento delle Sezioni Unite (127). Al di là dei più generali interrogativi suscitati da tale novella, il problema che le pronunce finora citate sollevano è rappresentato, (124) Cass. civ., sez. lav., 29 aprile 2004, n. 8254, in CED Cass., 2004. (125) Cass. civ., sez. lav., 15 aprile 2005, n. 7838, in MGL, 2005, p. 839, con nota di Pizzuti; è da rilevare come l’impugnazione dinanzi alla Cassazione per vizio di motivazione insufficiente e contraddittoria è venuta meno ai sensi del nuovo testo dell’art. 360, 1° comma, n. 5, c.p.c. (126) Nella dottrina giuslavoristica, v. AA.VV., 2013, p. 7 ss. (127) Cass. civ., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053, in Il Fisco, 2014, p. 1682, con nota di Russo; sulla riforma dell’art. 360, 1° comma, n. 5, c.p.c., Poli, 2013, p. 203 ss.; con accenti fortemente critici Taruffo, 2014, p. 381 ss. 232 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore in realtà, dalla loro premessa, accogliendosi una concezione di clausola generale allargata e fungibile rispetto a quella di “norma generale” o “elastica” (128). Una tale concezione pare, ora, avallata dallo stesso legislatore, nell’intento di porre limiti a quegli spazi di creatività del giudice (del lavoro) derivanti da enunciati normativi a carattere flessibile e indeterminato (129) e con la precisazione, peraltro, che l’inosservanza di tali limiti « costituisce motivo di impugnazione per violazione di norme di diritto » (130) (art. 30, 1° comma, secondo periodo, l. n. 183 del 2010). Si tratta, per i motivi sinora illustrati, di una concezione non persuasiva, che giunge a sacrificare, almeno in parte, la stessa (128) In tal senso si esprime la giurisprudenza di legittimità: Cass. civ., sez. lav., 14 marzo 2013, n. 6501, cit.; Cass. civ., sez. lav., 2 marzo 2011, n. 5095, in CED Cassazione, 2011; Cass. civ., sez. lav., 2 novembre 2005, n. 21213, cit., la quale, da un lato, precisa che le norme rientranti nella nozione di “clausola generale” sono « connesse ma non confondibili » con le “norme elastiche”, dall’altro, però, qualifica l’art. 1 l. n. 604 l. n. 604 del 1966, con l’indicazione della giusta causa e del principio di proporzionalità, come disposizione riconducibile all’« ambito delle “norme elastiche” e (corsivo nostro) di quelle (...) rientranti nella nozione di “clausola generale” », per quanto, poi, giunga a valutare la gravità del comportamento del debitore di opere non in base al sentire sociale, bensì alla stregua delle attese del datore di lavoro creditore. Ciò dovrebbe suonare a conferma implicita che la « giusta causa » è concetto indeterminato o elastico, che dir si voglia, non, invece, clausola generale, come ben sottolineato da una parte della dottrina giuslavoristica: cfr. Tullini, 2013, p. 156; Nogler, 2011, p. 927 ss.; Gragnoli, 2010, p. 27 ss.; Carinci M.T., 2005, p. 101 ss.; contra Napoli, 1980, p. 108; non è chiaro, tuttavia, fino a che punto la giurisprudenza qualifichi la « giusta causa » quale clausola generale e la tratti poi effettivamente come tale, considerato che la pronuncia appena citata non rinuncia comunque a riaffermare il potere del giudice di discostarsi dagli standards collettivi, cosa, questa, che riesce a giustificarsi solo negando, appunto, la natura di clausola generale della « giusta causa ». (129) Il riferimento è all’art. 30, 1° comma, primo periodo, l. n. 183 del 2010, su cui cfr. Gragnoli, 2010, p. 29, secondo cui « la disposizione vuole solo censurare pretesi eccessi di discrezionalità del giudice: quindi, l’espressione “clausole generali” è da vedere in senso estensivo e atecnico, chiamata ad abbracciare tutti i casi di creatività delle pronunce e di interferenza con prescrizioni suscettibili di una più intensa rielaborazione interpretativa »; invece, per la mera presa d’atto del fatto che « l’espressione “clausole generali” entra, così, nel linguaggio legislativo », allo scopo di « indicare, al di là del più ristretto significato tradizionale, qualsiasi norma contenente un precetto generico », v. Vallebona, 2010, p. 211; analogamente Ghera, Valente, 2010, p. 866, per i quali « la norma intende restringere la discrezionalità interpretativa indubbiamente ampia in presenza di enunciati legislativi generici o c.d. “aperti” »; rilievi fortemente critici, tuttavia, in Rescigno, 2011, p. 1690. (130) Come visto, tale previsione trova ormai riscontro nella giurisprudenza di legittimità e, pertanto, ad essa può attribuirsi mera portata « ricognitiva di una posizione già acquisita » in ambito giurisprudenziale: Del Punta, 2013, p. 23. 233 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore « dimensione processuale » specifica delle clausole generali (131), con un’alterazione, peraltro, dello stesso ragionamento decisorio sotteso all’applicazione della “norma generale” o “elastica” (132). Alla luce delle ricostruzioni finora compiute su struttura e funzione di dette clausole, non sembra che ad esse si attaglino affermazioni, come quelle appena menzionate, secondo cui il controllo di legittimità della Cassazione è esteso (anche) alla sussunzione del fatto nella norma o comunque all’integrazione giurisprudenziale della nozione legale (di giusta causa), ma non all’applicazione “in concreto” della stessa. Le clausole generali « non descrivono una fattispecie » e sono prive di una nozione “a monte”, essendo caratterizzate proprio dall’assenza di una pre-valutazione normativa. Perciò, esse, come già sottolineato in precedenza, vivono in un rapporto di reciproca esclusione con il modello sillogistico tradizionalmente impiegato per descrivere il c.d. ragionamento decisorio (133). Al cospetto di clausole generali, quali la correttezza e la buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), il giudice non applica una norma giuridica astratta mediante riconduzione ad essa dei fatti relativi al caso concreto, con una decisione assiologicamente orientata, come accade, invece, di fronte alla giusta causa (art. 2119 c.c.), che è (131) Ma diversamente Fabiani, 2004, p. 8 s., per il quale « non sembra corretto (...) introdurre possibili distinzioni sotto lo specifico profilo del sindacato della Cassazione a seconda (...) che vengano in rilievo ipotesi di indeterminatezza del testo della norma di tipo “quantitativo” o “qualitativo” ». (132) Con riferimento a pronunce di legittimità in tema di « giusta causa », le quali hanno valutato il comportamento del prestatore secondo la tecnica del bilanciamento tra principi costituzionali (artt. 4 e 41 Cost.), invece che alla stregua delle specifiche norme legislative di disciplina dei fenomeni oggetto di giudizio, si è parlato di « semplificazione della giustificazione » della decisione, con conseguente indebolimento della funzione nomofilattica attribuita alla Cassazione: Nogler, 2014a, p. 135. Probabilmente, ciò che qui si pone giustamente in luce con tono critico potrebbe essere il riflesso di un errore di prospettiva dei giudici stessi, quale dato proprio dall’assimilazione delle norme generali alle clausole generali. È, infatti, esattamente tale assimilazione a fuorviare i giudici, ponendoli alla ricerca di standards sociali — con i principi costituzionali elevati a criteri orientativi della ricerca stessa — invece di indirizzarli verso una considerazione più attenta dei singoli elementi interni al sistema normativo. Nasce da qui, evidentemente, quell’impressione, di « semplificazione della giustificazione con la rimozione, in sede di motivazione della decisione, di una serie di vincoli argomentativi pure positivamente previsti », denunciata dalla dottrina appena citata (p. 134 s.). (133) Taruffo, p. 319; D’Amico, 1989, p. 446; Mengoni, 1986, p. 16 s.; Di Majo, 1984, p. 569; contra Luzzati, 2013, p. 190; Velluzzi, 2010, p. 81 ss. 234 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore “norma generale” o “elastica”. Egli concretizza la clausola generale a partire dai fatti riguardanti il caso concreto, per arrivare ad individuare la norma sociale di condotta, con una decisione corrispondente a un giudizio di valore. Detta norma è, peraltro, suscettibile di generalizzazione, ma (in quanto “sociale”) trova “fonte” in specifici sottosistemi, esterni a quello giuridico, e risulta, quindi, sprovvista « del carattere di universalità (...) proprio del termine di un giudizio sussuntivo in senso logico-formale »; sicché appare inidonea a fungere da premessa maggiore di un sillogismo (134). Nella “concretizzazione” di una clausola generale, come può essere la correttezza e buona fede, non v’è, quindi, da chiedersi se la sussunzione del fatto costituisca o meno “giudizio di diritto”, giacché il meccanismo di funzionamento della clausola generale è tutto diverso ed è su di esso, nonché sul tipo di attività richiesta al giudice, che bisogna ragionare. Quando il magistrato ritiene di trovarsi in presenza di una tal clausola, sa, come detto, di avere a che fare con dati fattuali inerenti al caso concreto, i quali sono non da sussumere entro la norma astratta, ma da porre a base di partenza per la ricerca, tramite rinvio a standards sociali, di una norma sociale di condotta. È sufficiente questa circostanza — e cioè che la regola generale di comportamento sia formulata in stretta aderenza a circostanze di fatto — per sottrarre il giudizio di valore al sindacato di legittimità della Corte di Cassazione? Intanto, bisogna dire che tale giudizio, benché fondato su uno stretto intreccio tra fatti e decisione finale, non è paragonabile a quello di equità (135) — su cui, invece, insistono espressi limiti di sindacabilità/appellabilità — essendo formulato, come già sottolineato in precedenza, (non in funzione del, bensì) a partire dal caso concreto. Siamo di fronte, cioè, ad una attività finalizzata alla formazione giudiziale di vere e proprie regole giuridiche mediante il metodo casistico. Al di là della pura ricostruzione processuale dei fatti, ossia di cosa è veramente successo, tale attività, in cui si concreta il giudizio di valore, non può essere esonerata da un controllo, anche di legittimità, tanto più se si considera che essa si intreccia con una forte attività interpretativa, che non avviene (134) (135) Mengoni, 1986, p. 12. Roselli, 2013, p. 5. 235 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore « nel vuoto, bensì all’interno del campo delimitato dal legislatore » (136). Già la qualificazione di un dato sintagma alla stregua di clausola generale implica un’interpretazione da parte del giudice che può essere di non poco conto, se a venire in considerazione siano termini la cui appartenenza alla categoria in parola sia dubbia. C’è, poi, l’individuazione dello standard e la verifica di una sua conformità ai principi generali dell’ordinamento. Anche questa fase presuppone un’attività valutativo-interpretativa da parte del magistrato suscettibile di un successivo controllo a valle, anche di legittimità (137). Quanto, invece, all’individuazione del contenuto dello standard e alla sua traduzione in specifica norma di condotta, qualche perplessità in merito alla sindacabilità ex art. 360, 1° comma, n. 3, c.p.c. potrebbe venire dal fatto che detta norma resta fuori dallo stretto campo del diritto. Tuttavia, anche chi ha sostenuto l’insindacabilità del responso tratto dalla standard, non avendo « il giudice di legittimità miglior titolo dell’altro quale interprete, piuttosto che del diritto positivo, di dati ad esso estrinseci », ha dovuto poi ammettere la problematicità di una simile affermazione, « perché (...) la normalità statistica, i sentimenti diffusi, la “coscienza comune” sono costantemente strutturati dal diritto » (138). Altri ha rilevato che « la possibilità di sindacare le decisioni che applicano clausole generali anche nel merito, e dunque sotto il profilo di un loro possibile contrasto con il diritto, se da un lato riduce il rischio di decisioni (del tutto) “arbitrarie” da parte dei giudici di prime cure, dall’altro comporta altresì, (...) il pericolo di “irrigidire” (in qualche modo) il contenuto della clausola generale, finendo per generalizzare direttive dotate, invece, di un elevata soggettività (139). Ma a questo discorso si può obiettare che le clausole generali, proprio perché pongono un notevole problema pratico di « fondazione della decisione » (140), a fronte del forte rischio di « soggettivismo giudiziario » postulano già “a monte” una loro tipizzazione entro categorie dogmatiche precostituite; sicché (136) (137) (138) (139) (140) Del Punta, 2013, p. 23. Fabiani, 2012, p. 238 ss. Carusi D., 2011, p. 1693. D’Amico, 2011, p. 1713. Mengoni, 1986, p. 18. 236 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore non sarà certo il successivo controllo ad irrigidire le clausole medesime. Anzi, la loro traduzione in specifiche strutture concettuali viepiù giustifica un’attività conoscitiva e valutativa della Suprema Corte, anche alla luce della funzione nomofilattica ad essa attribuita. Detta attività « “rientra a pieno titolo in quella attività di interpretazione e applicazione delle norme che fornisce le premesse per la decisione in diritto”, nel controllo della cui correttezza “si manifesta la funzione di nomofilachia che definisce il ruolo istituzionale della Corte” » (141). 3. Buona fede e correttezza: significati, ambiti e modalità di applicazione. 3.1. Origini e contenuto della buona fede e della correttezza. Coincidenza o distinzione di nozioni? Sono state accese e risalenti nel tempo le dispute consumatesi attorno al concetto di buona fede, ma non è certo questa la sede per darne partitamente conto. Un chiarimento è, tuttavia, utile in partenza e riguarda la questione della natura etica o psicologica del concetto medesimo, giacché quando si parla di clausola generale di buona fede è alla sola accezione oggettiva di quest’ultima che s’intende alludere, come si è potuto ben comprendere: rileva, in altri termini, la buona fede intesa quale regola di condotta, cioè alla stregua di comportamento secondo buona fede, e non di stato della coscienza di colui che è in buona fede, alla stregua di un’accezione propriamente soggettiva del termine (v., a titolo meramente esemplificativo, artt. 1337, 1358, 1375 c.c. e, rispettivamente, gli artt. 534, 2° comma, 535, 2° comma, 1147, 1° comma, c.c.) (142). (141) Fabiani, 2012, p. 244, con richiamo a Taruffo, 2003, p. XX. (142) La distinzione generale e fondamentale tra buona fede oggettiva e soggettiva, che riposa sul distinto impiego normativo del termine, è ormai corrente: Bessone, D’Angelo, 1988, p. 1; anche se non sono mancati orientamenti volti a negare ogni possibile distinguo - con la buona fede ridotta a mero stato psicologico soggettivo, in linea con una più generale tendenza a svalutare le clausole generali (Montel, 1958, p. 599) — ovvero ricostruzioni unitarie, ruotanti attorno ad una supposta comune matrice etica del concetto (v. Romano Salv., 1959, p. 677 ss.); tali ricostruzioni sono, tuttavia, smentite alla luce della prospettiva 237 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Ciò chiarito, si può ora volgere lo sguardo alla menzionata clausola, per ricercarne partitamente il significato. Su questa strada, va, intanto, anticipato che ragioni legate al più generale oggetto dell’indagine — quello del rapporto tra clausole generali ed obblighi del prestatore nell’esecuzione del contratto di lavoro — impongono di concentrare l’attenzione sullo specifico precetto della c.d. buona fede in executivis (art. 1375 c.c.). Si tratta di una anticipazione rilevante, che va colta fin d’ora, perché è vero che « l’apparentamento sistematico » tra le varie norme codicistiche in materia di buona fede contrattuale autorizza « una ricostruzione unitaria » del concetto (di buona fede oggettiva) (143), ma è altrettanto vero che siamo al cospetto di una clausola generale, destinata come tale a trovare una peculiare e distinta “concretizzazione” nei diversi ambiti normativi entro cui si inserisce, con ogni conseguenza sulla specifica configurazione della stessa all’interno di ciascun contesto. È stato, anzi, osservato che la buona fede oggettiva, in quanto clausola generale, rifuggirebbe a priori da una vera e propria definizione giuridica, al punto da scoraggiare qualsivoglia tentativo a riguardo. L’opinione contiene alcuni aspetti di verità: la buona fede « non impone un comportamento a contenuto prestabilito » (144), ma si traduce giocoforza in condotte di tipo diverso, difficilmente confinabili ex ante entro rigidi schemi definitori (145) poiché individuate (volta a volta) dal giudice a partire dal caso concreto, sulla scorta di una delega legislativa per la ricerca di norme sociali di condotta. Resta, tuttavia, che quella del legislatore all’organo giudiziario non può considerarsi una “delega in bianco”: come ogni clausola generale, anche la buona fede, nel suo atteggiarsi a direttiva indicativa dell’ordine valoriale dai cui far discendere la decisione, disegna una “cornice” di riferimento per il giudice, sia pur « a maglie assai larghe » (146); sicché sarebbe un storica, in particolare, della diversa configurazione (prima oggettiva, poi soggettiva) assunta dalla buona fede nel diritto romano: Bigliazzi Geri, 1988, p. 156 s. (143) Bessone, D’Angelo, 1988, p. 1. (144) Bianca, 1983, pp. 206 e 209. (145) Rodotà, 1969, p. 189 sottolinea l’impossibilità di ridurre le clausole generali entro « contesti definiti una volta per tutti »; pure per Bessone, D’Angelo, 1988, p. 5, « la natura stessa delle clausole generali impedisce la individuazione di elementi di giudizio rigorosi e circoscritti, che, oltretutto, frustrerebbe la stessa funzione della buona fede (...) ». (146) Bessone, 1969, p. 340 ss. 238 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore errore rinunciare aprioristicamente a individuarne i tratti caratterizzanti. In quest’ordine di idee, un primo problema attiene al rapporto della buona fede in executivis (art. 1375 c.c.) con la correttezza (art. 1175 c.c.). Ci si chiede se si tratti di sinonimi, secondo quanto desumibile dal comune linguaggio tecnico-giuridico, aduso ad un impiego delle due espressioni a mò di endiadi, ovvero di concetti dal significato differente, come potrebbero, al contrario, suggerire la differente terminologia adottata, la diversa collocazione topografica e l’ambito applicativo non del tutto coincidente. 3.1.1. La prospettiva storica. Ove si guardi alla questione da una prospettiva storica, risalta, anzitutto, la storia non comune dei due concetti (147): se la correttezza compare per la prima volta nel vigente codice civile, la buona fede affonda le sue radici nella tradizione romanistica, con la parola “fides” a designare « una qualità oggettiva » da attribuirsi a tutto ciò su cui può farsi sicuro affidamento (148). Il concetto giuridico di “fides” emerge, tuttavia, solo con l’intensificarsi degli scambi commerciali di Roma nel bacino del Mediterraneo: nella specie, con lo sviluppo di un nuovo sistema giuridico, il c.d. ius gentium, chiamato a regolamentare le relazioni tra cittadini romani e mercanti stranieri (peregrini), in alternativa al rigido e formalistico ius civile, da cui sarà poi assorbito, in corrispondenza con l’affiorare del c.d. ius honorarium (149). Dello ius gentium, la fides, accompagnata dalla qualifica etica di bona, costituì principio normativo fondante (150): da qui la nascita del concetto obiettivo della fides bona, e cioè di una correttezza commerciale destinata a disciplinare specificamente i rapporti commerciali inter pares, cioè tra soggetti dotati di uno stesso peso giuridico ed economico (151). La dimensione processuale della fides bona è testimoniata dall’affermarsi dei c.d. bonae fidei iudicia, con il praetor peregrinus (147) In tema, v. amplius Saffioti, 1999, p. 1 ss. (148) Betti, 1953, p. 76. (149) Grosso, 1959, p. 1 ss.; Scognamiglio M., 2010; Senn, 1988, p. 131 ss.; Musio, 2010, p. 3 ss. (150) Grosso, 1959, p. 1 s. (151) Bigliazzi Geri, p. 156. 239 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore chiamato a ius dicere inter cives Romanos et peregrinos (152). Si è osservato come tali giudizi modificassero « profondamente il diritto romano dei contratti, introducendo una superiore tutela basata su esigenze socialmente riconosciute, a prescindere dagli elementi sostanziali e formali tipici dello ius civile. Di fatto, i bonae fidei iudicia permettevano il richiamo a valori etici e sociali, attraverso « l’introduzione di regole di correttezza che godevano, per la prima volta, di difesa processuale (...) » (153). Nel corso del tempo, e fino al VI sec. D.C., « l’ambito della bona fidei actio si ampliò sempre di più, soprattutto grazie alla introduzione di una chiara distinzione tra obblighi di adempimento e obblighi di comportamento delle parti. La bona fides, da regola di mero rispetto della parola data, diventava una vera e propria regola del rapporto obbligatorio, assumendo la veste di fonte autonoma dell’obbligazione, distinta dal vecchio ius civile » (154). La bona fides acquistò poi un « respiro amplissimo » nel periodo medievale (il periodo del c.d. diritto intermedio), quando essa, in un contesto di forte simbiosi tra il morale e il giuridico (155), da un lato, si colorò di venature strettamente fiduciarie, anche alla luce dei rapporti di subordinazione e di fedeltà tra feudatario e vassalli (156); dall’altro, venne a designare, sul versante propriamente contrattuale, tre tipi di condotta: l’obbligo delle parti di tener fede alla parola data; il divieto delle parti di trarre vantaggio da proprie condotte sleali; il dovere dei contraenti di adempiere alle obbligazioni ritenute giuste da persona onesta e leale, benché non espressamente previste. La bona fides svolse, del resto, un ruolo centrale nell’ambito della stessa lex mercatoria medievale, divenendo criterio valutativo a tutti gli effetti della condotta delle parti (157). A propria volta, essa ebbe un ruolo importante anche nel diritto canonico, il quale contribuì, pertanto, all’affermarsi del concetto, lì inteso nel senso di coscienza, di morale, tant’è che i giuristi del c.d. periodo intermedio finirono sovente per identificare la bona fides con l’aequitas, dando, così, avvio a quel noto processo (152) (153) (154) (155) (156) (157) Grosso, 1959, p. 2; Senn, 1988, p. 131 ss. Musio, 2010, p. 3. Ibidem, p. 3. Massetto, 2006, p. 137. Serpetti, 2007, p. 2. Musio, 2010, p. 4. 240 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore di commistione tra le due nozioni, capace di aprir le porte ad un impiego della buona fede quale strumento diretto a orientare l’interpretazione oltre i limiti dello ius strictum (158). Nel periodo delle codificazioni ottocentesche, fu, invece, il richiamo alla filosofia giusnaturalistica a consentire la sopravvivenza del concetto in parola (159), « nella sua peculiare attitudine a filtrare i valori metagiuridici entro la regola di diritto » (160). A testimoniare il ricorso dei codici del tempo al ius naturae furono, infatti, proprio i riferimenti a buona fede ed equità, concepiti in funzione di temperamento delle istanze individualiste e liberali proprie dell’epoca. Il code Napoléon li distribuiva in due norme distinte, collocate nel Chapitre III, intitolato « De l’effet des obligations »: l’art. 1134, 3° comma, per il quale gli accordi « devono essere eseguiti secondo buona fede » (161); l’art. 1135, alla cui stregua « gli accordi obbligano non solo a quanto vi è espresso, ma anche a tutte le conseguenze che derivano dall’equità, dagli usi e dalla legge » (162). È, allora, proprio su questa falsariga che l’art. 1124 del codice civile italiano vede la luce nel 1865: collocato nel § III, intitolato « Degli effetti dei contratti » — e non « des obligations », come nel code, per la sentita necessità di distinguere il negozio dai rapporti obbligatori (163) — vi si legge che « i contratti devono essere eseguiti di buona fede ed obbligano non solo a quanto nei medesimi espresso, ma anche a tutte le conseguenze che secondo l’equità, l’uso o la legge ne derivano ». La riconduzione ad un unico articolo dell’equità e della buona fede, da intendersi, secondo l’opinione dell’epoca, alla stregua di correttezza e di solidarietà, balza evidente agli occhi dell’interprete. Ciò non deve, però, destar sorpresa, considerata la tendenza degli stessi giuristi francesi a leggere comunque gli artt. 1134, 3° comma e 1135, del code Napoléon in maniera congiunta, con la (158) Ibidem. (159) Corradini, 1970, p. 3. (160) Tullini, 1990, p. 14. (161) Art. 1134, troisième alinéa, Code civil 1804: « Elles (les conventions) doivent être exécutées de bonne foi ». (162) Art. 1135 troisième alinéa, Code civil 1804: « Les conventions obligent non seulement à qui y est exprimé, mais encore à toutes les suites que l’équité, l’usage ou la loi donnent à l’obligation d’après sa nature ». (163) Corradini, 1970, p. 85. 241 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore buona fede chiamata a svolgere una funzione integrativa del contratto alla stessa stregua dell’equità (164). La vicinanza logica dei due concetti sarà, dunque, oltremodo confermata dalla codificazione italiana, peraltro, con un’interessante estensione, da parte dottrinale, dei concetti medesimi oltre lo stretto ambito dei contratti: « la equità e la buona fede sono lo spirito vivificatore di tutto il sistema giuridico e non de’ soli contratti » — si afferma da parte di taluni — sicché « pecca » chi « limita la buona fede all’esecuzione delle obbligazioni contrattuali » (165). 3.1.2. Il codice civile vigente e la sostanziale identità dei concetti di correttezza e buona fede. Si è già detto di come la cultura giuridica italiana del primo trentennio del novecento sia rimasta sostanzialmente impermeabile agli orientamenti antiformalistici che andavano affermandosi nell’Europa continentale, tant’è che lo stesso tentativo d’impiego della buona fede in funzione traspositiva dei principi del regime corporativo all’interno del sistema civilistico non trovò particolare spazio presso i giudici (v. retro § 3.1.2.). Si è anche osservato, però, come tale tentativo riuscì, invece, a far breccia nella redazione finale del nuovo codice civile del 1942. È probabile che il processo di moltiplicazione delle clausole generali in questo ambito ebbe a referente normativo proprio il Volksgesetzbuch tedesco (che molte ne prevedeva), redatto dall’Akademie für deutsches Recht (senza peraltro mai entrare in vigore) e ben conosciuto da alcuni giuristi italiani in rapporti con quella Akademie (166). È in una tale cornice che vanno, allora, inquadrate le vicende relative alle clausole generali nel libro IV del codice italiano. Il legislatore si preoccupa, in primo luogo, di valorizzare al massimo la buona fede negoziale. Lo fa, anzitutto, sul versante della disciplina degli effetti del contratto, con una scissione del precedente art. 1124 in due norme — gli artt. 1374 e 1375 — che suona alla stregua di un ritorno al vecchio code Napoléon, vissuto, però, in funzione di un rafforzamento (dell’autonomia) della men(164) Ibidem, p. 88. (165) Fadda, Bensa, 1902, p. 693. (166) Patti, 2013, p. 63. 242 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore zionata clausola generale rispetto all’equità. Lo fa, poi, anche fuori da quel versante, con la buona fede chiamata ormai a presidiare il comportamento delle parti durante tutto l’iter contrattuale: dal momento delle trattative e della formazione dell’accordo, a quello dell’esecuzione, della pendenza della condizione e dell’interpretazione del negozio (167). Il legislatore provvede, in secondo luogo, a introdurre, nell’ambito delle disposizioni preliminari del titolo primo sulle obbligazioni in generale, il riferimento tutto nuovo alla correttezza, stabilendo, all’art. 1175, che « il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza, in relazione ai principi della solidarietà corporativa ». Non sembra che al fondo dell’intervento legislativo vi fosse il bisogno di immettere nell’ordinamento una nuova clausola generale, diversa da quella contenuta nel vecchio art. 1124 e poi trasposta nell’art. 1375. Come visto, già in vigenza del codice civile del 1865, l’idea prevalente era quella di una regola di buona fede, espressione di solidarietà e correttezza, sulla falsariga della tradizione romanistica, occasionalmente enunciata in sede di regolamentazione del contratto, ma valida per ogni rapporto obbligatorio (168). Sicché, ove anche l’art. 1175 fosse mancato nel nostro codice, quella regola si sarebbe probabilmente potuta dedurre da una lettura estensiva dell’art. 1375. Piuttosto, premeva l’esigenza formale di ancorare il contenuto della clausola a precisi termini di riferimento. Qualcosa di simile era, del resto, accaduto pure per il § 242 BGB, che, similmente, non mancava — e non manca tuttora — di raccordare la buona fede a precisi parametri sul piano contenutistico. Tuttavia, se il § 242 fa richiamo « agli usi del traffico » [« con riferimento agli (...) »], coerentemente all’ideologia liberale dell’epoca in cui fu redatto, l’art. 1175 rinviava « ai principi della solidarietà corporativa » [« in relazione ai (...)], con un inciso che, siccome concepito in evidente omaggio all’ideologia fascista, sarà definitivamente soppresso mediante l’art. 3, 2° comma, del d.l.lgt. n. 287 del 1944 (169). (167) In tema v. amplius Castelvetri, 2001, p. 239 s. (168) Natoli, 1974, p. 6. (169) È stata invece definitivamente smentita la tesi dell’implicita abrogazione dell’intero art. 1175 c.c. con la caduta del regime corporativo, tesi affacciata da Ferri, 1963, p. 412; Pugliese, 1950, p. 71; e infatti cfr. le argomentazioni decisive di Rodotà, 1969, p. 124 243 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Alla luce di un parallelismo tra l’art. 1175 c.c. e il § 242 BGB, va inquadrata pure la questione relativa all’ambito applicativo soggettivo della clausola in parola: circoscritto (almeno letteralmente) al solo debitore nel § 242 BGB [« Der Schuldner (...) »] (170); esteso anche al creditore nell’art. 1175 c.c. [« Il debitore e il creditore (...) »]. E ciò in ragione di una scelta di reciprocità (171) — ben esplicitata in apertura della Relazione al Re (172) — che fa della correttezza una misura di comportamento imposta ad ambedue le parti del rapporto obbligatorio (173), con un netto distinguo rispetto alla diligenza (174), siccome misura gravante sul solo debitore nell’adempimento dell’obbligazione, ai sensi del successivo art. 1176 c.c. [« Nell’adempiere l’obbligazione il debitore (...) »]. In forza di un parallelismo con l’art. 1375 c.c. va, invece, affrontata la questione dell’ambito applicativo oggettivo dell’art. 1175. Non v’è dubbio, intanto, che una regola di correttezza nei rapporti obbligatori avrebbe potuto dedursi anche da quella di buona fede nell’esecuzione del contratto ex art. 1375 c.c., al punto da far persino apparire superfluo, da tal punto di vista, l’art. 1175. Se quest’ultima norma fosse mancata, non vi sarebbe stato, infatti, solo l’art. 1324 c.c. a consentire alla buona fede di trascendere ss. a favore della sopravvivenza del disposto; in giurisprudenza Cass. civ., sez. lav., 3 giugno 1985, n. 3301, in MGL, 1986, p. 44. (170) V. Patti, 2013, p. 60, laddove sottolinea come il riferimento a « un solo soggetto del rapporto obbligatorio » abbia « determinato un primo problema di interpretazione ». (171) V. Betti, 1953, p. 93, laddove afferma che « la buona fede è essenzialmente un criterio di reciprocità, che deve essere osservato vicendevolmente nei rapporti fra soggetti di pari grado, aventi una pari dignità morale »; poi diffusamente sulla reciprocità della clausola Rodotà, 1969, pp. 150, 153 e passim. (172) Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice civile del 4 aprile 1942, n. 558: « Il codice civile, pur considerando preminente la posizione del creditore, ha ritenuto, nell’art. 1175 del c.c., di imporgli un dovere di correttezza, e di parificarne la situazione, da tal riflesso, a quella fatta al debitore: il debitore, per il medesimo art. 1175 del c.c., è infatti tenuto a identico contegno. (...) Trasferito (...) (il) concetto di solidarietà nell’ambito del rapporto obbligatorio, si affievolisce ogni dato egoistico, e si richiama nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore ». (173) Per Rodotà, 1969, p. 137, « la formulazione dell’art. 1175 e dell’art. 1375 discende anche dalla volontà di evitare gli equivoci che potevano nascere dal riferimento di ciascuno di essi al solo debitore o al solo creditore »; in giurisprudenza Cass. civ., sez. I, 5 novembre 1999, n. 12310, cit. (174) Rodotà, 1969, p. 152 ss., spec. p. 153. 244 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore l’ambito dei rapporti contrattuali, giacché, impiegando una tal norma, sarebbero comunque rimaste escluse, dall’ambito applicativo della clausola, le obbligazioni ex lege. Si sarebbe potuto altresì contare sulla valenza della buona fede quale regola portante del nostro ordinamento (175), suscettibile, per ciò stesso, di interpretazione estensiva. Certo, però, che una volta dato ingresso nel sistema ad una norma come l’art. 1175, la quale espressamente estende la regola di correttezza (pur “germinata” dalla buona fede ed espressione della stessa) a tutti i rapporti obbligatori, essa si presenta a stregua di un più ampio “contenitore” rispetto all’art. 1375 (176), al punto da temperare la stretta necessarietà di tal ultimo disposto (177). Il che, però, vale a dimostrare proprio la intercambiabilità della correttezza e della buona fede ex artt. 1175 e 1375. Alla luce di ciò, si può, pertanto, concludere che la concorde natura di clausole generali, l’identità di fondamento, la sostanziale coincidenza di contenuto (178) e la comunanza di ambito operativo (179) delle due formule attribuisca carattere sostanzialmente unitario al loro richiamo, autorizzandone un impiego congiunto (180). (175) Bianca, 1983, p. 206; Persiani, 1966, p. 228. (176) Per Castronovo, 1990, p. 4, « nel nuovo sistema instaurato dal codice civile del 1942 l’introduzione del principio di correttezza nella previsione normativa dell’art. 1175 c.c., in testa alla disciplina generale del rapporto obbligatorio, fa sì che l’interpretazione del contratto secondo buona fede e l’esecuzione del contratto secondo buona fede vadano considerate pure specificazioni attraverso le quali viene operata una prima Konkretisierung di quel principio ». (177) Per Messineo, 1961, p. 956, « è da riconoscere che l’art. 1375 trova applicazione nel solo campo dell’obbligazione contrattuale; ma questo porta a osservare che, attesa la presenza della norma generale, di cui all’art. 1175, quella particolare, di cui all’art. 1375, potrebbe, forse, considerarsi superflua ». (178) V. Natoli, 1974, p. 6, nt. 10, per il quale « il significato della distinzione resta oscuro »; Messineo, 1961, p. 956, a cui avviso « sarebbe arduo stabilire una sensibile differenza di contenuto fra le due norme ». (179) Come afferma Gazzoni, 2006, p. 560, « da un punto di vista sistematico, ha (...) poco senso affermare che la buona fede opererebbe nell’ambito della materia contrattuale mentre l’art. 1175, nel suo rinvio alla correttezza, avrebbe il compito di estendere il richiamo all’intera materia delle obbligazioni, posto che anche la materia contrattuale rientra in questo ambito ». (180) Per Mengoni, 1997, p. 9, nt. 16 « i due termini, essendo equivalenti, possono congiungersi in una endiadi »; v. anche Id., 1984, p. 507, ove si parla della correttezza come « una variante » della buona fede; per la sostanziale coincidenza di contenuto della buona fede in senso oggettivo con la correttezza, v., tra gli altri, Patti, 2013, p. 17; Lambo, 2007, 245 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore 3.1.3. Il contenuto delle clausole di correttezza e buona fede. Deve ritenersi che buona fede e correttezza, una volta riscontratane la sostanziale unità concettuale, impongano ai soggetti del rapporto contrattuale (ed obbligatorio in genere) una serie di comportamenti, espressione di norme sociali, finalizzate a garantire il rispetto e la conservazione dell’altrui interesse in vista dell’integrale realizzazione, dunque, del buon esito e della stabilità, del complessivo programma negoziale (181). È in ciò, nella salvaguardia dell’utilità della controparte, che si racchiude l’ordine dei valori sotteso alla direttiva di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. È in quest’ambito che il giudice sarà chiamato a muoversi nella ricerca, volta a volta, della regola di condotta applicabile al caso di specie, regola comunque suscettibile di generalizzazione in virtù dell’opera di “concretizzazione” della clausola. Si può credere che l’indirizzo dato alle parti di preservare ciascuna l’interesse dell’altra richieda condotte non rigidamente predeterminabili a priori, ma tutte finalizzate a stabilire una relazione di rispetto e di collaborazione reciproca tra debitore e creditore in ogni fase del rapporto (182). Si tratterà di comportamenti a contenuto sia positivo, sia negativo (183), ispirati a lealtà, cioè al “mantenimento della parola data”, a coerenza, ma più in generale a spirito di solidarietà (184), perché non salvaguarda certo l’interesse altrui colui che, pur astenendosi da atteggiamenti sleali, p. 76 ss.; Bigliazzi Geri, 1988, p. 170; Bianca, 1983, p. 205; Natoli, 1974, p. 6; Rodotà, 1969, p. 119 ss.; Breccia, 1968, p. 17 s.; contra Betti, 1953, p. 68, sulla scorta di una distinzione tra la correttezza, che comporterebbe meri obblighi negativi e la buona fede che imporrebbe più penetranti obblighi positivi; negli stessi termini, Persiani, 1966, p. 223 s.; cfr. pure Saffioti, 1999, p. 31 ss.; Ciccarello, 1988, p. 157 ss. (181) Rodotà, 1969, p. 152 parla della correttezza « come criterio idoneo a consentire la formazione di una norma contrattuale tale da rendere possibile la realizzazione completa dell’operazione economica perseguita dalle parti ». (182) Analogamente Mengoni, 1997, p. 7. (183) Diversamente Betti, 1953, p. 68, per il quale, come già detto (cfr. retro, nt. 180), « la correttezza impone normalmente solo doveri di carattere negativo; la buona fede impone degli obblighi di carattere positivo ». (184) Bianca, 1983, p. 209; Rodotà, 1969, p. 143; Mancini, 1957, p. 83; Persiani, 1966, p. 223; da ultimo v. Lambo, 2007, p. 83; in giurisprudenza, tra le tante, Cass. civ., sez. I, 27 settembre 2001, n. 12093, in CG, 2002, 3, p. 928 ss., con nota di Di Majo; Cass. civ., sez. I, 22 maggio 1997, n. 4598, in DF, 1997, II, p. 827 ss., con nota di Lembo; diversamente, invece, Barcellona M., 2006, p. 173, per il quale « la buona fede (...) non introduce affatto (...) istanze etiche o solidaristiche (...), ma ha, invece, carattere “civile”, cioè è intesa a 246 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore speculativi o comunque di turbativa dell’altro, eviti poi di farsi carico, in concreto, delle esigenze del medesimo tramite condotte ispirate a forme di solidarismo attivo. È stato osservato che questo impegno di solidarietà, il quale si proietta al di là del contenuto dell’obbligazione e dei doveri di rispetto altrui, trova « il suo limite nell’interesse proprio del soggetto » (185). Da tal punto di vista, può parlarsi dell’« obbligo di ciascuna parte di salvaguardare l’utilità dell’altra nei limiti in cui ciò non importi un apprezzabile sacrificio a suo carico » (186). È, invece, da escludere che la richiesta di un contegno ispirato a senso di solidarietà possa finire per connotare in senso fiduciario il rapporto tra le parti. La componente etico-solidaristica insita nella buona fede non può consentire uno scivolamento della stessa « in un atteggiamento di fedeltà (187) al vincolo », che implicherebbe « fattiva cooperazione », dedizione, « impegno, (...) capacità di sacrificio, (...) prontezza nel soccorso della controparte » (188), con una « costante subordinazione dell’interesse del debitore a quello del creditore » (189). Una nozione di buona fede così lata e « pregnante » (190), volta a imporre « un obbligo di fedeltà e di promozione dell’interesse altrui » (191) nei rapporti patrimoniali, pare mutuata da tradizioni estranee al nostro ordinamento giuripreservare le ragioni del sistema giuridico e dell’autonomia privata (...), traendo dall’uno e dall’altra i criteri di composizione dei conflitti normativi che è chiamata a dirimere ». (185) V. Bianca, 1983, p. 209; v. anche la Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942, n. 558, ove si legge che « (...) la correttezza (...) è un dovere giuridico qualificato dall’osservanza dei principi di solidarietà (...). Questo dovere di solidarietà (...) non è che il dovere di comportarsi in modo da non ledere l’interesse altrui fuori dei limiti della legittima tutela dell’interesse proprio (...) ». (186) Bianca, 1983, p. 210; in giurisprudenza, tra le altre, Cass. civ., sez. II, 18 ottobre 2004, n. 20399, in GD, 2004, 44, p. 30 ss.; Cass. civ., sez. I, 27 settembre 2001, n. 12093, cit.; Cass., sez. I, 5 novembre 1999, n. 12310, cit.; Cass. civ., sez. I, 22 maggio 1997, n. 4598, cit.; Cass. civ., sez. I, 20 aprile 1994, n. 3775, in FI, 1995, I, c. 1296 ss.; Cass. civ., sez. III, 9 marzo 1991, n. 2503, ivi, 1991, I, c. 2077 ss.; Cass. civ., sez. I, 18 luglio 1989, n. 3362, in BBTC, 1989, II, p. 537 ss.; Trib. Genova, 11 aprile 2013, cit. (187) Corsivo nostro. (188) Betti, 1953, pp. 76 e 93. (189) Cottino, 1955, p. 146. (190) Betti, 1953, p. 92; per l’A. dalla buona fede « in senso pregnante » si distinguerebbe la correttezza, da intendersi come mero dovere negativo di astensione « da indebite ingerenze nell’altrui sfera di interessi » (p. 76). (191) Tullini, 1990, p. 25, così esprimendo la stessa critica di cui al testo. 247 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore dico (192), nonché ispirata ad un concetto di bona fides più vicino alla tradizione germanistico-medievale che a quella romanistica, cui si deve invece, come visto, il vigente l’art. 1375 c.c. Si è molto discusso a proposito della valenza “contrattuale” (193) o propriamente “sociale” (194) della solidarietà evocata da correttezza e buona fede. Il tema chiama in causa la questione degli standards di riferimento delle clausole generali: se esse cioè rinviino a dati esterni all’ordinamento ovvero a parametri interni al medesimo, in quanto « indici della valutazione legislativa delle esigenze sociali » (195). L’argomento è stato già affrontato in precedenza e gli esiti cui si è pervenuti inducono a propendere per la prima opinione. Le clausole generali — è stato osservato — hanno natura estroflessa, ossia spingono l’interprete a rinvenire standards di riferimento fuori dal campo del diritto, nell’ambito dei canoni valoriali interni ai diversi sottosistemi sociali e se ne tradirebbe la ratio ove se ne concepisse la “concretizzazione” nei termini di una mera « iterazione di precetti » (196) costituzionali, i quali sono, invece, deputati a fungere da “cornice” generale entro cui (anche) le diverse e peculiari norme sociali di condotta devono trovare collocazione. Sarebbe scorretto un ricorso alle norme della Costituzione per determinare il contenuto di buona fede e correttezza (197). Il richiamo a tali norme può avere al più carattere retorico-persuasivo (198), ma non certo assolvere a una « funzione argomentativa (192) Rodotà, 1969, p. 177; Mancini, 1957, p. 85. (193) Bianca, 1983, p. 209. (194) Rodotà, 1969, p. 163 ss. (195) Ibidem, p. 151. (196) Belvedere, 1988, p. 638; in tema, con precipuo riferimento alla buona fede, v. anche Cattaneo, 1971, p. 625 ss. (197) Così invece Rodotà, 1969, p. 171; a riguardo, v. anche Alpa, 1971, p. 283 ss.; più di recente Navarretta, 2012, p. 953 ss., la quale, concependo la buona fede come funzionale alla realizzazione di obiettivi di giustizia, ritiene, con particolare riguardo al suo impiego nel diritto europeo dei contratti, che, se il riferimento è ora all’Europa, la buona fede debba essere letta alla luce delle norme sulla solidarietà, l’uguaglianza e tutela dei diritti della persona, di cui agli artt. 2 e 6 del T.U.E. e alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (p. 4). (198) V. anche Barcellona M., 2006, p. 173 ss., per il quale « buona fede e Costituzione non c’entrano (...) » (p. 176, nt. 209) e lo dimostrerebbe lo stesso riferimento solo verbale dei giudici al principio costituzionale di solidarietà in pronunce come quella di Cass. civ., sez. I, 248 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore fondante » nel processo di “concretizzazione” delle clausole (199). E ciò perché queste ultime trovano all’interno di singoli sottosistemi sociali, non nell’ordinamento giuridico nel suo complesso (rispetto a cui, certo, quei sottosistemi dovranno poi esprimere coerenza), i propri referenti valoriali. « L’art. 2 Cost. » — è stato a ragione osservato — « ha svolto piuttosto una funzione di rinnovamento della precomprensione della dottrina di diritto privato (...) aprendola a una progressiva rivalutazione dell’art. 1175 (...) », ma non ha oscurato il fatto che « la norma dell’art. 1175 esprime già per se stessa, come proprio “fondamento etico”, un dovere di solidarietà tra le parti del rapporto — nel senso specifico di “dovere di ciascuna parte di assicurare l’utilità dell’altra nella misura in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio a proprio carico” — senza bisogno di integrarla con il dovere sociale di solidarietà umana previsto dalla Costituzione (artt. 2 e 41, comma 2) (...) » (200). Per questo è giusto ritenere « che il contenuto assiologico della clausola della correttezza e della buona fede è sempre in grado, per chi sappia (e voglia) leggerla, di tradursi in giudizi di dover essere appropriati al caso concreto, senza bisogno di stampelle costituzionali » (201). 20 aprile 1994, n. 3775, cit, con nota di Picardi o di Cass. civ., sez. I, 24 settembre 1999, n. 10511, in GC, 1999, I, p. 2929 ss. (199) Mengoni, 1997, p. 9; lo stesso sarebbe, allora, avvenuto, anche qualora si fosse soprasseduto all’abrogazione dell’inciso finale dell’art. 1175 c.c., limitandosi solo a sostituire all’aggettivo « corporativa » l’aggettivo « sociale », secondo un’opzione che, ad avviso di Mengoni, 1954, p. 393, nt. 35 avrebbe dovuto essere privilegiata dal legislatore; ritiene, al contrario, positiva l’abrogazione, per la sua idoneità ad eliminare ogni equivoco in merito al contenuto dell’art. 1175 c.c., Natoli, 1974, p. 28; sottolinea opportunamente l’inammissibilità di un « trapianto nell’art. 1175 (...) del dovere di solidarietà sociale (...), perché esso non può essere pacificamente contrapposto alla solidarietà corporativa » Castelvetri, 2001, p. 240; cfr. pure ampiamente Saffioti, 1999, p. 47 ss.. (200) Mengoni, 1997, p. 9; sembrerebbe, del resto, confermare ciò anche la definizione di buona fede che emerge nei testi di diritto contrattuale europeo: v. ad esempio il Draft Common Frame of Reference (DCFR) (art. I.1: 103, 1° comma) e la Proposta di Regolamento sul diritto comune europeo della vendita (art. 2, 1° comma, lett. b), alla cui stregua la buona fede è « uno standard di condotta caratterizzato da onestà, lealtà e considerazione degli interessi dell’altra parte della transazione o del rapporto in questione ». (201) Mengoni, 1997, p. 9; per Nicolussi, 2000, p. 707, « presunti agganci costituzionali di tale clausola generale (sarebbero) inutili proprio in quanto si tratta di patrimonio della tradizione del diritto europeo che non ha alcun bisogno di essere fondata su basi contingenti e mutevoli come una particolare costituzione nazionale (...). Fondata su una tradizione giuridica secolare, la buona fede (...) è una clausola generale che restituisce al 249 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Ciò non vuol dire che un problema di raccordo con i precetti costituzionali sia del tutto estraneo al tema delle clausole generali, considerato che la “concretizzazione” di queste ultime dovrà comunque avvenire nel quadro segnato dai principi generali dell’ordinamento: certamente, per quanto riguarda la correttezza, nella cornice dell’art. 2 Cost., di cui andrebbe valorizzato — specie alla luce delle nuove frontiere del diritto alla riservatezza e del danno esistenziale — l’aspetto della solidarietà umana, intesa quale garanzia di rispetto della personalità dei soggetti, della loro dignità e integrità, in una parola, di salvaguardia dei valori della persona, secondo una visione capace di tenere insieme la dimensione individualistica e mercantilistica del codice con quella sociale del testo costituzionale (202). Non sembra, invece, che a correttezza e buona fede possano collegarsi obiettivi di giustizia distributiva in senso proprio, per il senso del tutto diverso in cui tali clausole sono state concepite e ci sono state tramandate dalla tradizione, cioè quella di strumenti destinati a operare nell’ottica dell’eguaglianza formale tra le parti. E anche la giustizia commutativa — secondo questa tradizione — « viene perseguita solo in misura limitata: se infatti è genericamente vero » che ogni valutazione secondo buona fede « mira ad un giusto equilibrio fra gli interessi delle parti », si è sempre escluso che essa potesse esigere « la fissazione di un “giusto prezzo” nei contratti di scambio » (203). 3.2. Modalità operative della buona fede e della correttezza: in funzione integrativa del regolamento contrattuale. Gli obblighi di protezione ex artt. 1175 e 1375 c.c. Chiarito il significato di correttezza e buona fede, ossia l’ordine dei valori che il giudice è autorizzato a ricercare nell’offrire “concretizzazione” a dette clausole, occorre verificare in quale modo le diritto un collegamento con i valori etici che nel tempo si sono consolidati in seno alla coscienza sociale e in questo senso costituisce, nell’ambito del rapporto obbligatorio, una legittimazione, circoscritta e pur sempre di matrice legale, a una forma particolare di diritto vivente ». (202) Saffioti, 1999, p. 71. (203) Cattaneo, 1971, p. 630. 250 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore stesse, e le relative norme di condotta, operino nei confronti delle parti del rapporto obbligatorio. È certo, a riguardo, come la buona fede (art. 1375 c.c.), anche se formalmente riferita alla fase attuativa del contratto, costituisca regola oggettiva, la quale concorre a determinare il comportamento dovuto, con funzione integrativa del regolamento contrattuale (204). Ciò con un’incidenza diretta sulla struttura del rapporto obbligatorio, sì da arricchirne il contenuto attraverso un complesso di regole, ispirate a parametri di moralità sociale, ulteriori rispetto a quelle discendenti dalla volontà delle parti (art. 1374 c.c.) (205). Non può essere condivisa la tesi contraria, che fa leva sulla sistematica del codice civile, segnalando il netto distinguo tra integrazione dell’art. 1374 (affidata a legge, usi ed equità) ed esecuzione dell’art. 1375 (ispirata a buona fede) (206). Un tale distinguo, derivante dalla scissione dell’antico precetto unitario (204) Bianca, 1983, p. 206. (205) Cfr. Rodotà, 1969, p. 118, che spiega il meccanismo dell’integrazione della buona fede ex art. 1374 c.c. sulla scorta del richiamo alla « legge » di cui a tale norma, richiamo il quale « consente già di far capo a tutti quei concetti legislativi che l’interprete ritiene funzionalmente preordinati alla integrazione del contratto », tra cui appunto quelli degli artt. 1175 e 1375 c.c.; per la funzione integrativa della buona fede v., oltre a Bianca, 1983, p. 205 s.; Betti, 1953, p. 99; Mancini, 1957, p. 73, che, tuttavia, limita la funzione integrativa alla sola regola di correttezza dell’art. 1175 c.c.; Persiani, 1966, p. 231 (anche se, per una successiva più tiepida valutazione del ruolo delle clausole di correttezza e buona fede, Id., 1995, p. 34 ss.); Mengoni, 1984, p. 510; Zoli, 1988, p. 219 ss.; Castronovo, 1990, p. 4; Mazzamuto, 2003, p. 646 ss.; Lambo, 2007, p. 116 ss.; pertanto, solleva perplessità, in giurisprudenza, l’orientamento espresso da Cass. civ., sez. lav., 24 giugno 1995, n. 7190, in MGL, 1995, p. 370 ss., secondo cui « correttezza e (...) buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. non creano obbligazioni (...), bensì rilevano o come modalità di generico comportamento delle parti ai fini della concreta realizzazione delle rispettive posizioni di diritti ed obblighi, oppure come comportamento dovuto in relazione a specifici obblighi di prestazione ». (206) Cfr. Natoli, 1974, pp. 3 e 42; aderiscono, tra gli altri, alla presente tesi, della buona fede esecutiva o correttiva, che dir si voglia, Ghezzi, 1965, p. 90 ss.; Smuraglia, 1965, p. 245 ss.; Id., 1967, p. 97 ss; Breccia, 1968, p. 130; Bigliazzi Geri, 1988, p. 170 ss.; Buoncristiano, 1986, p. 163; Saffioti, 1999, p. 62 ss.; Faleri, 2007, p. 47 ss.; v., inoltre, Restivo, 2007, p. 147 ss., il quale, dopo aver ritenuto « che la distinzione tra buona fede integrativa ed esecutiva non riflette due modi di essere alternativi di questa clausola, ma è semplicemente funzione della prospettiva assunta », (p. 153) pare valorizzare particolarmente la teoria della buona fede correttiva, per l’affinità di tale concezione con la figura dell’abuso del diritto, oggetto del suo studio monografico; in giurisprudenza ammette che la buona fede « può anche imporre alle parti di operare in modo difforme e contrastante da quanto stabilito nel contratto » Cass. civ., sez. III, 9 marzo 1991, n. 2503, cit. 251 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore (art. 1124 c.c. 1865) in due nuove norme separate (artt. 1374 e 1375), riflette storicamente un’esigenza, tutta propria del codice del 1942, di massima valorizzazione delle clausole generali — con la buona fede in posizione autonoma rispetto all’equità — più che esprimere una precipua volontà di escludere la funzione integrativa tipica della buona fede. Coloro i quali criticano la tesi della funzione integrativa della buona fede ex art. 1374 c.c., lo fanno con lo sguardo rivolto alla dinamica del rapporto (207), nella ferma convinzione che la clausola in parola abbia lo scopo di autorizzare una valutazione giudiziale aderente al caso concreto, per garantire che le parti, a fronte di eventuali “sopravvenienze” in fase esecutiva, realizzino comunque, nella sostanza, l’assetto di interessi di cui al regolamento contrattuale (208). Ora, nessuno dubita che il richiamo all’art. 1375 c.c., imponendo una correttezza improntata a parametri di moralità sociale, possa servire, in molti casi, a gestire eventuali “sopravvenienze”, legate allo svolgersi dinamico del rapporto, nel rispetto reciproco dei contraenti e in funzione di quel risultato integralmente utile sotteso al programma negoziale (209). Solo che ciò non può aprire (207) V. Natoli, 1974, p. 5, che parla di « inesatta ricomprensione » dell’art. 1175 c.c. « nella regolamentazione più della statica, che della dinamica del rapporto obbligatorio (...) ». (208) Ibidem, p. 4, laddove criticamente osserva che « mentre sulla base anche dell’art. 1175 si giunge alla costruzione di tutta una serie di obblighi ed oneri complementari (c.d. di protezione o di sicurezza; di comportamento positivo o negativo, etc.) imputabili in astratto alle due parti del rapporto, quando poi si passa alla fase di attuazione di questo, di tali effetti (...) non sembra essere percepibile più alcuna traccia. Eppure il senso della norma sembra essere nettamente diverso: essa non tende, infatti, ad ampliare il novero degli effetti, che, ex lege, compongono la struttura dell’obbligazione, ma a fornire al giudice un criterio di valutazione dell’attività esplicata dalle parti (...) ». (209) Si pensi, ad es., al caso della rottura di un tubo dell’acqua, di domenica a tarda ora, in un’azienda le cui chiavi di accesso siano in possesso di un’impiegata, la quale, pur abitando nelle vicinanze, si rifiuti di recarsi presso lo stabilimento per aprire la porta d’accesso ai vigili del fuoco, costringendoli con dispendio di molto tempo e fatica a spaccare una finestra: potrebbe discutersi, in effetti, della corrispondenza a buona fede di un simile comportamento, a fronte di una “sopravvenienza” di tal fatta. E in effetti, v. quanto osserva Mazzamuto, 2003, p. 650, secondo il quale la stessa buona fede integrativa, sulla base di standard valutativi, « consente di modificare, sospendere, o ridurre l’applicazione di regulae juris per ragioni di etica materiale, vale a dire di raccordo tra le regole formali ed i valori sociali ed etici (...) »; v. anche Di Majo, 1991, p. 794, secondo cui ambedue le concezioni della buona fede sembrano in fondo « concordare su un’esigenza di fondo, e cioè 252 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore le porte a una concezione della buona fede come clausola a disposizione del giudice, diretta a fondare una valutazione ex post dell’attività delle parti, in pratica « un giudizio di secondo grado, articolato secondo la struttura dell’exceptio doli generalis, e condotto a posteriori al fine di garantire l’effettiva realizzazione dell’assetto di interessi delineato dal regolamento contrattuale, eventualmente correggendo gli esiti di una (...) applicazione formalistica » dello stesso (210). Non può farlo, perché si finirebbe per assegnare alla buona fede una funzione correttiva, che, in quanto clausola generale, non le appartiene, con un innegabile avvicinamento all’equità (211). Ciò rappresenterebbe proprio l’esatto contrario di quanto il legislatore del codice ha inteso perseguire. Bisogna, invece, ribadire che correttezza e buona fede incidono direttamente sul contenuto del rapporto obbligatorio, imponendo alle parti modelli di condotta ispirati a canoni di moralità sociale, tecnicamente sintetizzabili nella forma dell’obbligo. Ciò appare coerente rispetto ai tratti tipici delle clausole generali, quali conche l’impiego della buona fede non interessa tanto l’astratta costruzione della regola contrattuale, quanto il suo svolgimento ex fide bona, onde la buona fede deve rivelarsi quale criterio destinato a regolare principalmente la fase dello svolgimento del contratto, specie a fronte di circostanze emergenti in detta fase e non previste al momento della conclusione ». Certo è, invece, che la buona fede, se concepita in funzione integrativa ex art. 1374, come qui si ritiene, diviene inconciliabile con quelle costruzioni che configurano l’abuso come esercizio del diritto contrario a correttezza: cfr. Salvi, 1988, p. 3, che ben rileva come la tematica dell’abuso si riferisce, infatti, « non all’imposizione di regole di condotta ulteriori rispetto a quelle poste dalle parti o dalle legge; ma al controllo sulle modalità di svolgimento della condotta, oltre l’osservanza della regola, comunque essa sia posta »; sul punto cfr. pure Restivo, 2007 p. 153 s. (210) Le parole sono di Restivo, 2007, p. 149 s., ma sulla scorta del pensiero di Natoli, 1974, pp. 4 e 39. (211) Lo ammette lo stesso Natoli, 1974, p. 5, nt. 8, laddove osserva che « in questo senso può essere facile la confusione del criterio in esame con l’equità ». È, peraltro, da escludere che una funzione correttiva della buona fede possa passare attraverso l’art. 1366 c.c. (come invece ritiene Bigliazzi Geri, 1991, p. 216 ss.): sul versante giuslavoristico, la questione è emersa come delicata a proposito dell’interpretazione del contratto collettivo, ove si è osservata la tendenza surrettizia della giurisprudenza a « ritagliarsi una maggiore area di manovra (...), fino a giungere talora ad una sorta di integrazione del regolamento negoziale »: Carinci F., 2000, XIII; criticamente, infatti, circa tale tendenza Gragnoli, 2004, p. 185 ss., spec. p. 189 ss., per il quale « se è inevitabile un ruolo creativo della giurisprudenza, con implicazioni innovative, è diverso invitare ad una correzione delle indicazioni convenzionali sulla base dei valori fondanti dell’ordinamento, travasati nel contenuto negoziale per mezzo dell’art. 1366 c.c. ». 253 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore gegni volti a sollecitare la produzione di regole ulteriori, destinate a combinarsi, nell’ambito normativo in cui operano, con quelle già esistenti. L’integrazione del regolamento contrattuale mediante norme sociali di condotta espressive di buona fede dà vita a una serie di obblighi, che appaiono precipuamente finalizzati a imporre « l’osservanza di un complesso di cautele normalmente necessarie » alla salvaguardia dell’altrui sfera giuridica in vista del « pieno e integrale raggiungimento dello scopo dell’obbligazione » (212). Esigenze prettamente dogmatiche hanno indotto per lo più a ricomprenderli entro la categoria concettuale degli “obblighi di correttezza”, detti anche “obblighi di protezione” (Schutzpflichten) o “obbligazioni di sicurezza” (obligations de sécurité), distinguendovi all’interno diversi comportamenti, tra cui quelli di comunicazione, di avviso, di cooperazione, di segreto, di conservazione, tutti funzionali alla salvaguardia della sfera giuridica altrui, esposta a potenziale pericolo per effetto del contatto sociale instauratosi tra le parti in forza del rapporto obbligatorio (213). Il richiamo a tale categoria è stata discussa, probabilmente non del tutto a ragione (214), ma, a prescindere dal suo impiego, è (212) Mengoni, 1954, p. 204. (213) Benatti, 1960, p. 1344 ss.; Castronovo, 1990, passim. (214) Larga parte della dottrina italiana si è schierata a favore di tale categoria: tra gli altri, cfr. Betti, 1953, pp. 68 ss. e 99; Mengoni, 1954, p. 638 ss.; Mancini, 1957, pp. 3 ss. e 81 ss.; Cattaneo, 1958, 91 ss.; Benatti, 1960, p. 1342 ss.; Id., 1991, p. 221 ss.; Giugni, 1963, p. 153; Scognamiglio R., 1968, p. 670 ss.; Carusi F., 1962, p. 711 ss.; Castronovo, 1990, p. 1 ss.; Id., 2006, p. 443 ss., ove si ricorda, peraltro, come la categoria « avesse cominciato a circolare in dottrina già alla fine dell’ottocento in materia di infortuni sul lavoro » (p. 448, nt. 12); Visintini, 2006, p. 239 ss.; Pisani, 2004, p. 85 ss.; Ferrante, 2004, p. 43; Nogler, 2007, p. 622 ss.; Gragnoli, 2010, p. 33 ss., almeno nella misura in cui vi riconduce l’art. 2087 c.c.; Lambo, 2007; Mormile, 2013, p. 34 ss.; le critiche sembrano soprattutto incentrarsi sull’origine tedesca della teoria degli obblighi di protezione e sul fatto che in Germania tale teoria è stata chiamata a colmare lacune del BGB in tema di inadempimento inesistenti nel nostro codice civile. In realtà, però, i detrattori della teoria paiono soprattutto animati dal rifiuto di accedere ad una ricostruzione dell’obbligazione nei termini di rapporto complesso, finendo così, da un lato, per configurare tali obblighi quali mere specificazioni della prestazione principale e, dall’altro, per ritenere la categoria dei doveri di protezione una inutile superfetazione: v. Natoli, 1974, p. 14 ss.; cfr. anche Bianca, 1983, p. 211; Saffioti, 1999, passim; Castelvetri, 2001, p. 241; si veda ancora Ciccarello, 1988, il quale esclude comunque che il fondamento di tali doveri risieda negli artt. 1175 e 1375 c.c. e Majello, 1958, p. 58 s., che rinviene tale fondamento nell’art. 1176 c.c.; in realtà, una volta data per accolta la concezione dell’obbligazione come rapporto complesso, sembra che quella dei doveri di 254 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore indubbio che quelli originati dagli artt. 1175 e 1375 siano obblighi secondari, collaterali o accessori rispetto alla prestazione principale di lavoro: obblighi a carattere reciproco, come vuole l’art. 1175 c.c., proprio perché diretti complessivamente a « “pilotare” il rapporto obbligatorio verso quel risultato integralmente utile che esso è di per sé volto a realizzare » (215). Essi sono coerenti con una concezione dell’obbligazione alla stregua di rapporto a struttura complessa, ove al nucleo costituito dall’obbligo di prestazione accede un’altra serie di obblighi e doveri, posti a carico dell’obbligato, ma anche dell’avente diritto, fra di loro connessi e in vario modo correlati al primo (216). Non è un caso che si oppongano al riconoscimento della categoria delle Schutzpflichten proprio coloro i quali optano per una ricostruzione dell’obbligazione in termini di rapporto a struttura lineare. Essi finiscono così per ricondurre direttamente all’adempimento dell’obbligazione anche quei contegni diretti a preservare i beni personali e patrimoniali del creditore, valutandone, a tal punto, l’adempimento a stregua di diligenza (217). Non si accorgono, però, che, così facendo, giungono a gravare il solo debitore di un dovere di salvaguardia dell’altrui sfera giuridica e non entrambi i soggetti del rapporto. Occorre, invece, riconoscere come la salvaguardia dei beni personali e patrimoniali chiami in causa obblighi reciproci ex artt. 1175 e 1375, costituenti parte integrante del regolamento contrattuale ex art. 1374, da valutarsi, a propria volta, secondo il metro della buona fede, obblighi diversi e autonomi nel contenuto dalprotezione sia categoria meglio di ogni altra capace di offrire uno statuto definitivo e una collocazione dogmatica soddisfacente a certi obblighi nell’ambito della responsabilità contrattuale; per un suo riconoscimento, v., peraltro, Corte Cost., 28 febbraio 1992, n. 74, di cui fu redattore proprio Mengoni. (215) Castronovo, 1990, p. 1. (216) Mengoni, 1984, p. 512; Castronovo, 1990, p. 1. (217) V. ad es. Bianca, 1983, p. 502; ma soprattutto Natoli, 1974, p. 14 ss.; criticamente, invece, Mengoni, 1984, p. 509, quando afferma che « non mancano voci che negano autonomia agli obblighi di protezione e li riconoscono, nell’ambito del rapporto obbligatorio, solo nella misura in cui sono analizzabili come parti non-indipendenti del contenuto dello stesso obbligo principale di prestazione. Ma gli attacchi dei critici nostrani sono abbastanza facilmente rintuzzabili già sulla base degli indici normativi da essi utilizzati: per esempio l’art. 1681 (...). E analogamente si dica, per fare un altro esempio, a proposito dell’obbligo del datore di lavoro previsto dall’art. 2087 ». 255 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore l’obbligo di prestazione, siccome finalizzati alla garanzia del precipuo interesse di protezione di ciascuna parte, e persino — è stato osservato — « di terzi legati a una di esse da particolari rapporti che li associano al medesimo rischio specifico » (218). L’autonomia di tali obblighi è testimoniata dal fatto che essi comprendono condotte « la cui inosservanza lede o mette a repentaglio l’interesse di protezione del creditore, ma non pregiudica altresì l’interesse positivo alla prestazione, vale a dire non esclude che la prestazione principale sia stata o possa essere ancora esattamente adempiuta » (219). Proprio in ragione di tale autonomia, gli obblighi in parola possono investire il contegno della parti « anche nella fase successiva alla cessazione del vincolo di prestazione, mantenendo in vita il rapporto obbligatorio sotto specie di uno o più obblighi rispondenti a un eventuale interesse residuo di protezione » (220). Come s’intende, la buona fede agisce, allora, secondo un duplice senso: costituisce gli obblighi di protezione e ne individua al tempo stesso i contenuti, seppur in maniera non predeterminabile una volta per tutte, per le caratteristiche stesse della clausola generale, di rinvio a parametri di moralità sociale mutevoli nel tempo, da ricercarsi volta per volta in aderenza alle circostanze del caso concreto. La costituzione degli obblighi a stregua di buona fede si spiega, come visto, grazie alla funzione integrativa del regolamento negoziale assegnata alla citata clausola in sede di esecuzione del contratto. Sotto tal profilo la buona fede si atteggia a “fonte” degli obblighi medesimi (artt. 1374-1375 c.c.). L’individuazione del contenuto di questi ultimi si spiega, invece, in ragione del ruolo (218) Mengoni, 1984, p. 510. (219) Mengoni, 1954, p. 369. (220) Ibidem, p. 394; la sopravvivenza di tali obblighi non potrebbe, peraltro giustificarsi, né quindi ammettersi qualora, invece, li si volesse ricondurre tutti entro la prestazione principale, negandone il contenuto autonomo; peraltro, secondo Castronovo, 2006, p. 443 ss. l’autonomia di detti obblighi (anche sul piano delle fonti, che l’A. ritiene essere legale e non negoziale) consentirebbe addirittura di ammettere l’esistenza di « obbligazioni senza prestazione », cioè di obblighi di protezione ab origine avulsi da un obbligo di prestazione primario. Una tale prospettiva parrebbe evocare la figura di origine tedesca del contratto con effetti protettivi a favore del terzo, che sembra aver trovato un certo spazio anche in giurisprudenza: v. Cass. civ., sez. III, 22 novembre 1993, n. 11503, in GI, 1994, I, 1, p. 550 ss., con nota di Carusi D.; Cass. civ., sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589, ivi, 2000, p. 740 ss., con nota di Pizzetti. 256 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore attribuibile alla clausola, di direttiva per la ricerca all’esterno di standards di condotta, poiché non v’è dubbio che rispetterà l’interesse di protezione della controparte solo chi si conformerà a tali standards di corretto comportamento, desunti dalla realtà sociale. Sotto tal profilo, la buona fede si atteggia a strumento di “concretizzazione” del contenuto (221), sia pur non predeterminabile ex ante, degli obblighi di protezione. A propria volta, la lesione dell’interesse di protezione prodotta da contegni della controparte causalmente connessi all’esecuzione del contratto (222) cambia, a questo punto, natura: da illecito civile si trasforma in una fattispecie di inadempimento contrattuale ex art. 1218 c.c. Ciò vuol dire che il comportamento contrario a un obbligo di protezione ben potrà assumere « rilevanza giuridica indipendentemente dalla produzione di un danno attuale, in funzione dei rimedi della risoluzione del contratto e dell’eccezione di inadempimento » (223). Da quanto detto finora appare chiaro che la buona fede, quale fonte di obblighi secondari e accessori, nonché strumento di individuazione del loro contenuto, resta estraneo all’obbligo principale (221) Come afferma Breccia, 1968, p. 131 pur non condividendo la teoria degli obblighi di protezione, « la funzione svolta dalla regola della buona fede è certamente una funzione costruttiva, nel senso di dare pienezza di estrinsecazione al contenuto dell’obbligo. Tale funzione (...) ribadisce l’impossibilità di definire a priori l’obbligo nella sua interezza (...) ». (222) L’accessorietà, cioè il fatto che si tratti comunque di obblighi nascenti dal contratto (così Mengoni, 1954, p. 369 s., nt. 17; per il fondamento legale v., invece, Castronovo, 1990, p. 4, che da qui giunge, poi, a ipotizzare l’esistenza di « obbligazioni senza prestazione »), che concorrono con l’obbligo principale di prestazione alla realizzazione dello scopo complessivo del rapporto obbligatorio, fa sì che in sede di responsabilità contrattuale si richieda non un rapporto di mera di occasionalità necessaria, bensì una relazione di causalità con l’adempimento della prestazione in caso di responsabilità contrattuale: Mengoni, 1954, p. 369, nt. 15; cfr. pure Castronovo, 1990, p. 8, secondo cui « la gamma delle lesioni da ascrivere all’ambito contrattuale (...) sono soltanto quelle che rientrano nell’area dei costi di attuazione del rapporto obbligatorio »; diversamente Di Majo, 1988, pp. 122, 125, 316 e 323; Mastrandrea, 1994, p. 60; Pisani, 2004, p. 116. (223) Mengoni, 1984, p. 510; ma, in ipotesi di recesso dell’imprenditore dal contratto di lavoro, v. Trib. Genova, 11 aprile 2013, cit., il quale anche dal carattere non tipizzato degli obblighi di correttezza e buona fede (in particolare, dal fatto che il lavoratore aveva trasgredito propriamente non gli obblighi codificati nell’art. 2105 c.c., bensì solo a quelli di cui alle succitate clausole generali) ha curiosamente dedotto la non particolare gravità della loro violazione e dunque l’insussistenza di una giusta causa di licenziamento, seppur di rilievo tale da meritare una mera sanzione indennitaria ex art. 18, 5° comma, St. lav. 257 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore di prestazione del debitore (224). Per tal motivo è da escludere che l’art. 1375 serva a funzionalizzare la prestazione del debitore in funzione del risultato (225). La clausola ivi contenuta non può importare una riconfigurazione dell’obbligo primario gravante sul debitore, con un contestuale allargamento del contenuto della prestazione stessa, in vista della garanzia dell’interesse creditorio al risultato finale e ciò perché gli artt. 1175 e 1375 c.c. non sono affatto chiamati a incidere direttamente sul dovere di prestazione. Alla valutazione di quest’ultimo è stato, invero, sempre preposto l’art. 1176 c.c. (226). Con il che diviene altresì netto il distinguo tra diligenza e correttezza-buona fede, entrambe dirette ad operare in fase esecutiva del contratto, ma con diversa funzione: la prima deputata a intervenire su un obbligo del debitore già individuato a livello contenutistico (227) e a fungere da strumento di controllo delle modalità dell’esatto adempimento; la seconda chiamata a costituire obblighi a carico di creditore e debitore in sede di integrazione degli effetti del negozio e a stabilirne il contenuto, avuto riguardo a parametri di condotta desunti dalla realtà sociale non predeterminabili una volta per tutte, ma desumibili volta a volta in base alle circostanze del caso concreto. (224) Castronovo, 1990, p. 4; v. pure Breccia, 1968, p. 131, laddove sottolinea che « la buona fede è regola di determinazione o di esecuzione di un’attività accessoria, ma diversa dalla prestazione in senso stretto »; anche sotto tal profilo non pare condivisibile Cass. civ., sez. lav., 24 giugno 1995, n. 7190, cit., secondo cui « correttezza e (...) buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. non creano obbligazioni (...), bensì rilevano o come modalità di generico comportamento delle parti ai fini della concreta realizzazione delle rispettive posizioni di diritti ed obblighi, oppure come comportamento dovuto in relazione a specifici obblighi di prestazione (corsivo nostro) ». (225) Diversamente, invece, Persiani, 1966, p. 228 ss., che conviene sull’autonomia dei soli obblighi di correttezza e non di quelli di buona fede (p. 232, nt. 365), la cui violazione « si traduce sempre nell’inadempimento dell’obbligazione principale » (p. 233). Negando detta autonomia, l’Autore perviene ad affermare, con precipuo riferimento al contratto di lavoro, che « l’integrazione dello schema del contratto determinata dalla direttiva di buona fede, influisce, quindi, direttamente sulla struttura e sull’oggetto delle obbligazioni (...) » (p. 231), sicché da tale integrazione deriva « essenzialmente una qualificazione del comportamento dovuto in funzione del risultato atteso » (p. 233). (226) Castronovo, 1990, p. 4. (227) Di Majo, 1988, p. 455 osserva che la diligenza « presuppone già l’individuazione dell’obbligo in base al quale il debitore è tenuto ad assumere comportamenti volti a salvaguardare l’interesse del creditore ». 258 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore II. Rapporto di lavoro e obblighi del prestatore: il ruolo delle clausole generali di buona fede e correttezza. 4. La buona fede e la correttezza come clausole generali: dal diritto civile al diritto del lavoro. 4.1. Norme generali e clausole generali nel diritto del lavoro. È stato opportunamente osservato che, sebbene il diritto del lavoro abbia storicamente rappresentato un terreno fecondo per l’impiego di clausole generali ad opera dei giudici (v. infra, § 4.2.), l’attenzione degli studiosi e dei magistrati stessi è apparsa per lo più concentrata su quelle qui qualificate come “norme generali” o “elastiche”, ovvero, per meglio dire, su enunciati normativi contenenti concetti “elastici” o “generali” (228), quali, ad esempio, « giusta causa », « giustificato motivo » (artt. 2119 c.c., 1 e 3 l. n. 604 del 1966, 18 St. lav., 30, comma 3, l. 183 del 2010), ma anche « ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo » (art. 1 d.lgs. n. 368 del 2001; art. 20, 4° comma, d.lgs. n. 276 del 2003), « comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive », « mansioni equivalenti » (art. 2103 c.c.), « esigenze tecnico produttive e organizzative » (art. 5, 1° comma, lett. c), l. n. 223 del 1991). Ciò non deve stupire, se si considera che il diritto del lavoro, in quanto volto a disciplinare un rapporto tra soggetti posti su un piano di disparità sostanziale, ha costruito la sua specialità attraverso una « fuga dal diritto civile » (229), ispirato piuttosto a un’ottica di parità formale tra le parti. Lo ha fatto, nella specie, tramite la legificazione di regole ad hoc, poste a tutela del presta(228) Nogler, 2009. (229) Carinci F., 2007a, p. 2, che osserva, peraltro, come il diritto privato sia « padre di innumerevoli figli, tutti ospitati nel codice civile del 1942 (...); fra questi il più ribelle è stato fin dall’inizio, il diritto del lavoro, non per nulla esiliato fuori da quel libro IV contenente il diritto “comune” delle obbligazioni e delle loro fonti » (p. 1); sul rapporto tra diritto civile e diritto del lavoro o, più in generale, diritti speciali, Santoro-Passarelli G. (a cura di), 1992; Mazzotta, 1994; Mengoni, 1990a, p. 5 ss.; Scognamiglio R., 1994, p. 245 ss.; Napoli, 2008, p. 253 ss.; Ichino, 2011, p. 1 ss. 259 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore tore, diverse da quelle del diritto delle obbligazioni e dei contratti (230). Si tratta di una scelta comprensibile per un diritto segnato da importanti esigenze di inderogabilità, specialità ed effettività della disciplina (231). Invero, se si fosse battuta la diversa via del mero impiego di clausole generali in funzione integrativa del regolamento contrattuale, nessuna delle tre menzionate esigenze avrebbe ricevuto idonea soddisfazione e la tutela del prestatore sarebbe stata realizzata in maniera certo meno pregnante: non la prima e la seconda esigenza, perché ci si sarebbe limitati a immettere mere dosi di solidarismo contrattuale nel rapporto tra le parti, invece che riequilibrarne le reali disparità, in nome di obiettivi di giustizia sociale; non la terza, perché comunque detta immissione sarebbe stata delegata al giudice, invece che realizzata direttamente dal legislatore, con inevitabili ricadute negative in termini di certezza del diritto. La tendenza a risolvere il problema della disparità di potere tra le parti del contratto di lavoro attraverso regole normative ad hoc affiora, del resto, già nel codice civile del 1942, nell’ottica della protezione del lavoratore quale “contraente debole”: si pensi all’art. 2087 c.c., che ricorrendo, peraltro, proprio a un concetto “generale” ed “elastico” (232) — quale quello di « misure (...), secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, (...) necessarie a tutelare l’integrità (...) del prestatore » — ha tipizzato un dovere di sicurezza prima desumibile dal (solo) dovere di correttezza per via d’integrazione giudiziale del regolamento contrattuale (v. infra, § 4.2.). Lo stesso accadrà anche successivamente, nella stagione della c.d. legislazione garantista, quando la normativa speciale del la(230) Per una ricostruzione dell’evoluzione storica del diritto del lavoro italiano v. Giugni, 1979; Romagnoli, 1995, p. 11 ss.; Mengoni, 2000, p. 181 ss. (231) Sui connotati del diritto del lavoro come sistema normativo autonomo e speciale v. già, Viesti, 1946, p. 8 ss.; Scognamiglio, 1960, p. 83 ss.; Santoro-Passarelli F., 1967, p. 3 ss. (232) Albi, 2008, pp. 79 e 81, che sottolinea come il giudice, nel riempire di contenuto il principio della massima sicurezza tecnologica, non debba rifarsi a una funzione meramente ricognitiva di standards sociali di condotta (p. 80); invece, per la tesi secondo cui « l’art. 2087 si pone (...) come clausola generale e valvola di chiusura del sistema prevenzionistico » Mazzotta, 2008, p. 538; per un accenno in tal senso v. pure Montuschi, 1986, p. 78 e, in giurisprudenza, Cass. civ., sez. lav., 6 settembre 1988, n. 5048, in GC, 1988, I, p. 2871, con nota di Marino. 260 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore voro si arricchirà di discipline fondamentali, nell’ottica della tutela del prestatore come “persona” (233). In quest’ambito una parte di rilievo la giocheranno proprio le norme contenenti concetti “generali” o “elastici”, viste e vissute in funzione dell’apposizione di limiti ai poteri dell’imprenditore (v. i già menzionati artt. 1, 3 l. n. 604 del 1966 e art. 2103 c.c., novellato dall’art. 13 St. lav.). Si è ricordato, non a caso, come la legificazione dei concetti di « giusta causa » e di « giustificato motivo » abbia, ad esempio, reso del tutto superflue ricostruzioni, pur avanzate in dottrina prima dell’emanazione della l. n. 604 del 1966, dirette a dedurre la illiceità del licenziamento individuale dalla violazione dell’art. 4 Cost., per il tramite del richiamo alla clausola generale dell’ “ordine pubblico” (art. 1345 c.c.) (234). Si noti, peraltro, che la tipizzazione di concetti come quelli giusta causa e giustificato motivo tende ad avere un effetto anche indiretto di ridimensionamento dell’impiego di clausole generali, considerato che l’assenza di giustificazione del licenziamento importa la vera e propria invalidità dell’atto, mentre la violazione degli obblighi di correttezza e buona fede fa scattare il mero rimedio risarcitorio. Così, con riferimento alla disciplina precedente alla l. n. 92 del 2012, ove si fosse affermato l’obbligo del datore di far precedere al licenziamento economico un confronto a fini solutori con il prestatore di lavoro, ebbene sarebbe stato preferibile, quanto alla tutela del prestatore stesso, ancorare tale obbligo direttamente al giustificato motivo oggettivo, invece che al dovere di correttezza, per le conseguenze sanzionatorie più forti connesse alla inottemperanza dell’art. 3 l. n. 604 del 1966 rispetto a quelle collegate all’inosservanza degli artt. 1175 e 1375 c.c. (235). La tecnica normativa per “norme generali” o “elastiche” troverà comunque largo impiego anche nella successiva stagione della c.d. legislazione flessibile, specie nel passaggio dalla fase della c.d. deregolazione “controllata” a quella della c.d. deregolazione (233) Sulla legislazione statutaria v. Ghezzi, Mancini, Montuschi, Romagnoli (a cura di), 1972; Prosperetti U. (diretto da), 1975; Giugni (diretto da), 1979. (234) Nogler, 2009, con richiamo alla ricostruzione di Natoli, 1951, p. 118 e Id., 1954, p. 285 ss. (235) Ibidem. 261 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore “secca” (236). Le vicende normative in materia di lavoro flessibile ne rappresentano testimonianza emblematica. Si pensi, nell’ambito del contratto a termine, alla transizione da una tecnica legislativa per tassativi “casi di specialità”, sia pur ampliabili dalla contrattazione collettiva (l. n. 230 del 1962 e l. n. 56 del 1987), a una disciplina imperniata sulla sussistenza di più generali « ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo » (d.lgs. n. 368 del 2001), secondo un trend destinato, peraltro, a riprodursi sul contiguo versante della fornitura di lavoro temporaneo, oggi somministrazione a tempo determinato (dalla l. n. 196 del 1997 al d.lgs. n. 276 del 2003). Ebbene, se si pone mente a ciò, sarà facile comprendere il ruolo ancora una volta primario recitato dalle norme contenenti concetti “elastici” o “generali”, norme ora concepite, però, quali strumenti di “liberalizzazione” del lavoro flessibile, benché in un contesto ancora dominato dalla regola secondo cui « il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro » (art. 1, comma 01, d.lgs. n. 368 del 2001) (237). V’è da chiedersi, venendo ai nostri giorni, cosa ne è stato della tecnica legislativa per “norme generali” o “elastiche” nell’odierna stagione della globalizzazione dei mercati e della crisi. Sembra di poter ritenere che, a fronte delle accresciute difficoltà economiche e delle sollecitazioni provenienti dallo stesso versante europeo per una flessibilizzazione ulteriore del mercato del lavoro nazionale (238), l’attenzione normativa resti solo in parte focalizzata su tali “norme generali” o “elastiche” (invece che sulle clausole generali) (239), peraltro allo scopo di stemperarne il più possibile gli (236) Il termine è impiegato in senso lato, nella consapevolezza del fatto che l’ordinamento italiano non ha mai chiuso del tutto le porte a forme di coinvolgimento del sindacato, sia pur progressivamente sempre minori; sul tema Lunardon, 2009, p. 153 ss. (237) Sul lavoro a termine e la sua progressiva liberalizzazione v. Montuschi, 2006, p. 109 ss. e, poi, più di recente Gragnoli, 2014, p. 429 ss. Miscione, 2014a, p. 5 ss.; Saracini, 2013; Bollani, 2013; Del Punta, Romei (a cura di), 2013; Franza, 2010. (238) Perulli, Speziale, 2011, p. 1 ss.; Carinci F., 2012, p. 531 ss.; Carinci M.T., 2012, p. 528 ss.; Speziale, 2012, p. 523 ss. (239) E ciò per la tendenza a ravvisare nelle “norme generali” un ostacolo a quella « calcolabilità del diritto », vista e vissuta, oggi, come indispensabile al perseguimento dell’efficienza economica: ma per riflessioni giustamente problematiche sul punto, v. Del Punta, 2014, spec. p. 380 ss.; sulle tecniche normative nella legislazione della flessibilità, da ultimo, Calcaterra, 2014, p. 1286 ss. 262 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore effetti di rigidità nei confronti dell’impresa. L’intervento del legislatore si snoda, a riguardo, lungo un triplice versante: l’indebolimento ulteriore (rispetto al passato) della inderogabilità tipica della “norma generale” o “elastica”; l’alleggerimento dell’apparato sanzionatorio connesso alla violazione della “norma generale” o “elastica”, se non, addirittura, l’eliminazione della norma stessa; la limitazione dei poteri giudiziali connessi all’applicazione della “norma generale” o “elastica”. Con riguardo al primo versante, il riferimento è, anzitutto, alla legislazione sul lavoro a termine e somministrato, ove l’incidenza limitativa delle « ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo » (vecchio art. 1, 1° comma, d.lgs. n. 368 del 2001; art. 21, 4° comma, d.lgs. n. 276 del 2003) è stata prima ridimensionata ex lege, poi del tutto cancellata dalla liberalizzazione completa delle tipologie contrattuali in parola (l. n. 92 del 2012 e poi d.l. n. 34 del 2014, conv. in l. n. 78 del 2014) (240). È, inoltre, più in generale, l’art. 8 d.l. n. 138 del 2011 conv. in l. n. 148 del 2011 a meritare specifica menzione, laddove autorizza il « contratto collettivo di prossimità » a derogare, a certe condizioni, ma senza confini di sorta, alle “norme generali” o “elastiche” limitative dei poteri imprenditoriali nelle materie di cui al suo 2° comma, tra cui quelle delle mansioni, del contratto a termine, della somministrazione, delle conseguenze del recesso, salvo il solo rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli normativi comunitari e internazionali (241). Quanto al secondo versante, riguardante l’alleggerimento dell’apparato sanzionatorio connesso alla violazione di “norme generali” o “elastiche”, è emblematico l’art. 18 St. lav., come riformato dalla l. n. 92 del 2012, che ha modificato il sistema rimediale contro il licenziamento privo di giusta causa e di giustificato motivo, disarticolando la condizione di illegittimità del recesso a fini riduttivi dell’ambito applicativo della sanzione restitutoria (v. del resto, ora, in direzione ancor più radicale, la l. n. 183 del 2014 e il d.lgs. n. 23 del 2015, recante disposizioni in materia di contratto a tempo (240) Gragnoli, 2014, p. 429 ss.; Carinci F., 2014, p. 1 ss.; Miscione, 2014b, p. 1243 ss.; Magnani, 2014, p. 1 ss., Zoppoli L., 2014, p. 1 ss.; Brollo, 2014, p. 566 ss. (241) Leccese, 2012, p. 479 ss.; Carinci F. (a cura di), 2012; Liso, 2012, p. 20 ss.; Lunardon, 2014, p. 35 ss. 263 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore indeterminato a tutele crescenti (242)), con un’indiretta incidenza, secondo certe opinioni, sugli stessi presupposti sostanziali del potere datoriale estintivo del rapporto e sugli spazi del relativo controllo giudiziale (243). Il tema ci conduce così al terzo versante, quello dei limiti all’attività valutativa del giudice nell’applicazione di “norme generali” o “elastiche”. Qui la mente corre subito all’art. 30 l. n. 183 del 2010 (244). Vi si riscontra una palese volontà del legislatore, da un lato, di arginare il sindacato del giudice sulle ragioni tecnicoorganizzative di cui alle “presunte” (245) « clausole generali » (per noi “norme generali” o “elastiche”) « in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso », con l’ulteriore previsione della possibilità di impugnativa « per violazione di norme di diritto » (1° comma); dall’altro, di ancorare il più possibile la valutazione dell’organo giudiziario in materia di giusta causa e di giustificato motivo alle « tipizzazioni (...) presenti nei contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi (...) » (3° comma). È questa una linea di tendenza destinata a trovare viepiù conferma nell’art. 18 St. lav., come novellato dalla l. n. 92 del 2012, secondo cui il giudice annulla il licenziamento e applica la tutela reintegratoria “minor”, qualora l’assenza di giusta causa o di giustificato (242) In tema Rusciano, Zoppoli L. (a cura di), 2014, p. 1 ss.; Carinci F., 2015, p. 1 ss.; Speziale, 2014, p. 1 ss. (243) Cfr. Tullini, 2013, p. 147 ss., ove si sostiene che l’intervento di riforma dell’art. 18 St. lav. abbia mutato non solo il sistema dei rimedi, ma anche le caratteristiche tecniche e morfologiche del recesso; su posizioni più sfumate Carinci F., 2013, p. 461 ss., secondo il quale il nuovo art. 18 St. lav. avrebbe inciso sulle condizioni del recesso datoriale ma solo “per reazione”, poiché senza toccare direttamente le nozioni di « giusta causa » e di « giustificato motivo », avrebbe attribuito capacità estintiva (anche) ad un licenziamento disciplinare collegato a un inadempimento meno che notevole, eppure di gravità superiore a quelli suscettibili di mera sanzione conservativa. Detto licenziamento, tuttavia, rimanendo illegittimo, giacché privo di « giustificato motivo soggettivo », darebbe diritto comunque a un’indennità economica in favore del lavoratore, oltre che al preavviso. Insomma, sarebbe come dire che, per effetto della riforma del sistema rimediale, anche un inadempimento meno che notevole, ma superiore a quelli inclusi tra le sanzioni conservative, consentirebbe al datore di sciogliere unilateralmente il vincolo contrattuale, mediante esercizio del proprio potere di recesso, sia pur con un costo economico in più. (244) In tema, Tremolada, 2011, p. 160 ss.; Benassi, 2012, p. 91 ss.; Del Punta, 2012, p. 474 ss. (245) Nogler, 2009. 264 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore motivo derivi (non solo dall’assenza), ma anche dalla riconducibilità del fatto contestato al novero delle condotte punibili con una sanzione conservativa « sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili » (4° comma). Come si dirà a breve, questo tentativo di ancoraggio della valutazione giudiziale alle disposizioni dei contratti collettivi è sintomatica di una concezione (qui non condivisa) della giusta causa e del giustificato motivo alla stregua di « clausole generali », secondo quanto dimostra, del resto, lo stesso 1° comma dell’art. 30, il quale le definisce espressamente così. È sintomatica di tale concezione, perché solo quando una norma contiene clausole generali e, dunque, risulta priva di una propria autonoma fattispecie giuridica “a monte”, il giudice è chiamato a darne “concretizzazione” mediante conformazione a standards esterni, siccome espressivi di norme sociali di condotta, che egli stesso è stato autorizzato dal legislatore a ricercare. Nelle altre ipotesi, invece, l’organo giudiziario ha pur sempre di fronte una norma giuridica completa, cioè dotata di una propria autonoma fattispecie, per quanto “generale” o “elastica”, sicché, dovendo semplicemente applicarla, alias sussumervi una serie aperta e indefinita di casi concreti, potrà tener conto (246) degli standards sociali, se coerenti con il patrimonio dei dati offerti dal legislatore per la ricerca della decisione, ma non necessariamente dovrà conformarvisi (v. retro, sez. I, § 2.3.). Certo è che il quadro evolutivo della legislazione lavoristica sin qui tratteggiato è assai diverso da quello legato ai più recenti sviluppi della normativa civilistica, specie del diritto europeo dei contratti. Negli ultimi decenni, a fronte dell’emergere di inedite situazioni di squilibrio sostanziale tra le parti negoziali, « aumenta il peso del diritto imperativo e l’autonomia contrattuale conosce nuovi limiti » (247). A propria volta, la tecnica legislativa per clausole generali è parsa più di ogni altra idonea a immettere nel sistema una certa dose di solidarismo, senza sacrificare una « flessibilità » essenziale in un ordinamento giuridico europeo orientato a perseguire l’armonizzazione del diritto privato a mezzo della soft (246) E non, invece, « tiene conto », come afferma in maniera assertiva il testo dell’art. 30, 3° comma. (247) Patti, 2013, p. 105. 265 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore law (248). La normativa comunitaria abbonda, dunque, di riferimenti alla buona fede (249), come pure alla ragionevolezza, concepiti in un’ottica di razionalizzazione del mercato, con una risposta alle asimmetrie informative « affidata al principio di solidarietà e alla considerazione della posizione » nella quale « si trova l’altro » (250). Non v’è dubbio che una tale tendenza inneschi poi, al tempo stesso, problemi di non poco momento, tra cui quello della delimitazione concettuale e funzionale tra le diverse figure, visto che alle clausole generali i testi di matrice europea affiancano sovente legal standards, principi, “norme generali” o “elastiche” (251). V’è, del resto, chi solleva dubbi sulla scelta metodologica del giurista europeo, di avvalersi di una tecnica, la quale amplia notevolmente il margine di discrezionalità giudiziale rispetto al potere legislativo (252). Ciò chiama evidentemente in causa la stessa delicata questione dei rapporti tra Corte di Giustizia e giudici nazionali nella “concretizzazione” delle clausole generali presenti, ad esempio, nell’ambito delle direttive europee. È stato osservato che tali rapporti dovrebbero ispirarsi a una certa dialettica, affinché possa (248) Ibidem, p. 69, che imputa il ricorso alle clausole generali anche al fatto che « nella società moderna (...) il legislatore si trova a rincorrere il progresso della tecnica e l’evoluzione della società, mentre nel contempo si è ancora accresciuta la sensibilità per una decisione che tenga conto delle peculiarità del caso concreto ». (249) Anche se non manca chi ritiene che la proiezione sul versante europeo e sovranazionale della buona fede ne abbia determinato l’assunzione di caratteri « più sfumati »: Cruciani, 2011, p. 475; v. anche Barcellona M., 2006, p. 290 s., che ravvisa nella moltiplicazione dei rinvii alla buona fede e alla ragionevolezza all’interno del diritto europeo un segnale del primato del mercato a scapito della politica. (250) Navarretta, 2012, p. 4. (251) Patti, 2013, p. 69. (252) Navarretta, 2012, p. 8; anche Patti, 2013, p. 69 osserva come « nelle direttive e — ancor più — nei progetti di codice civile europeo » si riscontri « sovente un numero eccessivo di clausole generali che suscita perplessità, sia alla luce dell’antico monito secondo cui un “abuso di clausole generali” comporta un ingiustificato trasferimento di responsabilità da parte del legislatore al giudice, sia perché in molti casi si determina soltanto un’illusione di armonizzazione »; cfr., inoltre, Barcellona M., 2006, p. 289 ss., che nella moltiplicazione, all’interno dei principi di diritto europeo dei contratti, dei rinvii alla buona fede e alla ragionevolezza — « ben rinserrate », queste ultime, « dentro una logica funzionale che le lega (...) alle prassi e agli equilibri di mercato » — rinviene il segno di una tendenza al superamento del primato della legislazione, dunque, della politica, in coerenza coi processi di globalizzazione che hanno precipitato in una grave crisi le sovranità nazionali a tutto favore delle regole del mercato. 266 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore « effettivamente realizzarsi l’obiettivo di assicurare, attraverso le clausole generali, un processo di armonizzazione non rigido né calato dall’alto, ma flessibile dialogante con le realtà nazionali » (253). 4.2. Buona fede e correttezza nel diritto del lavoro. Benché il diritto del lavoro sia stato connotato, come visto, da un largo impiego della tecnica legislativa per “norme generali” o “elastiche”, manterremo qui il nostro impegno ad occuparci, per i motivi enunciati in premessa, del rapporto tra clausole di correttezza e buona fede e posizione del prestatore di lavoro. D’altronde, è noto come il diritto del lavoro medesimo abbia rappresentato uno dei settori più interessati dall’intervento delle clausole sopra menzionate (254). Il « flusso delle clausole generali » nel sistema giuslavoristico italiano ci riporta addirittura alle origini della materia, quando la bona fides contribuì in maniera consistente a forgiare i singoli istituti di un contratto di lavoro ancora « collocato nel genus locativo » (255). Potrà apparire curioso (256) che sia stato proprio un così nobile e antico istituto civilistico, la bona fides appunto, a rappresentare l’elemento costitutivo e fondante di un diritto moderno, collegato all’affiorare di nuovi rapporti di produzione e lavoro, e destinato via via ad acquisire una completa autonomia scientifica (257). Eppure ciò non deve meravigliare: nell’assenza di una disciplina organica del settore, la buona fede, per la particolare elasticità e il forte contenuto etico, si presentava più di ogni altra idonea a consentire la recezione, tramite integrazione del programma contrattuale, di quelle istanze solidaristiche tipiche di una fase d’industrialismo in ascesa. Grazie a un esteso impiego dell’art. 1124 vecchio c.c., « le norme in materia lavoristica » emergeranno, così, « da una prassi giurisprudenziale » connessa all’equità, rap(253) Navarretta, 2012, p. 8. (254) Osserva Mazzamuto, 2003, p. 656, nt. 55 che « non a caso un buon quaranta per cento delle pronunce la cui ratio decidendi si fonda sulla clausola generale di buona fede riguarda il rapporto di lavoro subordinato ». (255) Perulli, 2002, p. 4; v. anche Garofalo D., 2004, p. 8; nonché Castelvetri, 2001, p. 238. (256) Perulli, 2002, p. 4. (257) Cfr. Carinci F., 2007a, p. 1 s. 267 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore presentando « un tangibile esempio di creazione spontanea o extralegislativa del fenomeno giuridico » (258). Sarà un processo che godrà, peraltro, del pieno avallo di almeno una parte della dottrina dell’epoca. Non è un caso se Enrico Redenti, nell’esaminare le decisioni probivirali del tempo, rileverà come il consenso non sia l’unica fonte del rapporto obbligatorio, poiché la legge ne individua un’altra, sussidiaria e in qualche modo esterna, quale data dalla « pratica e dalle convinzioni dei galantuomini in proposito » (259). E sarà poi lo stesso Lodovico Barassi a sostenere che « secondo l’interpretazione migliore l’art. 1124 viene ad avere una notevole latitudine di portata », al punto da consentire di affermare che « nel contenuto dell’obbligazione complessa del conduttore d’opere, deve rientrare l’obbligo di fornire un ambiente sano di lavoro, e buoni istromenti di lavoro » (260). Da questo « seguirà la responsabilità soggettiva del conductor operarum (...) » (261). Il che corrisponde esattamente alla matrice fondativa del dovere di sicurezza, oggi consacrato dall’art. 2087 c.c. sotto la rubrica Tutela delle condizioni di lavoro. D’altra parte, è proprio una tale scelta codicistica, volta alla tipizzazione legislativa di precetti altrimenti deducibili solo dalla « comune coscienza giuridica » (262) per il tramite della buona fede, a spiegare in fondo la persistente estraneità dell’ordinamento giuridico italiano da quel fenomeno, tipico dell’esperienza d’Oltralpe, di utilizzo della menzionata clausola quale « tecnica di formazione (258) Corradini, 1970, p. 413. (259) Cfr. Redenti, 1906, p. 25, anche laddove afferma che « (...) il contratto di lavoro è (...) un contratto (art. 1098 C. civ.), soggetto quindi a tutte le regole generali sui contratti (art. 1103 C. civ.). Ora i contratti, nella loro applicazione ed esecuzione, sono regolati dalla lex a paciscentibus dicta (art. 1123 C. civ.), in quanto giuridicamente lecita e, in difetto, dalle norme di quel tipo sotto cui ciascuno di essi per la sua figura e il suo scopo va classificato (art. 1103 C. civ.). (...) Ma ho già notato (...), che il contratto di lavoro è riconosciuto e definito, come tipo, ma non è punto o quasi punto regolato dalle legislazioni vigenti (...). Combinando queste osservazioni col principio, (...) che nel nostro codice sta scritto nell’art. 1124 (ed è, come ho detto, principio di tutti i diritti positivi), se ne deriva che la legge stessa, in sostanza, ha prescritto, che il contratto di lavoro, in quanto non sia regolato dalla lex a paciscentibus dicta, debba conformarsi al tipo praticamente in uso fra galantuomini: ut inter bonos agere oportet et sine fraudatione ». (260) Barassi, 1901, p. 556. (261) Ibidem, p. 562. (262) Ibidem. 268 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore di regulae iuris » (263). Si capisce, però, come da ciò sia derivato un inevitabile ridimensionamento della portata applicativa degli artt. 1175 e 1375 c.c., persino nel corso degli anni 50’ del secolo scorso, quando l’influenza della dottrina tedesca presso quella italiana fu comunque ragguardevole. Non si creda, tuttavia, che ciò abbia implicato una totale assenza di dibattito, all’epoca, circa la rilevanza della buona fede nel rapporto di lavoro. All’interno di un contesto ancora improntato alle concezioni dominanti del ventennio corporativo e all’idea, sulla scorta delle teorie organicistiche, che ai prestatori dovesse richiedersi “una buona fede particolarmente accentuata”, nel senso più pregnante della fedeltà (264), è stata proprio la teoria civilistica degli obblighi di protezione ex artt. 1175 e 1375 c.c. (265) a guidare la reazione nei confronti di una simile idea. Da qui l’emergere di una lettura giuslavoristica della menzionata clausola generale tutta diversa, incentrata sull’effetto integrativo nei confronti dell’obbligazione del lavoratore, in termini di obblighi di sicurezza e di obblighi preparatori dell’adempimento (266). Certo, così si finiva per sottolineare i vincoli posti a carico del prestatore, invece di tracciarne un quadro riduttivo, con qualche rischio di assecondare operazioni di politica del diritto a carattere conservatore, ben testimoniate da quell’orientamento in materia di buona fede e forme anomale di lotta sindacale, che caratterizzerà la giurisprudenza dell’epoca (267). Eppure in una dimensione ancora dominata dalle ricostruzioni acontrattualistiche del rapporto di lavoro quella si presentava come l’unica via per far passare l’opzione contrattualistica: bisognava dimostrare, « nei modi di una rigorosa elaborazione dogmatica, l’idoneità del contratto a costituire la fonte di tutti gli obblighi del lavoratore, di tutte le prerogative dell’imprenditore ragionevolmente necessarie per il funzionamento dell’impresa e la sicurezza del patrimonio azien(263) Di Majo, 1984, p. 570. (264) Di Majo, 1992, p. 19, con riferimento, evidentemente, soprattutto alla concezione “bettiana” della buona fede in senso « pregnante ». (265) Mengoni, 1954, p. 368 ss. (266) Mancini, 1957. (267) Cass. civ., sez. lav., 4 marzo 1952, n. 584, in RGL, 1952, II, p. 84 ss.; Cass. civ., sez. lav., 28 luglio 1956, n. 2961, in MGL, 1956, p. 304 ss.; Cass., 19 giugno 1959, n. 1936, in FI, 1959, I, p. 254 ss. 269 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore dale, senza bisogno di ricorrere alla fedeltà, alla comunità d’impresa o ad altro che ponesse l’imprenditore su di un piano diverso da quello della pura e semplice parte di un contratto » (268). Ma il punto più alto della riflessione giuslavoristica sulle clausole generali sarà segnato, già sul finire degli anni ’70, da quelle teorie orientate a ipotizzare un recupero della buona fede e della correttezza in funzione di contenimento e razionalizzazione dei poteri datoriali (269). Si muove, qui, da specifiche esigenze protettive del prestatore, sulla scorta, ancora una volta, di un dialogo serrato con la dottrina civilistica, indirizzata già da qualche tempo a prospettare un uso delle menzionate clausole a fini di controllo dei c.d. poteri privati (270). E ciò sul presupposto che la buona fede, nella qualità di “veicolo” d’accesso delle norme costituzionali all’interno del diritto delle obbligazioni e dei contratti, serva « anche a realizzare le finalità sociali proprie dell’ordinamento » (271). Il diritto del lavoro, quale dimensione dominata dall’autorità e dalla subordinazione, deve essere apparso, in quel momento, il terreno più congeniale per un impiego degli artt. 1175 e 1375 c.c. a fini limitativi dei summenzionati poteri. In un tal contesto, la clausola di buona fede diviene tecnica di governo della discrezionalità datoriale ad opera del giudice, destinata ad aggiungersi e a cumularsi con la tecnica per norme generali, orientata, invece, per parte sua, ad affidare direttamente al legislatore il controllo di quella discrezionalità. È come, insomma, se nelle aree lasciate vuote dalle norme generali, oltre che dai contratti collettivi, si rinvenisse comunque la persistenza di spazi di discrezionalità del datore di lavoro, che, in quanto suscettibili di degenerare in arbitrio, richiederebbero un ulteriore, aggiuntivo controllo, questa (268) Mancini, 1993, p. 152; da ultimo cfr. Nogler, 2013, p. 966 ss., spec. p. 970, per alcune significative riflessioni circa l’importanza di tali tesi — a partire dall’opera di Luigi Mengoni — ai fini della « rideclinazione contrattuale di tutte le posizioni giuridiche soggettive delle parti del rapporto di lavoro subordinato ». (269) In tema, Zoli, 1988; Tullini, 1990; Fergola, 1990, p. 470 ss.; Perulli, 1992, p. 161 ss.; Id., 2002, p. 11 ss; Buoncristiano, 1986, p. 187 ss.; in giurisprudenza, v. già Cass. civ., Sez. Un., 2 novembre 1979, n. 5688, in GI, 1980, I, 1, c. 440 ss., con nota di Di Majo; per rilievi critici, in dottrina, Persiani, 1995b, p. 1 ss. (270) Di Majo, 1992, p. 18 ss.; Id., 1983, p. 344 ss. (271) Rodotà, 1969, p. 183. 270 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore volta giudiziario, da esperirsi in virtù della funzione integrativa della buona fede. Si capisce, allora, perché mai, già sul finire degli anni ’70, le Sezioni Unite della Cassazione abbiano riconosciuto, in un caso di promozione a “scelta”, il diritto del prestatore al corretto e trasparente esercizio del potere: « è il primo passo verso un uso sempre più esteso (...) delle clausole generali (buona fede e correttezza), in una proiezione (a questo punto) del tutto inedita rispetto al diritto civile ». E una ulteriore estensione del sindacato giudiziario si concreterà, poi, con l’avvio della legislazione dell’emergenza e della crisi, che moltiplicherà « le occasioni di esercizio forte dei poteri e la necessità di garantire l’uso imparziale degli stessi » (272). Il « flusso » della buona fede toccherà, allora, il suo apice quando, sulla scorta di una significativa pronuncia del Giudice delle leggi (273), la giurisprudenza di legittimità giungerà ad affermare l’esistenza di un principio di parità di trattamento nel rapporto di lavoro. È un orientamento, questo, che segnerà il punto più alto di un diritto del lavoro “classico”, cioè “maturo” e “sofisticato”, destinato, però, di lì a poco ad avviarsi verso un lento, ma inesorabile declino (274). Al di là dei dissensi dottrinali verso la giurisprudenza or ora menzionata (275) e della netta divaricazione creatasi in proposito all’interno della stessa Cassazione, sì da richiedere un successivo intervento compositivo delle Sezioni Unite (276), al di là di ciò, c’è che, a cavallo del nuovo secolo, si consumerà un vero e proprio cambio di passo nelle politiche legislative. L’orizzonte politiconormativo in ambito giuslavoristico muterà, con la tecnica della legislazione per “norme generali” o “elastiche” funzionalizzata al soddisfacimento di esigenze di flessibilità del mercato del lavoro, (272) Montuschi, 1996, p. 141 con riferimento a Cass. civ., Sez. Un., 2 novembre 1979, n. 5688, cit. (273) Corte Cost., 9 marzo 1989, n. 103, in MGL, 1989, p. 127 ss., con nota di Scognamiglio R. (274) Carinci F., 2007b, p. LV. (275) Cfr. Persiani, 1995a, p. 135 ss.; Id., 1995b, p. 1 ss.; e, tra gli altri, più di recente, Marazza, 2002, p. 265 ss. (276) Cass. civ., Sez. Un., 29 maggio 1993, n. 6030, in GC, 1993, I, p. 2341, con nota di Del Punta; Cass. civ., Sez. Un., 29 maggio 1993, n. 6031, in FI, 1993, I, c. 1794, con nota di Mazzotta. 271 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore invece che al bisogno di tutela dei prestatori nello svolgimento del rapporto. Quanto ai limiti legali ai poteri imprenditoriali, il legislatore non li rimuoverà di certo, ma sarà palese la revisione del senso di marcia (anche) a riguardo. Se la giurisprudenza applicativa della buona fede al versante datoriale si muoveva in direzione dell’attribuzione al giudice di poteri valutativi degli atti imprenditoriali diversi e ulteriori rispetto a quelli già derivanti dalla legge e dal contratto collettivo, ormai da qualche tempo la normativa si orienta in senso opposto. A fronte di disposizioni (che permangono) finalizzate a vincolare il potere organizzativo del datore mediante “concetti generali” o “elastici”, il legislatore tenta di porre sotto controllo, per quanto possibile, i relativi poteri discrezionali del giudice, che da quelle norme derivano. Sembra questo il senso da dare a una disposizione come il 1° comma, dell’art. 30 l. n. 183 del 2010, laddove stabilisce che « in tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie di cui all’art. 409 c.p.c. e all’art. 63, comma 3, del d.lgs. n. 165/2001, contengano clausole generali (...), il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro ». Alla medesima ratio pare rispondere il successivo 3° comma, dello stesso art. 30, nel suo tentativo di ancorare il più possibile la valutazione dell’organo giudiziario in materia di giusta causa e di giustificato motivo alle « tipizzazioni (...) presenti nei contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi (...) ». Come già anticipato, questo tentativo di ancoraggio della valutazione giudiziale alle disposizioni dei contratti collettivi è sintomatica di una concezione della « giusta causa » e del « giustificato motivo » alla stregua di « clausole generali », come del resto lo stesso 1° comma dell’articolo si fa carico, in qualche modo, di esplicitare. Si trascura, però, che « giusta causa » e « giustificato motivo » rappresentano, al contrario, “norme generali”, cioè disposizioni finalizzate a descrivere anch’esse (come tutte le altre norme) una fattispecie giuridica, seppure in maniera “generale” ed “elastica”, sì da poter sussumere nel proprio ambito « una pluralità 272 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore indeterminata e aperta » di casi concreti (277). Detta in altri termini, la presenza di una norma del tutto completa di fattispecie (come quella “generale” ed “elastica”) segnala che il legislatore ha già compiuto una propria pre-valutazione e non si affida, invece, a quella “esterna”, risultante da parametri sociali di comportamento. Sicché mal si sposa con questa evidenza il tentativo di legare il più possibile il controllo giudiziale sui motivi del licenziamento alle previsioni dei contratti collettivi (278), che, seppur stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, restano meri standards sociali. Una norma come l’art. 30, spia (altresì) di una (più generale) situazione di scollamento, se non addirittura di conflitto, tra potere legislativo e giudiziario tipica del quadro istituzionale italiano, rischia, a questo punto, di apparire contraddittoria. Il legislatore non si accorge che, nel tentativo di contenere il ruolo giudiziale (279), a tutto favore della normativa collettiva, finisce per sconfessare se stesso (280), in particolare la sua attività di prevalutazione, appiattendola su quella operata da contratti collettivi, stipulati per di più da soggetti collettivi, la cui maggiore rappresentatività comparata appare assai labile quanto a modalità di accertamento. L’excursus finora compiuto a proposito della penetrazione e del ruolo della buona fede nel diritto del lavoro dimostra, ad ogni modo, come ormai da oltre un quarantennio, il discorso sulle (277) Lo ribadisce opportunamente Tullini, 2013, p. 156, richiamando altresì Cass. civ., sez. lav., 17 gennaio 2008, n. 837, in LG, 2008, p. 520, secondo cui « giusta causa e giustificato motivo costituiscono mere qualificazioni giuridiche, devolute al giudice, dei fatti che il datore di lavoro ha posto a base del recesso ». (278) Sul punto v. Tremolada, 2011, p. 177. (279) Per Rescigno, 2013, p. 322 « risulta trasparente il disegno di limitare gli spazi di creativa attività rimessa al giudice attraverso regole flessibili, e di orientare la tipicità non già a tutela del soggetto debole (...), ma a garanzia dell’impresa e del mercato »; per Ballestrero, 2014, p. 400, « l’obiettivo del comando rivolto al giudice è l’inibizione della “integrazione valutativa” che (...) costituisce (...) la caratteristica precipua della c.g. ». (280) E, del resto, per i possibili effetti controproducenti di una legislazione come l’attuale, tendente a contenere il ruolo interpretativo del giudice, v. Del Punta, 2014, p. 382; cfr. pure Ballestrero, 2014, p. 400, che rileva il carattere contraddittorio dell’art. 30, 1° comma, laddove, nell’inibire l’operazione di “integrazione valutativa” e dunque la ricerca di standards esterni per riempire di contenuto nozioni come quelle di « giusta causa » o « giustificato motivo » di licenziamento, costringe il giudice a ricorrere, a riguardo, alle sue mere valutazioni personali, come tali arbitrarie. 273 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore clausole generali intercetti solo e unicamente quello del governo dei poteri imprenditoriali. È invece rimasta puntualmente in ombra la materia dei rapporti tra correttezza e buona fede e posizione del prestatore di lavoro. E ciò ha finito per giocare a favore di « quelle opinioni le quali considerano che, per la particolare struttura del rapporto e per la natura degli interessi » implicativi, il rapporto di lavoro sia refrattario « sia pure ex uno latere (cioè sul versante del prestatore), all’impiego di tali clausole generali » (281). Si tratta, come si comprende, di opinioni da sottoporre necessariamente a verifica in questa sede. Ciò tanto più se si considera l’orientamento della giurisprudenza, nient’affatto avversa, invece, all’applicazione degli artt. 1175 e 1375 ex latere praestatoris, per quanto, sovente, con un richiamo così generico e ripetitivo da ingenerare il sospetto di un utilizzo alla stregua di « meri escamotages verbali » (282). La questione è comunque delicata, come si anticipava in apertura. L’idea secondo cui il lavoratore sarebbe esentabile dal rispetto degli obblighi di correttezza e buona fede sconta, da un lato, i timori connessi ai suoi possibili esiti, cioè quelli di una rimodulazione degli obblighi negoziali in direzione di una maggiore onerosità della posizione debitoria del prestatore; risente, dall’altro, delle difficoltà collegate alla non agevole distinzione tra l’area dominata dalle clausole generali (artt. 1175 e 1375 c.c.) e quella governata dalle regole di diligenza, obbedienza e di fedeltà (artt. 2104 e 2105 c.c.). Tali difficoltà non hanno, peraltro, mancato di emergere nel corso delle precedenti Giornate di studio dell’Associazione: si pensi, anzitutto, alla relazione sulla « Disciplina dei licenziamenti individuali nell’epoca del bilanciamento tra i “principi” costituzionali » di Luca Nogler, e poi, ancor più, a quella su « L’adempimento dell’obbligazione di lavoro tra criteri lavoristici e principi civilistici » di Antonio Viscomi, che in quel contesto si era interrogato partitamente circa il rapporto tra diligenza e buona fede. Lo aveva fatto, peraltro, in linea di continuità con altro suo precedente studio, dedicato a « Diligenza e prestazione di lavoro », dove, nel trattare dei rapporti « di inclusione, esclusione o di indifferenza reciproca tra l’area governata » dalla regola di dili(281) Saffioti, 1999, p. XII, sia pur criticamente rispetto a tali opinioni. (282) Ibidem. 274 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore genza e « l’area affidata al controllo delle clausole generali », sottolineava espressamente la « centralità della questione, ma anche » la « impossibilità di esaminarla (...) ab imis; a tal fine » — si diceva — « sarebbe necessaria una ricerca specifica (...) ». È da ritenere, a questo punto, che il presente percorso di ricerca debba partire proprio dalla segnalazione di una simile “necessità”, esplicitata, certo, con precipuo riferimento alla diligenza e ben oltre un decennio fa, ma destinata ad assumere valenza più generale, nonché a mantenere inalterata la sua attualità. 5. Correttezza e buona fede in executivis nel lavoro subordinato: gli obblighi di protezione e il contratto di lavoro. Si è detto di come l’integrazione del regolamento contrattuale a mezzo di norme sociali di condotta espressive di correttezza e buona fede dia vita a una serie di obblighi secondari, di tipo accessorio, riconducibili entro la categoria concettuale degli “obblighi di correttezza” o di “protezione” (v. retro, sez. I, § 3.2.). Va ora osservato che tale categoria ha, però, trovato tiepida accoglienza nel diritto del lavoro, a ciò concorrendo non solo la giurisprudenza, restìa ad applicarla (283), ma anche la stessa dottrina. Beninteso, se si parte da autorevoli ricostruzioni civilistiche, non si scorgerebbe in teoria nessuna « seria preclusione a servirsi del concetto di buona fede (...) sia a favore del datore di lavoro (...) sia a favore del lavoratore subordinato » (284); solo che poi tale concetto viene chiamato a svolgere essenzialmente « una funzione di salvaguardia del prestatore » (285). Si tratta di ricostruzioni che mirano a funzionalizzare sostanzialmente correttezza e buona fede al governo della discrezionalità datoriale in executivis sulla scorta di una lettura coordinata con gli artt. 2 e 3, 2° comma, Cost. Esse finiscono, così, per deporre a favore di « quelle opinioni le quali considerano che, per la particolare struttura del rapporto e per la natura degli interessi » implicativi, il rapporto di lavoro sia (283) (284) (285) Pisani, 2004, p. 119. Rescigno, 1987, p. 35. Così, ma criticamente, Saffioti, 1999, p. 118. 275 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore refrattario « sia pure ex uno latere, all’impiego di tali clausole generali » (286). Tali opinioni sono, in fondo, coerenti con l’impostazione giuslavoristica “classica”, la quale, a partire dalla legislazione statutaria, è giunta a « svalutare il richiamo, per il contratto di lavoro, alle regole della correttezza e della buona fede in funzione integrativa del rapporto obbligatorio » (287). Una tale svalutazione si è giocata, però, su basi diverse da quelle della dottrina civilistica, la quale ha parimenti osteggiato la teoria dei doveri di protezione, ma per strade tutte sue: ora confutando l’unitarietà di ambito applicativo degli artt. 1175-1375 c.c. e la effettiva reciprocità dei relativi obblighi (288), ora contestando la teoria del rapporto a struttura complessa, con doveri autonomi destinati ad affiancare l’obbligo di prestazione (289). Nell’impostazione giuslavoristica “classica” non si è, invece, mai inteso discutere della struttura complessa della relazione lavoratore-datore, d’altronde chiaramente consacrata dal legislatore (artt. 2087 e 2105 c.c.) (290) e neppure, quindi, negare l’esistenza di obblighi ulteriori, autonomi rispetto alla prestazione (286) Ibidem, p. XII; invece per alcune più generali e non trascurabili perplessità circa l’impiego delle clausole generali nell’ambiente lavoristico, giacché « in un rapporto attraversato da “forti tensioni sociali” non è immaginabile un comune sentire sui valori generali da trasfondere, con la mediazione di figure sintomatiche, nell’esecuzione in buona fede del contratto di lavoro », anche se tali considerazioni « nulla tolgono alla rilevanza, in linea di principio, delle clausole generali » in tale ambiente, v. Montuschi, 1999, p. 728, con richiamo a Mazzotta, 1989, p. 592. (287) Napoli, 1980, p. 219. (288) V. Rescigno, 1965, p. 259 s., il quale ha sostenuto che « la correttezza, come principio legislativo (art. 1175), abbia senso proprio se riferita al creditore, poiché la condotta del debitore si valuta già alla stregua della diligenza del buon padre di famiglia », ma contra giustamente, in ragione della diversità funzionale e di ambito operativo degli artt. 1175 e 1176 c.c., Rodotà, 1969, p. 135 s.; Natoli, 1974, p. 8 ss. (289) V. Natoli, 1974, p. 14 ss., spec. p. 20, ove si afferma che la c.d. obbligazione di protezione o di sicurezza « appare, in realtà, come un momento essenziale del contenuto dell’obbligazione ». (290) Cfr. sempre Napoli, 1980, p. 219, per il quale la configurazione del contratto di lavoro come rapporto complesso è, anzi, il punto di partenza del discorso. Per l’Autore sarebbe, infatti, proprio questa configurazione, direttamente imposta dal legislatore nel delineare la pluralità degli obblighi del lavoratore, a ridurre « la pretesa ampia portata della funzione integratrice delle clausole di correttezza e buona fede ». 276 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore principale, derivanti dall’assunzione del vincolo negoziale (291). Piuttosto, il ripudio della categoria dei doveri di correttezza ha coinciso con la necessità di sgombrare il campo da tutte quelle teorie, per lo più a sfondo acontrattualistico, volte a concepire gli artt. 1175-1375 c.c. in funzione dilatatoria del debito del prestatore. Il ridimensionamento del ruolo attribuito alle clausole generali ha rappresentato la via maestra per ricondurre alla fonte contrattuale gli obblighi del lavoratore e presidiare, al tempo stesso, il contenuto dell’obbligazione di lavorare, impedendone l’allargamento — sia dall’interno (292), sia dall’esterno (293) — oltre il limite segnato dal contratto, secondo una scelta di politica del diritto conforme al modello statutario. Anche studiosi sensibili alla teoria dei c.d. obblighi di protezione hanno, dunque, finito per escludere la configurabilità, tramite integrazione (degli effetti) del contratto di lavoro (artt. 1175 e 1375 c.c.), di doveri di correttezza ulteriori rispetto a quelli già previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva. Si è, anzi, affermato che « il principio di buona fede può svolgere soltanto una funzione delimitativa, non di allargamento della sfera coperta dall’obbligazione, (...) appunto perché l’esecuzione della prestazione lavorativa si svolge in un ambito contraddistinto da una pluralità di obblighi collegati alla subordinazione, sufficienti, nella valutazione legale tipica, a soddisfare la funzione », che l’ordinamento assegna al negozio (294). (291) Ibidem; l’Autore, proprio nell’intento di evitare eventuali dilatazioni del contenuto dell’obbligazione di lavorare, tiene in fondo a riconoscere autonomia agli obblighi diversi da quello di prestazione (alias di protezione), pur riconducendoli, poi, strumentalmente alla prestazione principale stessa, al punto da negarne l’accessorietà (così, in particolare, per l’obbligo di sicurezza facente capo al lavoratore); diversamente, invece, chi, nella dottrina civilistica, confuta, in generale, la teoria del rapporto complesso, finendo per escludere l’autonomia di tali obblighi: Natoli, 1974, p. 20. (292) Cioè mediante un allargamento del concetto di prestazione: v. infatti, Napoli, 1980, p. 204, nt. 129, che critica l’orientamento di Natoli, 1974, p. 18 s., laddove « unifica in un ampio concetto di prestazione obblighi tenuti distinti dal legislatore, pur se inerenti ad un unico rapporto obbligatorio fondamentale ». Per Napoli « nel rapporto di lavoro, una cosa è (...) l’adempimento della prestazione lavorativa, un’altra l’osservanza degli altri contegni a cui il lavoratore è tenuto, nonostante che il criterio di valutazione sia sempre quello della diligenza ». (293) E cioè mediante la costruzione di obblighi accessori, riconducibili, appunto, alla categoria degli obblighi di protezione. (294) Napoli, 1980, p. 220. 277 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Su questa strada, si è escluso persino un possibile raccordo tra la teoria dei c.d. doveri di protezione e quegli obblighi di sicurezza del lavoratore di cui ai contratti collettivi (295), che, siccome al tempo (ancora) privi di tipizzazione nella forma di un dovere generale di autotutela e di collaborazione (296) (v. invece ora l’art. 20 d.lgs. n. 81 del 2008), ben avrebbero potuto essere spiegati in forza di un’integrazione del negozio ex artt. 1175, 1374, 1375 c.c. È prevalsa, piuttosto, una ricostruzione dei medesimi alla stregua di obblighi principali: autonomi rispetto alla prestazione lavorativa, ma “strumentali” alla stessa, siccome orientati a garantirne il sostrato, tanto da dover essere adempiuti nel rispetto delle regole di diligenza e di obbedienza (art. 2104 c.c.). In senso speculare si è, allora, concluso pure a proposito della natura del dovere di sicurezza del datore di lavoro, questo già disciplinato all’art. 2087 c.c.: autonomo rispetto al dovere di retribuzione, ma strumentale ad esso, siccome diretto a conservare al lavoratore la possibilità di adempiere senza danno alla sua sfera (297). Ora, premesso che ambedue gli obblighi di sicurezza, del datore e del lavoratore, appaiono attualmente “positivizzati”, sicché ogni chiamata in causa degli artt. 1175 e 1375 c.c. sarebbe ormai superflua, premesso ciò, non sembra potersi fondatamente negare l’inclusione di detti obblighi nell’area dei doveri di protezione. Detta inclusione ne migliora l’inquadramento teorico (298), perché ne valorizza la componente personalistica, sottolineando che il fulcro di tali precetti sta ben al di là del facere del prestatore e di quanto necessita a garantirne il relativo sostrato: esso riposa, cioè, (295) Ibidem, p. 198, dove l’Autore osserva che « la contrattazione collettiva sancisce alcuni obblighi il cui contenuto non è possibile immediatamente collegare con l’obbligazione di lavorare. Si considerino questi esempi: fumare là dove vietato; danneggiamento volontario degli impianti o della produzione; rissa nei reparti di lavorazione; osservanza delle disposizioni per la sicurezza e l’igiene del lavoro ». (296) V. già con riguardo al d.lgs. n. 626 del 1994 Del Punta, 1997, pp. 158 e 180, che sottolinea la novità di tale dovere generale, nonostante la derivazione dagli specifici obblighi di cui alla vecchia normativa prevenzionistica degli anni ’50. (297) Napoli, 1980, p. 198 ss.; critiche in Castronovo, 1990, p. 7; riconduce altresì il dovere di sicurezza all’area della cooperazione creditoria Montuschi, 1986, p. 66 ss.; più di recente, esclude la riconducibilità degli obblighi di sicurezza del prestatore all’area dei doveri protezione, Corrias, 2008a, passim; Id., 2008b, p. 347 ss. (298) Gragnoli, 2007, p. 450 s.; v. anche Id., 2010, p. 33 ss.; Benatti, 1960, 1359 ss.; Castronovo, 1990, p. 7; Mengoni, 1984, p. 509; Mazzamuto, 2003, p. 646 ss. 278 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore nella tutela della persona, come parte di una formazione sociale intermedia rilevante ex art. 2 Cost., nonché nella salvaguardia dell’organizzazione produttiva, come parte di un ambiente non solo di lavoro, ma anche esterno (299). Ciò a maggior ragione risalta dopo l’emanazione del decreto legislativo n. 81 del 2008, che, in ottemperanza al dettato comunitario (300), ha adottato una concezione globale di sicurezza, arricchendo oltremodo l’esecuzione dei relativi obblighi, con una « complessità tecnica » e una specificità culturale particolarmente significative, sì da rendere ormai inevitabile una distinzione del tema da quello del facere (301). Quanto al dovere di sicurezza posto in capo al datore di lavoro (artt. 2087 c.c., 17 e 18 d.lgs. n. 81 del 2008), esso mira evidentemente a realizzare l’interesse del prestatore alla salvaguardia della sua persona nel senso più ampio del termine, alias del suo « stato di completo benessere fisico, mentale e sociale » (art. 2, 1° comma, lett. o), d.lgs. n. 81 del 2008), per il solo fatto di esser parte dell’organizzazione produttiva altrui, senza di necessità un nesso stringente con l’obbligo di prestazione. E d’altronde, è proprio tale inserimento a circoscrivere l’area di estensione del debito imprenditoriale (302), non invece, la sussistenza di un rapporto di subordinazione, dunque, di sottoposizione al potere direttivo (303), dopo che il legislatore ha esteso la qualificazione di « lavoratore » a « qualsiasi persona che (...) svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di lavoro » (art. 2, 1° comma, lett. a), d.lgs. n. 81 del 2008) (304). Ciò pare suonare a conferma del fatto che a fondare l’interesse alla protezione del prestatore è il contatto (299) Del Punta, 1999, p. 155; lo dimostra emblematicamente il recente “caso Ilva”, su cui v. Pascucci, 2013, p. 1 ss. (300) In proposito, da ultimo, Angelini, 2013, p. 1 ss. (301) Gragnoli, 2007, p. 452. (302) Stolfa, 2014, p. 24 ss., ma già Id., 2010, p. 54 ss. (303) Peraltro, sulla delicata questione relativa alla sottoposizione a tale potere anche di lavoratori non subordinati, che parrebbe evincersi dal d.lgs. n. 81 del 2008, v. Lazzari, 2012b, p. 2 ss. (304) Pascucci, 2011, p. 39; sia consentito altresì il richiamo, sul punto, a Campanella, 2010, p. 79 ss. 279 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore sociale, a prescindere dall’obbligazione di lavorare (tantomeno in maniera subordinata) (305). Con riguardo, invece, agli obblighi di protezione del lavoratore, essi tendono al soddisfacimento dell’interesse del datore alla sicurezza della propria organizzazione, imponendo una vera e propria cooperazione del lavoratore stesso al disegno prevenzionistico, con un carico obbligatorio, che non è concepito semplicemente in funzione dell’adempimento della prestazione, ma va oltre, in direzione della salvaguardia dell’intero complesso produttivo altrui, ossia di una organizzazione, fatta di mezzi e di persone, di cui il responsabile rimane pur sempre il datore. A nulla vale il fatto che tra gli obblighi di sicurezza gravanti sul lavoratore ve ne siano taluni immediatamente collegati all’attività lavorativa (art. 20, 2° comma, lett. b), c), d), d.lgs. n. 81 del 2008), dunque, destinati a intersecarsi con l’art. 2104, 2° comma, c.c. Ciò dipende dalla circostanza che la prestazione consiste in un facere destinato a inserirsi nell’organizzazione; sicché il soddisfacimento dell’interesse datoriale alla protezione non può non connotare anche il comportamento del lavoratore nell’esercizio della prestazione, imponendogli il rispetto di direttive e regolamenti aziendali posti dal datore a tutela del proprio patrimonio aziendale. Però questo dato non può esaurire il senso e la portata di uno specifico obbligo di sicurezza ben più ampio e complessivo rispetto a quello di prestare il lavoro, quindi affatto distinto dallo stesso. Del resto, il dovere di obbedienza ben può interferire con gli obblighi di protezione, siccome diretto a imporre la disciplina del lavoro nell’azienda e, dunque, a garantire la salvaguardia dell’organizzazione produttiva dal punto di vista gestionale, incluso per gli aspetti relativi alla sicurezza. Così se, ad esempio, il lavoratore segnala al datore episodi persecutori perpetrati da alcuni suoi colleghi a danno di un altro, egli avrà assolto al dovere di cura di chi è presente sul luogo di lavoro (art. 20, 1° comma, d.lgs. n. 81 del 2008) e soddisfarà con ciò l’interesse del datore alla protezione, non certo quello alla presta(305) A fronte di ciò, dimostra, pertanto, scarsa tenuta la tesi di Natoli, 1974, p. 23, che ritiene l’art. 2087 c.c. un esempio di dovere di protezione o di sicurezza, che la legge esplicitamente prevede a temperamento del potere direttivo dell’imprenditore e, dunque, in ragione dell’implicazione personalistica della prestazione, nonché della particolare natura subordinata del rapporto di lavoro. 280 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore zione (306). Pertanto, il suo comportamento non dovrà ritenersi presidiato dalle disposizioni dell’art. 2104 c.c. E l’esempio sottolinea altresì, indirettamente, che quanto più la sicurezza non è solo assenza di rischio fisico, ma globale benessere di ciascuna persona in una comunità di vita e di attività, tanto più diventa arduo sostenere che il lavoratore adempiente al proprio obbligo di sicurezza nulla di più stia facendo se non preservare la propria possibilità di adempiere, in termini di conservazione del substrato materiale della relativa attività lavorativa. Per altro verso, l’inquadramento degli obblighi di sicurezza delle parti del contratto di lavoro nell’area dei c.d. doveri di protezione non dovrebbe comportare effetti negativi per il lavoratore sul piano rimediale. In forza della reciprocità e della simmetria di tali obblighi, la trasgressione dell’art. 2087 c.c. giustificherà senza problemi il ricorso all’eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.) (307) e alle dimissioni per giusta causa (art. 2119 c.c.), così (306) Né può dirsi, quindi, che con un tale comportamento il lavoratore abbia assolto all’obbligo di rendere una prestazione atta ad inserirsi utilmente in un’organizzazione del lavoro data, secondo quella ricostruzione — fatta propria da Del Punta, 1997, p. 184 sulla scorta di Persiani, 1966 — degli obblighi di sicurezza del lavoratore come « obblighi accessori alla prestazione di lavoro, il cui ambito teorico » andrebbe ricercato « in una certa ricostruzione complessiva (...) del contratto di lavoro in quanto contratto di organizzazione »; per l’A., infatti, la tipizzazione di un generale obbligo di sicurezza a carico del prestatore si porrebbe « come una sorta di suggello della teorica che concepisce il contratto di lavoro come un contratto di integrazione organizzativa »; da qui « l’impressione che una normativa come questa non possa non determinare (...) un’intensificazione dei nessi fra contratto e organizzazione, e dunque un punto a favore di Persiani (Persiani, 1966) e magari di Liso (Liso, 1982) e contro Mancini (Mancini, 1957) » (p. 172 s.); sulla questione, con riferimento al d.lgs. n. 81 del 2008, v. Lazzari, 2012a, p. 19 ss. (307) Lai, 2010, p. 25 ss. e ivi anche per i relativi riferimenti giurisprudenziali; in tema Ferrante, 2004, p. 259, anche qui con ampio corredo di richiami alla giurisprudenza, ove, nell’ambito delle ipotesi di esercizio di autotutela da parte del lavoratore che rifiuti di eseguire un ordine datoriale illegittimo, cita « innanzi tutto, i casi in cui vi sia stata violazione dell’art. 2087 c.c. da parte del datore di lavoro, che abbia omesso di predisporre gli strumenti necessari alla tutela della salute e della sicurezza del lavoratore », inquadrando, poi, conseguentemente il meccanismo del rifiuto nella prospettiva dell’inadempimento, non, invece, della illiceità dell’atto datoriale; l’Autore precisa comunque, che la fattispecie dell’art. 1460 c.c. reclama, ad ogni modo, « non tanto (...) un vero e proprio preavviso », salvo casi particolari in cui l’assenza di questo sarebbe contraria a buona fede, « quanto piuttosto di una manifestazione di volontà della parte di avvalersi dell’eccezione ». In tal senso è anche la giurisprudenza, che, per fare applicazione dell’art. 1460, richiede l’offerta della prestazione dovuta, da ritenersi tuttavia implicita nel palesamento dei motivi 281 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore come la violazione dell’art. 20 d.lgs. n. 81 del 2008 potrà comportare il licenziamento, sempre per giusta causa, del prestatore (artt. 2119 c.c. e 3 l. n. 604 del 1966) (308). Non v’è, dunque, motivo per rifiutare, sul piano concettuale, la categoria dei c.d. doveri di protezione. Un tal rifiuto, motivato essenzialmente dal timore di un arricchimento della posizione debitoria del prestatore, non pare aver sortito, sul piano pratico, l’effetto atteso, cioè quello di un contenimento di quella stessa posizione obbligatoria. Se, da un lato, i giudici sono apparsi restii all’accoglimento della summenzionata categoria, in uno con l’impostazione giuslavoristica “classica”, dall’altro, non hanno comunque rinunciato ad ampliare il contenuto dell’obbligo di prestazione per altre vie. Così, omesso qualsiasi riferimento ai doveri di protezione, hanno piuttosto perseguito lo scopo dilatatorio puntando sulla diligenza (art. 2104 c.c.) e sulla fedeltà (art. 2105 c.c.), non senza, peraltro, qualche omaggio formale alla stessa correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.). Sarebbe allora più costruttivo, giunti a tal punto, dismettere l’abito mentale “classico” e orientarsi verso una riflessione capace di fornire la giusta collocazione ai doveri di protezione nell’ambito della posizione debitoria delle parti del contratto di lavoro. In quest’ottica, bisognerà ammettere che gli spazi concessi a detti doveri, in quanto derivanti dal diritto delle obbligazioni e dei contratti, non sono amplissimi all’interno di un contesto come quello del diritto del lavoro. Si tratta, infatti, di un contesto ad alto tasso di regolamentazione, in virtù della legge e della contrattazione collettiva: per un verso, segnato dal dominio del precetto inderogabile, impositivo di obblighi a carico del datore e altresì di limiti al suo potere, proprio in funzione della salvaguardia della dell’astensione, e destinata a fungere in sostanza « quale dichiarazione di volersi avvalere dell’exceptio » (p. 290); diversamente, invece, Giugni, 1963, p. 340, nt. 31, che qualifica il rifiuto di svolgere il lavoro per violazione del dovere di sicurezza dell’imprenditore non tanto quale eccezione di inadempimento, quanto « come riflesso dell’impossibilità, determinata da colpa dell’imprenditore (art. 1218 c.c.), di svolgere il compito senza pericolo di nocumento della propria persona (...); il che condurrebbe però a rivedere, almeno in parte, la collocazione della norma nei doveri autonomi di protezione ». (308) Ovvero altre sanzioni a carattere conservativo, ferma restando l’obbligatorietà, almeno secondo certe ricostruzioni, del ricorso al potere disciplinare in presenza di violazioni di obblighi di sicurezza del datore, data la valenza pubblica del bene “salute”: in tema Lazzari, 2012a, p. 36 ss. 282 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore persona del prestatore, che appare, pertanto, già sufficientemente presidiata ab externo; per l’altro verso, contraddistinto da penetranti e speciali doveri del prestatore, a garanzia del soddisfacimento dell’interesse alla prestazione e alla protezione della controparte. Tutto ciò non vuol dire, comunque, che ogni spazio per i doveri di protezione sia assente. Si tratta piuttosto di individuarne alcuni, cimentandosi in un’opera di non agevole distinzione tra area presieduta dalle clausole generali (artt. 1175, 1375 c.c.) e area dominata dalle regole di diligenza, obbedienza e fedeltà (artt. 2104, 2105 c.c.), secondo una prospettiva ispirata da evidenti esigenze di certezza del diritto, che le stesse istanze di tutela del prestatore di opere sollevano a gran voce. 6. La “concretizzazione” delle clausole generali di correttezza e buona fede nei confronti del prestatore di lavoro: l’approccio giurisprudenziale. Nell’ottica di una “concretizzazione” degli obblighi di correttezza e buona fede gravanti sul lavoratore, emerge come ineludibile il confronto con la giurisprudenza. Essa è chiamata ad offrire concreta “traduzione” a clausole generali civilistiche nell’ambito di un negozio, il contratto di lavoro, caratterizzato dal perseguimento di un interesse durevole delle parti, con l’inserimento del debitore di opere e della sua personale collaborazione nell’organizzazione produttiva del datore creditore in condizioni di subordinazione, ai sensi dell’art. 2094 c.c. Da questo inserimento discende, come noto, la sottoposizione del debitore medesimo a specifici doveri, introdotti e regolamentati dalla legge agli artt. 2104 e 2105 c.c., nonché disciplinati dalla contrattazione collettiva. V’è da comprendere quali siano la connotazione, il ruolo e i reali spazi di agibilità degli artt. 1175 e 1375 c.c. all’interno di un simile contesto. Per farlo, sarà necessario individuare i tipi normali di comportamento, le relative regole di condotta e le categorie concettuali di riferimento, enucleabili, secondo i giudici, alla luce di tali norme. Occorrerà, insomma, identificare alcune consolidate ipotesi applicative della correttezza e della buona fede alla posizione debitoria del prestatore di lavoro, con approccio critico e aperto, attesa la funzione di stimolo alla riflessione teorica di cui è investita la dottrina ed altresì la natura esemplificativa di dette ipotesi applicative, le quali 283 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore mai potranno esaurire il contenuto delle menzionate clausole, bensì solo agevolare il compito del giudice in ordine a casi futuri sussumibili entro le stesse regole e categorie. Su questa strada, è bene anzitutto rammentare come la funzione integrativa e la natura estroflessa di correttezza e buona fede quali clausole generali attribuiscano alle “norme” di condotta da esse desumibili la valenza di precetti ulteriori e diversi (309) da quelli già inseriti dalle parti nel programma contrattuale o comunque imposti alle parti medesime per via di legge e di contrattazione collettiva (310). Ciò vuol dire che alla “concretizzazione” dei comportamenti del lavoratore conformi alle menzionate clausole si dovrà giocoforza pervenire attraverso un’operazione di distinguo tra l’area governata dagli artt. 1175 e 1375 c.c. e l’area dominata dagli artt. 2104 e 2105 c.c. Sul punto, tuttavia, non aiutano gli approdi della giurisprudenza, che preferisce per lo più racchiudere entro una “formula” unitaria la correttezza, la buona fede, la diligenza e la fedeltà, chiamandole nel complesso a individuare gli estremi della posizione debitoria del prestatore, senza alcuna (almeno) apparente distinzione interna (311). (309) Cass. civ., sez. lav., 19 febbraio 1991, n. 1747, in AC, 1991, p. 683 ss. parla di « obblighi non codificati conseguenti al generale dovere di esecuzione del contratto secondo buona fede »; in tal senso, v., del resto, già Cass. civ., sez. lav., 17 aprile 1985, n. 2559, in MGI, 1985; cfr. pure Cass. civ., sez. lav., 22 ottobre 1998, n. 10514, cit., ove si attribuisce agli obblighi di correttezza e buona fede la funzione di imporre « una serie di comportamenti a contenuto atipico »; cfr. pure Trib. Genova, 11 aprile 2013, cit., che anche dal carattere non codificato di tali obblighi parrebbe desumere la non particolare gravità della loro violazione (come se un conto fosse, per i giudici, trasgredire il divieto di non concorrenza dell’art. 2105 c.c. e del CCNL, altro, invece, tenere una condotta meramente scorretta), con conseguente illegittimità (per assenza di giusta causa) del licenziamento irrogato dal datore, seppure non assistito dalla tutela reintegratoria, versandosi piuttosto in un’ipotesi applicativa del 5° comma, dell’art. 18 St. lav. (mera tutela indennitaria). (310) V. Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106, cit., ove afferma che gli artt. 1175, 1366 e 1375 c.c., rilevando sul piano dell’individuazione degli obblighi contrattuali, « impongono alle parti di adempiere obblighi anche non espressamente previsti dal contratto o dalla legge, ove ciò sia necessario per preservare gli interessi della controparte », per quanto poi la pronuncia riconosca altresì alle clausole generali contenute in quelle norme una funzione di equo contemperamento degli interessi dei contraenti; per affermazioni di analogo tenore Cass. civ., sez. II, 18 ottobre 2004, n. 20399, cit.; Cass. civ. sez. I, 5 novembre 1999, n. 12310, cit.; Trib. Genova, 11 aprile 2013, cit. (311) In tal senso è molta della giurisprudenza sul dovere del prestatore di curare la propria salute e non ostacolare o ritardare la guarigione — App. Roma, 27 aprile 2013, n. 284 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore L’impressione immediata che ne deriva è di un riferimento agli artt. 1175 e 1375 c.c. in funzione meramente rafforzativa dell’argomentazione giuridica, se non, addirittura, di un richiamo affatto superfluo a dette disposizioni, giacché privo di un effettivo contenuto decisorio (312). In realtà, a una riflessione più attenta, ci si accorge che i giudici, proprio a partire da un’accezione di correttezza e buona fede antitetica alla c.d. teoria dei doveri di protezione, finiscono per attribuire alle menzionate clausole una funzione strategica. Gli artt. 1175 e 1375 c.c., per un verso, invadono gli spazi assegnati alla diligenza dell’art. 2104, 1° comma, c.c., ora sottraendole l’area degli obblighi preparatori all’adempimento, ora orientando direttamente l’adempimento della prestazione verso la realizzazione di un « risultato » (313) altrimenti destinato a rimanere fuori da un’obbligazione di lavoro ancora qualificata “di mezzi” (314). Per altro verso, i suddetti articoli si saldano con la fedeltà dell’art. 2105 c.c., quasi alla stregua di un corpo unico, per 2824, in Red. Giuffrè, 2013; Cass. civ., sez. lav., 14 settembre 2012, n. 15476, in ADL, 2012, p. 1278 ss., con nota di Riccio; Cass. civ., sez. lav., 24 aprile 2008, n. 10706, in DPL, 2008, p. 1394 ss.; Trib. Bergamo, 21 luglio 2006, in OGL, 2006, p. 620 ss., con nota di Malandrini; Cass. civ., sez. lav., 19 aprile 2006, n. 9056, in LG, 2006, p. 1019 ss.; Cass. civ., sez. lav., 1° luglio 2005, n. 14046, in GD, 2005, 36, p. 75 ss.; Cass. civ., sez. lav., 6 ottobre 2005, n. 19414, in OGL, 2005, p. 835, con nota di Picciariello; Cass. civ., sez. lav., 3 dicembre 2002, n. 17128, in MGL, 2003, p. 171 ss. — mentre gli orientamenti sul dovere di fedeltà del prestatore prediligono il richiamo agli artt. 1175 e 1375 c.c. in combinato disposto con il solo art. 2105 c.c. — per le relative pronunce v., infra, nota 319 — salvo casi eccezionali, come Trib. Lecce, 16 gennaio 2013, in NGL, 2013, p. 337 ss.; sempre per un richiamo unitario agli artt. 1175, 1375, 2104, 2105 c.c. in materia di svolgimento di altra attività lavorativa in periodo feriale v. Trib. Bergamo, 17 aprile 2008, in RCDL, 2009, p. 241 ss. (312) Cester, 2007, p. 85 ss.; Mattarolo, 2000, p. 48 ss; Saffioti, 1999, p. 207 ss.; Viscomi, 1997, p. 160; Menegatti, 2012b, p. 922 s.; Boscati, 2012, p. 966 ss. (313) V. Cass. civ., sez. lav., 22 ottobre 1998, n. 10514, cit., che ravvisa negli obblighi di correttezza e buona fede « la funzione di salvaguardare l’interesse della controparte alla prestazione dovuta e all’utilità che la stessa le assicura »; Cass. civ., sez. lav., 26 settembre 2013, n. 22076, in GD, 2013, 41, p. 73 ss., per l’idoneità della buona fede ad assicurare l’uso proficuo del lavoro. (314) Cass. civ., sez. lav., 2 febbraio 2002, n. 1365, in OGL, 2002, p. 88 ss.; Cass. civ., sez. lav., 6 marzo 2006, n. 4761, in LG, 2006, p. 813; Cass. civ., sez. lav., 24 aprile 2008, n. 10728, in CED Cass., 2008; Cass. civ., sez. lav., 20 luglio 2005, n. 15255, ivi, 2005; Cass. civ., sez. lav., 27 luglio 2000, n. 9877, MGI, 2000; Trib. Milano, 20 dicembre 2000, in RCDL, 2001, p. 442; per la ricostruzione dell’obbligazione di lavoro quale obbligazione di mezzi cfr. in dottrina Carabelli, 2004, p. 19. 285 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore consacrare l’idea di una buona fede, la quale, ove trasposta in ambiente lavoristico, assume senso « pregnante », come se dal prestatore di opere si dovesse inevitabilmente pretendere una buona fede più accentuata di quella comune, in virtù di un supposto vincolo fiduciario che legherebbe tra loro le parti del rapporto (315). Ne emerge, così, una sorta di figura di “lavoratore modello”: leale collaboratore dell’imprenditore, tutto proteso a garantire la proficuità del lavoro e ad evitare qualsiasi contegno pregiudizievole dell’interesse all’effettiva attuazione della prestazione. È ciò quanto può arguirsi dall’orientamento secondo cui « l’obbligo di collaborazione è insito nel dovere di diligenza e trova fondamento anche nel dovere di esecuzione secondo buona fede, poiché il lavoratore non adempie i doveri nascenti dal contratto di lavoro mettendo formalmente a disposizione dell’imprenditore le sue energie lavorative, ma è necessario e indispensabile che il suo comportamento sia tale da rendere possibile al datore di lavoro l’uso effettivo e proficuo di queste » (316). Lo stesso può dirsi a proposito dell’opinione che fa carico al prestatore di comportarsi in maniera prudente e oculata, evitando ex artt. 1175 e 1375 c.c. qualsiasi condotta lesiva dell’interesse del datore all’effettiva esecuzione della prestazione lavorativa (317). Alle medesime conclusioni induce pure la tesi per cui « l’obbligo di fedeltà (...) va collegato ai principi generali di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) (e) impone al lavoratore di tenere un comportamento leale verso il datore di lavoro, astenendosi da qualsiasi atto idoneo a nuocergli, anche potenzialmente » (318), ossia « da qualsiasi condotta », la quale, « per la sua natura e le sue possibili conseguenze, (315) V. la giurisprudenza citata a nota 319, evidentemente sulla falsariga di quella nozione di buona fede fatta propria da Betti, 1953, pp. 76 e 93, poi accolta, in ambito giuslavoristico, da Persiani, 1966, p. 228 ss.; non è un caso che il richiamo a correttezza e buona fede, in connessione con il carattere fiduciario del rapporto, sia centrale nella valutazione di legittimità del licenziamento del dirigente: v. Cass. civ., sez. lav., 13 maggio 2005, n. 10058, in GD, 2005, p. 42 ss; ma, in dottrina, sul punto, con riflessioni problematiche, Tosi, 1974, p. 141 ss. (316) Cass. civ., sez. lav., 26 settembre 2013, n. 22076, cit. (317) Cass. civ., sez. lav., 25 gennaio 2011, n. 1699, in LG, 2011, p. 909, con nota di Golisano. (318) Cass. civ., sez. lav., 5 dicembre 1990, n. 11657, in RIDL, 1991, II, p. 828 ss., con nota di Proia. 286 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore risulti in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nell’impresa e sia, comunque, idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto di lavoro » (319). Certo è che richiami così generici e indistinti agli obblighi del prestatore consentono ai giudici di imboccare « la strada in fondo più comoda » (320), sottraendosi, però, a quell’opera di “concretizzazione” della correttezza e della buona fede affatto essenziale a fronte di clausole generali per loro natura indeterminate. Combinati, se non addirittura indistintamente sovrapposti agli artt. 2104 e 2105, gli artt. 1175 e 1375 c.c. dismettono, in tal modo, la loro indiscussa valenza costitutiva di obblighi integrativi a reciproco carico dei contraenti, per essere indirizzati ad assistere e sostenere obblighi già esistenti e in sé vincolanti (321), nell’ambito di generiche formule di stile oltremodo dilatatorie della sfera debitoria del (solo) prestatore. È da qui che nasce l’impressione di una « funzione meramente accessoria e decorativa » della buona fede (322). Non è un caso, del resto, se la giurisprudenza di legittimità, allorché ha inteso confutare l’operatività degli artt. 1175 e 1375 sul piano del governo della discrezionalità imprenditoriale, lo abbia fatto proprio a partire dal presupposto che correttezza e buona fede non valgano a configurare obblighi aggiuntivi e dunque obbligazioni autonome in capo al datore di lavoro, rilevando semplicemente « come modalità di generico comportamento delle parti ai fini della concreta realizzazione delle rispettive posizioni di diritti e obblighi, oppure come comportamento dovuto in relazione a specifici obblighi di prestazione (...) » (323). (319) Cass. civ., sez. lav., 16 maggio 1998, n. 4952, in RIDL, 1999, II, p. 346 ss., con nota di Tullini; ma già Cass. civ., sez. lav., 1° giugno 1988, n. 3719, in RIDL, 1990, II, p. 978 ss., con nota di Tullini; successivamente Cass. civ., sez. lav., 26 agosto 2003, n. 12489, in NGL, 2004, p. 180 ss.; Cass. civ., sez. lav., 4 aprile 2005, n. 6957, ivi, 2005, II, p. 916 ss., con nota di Pisani; Cass. civ., sez. lav., 1° febbraio 2008, n. 2474, in LG, 2008, p. 625 ss.; per un’accentuazione anche in senso positivo di tale obbligo, da intendersi pertanto, come dovere del prestatore di tutelare in ogni modo gli interessi dell’impresa, ma con richiamo al solo art. 2105 c.c., v. Cass. civ., sez. lav., 3 febbraio 1986, n. 645, in NGL, 1986, p. 478. (320) Mattarolo, 2000, p. 244 in riferimento specifico alla giurisprudenza sull’art. 2105 c.c., ma con osservazioni senz’altro estendibili anche agli artt. 1175 e 1375, siccome impiegati dai giudici in stretto connubio con quella disposizione. (321) Perulli, 2002, p. 13. (322) Montuschi, 1999, p. 735. (323) Cass. civ., sez. lav., 24 giugno 1995, n. 7190, cit.; v. anche Cass. civ., sez. lav., 24 marzo 2009, n. 7053, in LG, 2009, p. 833 ss.; ma efficacemente, in senso critico rispetto 287 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Del resto, quando pure i giudici hanno ammesso quella funzione integrativa che a correttezza e buona fede va riconosciuta quali clausole generali, non ne hanno poi saputo trarre le dovute conseguenze. Così è stato, ad esempio, laddove la Suprema Corte ha affermato che gli obblighi di correttezza e buona fede — proprio a ragione della « predetta funzione integrativa del contenuto tipico del rapporto (di lavoro, nel caso di specie) » — « non possono debordare dal complesso di regole » entro « cui si sostanzia la civiltà del lavoro », quale « assieme dei principi giuridici espressi dalla giurisdizione di legittimità e (degli) standards », diretti a compendiare « il diritto vivente del lavoro » (324). In effetti, più che suggestivamente evocare il rispetto di non meglio definite regole di « civiltà del lavoro », la Cassazione, nell’esercizio della funzione nomofilattica, dovrebbe provvedere a guidare meglio il giudice di merito nella complessa opera di “concretizzazione” delle clausole generali contenute negli artt. 1175 e 1375 c.c. Al di là della ricostruzione del fatto, come tale insindacabile in sede di legittimità, v’è tutta un’attività interpretativa a carico del magistrato di prime cure, funzionale alla “concretizzazione” stessa e ben suscettibile di un vaglio ad opera della Suprema Corte. Si tratta, infatti, di un’attività, che, se condotta rigorosamente, dovrà anzitutto procedere alla verifica degli spazi riservati, in casu, alla direttiva di buona fede, intesa nel suo corretto significato. Il confronto con l’area già governata dalla diligenza e dalla fedeltà diverrà, allora, ineludibile per il giudice del merito e le risultanze del suo giudizio appariranno ampiamente meritevoli di un rigoroso controllo di legittimità. Troppo spesso gli artt. 1175 e 1375 sono stati richiamati a sproposito, dando luogo a una sovrapposizione di concetti e relative norme, che non giova alla certezza del diritto (325). a simili orientamenti, v. Tullini, 1990, p. 183, per la quale « risulta inaccettabile » l’applicazione della correttezza e della buona fede « in funzione meramente ausiliaria, cioè al limitato scopo di assicurare il rispetto di doveri già specificamente e puntualmente previsti o di “misurare” il grado di adempimento concreto ». (324) Cass. civ., sez. lav., 22 ottobre 1998, n. 10514, cit. (325) La stessa Cass. civ., sez. lav., 22 ottobre 1998, n. 10514, cit., che pure ha richiamato le regole di « civiltà del lavoro » ai fini della decisione, non ha mostrato piena consapevolezza di ciò, considerato che nel caso di specie la Suprema Corte ha glissato sulla correttezza dell’inquadramento — operato dal giudice di merito — della condotta del prestatore nell’area governata dagli artt. 1175 e 1375 c.c. Di ciò, invece, si sarebbe potuto 288 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Una volta riscontrata l’esistenza di quegli spazi, occorrerà che l’organo giudiziario proceda all’individuazione degli standards di riferimento e, dunque, delle figure tipiche di comportamento, destinate a tradursi in norme sociali di condotta, suscettibili, poi, di “incorporazione” in precise categorie concettuali (v. retro, sez. I, § 2.4.). Anche su questo versante dovrebbe essere ipotizzabile un controllo della Suprema Corte, trattandosi, a tutti gli effetti, di un’attività giudiziale valutativo-interpretativa. Ai fini del controllo, il « diritto vivente del lavoro » costituirà senz’altro un punto di riferimento imprescindibile, ma nella consapevolezza che esso si atteggerà alla stregua di mera linea direttiva, poiché la concretizzazione di ogni singola clausola generale potrà sempre realizzarsi attraverso « una decisione non corrispondente puntualmente a modelli di condotta già sperimentati » (326). Sono, invece, piuttosto i principi generali dell’ordinamento, in primis quelli della Costituzione, a fungere da limite alla discrezionalità del giudice impegnato nel processo di “concretizzazione” delle clausole. È vero, infatti, che questa “concretizzazione” giammai potrà essere concepita come una mera ripetizione di precetti costituzionali. Tuttavia, è altrettanto vero che le norme sociali di condotta sono chiamate a esprimere valori, di cui va pur sempre vagliata la compatibilità con quelli posti a fondamento della civile convivenza secondo l’ordinamento. È lodevole il tentativo della Cassazione di indirizzare il processo di “concretizzazione” delle clausole generali tramite rinvio al « diritto vivente del lavoro ». Non è, però, ipotizzando un obbligo di conformazione a tale « diritto » da parte del magistrato di merito che si argina il rischio di “soggettivismo giudiziario”. Piuttosto, varrebbe la pena di identificarne più precisamente il contenuto, nei termini di standards e di principi che lo compendiano, data comunque per premessa e accolta l’esigenza di individuazione rigorosa, “a dubitare, considerato che quella condotta era sostanzialmente consistita in un’assenza ingiustificata e, quindi, nel mancato adempimento della prestazione di lavoro; sicché non si vede perché mai la vicenda avrebbe dovuto essere inquadrata nell’ambito delle regole di correttezza e buona fede (in particolare, il lavoratore, a seguito dell’assenza di un giorno — la cui mattinata sarebbe stata impiegata per la raccolta di funghi — aveva taciuto al datore di lavoro che il certificato medico prodotto gli era stato rilasciato nel pomeriggio e pertanto non copriva l’assenza ingiustificata del mattino). (326) Mengoni, 1986, p. 15. 289 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore monte”, del confine volto a separare la correttezza e la buona fede dalla diligenza e dalla fedeltà. Se un comportamento viola, infatti, un precetto giuridico già fissato dalla legge e dall’autonomia privata, individuale e collettiva, e lo viola in forza di altre norme, il richiamo agli artt. 1175 e 1375 appare fuori luogo. Sarà che il modo di procedere della Suprema Corte « testimonia la difficoltà di collocazione e precisazione (...) delle clausole generali » (327), ma esso risulta inappagante e non persuasivo. Come è stato osservato, « rimane un po’ oscuro il significato da attribuire al concetto di “civiltà del lavoro”, né si comprende di quali principi e regole esso si componga. (...) Il risultato è che al giudice del rinvio non sono stati segnalati i criteri cui attenersi in via alternativa per dare un significato concreto alla buona fede (...) » (328). È innegabile, allora, se si condivide la riflessione sinora compiuta, che tale significato vada ricercato sulla scorta, anzitutto, di una precisa delimitazione dell’area governata dagli artt. 1175 e 1375 c.c. rispetto all’area presidiata dagli artt. 2104 e 2105 c.c. (329) A riguardo, occorrerà partire da quelli che, secondo la ricostruzione qui proposta, rappresentano i tratti fondamentali degli obblighi derivanti dalle clausole di correttezza e buona fede: la reciprocità; la « atipicità » (330), per così dire, discendente dalla funzione integrativa degli artt. 1175 e 1375; la richiesta di comportamenti improntati a spirito di solidarietà, cioè diretti a preservare l’utilità della controparte nei limiti in cui ciò non importi un apprezzabile sacrificio a proprio carico; la concretizzazione di tali comportamenti in obblighi di salvaguardia dell’altrui sfera giuridica, esposta a potenziale pericolo per il contatto sociale instauratosi tra le parti in virtù del rapporto obbligatorio; l’accessorietà o secondarietà di tali obblighi, siccome preordinati alla realizzazione di un interesse di protezione, diverso da quello di prestazione, al cui soddisfacimento è preposto l’obbligo principale o primario. Guardati alla luce della posizione debitoria del lavoratore, (327) Cester, 2007, p. 85 s. (328) Montuschi, 1999, p. 735. (329) V. Pisani, 2004, p. 120, dove si afferma che gli obblighi di protezione ex art. 1175 c.c. « “coprono” tutto quello spazio dove non arriva alcun altro obbligo contrattuale del lavoratore ». (330) Cass. civ., sez. lav., 22 ottobre 1998, n. 10514, cit. 290 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore detti obblighi si atteggiano alla stregua di vincoli, i quali, siccome derivanti dall’immissione del prestatore nella sfera giuridica dell’imprenditore e dal pericolo di pregiudizio che a quest’ultima ne deriva, non sono riferibili all’adempimento del dovere di prestazione del lavoro in sé considerato. Ciò ci induce a indirizzare l’attenzione su quell’area piuttosto variegata e frammentata, occupata da condotte richiedibili al prestatore fuori dallo stretto adempimento dell’attività lavorativa — comportamenti strumentali o preparatori all’adempimento, rispetto della disciplina aziendale, salvaguardia del patrimonio dell’impresa, contegni extralavorativi consoni all’immagine dell’azienda — per verificarne l’eventuale riconducibilità agli artt. 1175 o 1375 c.c. 7. Correttezza e buona fede: il rapporto con la diligenza. Una prima conclusione. Si è detto di come la correttezza e la buona fede, data la reciprocità del loro ambito applicativo soggettivo, vincolino anche il debitore, non potendosi certo sostenere il contrario a motivo della sottoposizione del medesimo già alla regola di diligenza nell’adempimento. Piuttosto, vi è da interrogarsi sul rapporto tra dette clausole e la regola appena menzionata, attesa la idoneità delle stesse a incidere direttamente sulla struttura del rapporto obbligatorio, sì da integrarne il contenuto, in sede di esecuzione del programma contrattuale, attraverso precisi obblighi, destinati a interferire o comunque ad articolarsi con quelli derivanti ab origine dalla stipulazione del contratto (331). La correttezza e la buona fede non sono incompatibili con la diligenza, né, però, vi appaiono fungibili (332). Per capirlo, è bene partire proprio dalle prime, dal loro modo di operare alla stregua di clausole generali, perché è esattamente su tal versante che è percepibile il netto distinguo con la seconda. Bisogna, in particolare, riflettere sul connotato etico e deontologico di correttezza e buona fede, quali congegni normativi finalizzati a garantire il rinvio a valori tratti dall’esperienza sociale. Gli artt. 1175 e 1375 c.c. offrono a al giudice veri e propri criteri (331) (332) Rodotà, 1964, p. 2, che parla di reciproche interferenze. Natoli, 1974, p. 9. 291 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore direttivi per la ricerca, a partire dal caso concreto, di tali valori. Questi sono poi destinati a tradursi in modelli di comportamento suscettibili di generalizzazione, quindi, in obblighi di condotta integrativi del programma contrattuale, riconducibili come tali — nella ricostruzione fin qui proposta — alla categoria degli obblighi “accessori” o “secondari” di protezione. Più discutibile è, invece, la caratterizzazione in senso etico e deontologico della diligenza, la quale s’atteggia, da tal punto di vista, più a norma “generale” o “elastica” che a clausola generale. Anche quando il 1° comma, dell’art. 1176 c.c. la aggancia alla nozione di « buon padre di famiglia », evocativa di un rinvio a valutazioni sociali, il riferimento è comunque pur sempre a un parametro di normalità statistica, non, invece, a modelli rappresentativi dei valori propri della comune coscienza generale (333). Ciò accade perché la diligenza, a differenza della correttezza e della buona fede, non possiede quella funzione costitutiva di obblighi per via d’integrazione del regolamento negoziale (334), che è tratto tipico della clausola generale, bensì serve solo a valutare l’esatto adempimento di doveri già definiti nel loro contenuto (335). Tutto questo è ancor più lampante se si pone mente al 2° comma, dell’art. 1176 c.c. e all’art. 2104 c.c., che ne rappresenta l’« adattamento » (336) o, per certuni, l’« applicazione » e « specificazione » al rapporto di lavoro (337). Qui il riferimento è a una diligenza ispirata a valutazioni di carattere propriamente profes(333) Pone l’attenzione sul problema Cester, 2007, p. 104. (334) Persiani, 1966, p. 213. (335) « La diligenza si presenta come un criterio di valutazione, senza per ciò costituire (a dispetto delle espressioni talvolta adoperate) il contenuto di una obbligazione autonoma »: Rodotà, 1964, p. 4, che sottolinea la coerenza di ciò rispetto a quanto sancito nella stessa Relazione al Re (n. 559), per il quale « il criterio richiamato in via generale dall’art. 1176 come misura del comportamento del debitore nell’eseguire la prestazione dovuta riassume in sé quel complesso di cure e cautele che ogni debitore deve normalmente impiegare nel soddisfare la propria obbligazione »; v. anche Rodotà, 1969, p. 153, laddove osserva come la diligenza « altro non sia se non uno strumento di controllo dell’attività del debitore: essa riguarderebbe soltanto il come della prestazione »; in tal senso v. pure Persiani, 1966, p. 213; diversamente, però, Mengoni, 1954, p. 198; nella letteratura giuslavoristica per una diligenza riguardante le sole modalità esecutive della prestazione v. Persiani, 1966, p. 208 ss.; Cester, 2007, p. 92; Perulli, 2007, p. 596; Rusciano, 2000, p. 656; Menegatti, 2012b, p. 923 ss.; in senso contrario Viscomi, 1997, p. 110. (336) Ghera, 2011, p. 94. (337) Cester, 2007, p. 125. 292 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore sionale, cioè rapportata, in ambiente lavoristico, alla « natura della prestazione dovuta » e « all’interesse dell’impresa » (338). Nulla, dunque, che possa evocare il rinvio a valori tratti dall’esperienza sociale, giacché a rilevare è piuttosto il richiamo alle peculiarità tecniche dell’attività lavorativa svolta, espressione, a propria volta, della specificità del contesto aziendale, nonché delle relative scelte produttive e di organizzazione del lavoro compiute nel caso concreto dall’imprenditore (339). È allora qui, entro il perimetro segnato dalla diligenza professionale del lavoratore nell’adempimento dell’obbligazione di prestare lavoro, che trova riconoscimento giuridico l’interesse organizzativo dell’impresa, nelle forme del « risultato » atteso dal datore di lavoro creditore. Il tentativo di far penetrare l’« organizzazione » nello schema causale del contratto di lavoro, sì da identificare il menzionato « risultato » (non tanto nel comportamento diligente, quanto, invece) in una condotta subordinata e fedele (340), idonea a soddisfare l’interesse al coordinamento del datore di lavoro, ex artt. 1375 e 2105 c.c., appare poco persuasivo (341). L’integrazione dello schema negoziale secondo buona fede, al pari di quello secondo correttezza, impone, infatti, di preservare l’utilità della controparte — nei limiti in cui ciò non importi un apprezzabile sacrificio a proprio carico — attraverso condotte ispirate a criteri relazionali di rispetto e solidarietà reciproca tra i contraenti. Pertanto, essa consente sì di offrire riconoscimento giuridico all’interesse organizzativo del datore di lavoro, ma solo nei termini di un interesse negativo a non subire nel corso dell’esecuzione del contratto comportamenti pregiudizievoli della propria (338) Il riferimento all’interesse superiore della produzione nazionale contenuto nell’art. 2104 c.c. deve, invece, ritenersi abrogato con la caduta del regime corporativo. (339) Sottolineano la necessità di guardare al contesto organizzativo Grandi, 1987, p. 342; Viscomi, 1997, p. 277. (340) Persiani, 1966, p. 213 s. (341) Liso, 1982, p. 157; Grandi, 1987, p. 330 s.; Gragnoli, 2006, p. 15 ss.; per una riedizione o aggiornamento della teoria del contratto di organizzazione Marazza, 2002, passim; sulla “funzione organizzatoria” del contratto di lavoro al fine di spiegare l’origine e la natura negoziale del potere disciplinare v. Mainardi, 2002, p. 36; da ultimo, cfr. Nogler, 2014b, p. 884 ss., che, in aderenza alle teorie mengoniane, si esprime sì nel senso di un ampliamento della causa del contratto di lavoro, ma senza richiamo alla norma sul dovere di fedeltà, poiché l’obbligo del prestatore di collaborare con gli altri sarebbe ricavabile direttamente dall’art. 2094 c.c. 293 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore organizzazione ad opera del prestatore. È escluso, invece, che la clausola di buona fede agisca direttamente sull’obbligazione di lavorare, richiedendo al lavoratore una tensione cooperatoria al risultato atteso dal datore, oltre quanto specificato nell’esercizio del potere, al punto che la violazione di tale clausola importi l’inadempimento dell’obbligazione principale. È escluso perché, come visto, essa prescrive, piuttosto, condotte obbligatorie finalizzate al soddisfacimento di un interesse diverso da quello alla prestazione e, come tali, “accessorie” o “secondarie” rispetto all’obbligazione di svolgere il lavoro. Anche l’idea che il dovere di esecuzione secondo buona fede implichi un comportamento tale da rendere possibile al datore di lavoro l’uso effettivo e proficuo delle energie lavorative — secondo un orientamento espresso a proposito di scioperi articolati delle maestranze e di contestuale rifiuto imprenditoriale ad accettare e/o retribuire l’attività resa tra un intervallo e l’altro dell’astensione collettiva — sembra risentire in fondo dell’attrazione del fenomeno organizzativo nella struttura del contratto di lavoro, con un trasferimento sul lavoratore del “rischio” del risultato relativo alla prestazione. È vero, però, che « le mansioni di ciascun prestatore di opere non sono inserite » entro « un disegno organizzativo oggetto dell’accordo individuale, né si può trarre dalla sua stipulazione » l’ipotesi « di una prestazione di facere organizzabile » (342). Non si può, almeno se e nella misura in cui da ciò si intenda far discendere obblighi autonomi, ancorché strumentali rispetto all’obbligazione, invece che una direttiva volta più semplicemente a tarare la condotta diligente al concreto assetto aziendale e al risultato produttivo di volta in volta dinamicamente pianificato e perseguito dal datore, con l’imposizione ex art. 2104 c.c., di contegni funzionali all’inserzione e al coordinamento di ciascuna singola (342) Gragnoli, 2006, p. 19, con richiamo peraltro a una concezione di organizzazione come « progetto », ossia come « programma soggettivo » dell’imprenditore, oltretutto in costante evoluzione, tant’è che al giudice, impegnato nel controllo sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento, essa si presenta alla stregua di « categoria della conoscenza », cioè, quale « forma tipica di riflessione sui fatti dal cui esame » deve ricavarsi quel « quid novi » (organizzativo), a cui il licenziamento medesimo si ricollega; per la tesi dell’organizzabilità Vardaro, 1986, p. 12 ss. Sul rapporto tra prestazione di lavoro e organizzazione v. Carabelli, 2004, p. 45.; v. inoltre, Liso, 1982, p. 169, il quale sottolinea come l’art. 2103 c.c. determini un criterio per l’esercizio del potere e non un previsione indirizzata all’identificazione dell’oggetto del contratto. 294 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore attività nella specifica organizzazione di lavoro [« la diligenza richiesta (...) dall’interesse dell’impresa »], oltre che conformi a perizia e rispetto delle regole tecniche (« la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta »). L’inidoneità della buona fede a reagire direttamente sull’obbligo primario del lavoratore debitore induce altresì ad escluderne eventuali interferenze con il tema dello scarso rendimento. L’art. 1375 c.c. non può essere invocato allo scopo di « introdurre un generico elemento di elasticità, al fine di adattare l’impegno richiesto alla dinamicità della vita economica contemporanea » (343), sul presupposto che « la condotta del lavoratore debba essere teleologicamente indirizzata al risultato », inteso quale « “tassello” dell’organizzazione » (344) e misurato attraverso il rendimento, concepito, a tal stregua, come capacità del prestatore di rispondere nel tempo al risultato atteso dal datore. Questa teoria si fonda su una ricostruzione stimolante, attraversata dalla condivisibile idea che lo svolgimento dell’attività lavorativa nelle organizzazioni produttive moderne, ove « i contenuti cambiano continuamente e richiedono duttilità nelle capacità », « svela un inevitabile conflitto tra diligenza e risultato della prestazione » (345). Tuttavia, essa, nel meritorio sforzo di risolvere quel conflitto attraverso una revisione delle teorie sulla struttura dell’obbligazione di lavoro, giunge a una lettura audace, anche se suggestiva, con una svalutazione della diligenza tradizionalmente intesa, che appare concepita in senso puramente conservativo, e sostituita con il rendimento, quale misura, esso stesso, dell’adempimento (346). L’operazione, sollecitata da un più generale confronto con le categorie e i risultati delle scienze sociali, trova fondamento in una concezione dell’obbligo primario del prestatore alla stregua di un’obbligazione di risultato (347), concezione adottata sulla falsariga di una tendenziale revisione della categoria dell’obbligazione di comportamento ad opera della giurisprudenza civilistica. Ma va (343) Pantano, 2012, p. 74. (344) Ibidem, p. 63. (345) Ibidem, p. 69. (346) Ibidem, pp. 71 ss. e 94. (347) Nella dottrina civilistica, Mengoni, 1954, passim; più di recente, Occhino, 2011, p. 184. 295 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore considerato che questa revisione è emersa sul precipuo versante delle professioni intellettuali, allo scopo di far fronte ai peculiari problemi della responsabilità medica (348), con esiti quantomeno problematici e forse non del tutto generalizzabili. Con ciò non si vuol dire che un “risultato” sia escluso nell’obbligazione di comportamento, ma solo che esso andrà qui “mediato” dalla diligenza professionale. Del resto, il paziente del medico nutre un’aspettativa giuridicamente tutelata a godere di una buona cura, considerate tutte le circostanze del caso, affinché possa vedersi garantita la possibilità di una guarigione (o del massimo prolungamento della vita, nel caso di malattie inguaribili), ma non la guarigione certa, così come il cliente dell’avvocato non potrà mai vedersi assicurata la vittoria della causa. Proprio per questo, nel ristorare, ad esempio, il danno da perdita di chance occorso al cliente del « legale negligente, dimentico di depositare l’appello prima del decorso del termine », potrà essere risarcita solo la perdita della possibilità di ottenere il risultato utile, ma non il risultato utile in sé (349). Probabilmente, in campo medico, la giurisprudenza è stata mossa verso simili arresti dall’esigenza di instaurare un onere probatorio più favorevole al paziente, con un sostanziale irrigidimento dei criteri di responsabilità, data la considerazione del bene “salute” qui in discussione. Tant’è che, poi, con riguardo alla professione forense, sono prevalsi atteggiamenti assai meno lontani dalla tradizione (350). Possiamo, allora, concludere con l’osservazione secondo cui l’art. 2104, 1° comma, e gli artt. 1175-1375 c.c. hanno funzioni, meccanismi operativi, nonché ambiti applicativi diversi e, pertanto, non sono destinati a sovrapporsi. (348) Cfr. Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577, in GI, 2008, p. 2197 ss., con nota di Cursi; Cass., Sez. Un., 28 luglio 2005, n. 15781, in DPL, 2006, p. 404 ss.; Cass., Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533, in GC, 2002, I, p. 1934 ss.; in tema di responsabilità medica ex art. 1218 c.c. v., da ultimo, Cass. civ., sez. VI, 17 aprile 2014, n. 8940, in CED Cass., 2014; Cass. civ., sez. III, 19 febbraio 2013, n. 4030, in GI, 2013, p. 2514 ss., con nota di Valore; ma per una incrinatura di tale consolidato orientamento, v., da ultimo, Trib. Milano, 17 luglio 2014, in DR, 2015, 1, p. 47 ss., con nota di Mattina. (349) Gragnoli, 1997, p. 625 s. (350) Cass. civ., 11 agosto 2005, n. 16848, in CED Cass., 2005; Cass. civ., 14 novembre 2002, n. 16023, MGI, 2002; Cass. civ., 5 luglio 2004, n. 12273, in GI, 2005, I, p. 1409 ss., con nota di Perugini. 296 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore La diligenza dell’art. 2104, 1° comma, c.c. è deputata a intervenire sull’obbligo primario di prestazione del lavoratore debitore, già individuato e definito nel suo contenuto al momento dello scambio dei consensi, fungendo, così, da criterio oggettivo di misurazione dell’esatto adempimento (351), dunque, da metro valutativo di qualsivoglia contegno anche solo strumentale al soddisfacimento dell’interesse del datore di lavoro creditore alla prestazione di lavoro, con un’evidente rilevanza ai fini del giudizio di responsabilità ex artt. 1218 e 2106 c.c. La correttezza e la buona fede degli artt. 1175 e 1375 c.c. sono, invece, chiamate a costituire obblighi secondari di protezione a carico del lavoratore debitore (ma anche del datore di lavoro creditore) per via d’integrazione degli effetti dello stesso contratto, e a stabilirne il contenuto sulla scorta del rinvio a parametri di moralità sociale, mentre è, ancora una volta, la diligenza, quella però dell’art. 1176, 1° comma, c.c. — quale generale criterio di misurazione dell’esatto adempimento dell’obbligazione del debitore — a fungere da metro valutativo dei relativi contegni strumentali al soddisfacimento dell’interesse di protezione del datore (ma anche del lavoratore, qualora si tratti di obblighi di protezione gravanti sul primo), ogni qualvolta tali contegni assumano contenuto positivo (352) e se ne debbano individuare le corrette modalità di svolgimento, con altrettanta rilevanza ai fini del giudizio di responsabilità ex artt. 1218 e 2106 c.c. (353). 8. Segue: l’obbedienza e il potere direttivo. Se il 1° comma dell’art. 2104 e gli artt. 1175-1375 c.c. si “spartiscono”, per così dire, il campo nell’ambito delle posizioni (351) Carabelli, p. 47; Cester, 2007, p. 92 s. (352) Come precisa, infatti, Mengoni, 1954, p. 368, nt. 12, « gli obblighi di protezione hanno uno scopo puramente negativo, (...) ma non per questo il loro contenuto è necessariamente negativo ». (353) Rodotà, 1964, p. 3, che correttamente osserva come la buona fede costituisca « il criterio in base al quale si determina il contenuto della prestazione: la diligenza verrà in questione unicamente come criterio di valutazione del comportamento del debitore, tenuto a quella prestazione già individuata »; nella dottrina lavoristica Cester, 2007, p. 97; Viscomi, 1997, p. 275; contra, nella dottrina civilistica, Breccia, 1968, p. 87, ma sulla scorta di una più generale critica alla funzione integrativa del contratto attribuita alla buona fede. 297 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore passive del prestatore, procedendo in parallelo lungo i binari segnati dall’obbligo primario di prestazione e, rispettivamente, dall’obbligo secondario di protezione, non così è quando si passa ad esaminare il 2° comma, dell’art. 2104 c.c. Il dovere di obbedienza ivi contemplato, in quanto « proiezione passiva dell’esercizio del potere direttivo », presenta una struttura soggettiva autonoma rispetto all’obbligo di prestare lavoro, perché, dipendendo dall’esercizio del correlativo potere », attiene allo svolgimento della prestazione e, quindi, all’attuazione del rapporto (354). Peraltro, esso copre un’area più ampia di quella collegata al mero esercizio dell’attività lavorativa, come ben dimostra il riferimento dell’art. 2104, 2° comma, c.c. al dovere di osservare non solo « le disposizioni per l’esecuzione », bensì anche « per la disciplina del lavoro ». Pure ciò è un riflesso della connotazione del dovere di obbedienza alla stregua di “rovescio” del potere direttivo datoriale, che inerisce all’attuazione dell’obbligo principale di prestare l’attività lavorativa, ma altresì alla più generale gestione dell’impresa e della vita collettiva del personale al suo interno. Benché riconducibile a un unico fondamento contrattuale e ricostruibile in senso unitario, come potere giuridico al cui rispetto il lavoratore è tenuto in relazione alla (sola) circostanza dell’esecuzione dell’attività lavorativa (355) — sicché la violazione delle disposizioni impartite per suo tramite darà comunque luogo a inadempimento (356), riguardino esse l’esecuzione ovvero la disciplina del lavoro — si è giustamente insistito, da ultimo, sul distinguo tra un potere direttivo stricto sensu inteso, che potremmo ritenere inerente all’attuazione del lavoro, e un potere più latamente organizzativo, destinato a preservare la dimensione organizzativa dell’impresa e a disciplinare l’ordinato svolgimento della vita aziendale (357). (354) Grandi, 2004, p. 725 ss., spec. p. 746 s. (355) Persiani, 1966, p. 198, criticamente rispetto alla tesi di Suppiej, 1963, II, p. 73 circa la « esistenza di poteri del datore di lavoro che prescindono dall’esecuzione dell’attività lavorativa e che ad esso sarebbero attribuiti come titolare dei diritti di godimento sui beni organizzati ». (356) Persiani, 1966, p. 197. (357) V. Pantano, 2012, p. 62 ss., spec. p. 64 s., che parla di « potere direttivo in senso proprio », riconoscendogli la funzione di individuare l’oggetto dell’obbligazione, nell’ambito di una ricostruzione di quest’ultima come obbligazione di risultato, e potere « di conforma- 298 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Quando il potere direttivo si presenta nella prima forma, esso è diretto a specificare, conformare, organizzare i modi di adempimento dell’obbligo principale di prestare lavoro, facendo penetrare al suo interno l’interesse dell’impresa ai fini del soddisfacimento dell’aspettativa alla prestazione del datore. A tal stregua, la direzione e le disposizioni dell’imprenditore potranno volgersi a specificare i compiti volta a volta richiesti tra quelli rientranti nelle mansioni oggetto del contratto (funzione specificativa); potranno orientarsi a individuare le modalità tecniche o spazio-temporali a cui il prestatore dovrà adeguarsi (funzione conformativa) ovvero indicare i soggetti cui il prestatore sarà tenuto effettivamente a rispondere (funzione di organizzazione gerarchica) (358). L’inosservanza di tali disposizioni e, dunque, del dovere di obbedienza, potrà comportare, in certi casi, la violazione della stessa regola di diligenza, con la quale il dovere di obbedienza è chiamato ad articolarsi, siccome destinato a inverare quell’interesse dell’impresa al quale la diligenza medesima va commisurata. Ciò può accadere, ad esempio, quando il lavoratore svolga comunque l’attività lavorativa, ma senza il rispetto delle direttive, oppure senza coordinarsi con i suoi colleghi ed i superiori, sicché non v’è dubbio che egli potrà ritenersi inottemperante (non all’obbligo di prestare, ma) al dovere di tenere una condotta diligente (359). Diversamente, potrà dirsi, invece, quando il prestatore rifiuti del tutto l’esecuzione del lavoro imposta dal datore per il tramite di specifiche direttive oppure si opponga, ad esempio, ad un trasferimento geografico, disattendendo così allo svolgimento delle opere negozialmente convenute. A tal stregua, egli si sottrarrà ai suoi doveri contrattuali, facendo mancare del tutto la prestazione, sicché si configurerà un’ipotesi di vero e proprio inadempimento dell’obbligazione di prestare lavoro. zione », destinato ad agire sulle condotte del lavoratore per « provvedere alla regolarità e correttezza della vita aziendale ». Cfr. anche Carabelli, 2004, p. 25 ss. (358) Mattarolo, 2007, p. 287. (359) V’è allora da chiedersi se possa ritenersi davvero diligente il lavoratore che presti in maniera tecnicamente ineccepibile la prestazione, ma senza il rispetto delle direttive imprenditoriali: probabilmente, la risposta dovrebbe essere negativa, perché il lavoratore in parola avrà posto in essere una condotta diligente dal punto di vista professionale, cioè della natura della prestazione, ma non da quello dell’interesse imprenditoriale, destinato ad esprimersi proprio per il tramite del potere direttivo. Diversamente però Mengoni, 1965, p. 475. 299 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Le cose cambiano qualora il potere si presenti in forma più latamente organizzativa, siccome destinato a preservare la dimensione produttiva dell’impresa e l’ordinato svolgimento della vita aziendale. Qui le disposizioni imprenditoriali appaiono dirette a regolamentare aspetti riconducibili all’adempimento dell’obbligo secondario di protezione (360), giacché connessi a esigenze di salvaguardia dell’organizzazione, dal punto di vista statico (della custodia di beni, strumenti, ecc.), dinamico (della conservazione delle posizioni di mercato) e gestionale (del rispetto del buon funzionamento dell’organizzazione, nella sua dimensione gestionale del lavoro e della convivenza tra persone) (361). Come dunque può comprendersi, il mancato rispetto del dovere di obbedienza non ha rilievo autonomo rispetto all’inosservanza degli obblighi di prestazione e protezione, già ricollegabili agli artt. 2094 e 2104, 1° comma, e rispettivamente, agli artt. 2105 c.c., 1175 e 1375 c.c., nonché alla relativa contrattazione collettiva. Questa, almeno sul versante degli obblighi di protezione, è solita già da sé ampliare la posizione di vincolo gravante sul lavoratore con l’introduzione di clausole contenenti doveri e situazioni passive ulteriori rispetto a quelle dell’art. 2105 c.c. Benché la prevalente dottrina non revochi in dubbio la validità di simili clausole, ci si è interrogati su tale fenomeno, che importa un allargamento del potere organizzativo imprenditoriale, sul presupposto evidentemente che il contenuto dell’art. 2105 medesimo non sia esaustivo, né vincolante, con conseguente possibilità di introdurre doveri accessori ulteriori a carico del lavoratore, assai « più prossimi al concetto tecnico di fedeltà esistente nel diritto delle persone » (362) e, quindi, lontani dallo stesso significato di correttezza e buona fede qui accolto. Di certo, invece, rappresenta un limite al potere direttivo l’esistenza di obblighi di protezione a carico (anche) del datore di lavoro, la cui inosservanza può determinare il ricorso del lavora(360) Tant’è che anche chi non parte dalla teoria dei doveri di protezione, parla comunque di « esigenze di convivenza imposte dall’organizzazione oppure a tutela del patrimonio aziendale »: Liso, 1982, p. 56, nt. 62. (361) Per l’impostazione tradizionale, invece, ribadita di recente in Pantano, 2012, p. 62, il potere conformativo sarebbe finalizzato a garantire il sostrato della prestazione: v. anche Napoli, 1980, passim; Montuschi, 1973, p. 42. (362) Tullini, 1988, p. 991. 300 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore tore all’eccezione di inadempimento nei limiti di cui all’art. 1460, 2° comma, c.c. La tesi, già affermata con riferimento all’inottemperanza del dovere di sicurezza ex art. 2087 c.c. (v. retro, § 5), dovrebbe essere sostenuta, in linea generale, anche per l’ipotesi di inadempimento del dovere di garanzia della professionalità del lavoratore, parimenti riconducibile all’area della salvaguardia del prestatore nella sua dignità personale, dunque, al novero degli obblighi di protezione facenti capo al datore (363). Andrebbe forse rimeditata la tesi secondo cui il demansionamento, non costituendo « inadempimento delle obbligazioni fondamentali del datore di lavoro », è inidoneo a legittimare il rifiuto di eseguire mansioni dequalificanti, ogni qualvolta il datore assolva tutti gli altri obblighi (pagamento della retribuzione, copertura previdenziale e assicurativa, assicurazione, comunque, del posto di lavoro, ecc.). Per questa tesi, una parte potrà rendersi inadempiente ex art. 1460 c.c. « soltanto se è totalmente inadempiente l’altra parte e non quando vi sia potenziale controversia solo su di un’obbligazione, (...) oltretutto non incide(nte) (come, invece, avviene per la retribuzione) sulle immediate esigenze vitali del lavoratore » (364). Il ragionamento muove dalla condivisibile esigenza di limitare ai casi più seri il ricorso al 1° comma, dell’art. 1460 c.c., ma finisce per accreditare l’idea secondo cui l’inadempimento di obbligazioni secondarie riveste tendenzialmente una gravità minore e non possa, di regola, legittimare la sospensione della prestazione principale. A tale idea si è, però, giustamente replicato che il 2° comma, dell’art. 1460 c.c., nell’escludere l’impiego dell’exceptio ove « il rifiuto sia contrario alla buona fede », richiede non un giudizio di proporzionalità fra gli inadempimenti, bensì una valutazione complessiva dello scostamento dal programma negoziale originario, realizzatosi per effetto del mancato adempimento di una delle (363) V. Cass. civ., sez. lav., 26 maggio 2004, n. 10157, in LG, 2004, p. 1265 ss., con nota di Girardi; Cass. civ., sez. lav., 8 marzo 2006, n. 4975, in MGI, 2006; Cass. civ., sez. lav., 18 maggio 2012, n. 7963, in CED Cass., 2012; Cass. civ., sez. lav., 2 gennaio 2002, n. 10, in RIDL, 2003, II, p. 58, con nota di Quaranta. In dottrina Luciani, 2007, p. 49. (364) Cass. civ., sez. lav., 9 maggio 2007, n. 10547, in Ragiusan, 2007, 281-282, p. 290 ss.; Cass. civ., sez. lav., 23 dicembre 2003, n. 19689, in LG, 2004, p. 1169 ss., con nota di Dallacasa; Cass. civ., sez. lav., 7 febbraio 1998, n. 1307, in MGI, 1998; Cass. civ., sez. lav., 16 gennaio 1996, n. 307, in RIDL, 1996, II, p. 536 ss., con nota di Saisi; contra Cass. civ., sez. lav., 28 luglio 2000, n. 9957, in CED Cass., 2000; Cass. civ., sez. lav., 26 giugno 1999, n. 6663, ivi, 1999; Cass. civ., sez. lav., 12 ottobre 1996, n. 8939, ivi, 1996. 301 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore parti (365), pertanto a nulla rilevando il carattere primario o solo accessorio dell’obbligazione rimasta inadempiuta. Limiti al potere direttivo, espressione dell’obbligo di protezione facente capo al datore, derivano anche in materia di determinazione del periodo di riposo annuale del prestatore. La legge stabilisce il diritto di quest’ultimo a usufruire del menzionato riposo nel tempo stabilito dall’imprenditore, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del lavoratore. L’imprenditore ha, così, da un lato, l’obbligo di concedere le ferie al lavoratore, impegnandosi a non beneficiare della sua prestazione per un certo periodo, che il decreto legislativo n. 66 del 2003 fissa in almeno quattro settimane all’anno; dall’altro, gode di un potere di fissarne la collocazione temporale (366), essendo in linea di principio vietata la c.d. autoassegnazione delle ferie ad opera del prestatore medesimo (367). La legge stabilisce un termine finale per l’adempimento dell’obbligo di concedere le ferie al lavoratore, considerato che queste vanno godute « per almeno due settimane, (...) nel corso dell’anno di maturazione e, per le restanti due settimane, nei 18 mesi successivi al termine » di quell’anno, salvo diversa disposizione dell’autonomia collettiva (368). Non impone, invece, al datore di esercitare il proprio potere determinativo di collocazione del riposo entro tempi ragionevoli, in rapporto al vantaggio che la controparte ne deve trarre, pur stabilendo un dovere di comunicazione preventiva al prestatore di lavoro del periodo di godimento delle ferie. (365) Ferrante, 2004, pp. 153 ss. e 281 ss. (366) Per Trib. Milano, 18 febbraio 2004, in RCDL, 2004, p. 657 ss., con nota di Bacciola, è, tuttavia, « illegittima la determinazione unilaterale del periodo di godimento delle ferie da parte del datore di lavoro, allorché il Ccnl preveda che il calendario delle ferie debba essere definito con le Rsu », per una recente rassegna giurisprudenziale cfr. Ponte, 2014, p. 1205 ss., spec. p. 1215 ss. (367) Cass. civ., sez. lav., 10 gennaio 1994, n. 175, in RIDL, 1994, II, p. 710 ss., con nota di Pizzoferrato; Cass. civ., sez. lav., 7 maggio 1992, n. 5393, in MGL, 1992, p. 492 ss.; più di recente, Cass. civ., sez. lav., 14 aprile 2008, n. 9816, in MGI, 2008; Trib. Udine, 2 maggio 2013, in ADL, 2014, pp. 790 ss., con nota di Galletti. (368) Sia pur con riferimento alla disciplina previgente, v. Cass. civ., sez. lav., 24 ottobre 2000, n. 13980, in RIDL, 2001, II, p. 504 ss., con nota di Calafà, secondo cui le ferie annuali vanno godute nel termine previsto dalla legge, sicché il datore di lavoro non può pretendere che il lavoratore ne goda successivamente, essendo piuttosto tenuto al risarcimento del danno per mancata fruizione delle stesse. 302 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Potrebbero, allora, soccorrere a riguardo la correttezza e la buona fede. Queste, intese come clausole impositive di un vincolo, a carico di ciascuna parte, « di salvaguardare l’utilità dell’altra nei limiti in cui ciò non importi un apprezzabile sacrificio a suo carico » (369), ben sarebbero idonee a fondare un obbligo dell’imprenditore di comunicare la collocazione delle ferie « con quel preavviso che consenta al lavoratore di organizzare in modo conveniente » il proprio tempo-libero (370). Lo stesso potrebbe dirsi a proposito dello spostamento del periodo di riposo annuale, già determinato ex ante. La giurisprudenza afferma la legittimità di tale spostamento (371), ma bisognerebbe quantomeno pretendere dal datore un comportamento ispirato a correttezza e buona fede, sicché ogni modifica del “piano ferie” preventivamente fissato dovrebbe intervenire in tempi utili a permettere al lavoratore di programmare la gestione delle sue ferie nella maniera più vantaggiosa, così come qualsiasi obiezione del prestatore stesso alla modifica introdotta dall’azienda dovrebbe pervenire tempestivamente a quest’ultima, essendo lo stesso prestatore investito di un dovere di corretto comportamento. Sotto altro profilo, se la legge richiede che la determinazione del periodo feriale avvenga ad opera dell’imprenditore, ma sulla scorta della valutazione comparativa delle diverse esigenze aziendali e del lavoratore (372), le clausole generali ora menzionate (369) Bianca, 1983, p. 210. (370) Trib. Milano, 12 dicembre 2005, in OGL, 2006, p. 142 ss.; v. anche Trib. Milano, 17 gennaio 2002, in RCDL, 2002, p. 413 ss., con nota di Bulgarini D’Elci, che ha ritenuto contrario a correttezza e buona fede il « lungo, (...) irragionevole e immotivato silenzio del datore di lavoro alla richiesta di ferie avanzata con congruo anticipo dal prestatore ». (371) Addirittura sarebbe legittima anche la modifica unilaterale, che sopravvenga alla determinazione concordata delle ferie imposta dalla contrattazione collettiva, secondo Cass. civ., sez. lav., 11 febbraio 2000, n. 1557, in MGL, 2000, p. 637, con nota di Stanchi. (372) Per Pret. Milano, 20 gennaio 1999, in RCDL, 1999, p. 359 ss., « è illegittima la determinazione unilaterale del periodo di godimento delle ferie da parte del datore allorché non venga tenuto conto anche degli interessi dei lavoratori e non vi siano comprovate esigenze organizzative aziendali »; tuttavia, secondo Mattarolo, 2012, p. 670, nt. 837 è censurabile la tesi di Cass. civ., sez. lav., 11 febbraio 2000, n. 1557, cit., secondo cui l’obbligo dell’imprenditore di tener conto degli interessi del lavoratore comporterebbe per quest’ultimo il dovere di « palesarli all’atto della fissazione (...) del periodo feriale in modo che il primo possa valutarli al fine della decisione da parte del lavoratore »; se così è, potrebbe, allora, ritenersi altrettanto criticabile la teoria espressa da Trib. Milano, 17 gennaio 2002, cit., secondo la quale anche il datore dovrebbe palesare i motivi del mancato accoglimento 303 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore imporrebbero, a propria volta, di dare una prevalenza all’interesse del lavoratore medesimo, almeno nella misura in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio a carico dell’impresa (373). Da tal punto di vista, è solo parzialmente appagante quella giurisprudenza, la quale si limita a sostenere che « l’esatta determinazione del periodo feriale », in forza di una comparazione tra i vari interessi coinvolti, « spetta unicamente all’imprenditore quale estrinsecazione del generale potere organizzativo e direttivo dell’impresa », « mentre al lavoratore compete la mera facoltà di indicare il periodo entro il quale intenda fruire del riposo annuale » (374). 9. Segue: ipotesi applicative. È alla luce della ricostruzione sin qui proposta, specie del rapporto tra clausole generali e diligenza, che vanno ora individuati e sinteticamente vagliati i modelli di comportamento, nonché le relative norme sociali di condotta individuati dalla giurisprudenza in sede di “concretizzazione” delle clausole generali sul versante del prestatore di lavoro. 9.1. Comportamenti diretti all’adempimento della prestazione. Lungo questa strada, spicca, intanto, un primo gruppo di pronunce, ove i giudici procedono a valutare condotte, le quali appaiono, per la verità, difficilmente comprendibili nell’area governata dagli artt. 1175 e 1375 c.c., come pure in quella presidiata dall’art. 2104, 1° comma, c.c. Così è, ad esempio, per le ipotesi di della richiesta di ferie formulata dal prestatore; sul tema, in dottrina, Ichino, 2003, p. 430 ss., spec. p. 432. (373) Invece, per l’insufficienza della tecnica normativa per clausole generali a garantire l’effettività del diritto alle ferie v. Bavaro, 2008, p. 264 ss.; valorizza, al contrario, l’idea secondo cui il potere di determinare le ferie « dovrà comunque essere esercitato secondo criteri di correttezza e buona fede » Occhino, 2010, p. 104; ancora più recentemente, Testa, 2012, p. 78 ss.; nella manualistica cfr. Carinci F., De Luca Tamajo, Tosi, Treu, 2013, p. 247. (374) Cass. civ., sez. lav., 18 giugno 1988, n. 4198, in MGL, 1988, p. 474 ss.; Cass. civ., sez. lav., 12 giugno 2001, n. 7951, in LG, 2002, p. 56 ss., con nota di Ferraù; Cass. civ., sez. lav., 26 luglio 2013, n. 18166, in ADL, 2014, p. 295 ss., con nota di Caponetti. 304 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore fraudolenta timbratura del cartellino (375), di simulazione della malattia con presentazione di falso certificato medico (376), di mancata reperibilità alla visita medica di controllo disposta dal datore (377), tutte idonee a dar luogo a un’assenza ingiustificata del lavoratore, suscettibile di essere qualificata alla stregua di vero e proprio inadempimento dell’obbligazione principale di prestare lavoro. Lo stesso può concludersi per il comportamento doloso consistito nell’omessa consegna della posta da parte di un portalettere, nella cui borsa erano state rinvenute alcune raccomandate aperte, che dagli atti dell’ufficio risultavano regolarmente consegnate ai destinatari (378). V’è proprio bisogno di scomodare « la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro », in uno con « i più basilari principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto di lavoro » per ricondurre un simile contegno nel novero della giusta causa di licenziamento o non è, invece, sufficiente sottolinearne, a rigore, la natura di inadempimento dell’obbligo contrattuale di prestare lavoro assunto ex art. 2094 c.c.? 9.2. Comportamenti diretti all’adempimento di compiti complementari e strumentali. Un secondo gruppo di pronunce riguarda la valutazione di condotte collegate allo svolgimento di compiti complementari e strumentali, detti anche “accessori”, rispetto alle mansioni di assegnazione. La giurisprudenza li ha generalmente ritenuti “esigibili” dal datore, ma sulla scorta di argomentazioni non sempre limpide e univoche. Anche qui pare che il problema meriti soluzione al di fuori dei confini tracciati dagli artt. 1175, 1375 e 2104, 1° comma, c.c., precisamente, sul piano della individuazione dell’oggetto del contratto. Non è, forse, necessario affidarsi alla categoria degli « ob(375) Pret. Milano, 23 aprile 1986, in OGL, 1986, p. 752. (376) Cass. civ., sez. lav., 22 ottobre 1998, n. 10514, cit. (377) Cass. civ., sez. lav., 9 novembre 2002, n. 15773, in GC, 2002, I, p. 3054; Cass. civ., sez. lav., 11 agosto 1993, n. 8612, in MGC, 1993, p. 1276; TAR Reggio Calabria, 25 novembre 2002, n. 1781, in GM, 2003, p. 562. (378) Cass. civ., sez. lav., 7 ottobre 2013, n. 22791, in LG, 2014, p. 367 ss., con nota di Garofalo C. 305 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore blighi integrativi strumentali », frutto, secondo alcune teorie, di un’integrazione del contratto alla stregua della clausola di buona fede (379), per sostenere la natura obbligatoria di simili contegni (380). Ciò balza all’evidenza se si considera che la « “professionalità rappresentata in una qualifica, contiene”, oltre ai compiti ed alle operazioni esplicitate contrattualmente, altri compiti “interni”, immediatamente preparativi o inscindibilmente connessi con quelli esplicitamente caratterizzanti”. (...) L’identificazione della prestazione dovuta per via del riferimento alle mansioni di assegnazione non esclude », dunque, « l’adempimento di compiti “immediatamente preparatori”, “inscindibilmente strumentali” o “interni”, quand’anche non espressamente previsti in sede di individuazione dell’oggetto contrattuale » (381). Così stando le cose, il problema diventa, allora, « quello di individuare esattamente l’area complessiva o globale di atti dovuti » (382), in quanto ricompresi nel vincolo obbligatorio primario, quindi, nelle mansioni negozialmente convenute e, come tali, esigibili. Dovendosi procedere a una ricostruzione del contenuto oggettivo dell’obbligazione di prestare lavoro, sarà la concreta organizzazione aziendale, in una con le normali modalità di adempimento entro un tal contesto a costituire il punto di riferimento imprescindibile a riguardo (383). Il criterio della diligenza, nella sua funzione di strumento valutativo dell’esattezza dell’adempimento dell’obbligo principale, interverrà solo dopo, per misurare l’idoneità della condotta del debitore prestatore, incluso quella relativa allo svolgimento di compiti complementari e strumentali, al soddisfacimento dell’interesse dell’imprenditore creditore (384). (379) Sulla scorta della dottrina tedesca, cfr. Betti, 1953, p. 96 ss.; Mancini, 1957, p. 81 ss. ed altresì Mengoni, 1954, pp. 203 e 370, che, tuttavia, collega gli obblighi integrativi strumentali ex art. 1375 alla diligenza, intesa come conservazione della possibilità di adempiere; per una concezione della buona fede come clausola posta a presidio della possibilità dell’esatto adempimento, v. da ultimo Ferrante, 2012, p. 151; Id., 2004, p. 43 s. (380) Così, invece, più di recente, anche Mazzotta, 2008, p. 489. (381) Viscomi, 1997, p. 276 s. (382) Grandi, 1987, p. 341. (383) Viscomi, 1997, p. 277. (384) Ibidem, p. 277 s., « essendo (quelli complementari e strumentali) compiti deducibili per via di una pertinente individuazione della prestazione dovuta in relazione alle modalità normali di adempimento di un dato contesto organizzato, non è dunque nella 306 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Di questo la giurisprudenza non sembra, tuttavia, mostrare piena consapevolezza, perché, se un lato, si concentra correttamente su un particolareggiato esame delle caratteristiche concrete assunte dall’organizzazione del lavoro entro cui il prestatore è inserito, sì da delimitarne esattamente la posizione debitoria (385), dall’altro, inquadra detto esame nel contesto della diligenza (386). Giunge così a imputare la doverosità dei compiti “accessori” all’art. 2104, 1° comma, invece che all’art. 2094 c.c., come, invece, suggerirebbe un rigoroso inquadramento della tematica in parola nell’ambito della ricostruzione del contenuto oggettivo dell’obbligazione di lavoro (387). Interrogativi di un certo rilievo potrebbero, a questo punto, concernere i rimedi correlati al mancato o inesatto svolgimento (a stregua di diligenza) dei compiti summenzionati. Se si ritiene, come si è fin qui sostenuto, che detti compiti siano parte integrante delle mansioni oggetto del contratto, occorre concludere che il loro difetto o la loro non esatta attuazione integri a ogni effetto gli estremi dell’inadempimento della prestazione principale, senza possibilità di distinguo alcuno rispetto all’adempimento dei restanti compiti (388). regola formale di diligenza che si fonda l’obbligo del prestatore di eseguire compiti integrativi ». (385) Pret. Cagliari, 25 settembre 1995, in DL, 1996, II, p. 45 ss., che ha ravvisato gli estremi della insubordinazione nel rifiuto di un caporeparto di una tipografia ove si stampava un quotidiano di svolgere l’operazione preliminare di avvio dei compressori, necessaria ad assicurare il funzionamento dell’impianto e la pubblicazione del quotidiano stesso, rinvenendo, alla luce delle modalità concrete di organizzazione del lavoro, l’esistenza di un obbligo del prestatore « di attivarsi » a riguardo; Cass. civ., sez. lav., 28 marzo 1992, n. 3845, in NGL, 1992, p. 496 ss., per l’esclusione di un obbligo di vigilanza a carico del prestatore, siccome rientrante nelle mansioni di altri colleghi. (386) Pret. Cagliari, 25 settembre 1995, cit.; Cass. civ., sez. lav., 28 marzo 1992, n. 3845, cit.; potrebbe, invece, effettivamente accedere all’area governata dalla diligenza la questione decisa da Cass. civ., sez. lav., 27 settembre 2000, n. 12769, in RIDL, 2001, II, p. 446 ss., con nota di Nadalet, che ha ritenuto legittimo il licenziamento irrogato al dipendente di banca per aver dato corso a rilevanti operazioni di bonifico già autorizzate dal direttore di filiale senza passare per la “prassi aziendale”, introdotta direttamente dai lavoratori, consistente nel riscontro telefonico di ogni operazione richiesta dai clienti a mezzo fax. (387) Cfr. Grandi, 1987, p. 341, che opportunamente sottolinea come « la problematica degli obblighi integrativi non autonomi » si dissolva, così, nella ricostruzione del contenuto oggettivo dell’obbligazione di lavoro »; v. anche Natoli, 1974, p. 18. (388) È stato, pertanto, ritenuto legittimo il licenziamento per giustificato motivo soggettivo del propagandista di prodotti medicinali, causato dal ritardo, nonostante le 307 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Qualche notazione va dedicata, però, alle modalità di esatta individuazione delle condotte dovute in forza del vincolo contrattuale alla prestazione. V’è da interrogarsi soprattutto a proposito di quell’orientamento giurisprudenziale, che esclude la doverosità di certi comportamenti accessori nei confronti di un lavoratore, qualora formino oggetto delle specifiche mansioni di altri colleghi (389). La tesi sembra corretta, potendosi in simili casi escludere, proprio alla luce di una precipua analisi dell’organizzazione di lavoro, che detti compiti accedano a quelli propri della mansione del primo prestatore. Ciò, tuttavia, non esime dal pretenderli in taluni casi, (questa volta sì) a stregua di correttezza e buona fede anche da coloro i quali non vi siano obbligati espressamente. Se si ragionasse in modo diverso si rischierebbe di giungere a esiti paradossali. Così è accaduto quando i giudici hanno ritenuto illegittimo il licenziamento della terapista di un minore inabile, la quale, sul presupposto che incombesse ai portantini prendere in consegna il paziente per ricondurlo dalla palestra al luogo di degenza, lo aveva lasciato privo di sorveglianza una volta terminata la cura, così consentendogli di impossessarsi di una serie di « chiodini ad incastro » e ingerirne, in quel mentre, una gran quantità (390). Potrebbe anche consentirsi sul fatto che alla terapista non spettasse vigilare il minore inabile fino all’arrivo dei portantini e che la vicenda nascondesse un problema non irrilevante di organizzazione del lavoro inefficiente e insicura. Tuttavia, non v’è dubbio come in forza dell’obbligo di protezione incombente (anche) sui prestatori (v. ora, del resto, l’art. 20 d.lgs. n. 81 del 2008), la terapista avrebbe dovuto segnalare immediatamente il problema ed evitare di abbandonare il paziente, in spregio a qualsiasi regola attingibile da parametri di moralità sociale. Del resto, correttezza e buona fede sollecitano proprio comportamenti ispirati a solidarietà nei confronti della controparte; il che può anche tradursi nello svolgimento di mansioni diverse, qualora sia necesripetute diffide, nell’invio alla sede della società di rapporti informativi circa la qualità e qualità dei prodotti dei prodotti medicinali venduti, impedendo così la conveniente e continua ricostituzione delle scorte di magazzino: Cass. civ., sez. lav., 26 settembre 1995, n. Cass. 12 luglio 2002, n. 10187, in RIDL, 2003,II, 53, con nota di Casciano (389) Cass. civ., sez. lav., 28 marzo 1992, n. 3845, cit. (390) Ibidem. 308 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore sario per venire incontro a improrogabili e contingenti esigenze aziendali (391). 9.3. Comportamenti diretti alla conservazione di beni del datore di lavoro in funzione della prestazione (dovere di custodia). Qualche brevissima considerazione merita un terzo gruppo di pronunce, relativo alla valutazione di comportamenti diretti alla conservazione delle materie prime, della merce, degli strumenti di lavoro forniti dal datore di lavoro per la prestazione. La giurisprudenza ne ha ravvisato la doverosità, intravvedendovi gli estremi di un vero e proprio obbligo di custodia accessorio rispetto all’obbligazione principale di prestare l’attività lavorativa (392). Siamo, dunque, nell’area governata dalla diligenza dell’art. 2104, 1° comma, c.c. (393), non in quella presidiata dalle clausole di correttezza e buona fede, fonte di obblighi diretti al soddisfacimento dell’interesse alla protezione del creditore datore di lavoro (e non alla prestazione). Si è molto discusso circa la ripartizione dell’onere probatorio conseguente alla violazione dell’obbligo in parola. È prevalsa l’idea secondo cui il danneggiamento del bene sotto custodia costituisce già in sé inadempimento; sicché al datore spetterebbe provare, (391) Cfr. Cass. civ., sez. lav., 12 luglio 2002, n. 10187, cit., la quale ha ritenuto legittima anche l’adibizione del prestatore a mansioni non strettamente equivalenti, se ciò « sia imposto da improrogabili esigenze aziendali »; v. anche Cass. civ., sez. lav., 4 luglio 2002, n. 9709, in GD, 2004, 1, p. 47 ss., per cui « la disposizione di cui all’art. 2103 c.c., che tende a tutelare la professionalità del lavoratore, non impedisce che allo stesso possa essere richiesto lo svolgimento di attività corrispondenti a mansioni inferiori, quando ciò avvenga eccezionalmente e marginalmente, e per specifiche ed obiettive esigenze aziendali »; sul punto Ichino, 2003, p. 258; in generale sul tema delle mansioni, incluso quello, non del tutto coincidente, però, con il presente, della legittimità di assegnazione a mansioni promiscue, v. Brollo, 1997, p. 129 ss. (392) Cass. civ., sez. lav., 13 dicembre 1995, n. 12758, in RIDL, 1996, II, p. 530 ss., con nota di Calafà; v. Cass. civ., sez. III, 23 gennaio 1986, n. 430, in MGI, ma per l’obbligo di custodia gravante sul lavoratore autonomo. (393) Cass. civ., sez. lav., 26 maggio 2008, n. 13530, in MGI, 2008; Cass. civ., sez. lav., 13 dicembre 1995, n. 12758, cit.; Cass. civ., sez. lav., 26 maggio 2000, n. 6664, in MGI, 2000; Cass. civ., sez. III, 21 ottobre 1991, n. 11107, ivi, 1991; Cass. civ., sez. lav., 26 ottobre 1987, n. 7861, ivi, 1987; Pret. Trieste, 18 maggio 1989, in NGL, 1990, p. 49 ss.; Cass. civ., sez. lav., 3 giugno 1982, n. 3416, ivi, 1982, p. 349 ss.; Pret. Napoli, 30 novembre 1981, ivi, 1982, p. 17 ss. 309 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore oltre a ciò, solo l’esistenza di un rapporto di causalità « con la materiale condotta (anche omissiva) del lavoratore », competendo piuttosto a quest’ultimo la prova della propria diligenza, con conseguente non imputabilità del fatto ex art. 1218 c.c. (394). Più condivisibile sembra, tuttavia, l’orientamento opposto, atteso che l’obbligo di custodia rientra a tutti gli effetti nell’obbligazione principale di svolgere il lavoro (che è obbligazione di comportamento), quindi nella prestazione dovuta, di cui dovrà dimostrarsi l’inesatto adempimento, proprio sulla scorta della prova relativa alla sua negligente esecuzione (395). 9.4. Comportamenti diretti alla conservazione della propria persona in funzione della prestazione (dovere di cura della propria salute). Un quarto e più cospicuo gruppo di pronunce riguarda comportamenti tenuti dal prestatore in costanza di malattia e di per sé suscettibili di incidere negativamente sulla sua guarigione in vista della ripresa del lavoro. Emerge così all’attenzione il tema, assai discusso, degli obblighi preparatori all’adempimento, intesi come condotte vincolanti, aventi ad oggetto tutto quanto necessario a rendere possibile la prestazione lavorativa, anche nella forma di un dovere del lavoratore di cura della propria persona. Parte della dottrina ne ha affermato l’esistenza alla stregua di obblighi autonomi; altra parte li ha sostanzialmente ricondotti entro la regola della diligenza, da intendersi in senso conservativo. In entrambe le ipotesi, se ne è rinvenuto il fondamento nella correttezza o, rispettivamente, nella buona fede. Tuttavia, simili ricostruzioni collidono con le tesi fin qui accolte e, pertanto, non appaiono persuasive. Si può, intanto, escludere che i menzionati obblighi abbiano una qualche attinenza con l’area governata dalle clausole generali, ove si collocano, invece, i soli doveri finalizzati alla realizzazione (394) Cass. civ., sez. lav., 26 maggio 2008, n. 13530, cit.; v. anche Cass. civ., sez. lav., 26 maggio 2000, n. 6664, cit.; Cass. civ., sez. III, 21 ottobre 1991, n. 11107, cit. (395) Cass. civ., sez. lav., 13 dicembre 1995, n. 12758, cit. 310 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore dell’interesse alla protezione del datore medesimo (396). Tra questi può, certo, annoverarsi l’obbligo del prestatore di salvaguardare la propria integrità psico-fisica ai sensi all’art. 20 d.lgs. n. 81 del 2008, cui corrisponde, come reciproco, un dovere di sicurezza dell’imprenditore, volto, di regola, ad imporre un vincolo di sorveglianza sanitaria del lavoratore a mezzo del medico competente. Non può, invece, dirsi lo stesso per quel dovere di cura della propria persona ricondotto entro gli obblighi preparatori all’adempimento. Esso è da intendersi, infatti, nel senso della conservazione, da parte del prestatore, della capacità psico-fisica di svolgere l’attività dedotta in contratto, conservazione, che, in quanto funzionale al soddisfacimento dell’interesse alla prestazione del datore, trova il suo corrispondente nel potere di controllo, esercitato dall’imprenditore attraverso i medici della struttura pubblica (397). Neppure può ipotizzarsi che i comportamenti generalmente riportati nel novero dei c.d. doveri preparatori trovino la propria “fonte” in una diligenza da intendersi secondo un’accezione propriamente conservativa. Ciò perché l’impegno del lavoratore volto a garantire la possibilità di adempiere sembra, piuttosto, imporre una serie di condotte direttamente riconducibili al dovere primario di prestazione, più che alla regola di cui all’art. 2104, 1° comma, c.c. Se s’intende, infatti, « la prestazione dovuta come attività che il debitore deve svolgere affinché sia procurata al creditore l’utilità attesa, è indubbio che il contegno da assumere in fase di preadempimento non può essere considerato ad essa estraneo ed anzi la integra nella misura in cui incide sul concreto procedimento di produzione del risultato cui il rapporto tende »; mentre, a propria (396) Diversamente potrebbe dirsi ovviamente qualora si facesse propria la tesi di Persiani, 1966, p. 238, riaffermata nel caso degli obblighi preparatori da Proia, 1991, p. 836 ss. sull’esistenza, per il tramite della buona fede, di una nozione di fedeltà atta a ricomprendere nelle obbligazioni derivanti dal contratto di lavoro « tutti i comportamenti necessari alla soddisfazione dell’interesse tipico del creditore valutato meritevole di tutela ». (397) È noto, infatti, che se il datore sottopone il lavoratore a visita di idoneità per tutelarne l’integrità psico-fisica, deve rivolgersi al medico competente (art. 41, 2° comma, d.lgs. n. 81 del 2008); se invece ne vuole valutare l’effettivo stato di malattia, quindi, l’impossibilità a prestare e il suo impegno a non ostacolare in alcun modo la subitanea guarigione in vista della ripresa dell’attività lavorativa, farà riferimento ai medici della struttura pubblica (art. 5 St. lav.). 311 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore volta, la diligenza funzionerà, come di consueto, da parametro (esterno) di misurazione del corretto adempimento (398). Non esistono, pertanto, obblighi preparatori autonomi da quello primario, destinati per questa strada ad attrarre nella « sfera del vincolo la totalità della vita umana » (399), ma comportamenti doverosi, misurati a stregua di diligenza e volti ad assicurare la possibilità di adempiere in rapporto al vincolo assunto con il contratto di lavoro, siccome introiettati nel profilo genetico del rapporto obbligatorio e qui espressi, nonché limitati dalla collaborazione (art. 2094 c.c.) (400). Anche qui, il problema diventa, allora, quello di individuare esattamente l’area degli atti dovuti in funzione dell’interesse del datore alla prestazione. È stato osservato, a tal stregua, che il vincolo obbligatorio primario non è riducibile « alla sola prestazione di lavoro in sé considerata » in relazione al solo interesse del datore di lavoro, poiché vanno considerati pure gli interessi del lavoratore, « ove questi ricevano una tutela preminente o non siano sacrificabili rispetto all’interesse stesso a ricevere la prestazione. Il problema, (però), è difficilmente risolubile in termini generali » e va affrontato con riguardo alle singole fattispecie concrete, nonché all’assetto reale degli interessi in gioco (401). Intanto, è giusto sottolineare come nell’attuale ordinamento non vi siano spazi « per la dilatazione dell’impegno contrattuale fino a comprimere la dignità della persona e della sua dignità (398) Viscomi, 1997, p. 259; V. anche Natoli, 1984, p. 83, che riconduce i doveri preparatori a una nozione “lata” di prestazione, invocandone a sostegno, tra i diversi indici normativi, anche quelli riguardanti la disciplina dell’infortunio in itinere. Detta disciplina, come ben osserva Viscomi, 1997, p. 258, nt. 74, può essere invocata « per argomentare che la regola di diligenza è misura e non fonte dei doveri preparatori ». Ciò è chiaramente espresso dalla giurisprudenza quando nega l’indennizzabilità nel caso in cui il “dovere preparatorio” di recarsi sul posto di lavoro sia stato realizzato esso stesso in modo negligente (cfr. Corte conti, sez. IV, 2 aprile 1993, n. 8096, in RCC, 1993, p. 179)”, cioè attraverso l’uso di mezzi privati e non, in presenza di condizioni ottimali, di mezzi pubblici; cfr. pure Smuraglia, 1967, p. 121, che fa richiamo alla diligenza allo scopo di valutare il comportamento del prestatore in fase preparatoria. (399) Napoli, 1980, p. 177. (400) Viscomi, 1997, p. 258; v. anche Natoli, 1984, p. 90, secondo il quale, per valutare il comportamento nella fase preparatoria, appare evidente che il limite è costituito dal « margine d’incidenza dell’attività sul concreto procedimento di produzione del risultato »; insiste molto sulla questione anche Smuraglia, 1967, p. 235 ss. (401) Grandi, 1987, p. 341. 312 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore personale » (402). È stato osservato che « l’interesse del creditore cede infatti di fronte al diritto della persona al libero e pieno dispiegarsi delle sue potenzialità vitali, nel corso del tempo di non-lavoro (403). A partire da tale premessa, se si prescinde dall’ipotesi in cui il lavoratore con dolo si procuri l’infermità per porsi nell’impossibilità di lavorare, ipotesi evidentemente qualificabile come inadempimento (404), occorrerà distinguere tra i vari casi. Così in dottrina si è ritenuto legittimo il comportamento del lavoratore che nel tempo libero si dedichi all’esercizio di qualsiasi attività ludica o sportiva anche particolarmente pericolosa (volo in deltaplano, pesca subacquea a grandi profondità, difficili arrampicate in montagna, ecc.), ma non invece quello del prestatore impedito nel lavorare da uno sciopero del personale ferroviario debitamente preannunciato, di cui non aveva tenuto conto nel programmare i propri spostamenti del fine-settimana (405). La questione del rapporto « tra l’interesse dell’imprenditore al corretto adempimento della prestazione di cui è creditore e la libertà di godimento da parte del lavoratore dei diritti irrinunciabili » (406) inerenti alla propria esistenza si è posto analogamente anche con riferimento alle pause di lavoro, in particolare, alle ferie (407). Alcuni arresti giurisprudenziali sono apparsi particolarmente problematici: così è stato quando i giudici, proprio invocando gli artt. 1175 e 1375 c.c., hanno sancito la legittimità del licenziamento di un dirigente bancario della Caripe S.p.A., che si era recato a trascorrere il periodo di ferie in Madagascar, anche per esigenze di cura della madre ammalata, così assumendo, a detta dei magistrati, un rischio elettivo particolarmente elevato rispetto all’insorgenza della malaria, poi effettivamente contratta, con ripetute e lunghe assenze dal posto di lavoro per malattia (408). (402) Napoli, 1980, p. 177; Smuraglia, 1967, p. 337. (403) Ichino, 2003, p. 282. (404) Napoli, 1980, p. 178; Pandolfo, 1991, p. 111 nt. 92 (405) Ichino, 2003, p. 282. (406) Proia, 1991, p. 832. (407) Sul punto Mancini, 1957, p. 155 ss. sottolinea come l’obbligo di conservarsi in buona salute non possa giungere a pregiudicare il diritto alle ferie e ai riposi. (408) Cass. civ., sez. lav., 25 gennaio 2011, n. 1699, cit. 313 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Altre volte, la giurisprudenza è sembrata più equilibrata: così è stato allorché ha stabilito la legittimità del recesso intimato ad un pilota d’aereo che, in periodo di assenza dal servizio, aveva svolto attività di volo per altra società. Ciò sul presupposto che « la prestazione lavorativa in favore di terzi, durante i periodi di ferie o riposi, è sanzionabile ove pregiudichi l’attitudine fisio-psichica del pilota medesimo a rendere la propria prestazione lavorativa senza pericoli per la sicurezza del volo » (409). Come si vede, qui i magistrati, tralasciando ogni improprio richiamo alle clausole di correttezza e buona fede, hanno non solo dato spazio ad una verifica della conformità del comportamento preadempiente rispetto alla utilità attesa dal datore di lavoro creditore, ma anche valutato il comportamento medesimo alla luce della diligenza richiesta dalla natura della prestazione. Così dovrebbe essere, allora, anche ove si venisse, ad esempio, a giudicare la condotta del medico, il quale si ubriacasse il giorno prima di un’importante intervento chirurgico. Non è un caso che proprio con riguardo all’abuso di alcool o di stupefacenti, la giurisprudenza si sia orientata nel senso di non considerarlo elemento sufficiente a giustificare il licenziamento, neppure in presenza di abitualità o dipendenza dalle sostanze (410), salvo però che « la natura della prestazione (vi) sia radicalmente incompatibile (...) (come nel caso del pilota d’aereo, conducente di treno, guidatore di automezzo, o altri casi analoghi) » (411). Si diceva, ad ogni modo, di come la gran parte delle pronunce giurisprudenziali abbia trattato il tema qui in discussione soprattutto sotto il profilo dei comportamenti tenuti dal lavoratore nel corso della malattia. Qui il discorso assume tratti diversi, perché qui l’interesse del datore all’adempimento della prestazione rileva nel senso di un interesse alla verifica sia dell’effettivo stato di impossibilità sopravvenuta del prestatore allo svolgimento dell’at(409) Cass. civ., sez. lav., 5 dicembre 1990, n. 11657, cit. (410) Cass. civ., sez. lav., 26 maggio 2001, n. 7192, in RIDL, 2002, II, p. 205 ss., con note di Ichino e Pallini. (411) Ichino, 2003, p. 282, il quale, peraltro, sostiene l’esistenza di un obbligo contrattualmente dovuto di disintossicazione; ma la questione può essere controversa, considerato che neppure può ravvisarsi con certezza un obbligo di adoperarsi per la guarigione; v. comunque per i controlli in materia di sicurezza su alcool e tossicodipendenza Pascucci, 2014, p. 1 ss. 314 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore tività, sia della tenuta, ad opera del prestatore stesso, di comportamenti tali da non prolungare oltremodo detta impossibilità. Nella materia si registra un amplissimo richiamo agli artt. 1175 e 1375, in combinato disposto con gli artt. 2104 e 2105, al fine di accreditare l’idea, sintetizzata in un’ormai tralatizia formula, secondo cui « lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio » (412). A simili arresti la giurisprudenza è approdata da tempo, una volta abbandonata la più restrittiva tesi, volta a configurare lo svolgimento di altra occupazione in costanza di malattia quale contegno di per sé illegittimo alla luce di una buona fede intesa in senso pregnante, come fedeltà nei confronti dell’imprenditore. Per effetto di tale “nuovo corso”, il dedicarsi del lavoratore ammalato ad altri lavori non è più elemento idoneo a pregiudicare il vincolo fiduciario, ma diviene circostanza al pari di altre (esercizio di attività sportiva, ricreativa, ecc.), suscettibile di verifica quanto alla sua compatibilità con lo stato patologico in essere. Non si creda, tuttavia, che le reminiscenze del passato siano scomparse. Lo dimostra lo stesso perdurante richiamo agli artt. 1175 e 1375, tuttora abbinati all’art. 2105 c.c. nella cornice di un ragionamento che lega un po’ approssimativamente il tema della simulazione della malattia al problema dello svolgimento di altra attività lavorativa idonea a ritardare la guarigione. Sicché non è chiaro se le decisioni dirette a confermare la legittimità del licenziamento per avere il prestatore atteso ad altre occupazioni siano davvero fondate sulla « ritenuta idoneità del comportamento contestato a ritardare la guarigione, o non piuttosto sulla convinzione (412) Cass. civ., sez. lav., 14 settembre 2012, n. 15476, cit.; Cass. civ., sez. lav., 8 marzo 2013, n. 5809, in CED Cass., 2013; Cass. civ., sez. lav., 22 febbraio 2013, n. 4559, ivi, 2013; Cass. civ., sez. lav., 29 novembre 2012, n. 21253, in GD, 2013, p. 73; Cass. civ., sez. lav., 21 aprile 2009, n. 9474, in RCDL, 2009, p. 448, con nota di Scarcelli. 315 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore inespressa del giudice circa l’idoneità del comportamento stesso a dimostrare che l’impedimento al lavoro non sussisteva, o non era comunque tale da giustificare l’astensione dal lavoro » (413). Occorrerebbe, in verità, distinguere. Quando lo svolgimento di altro lavoro è indice di simulazione della malattia, non dovrebbero sussistere particolari perplessità in merito all’illiceità del comportamento. Per statuirlo non c’è bisogno di richiamarsi alla fedeltà, perché se la malattia è falsa, l’impossibilità di lavorare non esiste e il debitore di opere, sottraendosi immotivatamente all’obbligo di prestare lavoro, risulta inadempiente a tutti gli effetti. Diversamente qualora, invece, l’attività lavorativa prestata nel periodo di sospensione del rapporto non sia indice di una malattia simulata, ma si presenti comunque astrattamente idonea a ritardare la guarigione (414). Qui il comportamento denunciato dal datore si pone in violazione di una regola cautelare, ricollegabile alla stessa diligenza e si presenta certamente incoerente con quell’interesse alla prestazione, al cui soddisfacimento il lavoratore si è impegnato in forza del vincolo contrattuale. Il dato potrà senza meno rilevare sul versante disciplinare, a prescindere dal fatto che tale condotta determini, poi, l’effettivo prolungamento della malattia e, quindi, il difetto della prestazione dovuta, rilevante, invece, ai fini della responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c. (415). Solleva, infine, perplessità la tesi secondo cui il prestatore ammalato, ma in possesso ancora di residue capacità lavorative, debba offrire le proprie opere all’imprenditore da cui dipende, prima di fornirle, nel corso del periodo di malattia, ad altro datore. (413) Caro, 1992, p. 676. (414) Criticamente, invece, Boscati, 2012, p. 978 s. che propone una soluzione più drastica, volta a negare « lo svolgimento di qualsiasi attività in quanto di per sé idonea a precludere detto recupero, ferma la possibilità per il lavoratore di dimostrare che lo svolgimento occasionale di certe attività (...) sia funzionale in positivo ad un più rapido ed integrale recupero della forma psico-fisica ». Sarebbe forse preferibile distinguere tra l’esercizio di altra attività lavorativa, la cui retribuzione finisce peraltro per sommarsi con l’indennità di malattia, e lo svolgimento di altre attività non lavorative che al contrario potrebbero essere ammesse, ove compatibili. In ogni caso sarebbe auspicabile la produzione di certificati medici più precisi in merito alla necessità o meno di assoluto riposo in costanza di malattia; diversamente si rischia che l’indagine giudiziale circa la compatibilità delle attività compiute in stato di malattia conduca di caso in caso a soluzioni eccessivamente divergenti tra loro, come segnala lo stesso Boscati, 2012, p. 975 e nt. 41. (415) In senso contrario Mattarolo, 2000, p. 250 s.; Del Punta, 1992, p. 564 s. 316 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore È stato, infatti, osservato come un simile orientamento « presuppone che rientrino nell’oggetto del contratto » (416), anche mansioni diverse da quelle convenute, ovvero riconducibili alla qualifica di assunzione e ciò non pare persuasivo. 9.5. Comportamenti diretti a conformare l’aspetto esteriore della propria persona in funzione della prestazione (dovere di cura del proprio aspetto personale). Un quinto, meno cospicuo gruppo di pronunce attiene a comportamenti del prestatore relativi alla cura della propria persona dal punto di vista propriamente esteriore. Qui il richiamo agli artt. 1175 e 1375 è del tutto assente, sebbene la materia non possa dirsi certo estranea al campo di azione delle clausole generali. Lo confermano, intanto, tutte quelle direttive impartite dall’imprenditore al proprio personale nell’esercizio del potere direttivo, riguardanti l’obbligo di indossare divise, calzature, copricapo, indumenti protettivi, necessari allo scopo di salvaguardare la salute, l’igiene, la sicurezza dei prestatori di lavoro ex art. 2087 c.c. Si tratta di direttive vincolanti, la cui inosservanza espone i prestatori medesimi alla violazione del dovere di salvaguardare l’organizzazione altrui, dovere oggi tipizzato all’art. 20 d.lgs. n. 81 del 2008 (417). È, invece, riconducibile alla diligenza generica dell’art. 1176, 1° comma, c.c. l’adozione obbligatoria di comportamenti — ad opera indistintamente di tutti i lavoratori senza riguardo per le mansioni svolte — diretti a conservare una ragionevole decenza nella propria esteriorità, evitando altresì stravaganze eccessive (418). (416) Mattarolo, 2000, p. 249. (417) Ibidem, p. 375, ma in senso diverso dal testo, ravvisandosi nell’inottemperanza a simili direttive un’ipotesi di inadempimento al dovere di diligenza (tecnica) nella esecuzione della prestazione. Se, invece, si opta, come nella ricostruzione qui proposta, per la violazione dell’obbligo di sicurezza dell’art. 20 d.lgs. n. 81 del 2008, le modalità di esatto adempimento dell’obbligo saranno quelle della diligenza di cui all’art. 1176 c.c., poiché è quest’ultimo a fungere da metro valutativo del comportamento di protezione, nel cui ambito va ricondotto anche il citato dovere di sicurezza dei lavoratori. (418) Su alcune di queste stravaganze, v. Cass. civ. sez. lav., 21 dicembre 1991, n. 13829, in GC, 1992, I, p. 3083 ss., con nota di Pizzoferrato, per il caso di un bancario legittimamente punito sul piano disciplinare per essersi presentato al lavoro in canottiera; Trib. Latina, 19 settembre 1989, in RIDL, 1990, II, p. 248 ss., con nota di Poso e Pret. Latina, 10 novembre 1988, ivi, 1989, II, p. 551 ss., per il caso di un lavoratore invalido che 317 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Si collocano, poi, nel campo delle disposizioni per l’esecuzione del lavoro tutti gli ordini volti a imporre ai debitori di opere una particolare cura dell’aspetto esteriore, allorché ciò si leghi immediatamente alla esecuzione dell’attività lavorativa in vista del soddisfacimento dell’interesse alla prestazione proprio del datore creditore. In questo caso, la cura della persona è parte del dovere di svolgimento della prestazione secondo la diligenza professionale. Siamo, dunque, nell’area governata dall’art. 2104, 1° comma, c.c. Così, corrisponde senz’altro a un comportamento tecnicamente diligente, in rapporto alla « natura della prestazione », quello dovuto da chi, essendo preposto ad attività a contatto col pubblico, sia chiamato a dedicare una particolare attenzione al proprio aspetto fisico, alla pulizia personale, all’acconciatura dei capelli, alla rasatura della barba (419), all’abbigliamento in genere. Sempre nell’area della diligenza professionale si collocano, inoltre, quelle condotte orientate a recepire particolari modelli estetici o esteriori, siccome richiesti dall’azienda in ragione delle particolari caratteristiche cui si ispira il progetto organizzativo imprenditoriale. Si è fatto l’esempio del ristorante esotico nel quale si imponga ai camerieri di indossare abiti tipici del paese di cui si vuol riprodurre l’ambiente (420), ma si può pensare anche ad una discoteca, ove si prescriva al personale l’impiego di un look da sera, aggressivo e provocante. In questi casi, più che un contegno idoneo a salvaguardare l’immagine aziendale (421), si pretende un comportamento aderente all’indirizzo produttivo impresso dal datore alla propria azienda, insomma, una condotta che, in quanto finalizzata al soddisfacimento del risultato della prestazione, risulti improntata ex art. 2104, 1° comma, c.c. alla « diligenza richiesta (...) dall’interesse dell’impresa ». aveva ripetutamente indossato sul luogo di lavoro un cappello alla messicana e una stella da sceriffo; come osserva Montuschi, 2001a, p. 1051, « la giurisprudenza in tema di “giusta causa” di licenziamento offre sempre qualche spunto di riflessione fra il serio e il faceto. I giudici di merito e di legittimità sono costretti ad occuparsi un po’ di tutto », incluso delle « abitudini bizzarre di un lavoratore “modaiolo” (che amava vestirsi da “sceriffo”) (...) ». (419) Per App. Milano, 9 aprile 2002, in RIDL, 2002, II, p. 658 ss., con note di Ichino, Pera, non è, tuttavia, punibile disciplinarmente « il lavoratore addetto al reparto di gastronomia di un supermercato, per l’omissione della rasatura quotidiana della barba, richiesta da precise istruzioni aziendali ». (420) Ichino, 2003, p. 279. (421) Così, invece, Valente, 1999, p. 621 ss.; Ichino, 2003, p. 279. 318 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore È probabile, invece, che si ritorni entro l’area governata dai doveri di protezione ogni qualvolta l’aspetto esteriore richiesto dal datore al proprio dipendente non sia parte caratterizzante del progetto organizzativo imprenditoriale, ma corrisponda ad una più generale esigenza di immagine di « compostezza e serietà della struttura produttiva » (422), secondo i modelli corrispondenti alla “morale comune”: si pensi al caso dell’imprenditore che imponga al personale maschile di indossare pantaloni lunghi (423) o vieti l’uso di minigonne eccessive alle impiegate (424), ovvero impedisca di ornare la propria persona con piercing, ciondoli, treccine nei capelli e altri particolari accessori (425). In assenza di previsioni negoziali specifiche sull’argomento, ci si chiede se il datore di lavoro possa comunque pretendere comportamenti improntati al rispetto di simili regole, in forza delle clausole di cui agli artt. 1175 e 1375, che, integrando il regolamento contrattuale in sede esecutiva, impongono al prestatore debitore il rispetto di determinate norme sociali di condotta a salvaguardia dell’interesse di controparte. La risposta deve essere positiva, almeno se e nella misura in cui dette regole siano espressione dei parametri dell’esperienza sociale. Può condividersi l’idea secondo cui, anche in difetto di una disciplina negoziale ad hoc della materia, non si può impedire al datore di far valere « l’inaccettabilità di indumenti prescelti dai dipendenti e non consoni a quanto si può pretendere da un lavoratore subordinato, sulla base di criteri di comune convivenza e di abituale professionalità » (426). (422) Gragnoli, 1993, 427. (423) Cass. civ., sez. lav., 9 aprile 1993, n. 4307, in MGL, 1993, p. 426 ss., con nota di Gragnoli. (424) Pret. Milano, 12 gennaio 1995, in GC, 1995, I, p. 2267 ss., con nota di Pera ha tuttavia ritenuto « colpevole di molestie sessuali il dirigente d’azienda » che aveva invitato « una lavoratrice a non presentarsi al lavoro in minigonna per evitare apprezzamenti, con fischi e battute, da parte degli altri lavoratori », invece di punire i prestatori stessi per i loro comportamenti lesivi della dignità della lavoratrice. (425) Il tema è molto discusso nelle società anglosassoni, specie negli USA, patria della diversità culturale, etnica, razziale, ma anche Paese percorso da una lunga tradizione di lotte contro le discriminazioni, tradizione ripresa, nell’ambito del pensiero scientifico, dai c.d. critical legal studies: v., infatti, Klare, 1994, p. 567ss.; nella letteratura giuslavoristica italiana, Aimo, 2003, p. 283 ss. (426) Gragnoli, 1993, p. 429; a riguardo v. comunque l’orientamento di Pret. Roma, 3 dicembre 1998, in RGL, 1999, II, p, 619 ss., con nota di Valente, che ha condizionato le direttive sull’abbigliamento e sull’aspetto estetico alla sussistenza di ragioni produttive o di 319 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Il limite a tutto ciò è, tuttavia, rinvenibile nel significato stesso attribuito a correttezza e buona fede, quali clausole generali finalizzate ad imporre a ciascun contraente forme di rispetto e protezione dell’altrui utilità, ma sempre ove ciò non comporti un apprezzabile sacrificio dell’interesse proprio. Così, dovrebbe ritenersi legittimo, sulla scorta di un rinvio alla realtà sociale, il divieto di presentarsi a lavoro in pantaloni corti (427), non, invece, quello imposto ad una donna africana di portare capelli pettinati a treccine secondo costumi e, soprattutto, esigenze della propria etnia. In generale, la solidarietà verso l’altro contraente non tollererebbe mai un’intrusione nella sfera di libertà dell’individuo, tale da pretendere la rinuncia a modelli esteriori, che rappresentano simboli radicati di un’identità culturale, etnica o religiosa, nei quali si esprime la personalità dell’individuo, né mai potrebbero attentare al bene della dignità personale in generale (428), come lo stesso dovere di sicurezza gravante sul datore di lavoro e codificato all’art. 2087 c.c. si fa carico di dimostrare (429). 10. Correttezza e buona fede: il rapporto con la fedeltà. Una seconda conclusione. Si è visto come la giurisprudenza si sottragga di fatto ad un’opera di puntuale “concretizzazione” delle clausole generali, ora trascurandone del tutto la possibile invocabilità (v. retro, §§ 9.2. e 9.5.), ora richiamandole a sproposito (v. retro, § 9.1) ovvero, più frequentemente, abbinandole alla fedeltà in funzione ausiliaria della diligenza, sì da poter reagire direttamente sul dovere di immagine dell’azienda, in relazione alla natura dell’attività imprenditoriale esercitata e alla clientela cui la stessa si rivolge; ha così ritenuto illegittima la sanzione disciplinare irrogata ad un cameriere di ristorante, che, a fronte di un ordine di servizio volto a prevedere che « il personale maschile » dovesse « avere sempre il viso ben rasato, i capelli in ordine e ben tagliati, possibilmente con acconciature classiche », si era presentato a lavoro con un taglio di capelli corto, ma caratterizzato da una vistosa orlatura, in particolare da « una frangia anch’essa corta, (ma) divisa con gel in ciocchette ». (427) Potrà discutersi della gravità dell’infrazione e della sproporzione di un licenziamento irrogato al lavoratore in corrispondenza con il conflitto accesso nei confronti del datore dall’avere il primo indossato i pantaloni corti senza volerne rinunciare, ma non si può partire dal ragionamento opposto, come ha fatto Cass. civ., sez. lav., 9 aprile 1993, n. 4307, cit. (428) Bellavista, 1994, p. 226. (429) Ranieri, 2010, p. 27 ss. 320 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore prestazione, secondo un significato molto ampio e generico, sostanzialmente coincidente con i concetti di lealtà e fiducia (v. retro, § 9.4.). A fronte di simili orientamenti, è fondamentale, invece, ricondurre la correttezza e la buona fede entro il terreno elettivo loro proprio, segnato dall’interesse dell’imprenditore creditore alla salvaguardia della propria sfera giuridica, nei limiti in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio a carico della controparte. Su questa via, un primo problema attiene ai rapporti tra gli artt. 1175, 1375 e l’art. 2105 c.c., che, sotto la rubrica « obbligo di fedeltà », introduce, come noto, due doveri di contenuto negativo « finalizzati alla tutela di un interesse del datore distinto da quello primario alla prestazione di lavoro: l’interesse alla capacità di concorrenza dell’impresa e alla sua posizione di mercato » (430). È condivisibile, a riguardo, l’inquadramento della fedeltà — ricorrente nella stessa manualistica — alla stregua di obbligazione di protezione accessoria rispetto alla prestazione principale, con « la funzione di proteggere gli interessi che le parti potrebbero vedere pregiudicati dall’instaurazione di un rapporto obbligatorio », destinato a esporre « le proprie sfere giuridiche » a pericoli derivanti dall’attività della controparte (431). Pertanto, « che si tratti di una proiezione o di un’applicazione particolare dei più generali doveri di correttezza (art. 1175 c.c.) o di buona fede (art. 1375 c.c.), contro l’insorgenza di rischi derivanti dal cosiddetto “contatto sociale”, cui può dar luogo l’attuazione della prestazione principale, è affermazione tanto consueta quanto ormai non più assoggettabile a dubbi » (432). Un tale “contatto sociale” si rivela, peraltro, viepiù stretto e intenso, quando il contratto di lavoro implichi l’inserimento del debitore nell’organizzazione del creditore (433). Ciò può spiegare perché mai in taluni rapporti, ove un simile inserimento si verifica in maniera, appunto, così penetrante, il legislatore abbia sentito l’esigenza di tipizzare il dovere di protezione succitato e parallela(430) Carinci F., De Luca Tamajo, Tosi, Treu, 2013, p. 215. (431) Ibidem, p. 216; v. anche Ghera, 2006, p. 86 s.; Vallebona, 2011, p. 147. (432) Grandi, 1987, p. 343; Mancini 1957, p. 131 ss.; da ultimo, ma più tiepidamente, Mattarolo, 2000, p. 43; diversamente, sia pur con diverse impostazioni, Persiani, 1966, p. 248; Napoli, 1980, p. 207 ss.; di recente Boscati, 2012, p. 970; Menegatti, 2012a, p. 15 ss. (433) Da ultimo Pisani, 2004, p. 121. 321 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore mente quello di sicurezza: così è nel lavoro subordinato, ove, peraltro, i menzionati doveri permangono persino nell’ipotesi di prestazione di fatto (434), ma pure nel lavoro parasubordinato, ove questo si espleti nelle forme del lavoro a progetto (artt. 64, 66, 4° comma, d.lgs. n. 276 del 2003; v. però anche l’art. 3, 7° comma, d.lgs. n. 81 del 2008, che estende la tutela in materia di sicurezza anche ai collaboratori coordinati e continuativi). Numerosi problemi emergono, tuttavia, allorché, acclarata la natura accessoria dei doveri di cui all’art. 2105, ci si interroghi partitamente sui loro rapporti con le clausole di cui agli artt. 1175 e 1375. A riguardo, pesano soprattutto le incertezze che circondano la nozione di fedeltà. È stato a ragione sottolineato come « in proposito » si registri « da tempo un singolare fenomeno di incomunicabilità tra dottrina e giurisprudenza » (435). Ciò al punto da indurre nella prima (la dottrina) « l’impressione di una scoraggiante inutilità (quanto meno a fini applicativi) di una ricerca che si proponga di individuare i limiti dei comportamenti descritti dall’art. 2105 c.c., se poi tali limiti sono facilmente e acriticamente superati con affermazioni tanto ampie e onnicomprensive quanto inafferabili » (436). Bisogna partire dalla consapevolezza che la giurisprudenza continua ad accreditare una « nozione “allargata” di fedeltà » (437), (434) Ciò conferma la rilevanza dell’inserzione del prestatore nell’organizzazione ai fini della previsione di simili doveri; in tema sia consentito rinviare a Campanella, 2013, p. 125 ss. (435) Pisani, 2004, p. 1. (436) Mattarolo, 2000, p. 15; per tale richiamo v. anche Bellomo, 2013, p. 292 s.; diversamente, però, Tosi, 2012, p. 539 ss., per il quale « la rilevanza della fiducia non può essere obliterata perché (...) scaturisce inevitabilmente dall’implicazione della persona non solo nel rapporto ma nell’organizzazione aziendale (p. 541); pertanto, non stupisce che nelle « operazioni giurisprudenziali (...) l’obbligo di fedeltà finisca sempre per emergere (...) come sintesi dei doveri desumibili dall’implicazione della persona del lavoratore nell’organizzazione produttiva (p. 544); ciò deve indurre, per l’A., a prendere atto che « della rilevanza della fiducia e del suo corrispettivo fedeltà non è possibile affrancarsi ragionando in termini di categorie generali ed astratte se non al prezzo (...) dello scollegamento dal diritto vivente » (p. 546). (437) Tullini, 1988, p. 981 ss.; sul tema, v. anche tutta la dottrina più recente occupatasi del tema, a partire da Gragnoli, 1996, p. 49; Mattarolo, 2000, p. 15 ss. e passim; Pisani, 2004, p. 119 e passim; Zoppoli L., 2005, p. 837 ss.; Boscati, 2012, p. 936 ss.; Menegatti, 2012a, p. 38 ss.; Bellomo, 2013, p. 292. 322 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore quasi che l’art. 2105 contenga mere esemplificazioni (438), o comunque un semplice « richiamo sintetico » ad un più ampio dovere di leale comportamento nei confronti del datore di lavoro. La citata norma codicistica prevede, al contrario, « obblighi astensivi tipici », identificando talune obbligazioni di non facere, « rivolte ad impedire forme particolari di negazione dell’utilità della collaborazione e di nocumento allo sforzo concorrenziale ». Essa realizza una tipizzazione di comportamenti riconducibili all’area dei doveri di protezione ex artt. 1175 e 1375, ma proprio per questo non funziona da clausola generale, « incidente sull’intero spettro di situazioni verificatesi nell’esecuzione del rapporto », attraverso la previsione di obblighi ulteriori a carico del lavoratore debitore (439). Non siamo, in altri termini, al cospetto di « un istitutovalvola al quale poter ricondurre situazioni e/o comportamenti che si assumono ingiustamente lesivi degli interessi dell’impresa » (440). Pertanto, l’impegno ad assecondare le aspettative datoriali con astensioni è dovuto », ai sensi dell’art. 2105 c.c., « nei limiti della loro espressa contemplazione » (441). Piuttosto, sono clausole generali la correttezza e la buona fede ed è per il tramite della loro funzione di integrazione negoziale che possono essere richieste al debitore di opere condotte obbligatorie ulteriori. Queste non dovranno, però, ritenersi improntate a una fedeltà « particolarmente pregnante » (442), da ritenersi estranea al contenuto degli artt. 1175 e 1375 c.c., bensì al rispetto di specifici doveri di sicurezza, a salvaguardia dell’interesse alla protezione del datore di lavoro creditore, nei limiti in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio dell’interesse proprio del prestatore. Non offuscano, del resto, tali conclusioni alcune previsioni di contratti collettivi e, soprattutto, di codici aziendali, che, pur tentando di accreditare una nozione di fedeltà in senso ampio, lo fanno con (438) Emblematica Cass. civ., sez. lav., 4 aprile 2005, n. 6957, cit., la quale ritiene, sulla scorta della « prevalente dottrina » (!!!), che le ipotesi dell’art. 2105 c.c. « non abbiano carattere tassativo e non esauriscano, quindi, l’obbligo di fedeltà del lavoratore, obbligo che è violato da ogni comportamento tale da scuotere la fiducia del datore di lavoro, anche in presenza di un danno solo potenziale ». (439) Gragnoli, 1996, p. 50. (440) Tullini, 1988, p. 987. (441) Gragnoli, 1996, p. 49 s. (442) Trib. Nocera Inferiore, 26 maggio 2000, in LG, 2000, p. 1159 ss., con nota di Bonaiuto. 323 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore enunciazioni troppo vaghe, generiche e prive di un significato giuridico concreto per poter aggiungere alcunché rispetto a quanto già desumibile, sul piano obbligatorio, dall’art. 2105, nonché dagli artt. 1175 e 1375 c.c., intesi nell’accezione loro propria (443). Lette nel senso qui prospettato, le clausole generali non possono svolgere, dunque, una mera funzione ausiliaria dell’art. 2105 c.c., ma andranno, volta per volta “concretizzate”, a partire dai casi reali, in specifici modelli di comportamento espressivi di norme sociali di condotta. È frequente, invece, che a fondamento della nozione allargata di fedeltà i giudici pongano proprio il richiamo a correttezza e buona fede (444). Il tutto per accreditare l’esistenza di un supposto vincolo fiduciario nel rapporto di lavoro, destinato a venire irrimediabilmente leso da condotte “infedeli” del dipendente non meglio identificate e tipizzate nel loro contenuto (445). Si dilata, così, anche la nozione di giusta causa (bisognerebbe dire, “soggettiva”: v. infra), « oltre il piano dell’inadempimento contrattuale: giungendo, per tale via, a far rientrare nella nozione di cui all’art. 2119 c.c. qualsiasi comportamento ascrivibile al lavoratore di per sé idoneo a ledere la fiducia che il datore ha riposto nei confronti del proprio dipendente » (446). Vero è che « la prestazione di lavoro non è in sé oggettivamente infungibile, in relazione alla natura del risultato dovuto, ma lo è solo soggettivamente, in relazione alla fiducia risposta nella persona del prestatore », sicché l’elemento personalistico dell’adempimento si atteggia a caratteristica fondamentale del contratto di cui (443) Lo stesso art. 3, 2° comma, del codice di comportamento dei dipendenti pubblici nulla aggiunge quando afferma che « il dipendente rispetta altresì i principi di integrità, correttezza, buona fede (...) »; sui regolamenti aziendali v., invece, Montuschi, 2001b, p. 413 e, nell’ambito di un più vasto discorso sulla responsabilità sociale d’impresa, Ferraresi, 2012; Perulli (a cura di), 2013. (444) Tra le tante, v. Cass. civ., sez. lav., 8 luglio 1995, n. 7529, in MGL, 1995, p. 568 ss., con nota di Lucifredi, per la quale « gli obblighi di correttezza e buona fede (...) individuano il bene-interesse peculiare dell’art. 2105 c.c., affermativo dell’obbligo di fedeltà del lavoratore (...) ». (445) Cass. civ., sez. lav., 4 aprile 2005, n. 6957, cit.; Cass. civ., sez. lav., 14 giugno 2004, n. 11220, in MGL, 2004, p. 813 ss., con nota di Nuzzo; Cass. civ., sez. lav., 4 maggio 2002, n. 6420, in RIDL, 2002, II, p. 860 ss., con nota di Martinucci; Cass. civ., sez. lav., 7 luglio 2004, n. 12528, MGL, 2004, p. 722 ss., con nota di Montanari; Trib. Milano, 25 agosto 2001, in LG. 487 ss.; Trib. Lecce, 16 gennaio 2013, cit.; Trib. Genova, 11 aprile 2013, cit. (446) Zoppoli L., 2005, p. 846; in giurisprudenza Cass. civ., sez. lav., 2 febbraio 2004, n. 1878, in DRI, 2005, p. 799 ss.; Cass. civ., sez. lav., 26 agosto 2003, n. 12489, cit. 324 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore all’art. 2094 c.c. (447). Tuttavia, ciò non implica una connotazione fiduciaria del rapporto (448); tant’è che il licenziamento disciplinare deve trovare causa in un inadempimento ai sensi della legge, non nell’irreparabile lesione di un ipotetico legame fiduciario. Il richiamo giurisprudenziale alla fiducia finisce per apparire, in realtà, un semplice « pleonasmo » o, comunque, un’abituale strategia comunicativa dei giudici, per sottolineare che, « ai fini della decisione sulla gravità, non rileva solo la deviazione in sé da parametri di dovere essere, ma l’impatto sull’interesse del datore di lavoro » (449). « La conclusione » sarà pure « ineccepibile », anche se « estranea al tema della fiducia, intesa come effettivo pensiero o sentimento del datore di lavoro » (450). Certo è che, però, essa non aiuta nell’opera di “concretizzazione” delle clausole generali, le quali pure una certa parte dovrebbero avere nella individuazione di specifici obblighi posti a carico del prestatore, suscettibili (questi sì), se violati, di legittimare la reazione disciplinare dell’imprenditore. Nel censurare l’operato dei giudici, ritenuto eccessivamente semplificatorio in sede di motivazione della decisione, una dottrina (451) ha recentemente esaminato, a scopo esemplificativo, una serie di casi, tra cui quello di un lavoratore, licenziato, ai sensi della disciplina collettiva, per aver a lungo (otto giorni) ritardato di giustificare l’assenza dovuta alla necessità, risultante da certificazione medica, di assistere la figlia di cinque anni affetta da broncopolmonite e bisognevole di cure continue da parte di ambedue i genitori. La Suprema Corte ha, in questa ipotesi, cassato la sentenza del giudice di merito favorevole alla legittimità del recesso, per non avere essa proceduto, nell’applicazione dell’art. 2119 c.c., a compiere quel bilanciamento tra gli artt. 4 e 41 Cost., necessario per poter giungere in casu alla corretta conclusione dell’inesistenza (447) Grandi, 1972, p. 51; in generale, sulla rilevanza dell’elemento personalistico dell’adempimento cfr. Cataudella A., 1972, p. 3 ss.; Galasso, 1974; Alessi, Mazzarese, Mazzamuto (a cura di), 2013. (448) Smuraglia, 1967, p. 78 ss.; Persiani, 1971, p. 681; Grandi, 1972, p. 41 ss.; Tosi, 1974, p. 141 ss.; Pisani, 2004, p. 63 ss.; Zoppoli L., 2005, p. 846; Gragnoli, 2014, p. 19 ss. (449) Gragnoli, 2014, p. 20. (450) Ibidem. (451) Nogler, 2014a, p. 115 ss. 325 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore di un inadempimento (la ritardata giustificazione dell’assenza) di gravità « tale da far venir meno l’elemento fiduciario costituente il presupposto fondamentale della collaborazione tra le parti del rapporto di lavoro » (452). A commento di questa come di altre decisioni, la dottrina summenzionata ha rimproverato alla Cassazione di aver compiuto un’eccessiva semplificazione del ragionamento giuridico, tralasciando « vincoli argomentativi pure positivamente previsti ». In particolare, nel caso di specie, la Corte non avrebbe accennato — come invece ci si sarebbe attesi — « all’autonoma causa di esonero della responsabilità contrattuale, che trova il proprio fondamento nella clausola generale della correttezza (art. 1175 c.c.) e dà rilievo (...) all’assolvimento di doveri fondamentali che gravano sulla persona del debitore », « rendendo la prestazione inidonea a formare oggetto di un dovere giuridico » « (prestazione inesigibile) ». Occorre, tuttavia, in replica a tale dottrina, considerare che quando, in genere, si fa riferimento a prestazioni c.d. inesigibili, gli esempi richiamati sono quelli della « cantante che all’ultimo momento disdice il recital cui è impegnata per accorrere al capezzale del figlio gravemente infermo, o del prestatore che si assenta senza permesso perché colpito da un grave lutto familiare » (453), situazioni, pertanto, diverse da quelle oggetto della citata pronuncia, ove il dipendente era mancato dal lavoro per oltre una settimana senza dare nessun avviso, tanto da essere licenziato proprio (e solo) per il prolungato ritardo nella comunicazione, non (sicuramente), invece, per una supposta assenza ingiustificata (454). Certo è che la Corte avrebbe forse fatto bene a impostare la decisione sulla scorta di una “concretizzazione” delle clausole (452) Cass. civ., sez. lav., 2 novembre 2005, n. 21213, cit. (453) Mengoni, 1988, p. 1084. (454) Per il caso, invece, di un licenziamento illegittimo, irrogato ad una dipendente, che si era assentata senza giustificazione, dopo che le era stato negato un permesso ex art. 4, 1° comma, l. n. 53 del 2000, per assistere il fratello che aveva perso la gamba a seguito di un gravissimo incidente e versava in pericolo di vita, v. Trib. Milano, 30 giugno 2003, in RCDL, 2003, p. 997 ss., con nota di Zezza; v. anche Trib. Vercelli, 26 maggio 1981, in OGL, 1981, p. 713 ss., secondo cui, a sostegno dell’illegittimità del licenziamento irrogato a una dipendente per assenza di tre giorni consecutivi dal lavoro dovuta alla necessità di assistere la madre ammalata, non può essere invocata « la violazione del principio di buona fede ex art. 1375 c.c., per non » aver l’imprenditore avvertito la dipendente stessa « dell’inidoneità della malattia della madre a giustificare la sua assenza ». 326 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore generali di correttezza e buona fede: da un lato, si sarebbe potuto ricostruire un obbligo, gravante sul datore, di proteggere la persona del prestatore, a fronte di interessi del medesimo preminenti sul piano valoriale rispetto a quelli economici suoi propri; dall’altro, si sarebbe potuto configurare un parallelo obbligo, in capo al prestatore, di salvaguardare l’organizzazione imprenditoriale, attraverso una immediata comunicazione, anche solo telefonica, dei motivi dell’assenza, a meno di un apprezzabile (e quindi intollerabile) sacrificio a suo carico. Sicché proprio su questo si sarebbe dovuto richiedere di indagare più a fondo. È possibile che, così impostando le cose, le conclusioni non sarebbero mutate, ma certo l’argomentazione della decisione ne sarebbe uscita rafforzata. Come si comprende, uno sforzo orientato alla reale “concretizzazione” delle clausole generali sarebbe quanto meno auspicabile: gioverebbe alla solidità d’impostazione delle pronunce e limiterebbe altresì il ricorso a tralatizie affermazioni di stile in tema di obblighi dei prestatori. Bisognerebbe farlo, però, a partire da quel che è il corretto significato attribuibile alle clausole di correttezza e buona fede sul versante del prestatore. Se si tiene ferma l’ipotesi ricostruttiva qui prospettata, sarà facile concludere che la correttezza e la buona fede — nella loro accezione di clausole impositive di obblighi reciproci a carico dei contraenti, diretti a preservare l’utilità altrui nei limiti in cui ciò non importi un apprezzabile sacrificio dell’interesse proprio — richiedono, nel rapporto di lavoro, condotte del prestatore ispirate a rispetto e solidarietà del confronti del datore. Ciò non implica una tensione cooperatoria al risultato atteso dal datore dall’attività lavorativa. Impone, piuttosto, la tenuta di comportamenti obbligatori autonomi e diversi da quello consistente nel prestare lavoro, diretti a salvaguardare l’altrui organizzazione da eventuali pregiudizi che potrebbero occorrere ad essa per effetto del “contatto sociale” connesso all’inserzione (del prestatore medesimo) nel complesso produttivo. L’interesse organizzativo dell’imprenditore, che già (come interesse positivo) condiziona il dovere prestazione per il tramite della « diligenza richiesta (...) dall’interesse dell’impresa » (art. 1176, 1° comma, c.c.), trova così riconoscimento giuridico (come interesse negativo) anche fuori dal perimetro segnato dall’adempimento di quel dovere, nelle forme di un obbligo di protezione del 327 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore complesso produttivo imprenditoriale, per il tramite della correttezza e buona fede (artt. 1175, 1375 c.c.) (455). Si può ritenere che al debitore di opere siano richiesti contegni protettivi — in termini di “non facere”, ma anche di “facere” — finalizzati al soddisfacimento dell’interesse negativo del datore a non subire nel corso dell’esecuzione del contratto comportamenti pregiudizievoli della propria organizzazione sotto un triplice profilo (456): statico (dei beni, macchinari, attrezzature, merci, ecc.); gestionale (delle regole relative all’esecuzione e alla disciplina del lavoro); dinamico (di mercato, di immagine, ecc.). Sulla scorta di ciò, andrebbero, allora, individuati i vari modelli di comportamento secondo correttezza e buona fede e le relative norme sociali di condotta gravanti a tal stregua sul prestatore, tenuto conto, in ogni caso, che il richiamo agli artt. 1175 e 1375 c.c. può trovare spazio, solo nelle aree lasciate scoperte dalla legge, dalla contrattazione collettiva e, potremmo aggiungere, dagli stessi codici etici e di comportamento (457), se immediatamente vincolanti nei confronti del prestatore (458). (455) Diversamente, invece, Bellomo, 2013, p. 298 ss., che riconduce all’art. 1176, 1° comma, c.c., per il tramite della « diligenza richiesta (...) dall’interesse dell’impresa », tutti quei comportamenti che la giurisprudenza ritiene ascrivibili a una nozione “allargata” di fedeltà. (456) Per una distinzione non dissimile da questa v. Pisani, 2004, p. 123 ss. (457) Correttamente, in tal senso, Trib. Genova, 11 aprile 2013, cit., seppure con richiamo (improprio) all’art. 2105 c.c., invece, che agli artt. 1175 e 1375 c.c. (458) Le previsioni della legge e della contrattazione collettiva entrano, infatti, direttamente a far parte del programma contrattuale, ex artt. 1339, 1419, 2° comma, c.c. e, rispettivamente, art. 1374 c.c., senza bisogno di esservi integrate per il tramite delle clausole di correttezza e buona fede; quanto ai codici di comportamento, quello relativo ai dipendenti pubblici, adottato con d.P.R. n. 62 del 2013, ha assunto ormai carattere precettivo e pertanto, nella sua minuziosa previsione di doveri di comportamento, spesso specificativi della correttezza e della buona fede, sottrae ampio spazio agli artt. 1175 e 1375 c.c.: cfr., ad esempio, già Cass. civ., sez. lav., 3 marzo 2010, n. 5113, in CED Cass., 2010, che ha richiamato direttamente l’inottemperanza degli artt. 5 e 6 del codice in parola per giudicare legittimo il recesso della P.A. dal contratto di lavoro con un dirigente, che si era « limitato ad effettuare comunicazioni orali e non scritte, (...), del potenziale conflitto di interesse in cui si era venuto a trovare (nel caso di specie partecipazione ad una gara indetta dal Comune, presso cui lavorava il dirigente) e non si sia poi astenuto dal prendere decisioni o dal compiere attività strettamente connesse con la situazione determinante il conflitto suddetto (nella fattispecie concreta il dirigente firmava gli inviti di partecipazione ed il provvedimento di aggiudicazione definitiva della gara) »; quanto ai codici etici aziendali, invece, ne è controversa l’immediata precettività (sul punto v. Perulli, 2013; Angelici, 2011, 328 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore 11. Segue: ipotesi applicative. 11.1. Comportamenti diretti alla salvaguardia dell’organizzazione in senso “statico” (dovere di protezione dell’organizzazione in senso “statico”). Sono dovuti a stregua di correttezza e buona fede, con richiamo agli artt. 1175 e 1375 c.c. in assenza di disciplina collettiva o aziendale ad hoc, tutti quei comportamenti diretti a soddisfare l’interesse del datore alla protezione dei mezzi di produzione, ossia del suo « patrimonio inteso in senso lato » (459) o « statico » (460): merci, locali, arredamenti, suppellettili, attrezzature, autovetture, cancelleria, strumenti di comunicazione, software, accesso a internet, banche dati, e così via. Costituisce, pertanto, inadempimento non dell’art. 2105 c.c., ma di obblighi accessori di protezione non “tipizzati” ex lege, il furto o l’appropriazione indebita di tali beni, così come il loro danneggiamento o l’utilizzazione indebita, sempre che ciò non leda direttamente l’interesse dell’imprenditore alla prestazione, come accade, ad esempio, qualora il lavoratore distrugga o si appropri indebitamente delle attrezzature, dei mezzi, della merce che gli era stata fornita in dotazione o data in custodia per adempiere all’obbligazione principale di prestare lavoro, venendo il quel caso meno il “sostrato” della prestazione medesima (e dunque la stessa possibilità di adempiere) (v. retro, § 9.3.). Si può, così, pensare al furto di materiali di proprietà del p. 169; per il carattere impegnativo di tali codici, invece, Senigaglia, 2013, p. 86), ma probabilmente questa può essere affermata perlomeno laddove vi sia un’esplicita accettazione richiesta al dipendente ovvero una incorporazione del codice medesimo all’interno del modello organizzativo per la prevenzione dei reati di cui al d.lgs. n. 231 del 2001 (v. ad es., tra i tanti, il codice etico e di comportamento aziendale di IECE S.r.l., ove si esplicita che il codice « si integra nel modello organizzativo per la prevenzione dei reati previsto dal (...) D.lgs. n. 231/2001 » o il codice etico di AMG S.r.l., artt. 5 e 6); sicché anche in queste ipotese gli spazi per gli artt. 1175 e 1375 c.c. verrebbero a ridursi. Ciò sarà ancor più vero, poi, ove si ritenga che tali codici siano coerenti col (e rappresentino una riproposizione, in versione aggiornata, del) vecchio modello dei regolamenti disciplinari aziendali e perciò ne sia indubbia la vincolatività. (459) Montuschi, 1973, p. 179. (460) Pisani, 2004, p. 124. 329 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore datore di lavoro (461), al danneggiamento di cose dell’azienda (462), al prelievo di merce per fini personali senza il rispetto della procedura prevista dal regolamento aziendale per gli acquisti dei dipendenti (463), all’utilizzazione indebita dei locali (464) o dei beni dell’impresa (465), tutte ipotesi venute all’attenzione presso i giudici di merito e di legittimità, ma ricondotte genericamente alla lesione del legame fiduciario tra le parti del rapporto, oppure più frequentemente alla violazione dell’obbligo di fedeltà in senso ampio, sovente associato alla contestuale inosservanza dei doveri di correttezza e buona fede. (461) V. Cass. civ., sez. lav., 10 novembre 2011, n. 23422, in LG, 2012, p. 89 ss., con note di Giovanardi, Guarnieri, Ludovico, Treglia, riguardante il licenziamento di un dipendente di un’azienda operante nel settore dei pellami pregiati, che si era incontrato con il conducente di un autocarro, il quale aveva sottratto, da un magazzino dell’azienda medesima, otto pezze di pellame per poi rivenderle a terzi. Il licenziamento è stato ritenuto legittimo in ragione della lesione del vincolo fiduciario inerente al rapporto; diversamente, in dottrina, per alcune valutazioni critiche circa la « pretesa di far reagire sul contratto azioni integranti ipotesi di reato » v. Montuschi, 1973, p. 185. (462) Cass. civ., sez. lav., 26 ottobre 1982, n. 5618, in MGL, 1983, p. 38 ss., che riconduce l’ipotesi ad una violazione del dovere di fedeltà (in senso ampio), nonché, insieme, degli obblighi di correttezza e buona fede. (463) V. Cass. civ., sez. lav., 16 dicembre 1986, n. 7568, in MGI, 1986, che ha ravvisato in tal caso la violazione degli obblighi di fedeltà e correttezza. (464) Cass. civ., sez. lav., 24 marzo 1987, n. 2846, in NGL, 1987, p. 413 ss., che ha ravvisato la legittimità del licenziamento per violazione del dovere di fedeltà da parte del dipendente, che, sia pur in una sola occasione, aveva utilizzato locali e attrezzature dell’impresa per lavori propri, seppure modesti. (465) V. Trib. Milano, 17 dicembre 2004, in LG, 2005, p. 1175 ss., con nota di Zilli, che ha considerato legittimo il recesso in tronco del datore di lavoro, (ma) per violazione dell’obbligo di fedeltà da parte del custode notturno del proprio magazzino, che, sottraendo tempo considerevole al lavoro, aveva abusato del telefono aziendale con lunghissime chiamate (oltre due ore, per qualcuna) al servizio di cartomanzia, provocando un danno economico pari a euro 420; v. anche Cass. civ., sez. lav., 10 luglio 2002, n. 10062, in MGL, 2002, p. 644 ss., con nota di Bertocco, che si è pronunciata per la legittimità del licenziamento irrogato in conseguenza di un utilizzo smodato, costante e reiterato del telefono aziendale, stante « la perdita di fiducia » verso il lavoratore, che ne sarebbe conseguita; ma v. anche Trib. Torino, 9 gennaio 2004, in GP, 2004, p. 131 ss., che, valutando secondo parametri di ragionevole elasticità i principi dell’immediatezza della contestazione disciplinare e delle tempestività del recesso, ha ritenuto « contrario ai canoni di buona fede e correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro il comportamento dell’azienda, che essendone a conoscenza, non interrompe subito l’abuso telefonico praticato dal lavoratore contestandone la illegittimità e irrogandogli la sanzione conservativa ». 330 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore 11.2. Comportamenti diretti alla salvaguardia dell’organizzazione in senso “gestionale” (doveri di avviso, informazione, comunicazione e altri doveri di protezione dell’organizzazione tecnico-produttiva). Possono ricondursi all’area governata dalla correttezza e dalla buona fede anche quei comportamenti diretti alla salvaguardia del complesso produttivo, riguardato dal punto di vista gestionale, cioè con riferimento alle regole chiamate a presiedere sia l’organizzazione, sia la disciplina del lavoro. Deve ritenersi che il lavoratore sia tenuto, per il rilievo accordato a correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, a tenere comportamenti, i quali, al di là di quanto richiesto ex art. 1176, 1° comma, c.c. ai fini dell’adempimento dell’obbligazione principale di prestare lavoro, risultino altresì improntati al soddisfacimento dell’interesse del datore di lavoro creditore alla salvaguardia del buon funzionamento dell’organizzazione tecnica del lavoro (466). Pertanto, anche in assenza di espresse prescrizioni legali o convenzionali, configurerà violazione degli obblighi accessori di protezione ex artt. 1175 e 1375 c.c. ogni condotta del lavoratore — colposa, ma anche dolosa, visto che non si fa questione di “diligenza” — volta a pregiudicare la posizione dell’imprenditore nella gestione e nel coordinamento dei fattori produttivi, con inutili aggravi o disservizi vari, nei limiti in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio a proprio carico; il che certamente esclude che risponda di inadempimento ai sensi delle norme ora menzionate il prestatore che tali aggravi e disservizi provochi in ragione dell’adesione ad uno sciopero legittimo. Non sembra, invece, potersi qualificare corretto il comportamento, ad esempio, del caposquadra che volutamente occulti in vario modo gli scarti della produzione dei lavoratori da lui coordinati, al fine di poter comunque consentire a lui e all’intera squadra di percepire un premio di risultato, e determinando, con ciò, una (466) Nulla esclude, peraltro, che con uno stesso comportamento il lavoratore violi, anzitutto, l’obbligo di prestazione e, poi, anche quello di protezione: così accade nell’ipotesi in cui egli abbia, ad esempio, momentaneamente abbandonato il posto di lavoro in orario notturno per trattenersi nei locali aziendali attigui, determinando un blocco sia pur temporaneo delle macchine: il caso è stato deciso, ma sulla scorta di diversa impostazione, da Cass. civ., sez. lav., 22 giugno 2009, n. 14586, in LG, 2009, p. 1165 ss. 331 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore seria disorganizzazione produttiva, per le informazioni dolosamente errate fornite al sistema di controllo di gestione e di miglioramento della qualità aziendale. Nell’ambito dei contegni orientati alla protezione dell’organizzazione del lavoro, possono essere inquadrati anche gli obblighi di avviso, informazione e comunicazione per la loro funzione « di produrre, a vantaggio di una delle parti, uno stato di conoscenza intorno a circostanze ritenute essenziali » (467), al fine di preservare da disservizi la buona gestione dei fattori produttivi e dello stesso personale. Così, risponde alle direttive di correttezza e buona fede il contegno del lavoratore che comunichi tempestivamente un ritardo, o il rientro anticipato dalle ferie, e che fornisca immediato « avviso di un sopravvenuto impedimento incidente sulla prestazione », come la malattia (468). A tal stregua, pur in assenza disposizioni contrattuali espresse sul punto, si è legittimato il licenziamento di un pilota d’aereo che, comunicando di essersi ammalato nell’imminenza del volo, aveva determinato notevoli disservizi (469). È stato, invece, ritenuto passibile di mera sanzione disciplinare il dipendente, che, non avendo comunicato la causa della sua patologia, riconducibile a infortunio in itinere, aveva provocato nel datore l’erroneo convincimento del superamento del (467) Così Giugni, 1963, p. 153, sia pur nell’ambito di una diversa ricostruzione di tali obblighi. (468) Del Punta, 1992, p. 111; Mazzotta, 1983, p. 6; con riguardo specifico all’impiego pubblico, da ultimo, Casale, 2013, p. 141; in giurisprudenza, per la corretta riconduzione dell’obbligo di tempestiva comunicazione della malattia agli artt. 1175 e 1375, v. Cass. civ., sez. lav., 9 marzo 1987, n. 2452, in FI, 1987, I, c. 3082 ss.; nonché nell’ambito del pubblico impiego “non privatizzato”, Cass. civ., Sez. Un., 5 agosto 2002, n. 11724, in GDA, 2003, p. 241 ss., con nota di Mainardi; Cass. civ., sez. lav., 1° marzo 2004, n. 4163, in RIDL, 2004, II, p. 827 ss., con nota di Barraco, a cui avviso « l’obbligo di comunicazione e giustificazione della malattia si pone su un piano diverso rispondendo a doveri di correttezza nei confronti del datore di lavoro, non solo per fornirgli un’informazione utile al fine di consentirgli di richiedere la visita di controllo, ma anche, ad esempio, per informarlo della presumibile durata dell’assenza e metterlo in grado, tra l’altro, di sopperire tempestivamente alla carenza di forza lavoro determinata dall’assenza del lavoratore »; in tema v. anche Cass. civ., sez. lav., 19 agosto 1986, n. 5088, in Not. giur. lav., 1986, p. 707 ss.; Trib. Milano, 2 aprile 2008, in RCDL, 2008, 1272, con nota di Lotti. (469) Cass. civ., sez. lav., 26 marzo 1984, n. 1977, in GC, 1984, I, p. 2170 ss., con nota di Poso. 332 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore periodo di comporto, inducendolo a procedere al licenziamento (470). Analogo dovere di comunicazione vige, poi, con riguardo alla certificazione dell’evento morboso, ma come è stato a ragione osservato, « la normativa positiva in materia è talmente fitta e sviluppata da rendere di fatto largamente superfluo il ricorso alla clausola generale della buona fede » (471). A detta clausola si deve, invece, far richiamo, senza bisogno di invocare la fedeltà “in senso ampio” dell’art. 2105 c.c., nel caso di mancata denuncia da parte di un bancario vice-direttore di filiale delle gravi irregolarità commesse dal direttore, suo superiore gerarchico, poiché condotta tale da violare il dovere di preservare l’organizzazione del lavoro da elementi che ne ostacolino il buon funzionamento (472). Allo stesso modo, può considerarsi, e a ragione, comportamento contrario a buona fede quello del lavoratore, che, avendo stipulato con altra azienda un contratto di lavoro ad efficacia differita e « meditando di rassegnare successivamente le dimissioni nei termini del preavviso, ometta di darne comunicazione al datore, pur consapevole che il silenzio serbato, ancorché non colpevole, provoca a costui danni e disagi » (473). Sono, invece, riconducibili alla violazione dell’art. 2105 c.c. i casi in cui il lavoratore abbia « omesso di comunicare al datore di lavoro che i lavori sottoposti al suo controllo, quale supervisore, erano svolti da società partecipate da propri familiari » (474) oppure abbia stipulato, senza comunicarlo, un contratto di consulenza con un’altra società avente interessi configgenti rispetto alla propria impresa (475). Sono sempre le clausole generali di correttezza e buona fede a imporre al lavoratore un obbligo non solo di fornire avvisi e comunicazioni, ma anche di riceverli. La cosa non è stata colta del (470) Cass. civ., sez. lav., 6 settembre 2005, n. 17780, in MGI, 2005. (471) Del Punta, 1992, p. 113 s. (472) Cass. civ., sez. lav., 8 giugno 2001, n. 7819, in ADL, 2003, p. 151 ss., con nota di Fiata. (473) Saffioti, 1999, p. 217. (474) V. Cass. civ., sez. lav., 4 aprile 2005, n. 6957, cit., che invece invoca a tal fine la classica nozione “allargata” di fedeltà. (475) Trib. Roma, 18 novembre 1996, in OGL, 1996, p. 923 ss. 333 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore tutto dalla giurisprudenza, che, affermando il dovere del dipendente di accettare la consegna a mano della lettera di licenziamento, ha preferito innervarlo nella « soggezione che lega il prestatore al datore », limitandone peraltro (curiosamente) l’ambito applicativo all’interno dei locali dell’impresa e durante l’orario di lavoro (476). È interessante, però, notare come l’orientamento in commento sottolinei particolarmente proprio la reciprocità del citato obbligo, a conferma (implicita) della sua collocazione nell’area governata dagli artt. 1175 e 1375 c.c., ritenendo che non possa escludersi un complementare « obbligo di ascolto, e quindi anche di ricevere comunicazioni, da parte dei superiori del lavoratore » (477). Tale reciprocità va, peraltro, tenuta ben presente quando si discuta a proposito dell’esistenza di un dovere dell’imprenditore di avvertire il lavoratore, assente da lungo tempo per malattia, dell’approssimarsi della scadenza del comporto, anche allo scopo eventuale di richiedere un periodo di aspettativa o di ferie. L’orientamento dominante nega fermamente tale dovere, in assenza di esplicita previsione del contratto collettivo e individuale (478). Ma regole di correttezza desumibili dalla comune coscienza generale vorrebbero che si operasse quantomeno un distinguo a riguardo, sì da prestare particolare attenzione a casi particolari, ove l’esigenza di solidarietà e di salvaguardia della persona del prestatore è molto sentita e prevale rispetto all’interesse di controparte. Va, pertanto, salutata con favore la tesi recentemente emersa presso la giurispru(476) Cass. civ., sez. lav., 5 novembre 2007, n. 23061, in LG, 2008, p. 307 ss.; Trib. Genova, 14 dicembre 2013, in ADL, 2014, p. 798 ss., con nota di Biagiotti; conforme anche Cass. civ., sez. lav., 5 giugno 2001, n. 7620, in RIDL, 2002, II, p. 141 ss., con nota di Vincieri, che, tuttavia, sia pur non persuasivamente, quantomeno accenna alla questione della buona fede, affermando che un obbligo di ricevere comunicazioni del datore « non sussiste al di fuori dell’orario e del posto di lavoro », né, nel caso di specie, si poteva dire esistente un obbligo della lavoratrice « di ricevere la missiva offertale dal fattorino della datrice di lavoro, sulla base delle intese al riguardo raggiunte con la medesima o, comunque, di ragioni di correttezza o buona fede desumibili da particolarità della fattispecie ». (477) Cass. civ., sez. lav., 5 giugno 2001, n. 7620, cit.; Trib. Genova, 14 dicembre 2013, cit.; analogamente Cass. civ., sez. lav., 5 novembre 2007, n. 23061, cit. (478) Cass. civ., sez. lav., 1° agosto 2014, n. 17538, in CED Cass., 2014; Cass. civ., sez. lav., 21 settembre 2011, n. 19234, in LG, 2011, p. 1260, con nota di Giovanardi; Cass. civ., sez. lav., 22 aprile 2008, n. 10352, in Leggi d’Italia, 2008; Cass. civ., sez. lav., 28 giugno 2006, n. 14891, in CED Cass., 2006; Trib. Milano, 12 novembre 2012, in http:// www.unico.lavoro.ilsole24ore.com. 334 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore denza di merito, secondo cui « se è vero che ordinariamente il lavoratore è in grado di verificare l’approssimarsi della scadenza del periodo di comporto », non lo stesso accade a fronte di « situazioni di salute particolarmente delicate e gravi », che impongono « un diverso e più attivo comportamento » da parte dell’azienda, per il rispetto che si deve ai precetti derivanti dall’art. 1175 c.c., nonché ai più generali principi di solidarietà sociale dell’art. 2 Cost. (479). Resta ferma, inoltre, alla luce di quanto finora detto, che devono ritenersi funzionalizzati al soddisfacimento dell’interesse di protezione del prestatore anche gli obblighi di informazione in tema di sicurezza (480), che, tuttavia, gravando sul datore ai sensi di legge (artt. 18 e 36 d.lgs. n. 81 del 2008), rendono superfluo ogni richiamo alle clausole generali. Sono ascrivibili, inoltre, alla categoria degli obblighi di protezione anche tutti quei comportamenti diretti — al di là dell’esecuzione della prestazione — a salvaguardare l’organizzazione produttiva dal punto di vista delle regole che presiedono al corretto uso e funzionamento degli spazi, dei locali, nonché alla civile coabitazione tra le persone. La violazione di tali obblighi si tradurrà in condotte, che, siccome non immediatamente collegate allo svolgimento della prestazione, riguarderanno per lo più i momenti di pausa dal lavoro, come, ad esempio, il caso, riportato in dottrina, della rissa avvenuta all’interno della mensa (481). Tuttavia, essa potrà anche concretizzarsi nell’impiego di modalità relazionali scorrette, ingiuriose, aggressive, pure per il lessico utilizzato (482), nei confronti (479) Trib. Bologna, 15 aprile 2014, in Leggi d’Italia, 2014, concernente il licenziamento per scadenza del periodo di comporto di una lavoratrice assentatasi dal lavoro per l’insorgere di una neoplasia con necessità di interventi chirurgici, e operata nuovamente, dopo essere rientrata al lavoro, fino ad entrare anche in coma in quello stesso periodo; analogamente Trib. Milano, 21 maggio 2005, in RCDL, 2005, p. 887 ss., con nota di Bordone. (480) Su tali obblighi, tra le altre, Cass. civ., sez. lav., 19 aprile 2003, n. 6377, in MGL, 2004, p. 76 ss. (481) Pisani, 2004, p. 126. (482) V. Cass. civ., sez. lav., 26 ottobre 1982, n. 5618, cit., che ricollega al dovere di correttezza, ma anche a quello di « fedeltà (in senso ampio) » il « dovere (diverso dall’esecuzione della prestazione lavorativa) che il dipendente è tenuto ad osservare — in forza del contratto — » a non tenere « atteggiamenti aggressivi nei confronti di altri lavoratori »; cfr. pure Cass. civ., sez. lav., 19 giugno 2000, n. 8313, in RIDL, 2001, II, p. 122 ss., con nota di 335 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore dei colleghi, dei superiori gerarchici, se non dello stesso datore, fino al limite della molestia sessuale e del mobbing, punibili, tuttavia, senza ricorso alle clausole generali, considerato il dovere di cura delle persone presenti sul luogo di lavoro, gravante sul prestatore ex artt. 2087 c.c. e 20 d.lgs. n. 81 del 2008. Allo stesso modo, sarà sufficiente un richiamo a detta norma, per il caso in cui il lavoratore si sottragga all’obbligo di segnalare situazioni di pericolo o di malfunzionamento della struttura produttiva incidenti sull’igiene e la sicurezza del lavoro. Rappresenta, infine, condotta contraria a correttezza e buona fede, sub specie di violazione dell’interesse imprenditoriale al rispetto dell’organizzazione produttiva e gestionale, quella di dipendenti di un’azienda produttrice e distributrice di mobili, i quali, fuori dall’orario di lavoro e a pagamento, curino il montaggio del mobilio stesso, svolgendo così, in proprio, un servizio appaltato invece (in esclusiva) dall’azienda medesima a società esterna (483). 11.3. Comportamenti diretti alla salvaguardia dell’organizzazione in senso “dinamico” (dovere di protezione dell’organizzazione dal punto di vista economico e di mercato). Vi sono tutta una serie di comportamenti di protezione che possono essere pretesi dall’impresa nell’ambito del rapporto di lavoro, siccome diretti alla salvaguardia dell’organizzazione da un punto di vista strettamente economico: del suo patrimonio, della Vallauri, per la quale « il livello culturale e le abitudini lessicali » del prestatore e degli altri « addetti all’azienda non rilevano ai fini di escludere che l’aver proferito espressioni ingiuriose nei confronti del superiore gerarchico sia qualificabile come giusta causa di licenziamento »; in tema Montuschi, 2001a, p. 1051, il quale osserva come « attraverso la “lente” della giusta causa, i giudici sono chiamati a censurare il costume degli italiani e le “abitudini lessicali degli operai, non disdegnate neppure dagli impiegati e dai dirigenti”. In una parola, conoscono le miserie e il degrado dei rapporti interpersonali che consegue alla generale sotto-stima dei valori etico-morali, considerati un retaggio ottocentesco, buono per “il salotto di nonna Speranza” »; cfr. pure Gragnoli, 1996, p. 71. (483) Cfr. Trib. Genova, 11 aprile 2013, cit., che, tuttavia, insiste — inutilmente, a nostro avviso, sussistendo una violazione dell’obbligo di protezione indipendentemente dalla produzione di un danno (v. retro, in testo, § 3.2.) — soprattutto sul pregiudizio provocato all’azienda dai prestatori, che, avendo svolto il montaggio senza la necessaria perizia, avevano danneggiato il cliente, costringendo a quel punto l’azienda stessa a intervenire, ma con aggravio di costi non previsti, su richiesta del medesimo cliente, per riparare alla cosa ed evitare così un vulnus all’immagine aziendale. 336 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore sua proiezione sul mercato, dell’avviamento, del prestigio e dell’immagine, del buon nome dei prodotti e servizi. Taluni di questi contegni sono già qualificabili come vincolanti in forza dell’art. 2105 c.c., il quale tipizza, come si diceva, due doveri di non fare, finalizzati alla tutela della capacità di concorrenza dell’impresa e della sua posizione di mercato. È giusto quindi ritenere che, in quest’ambito, i doveri di correttezza e buona fede dovranno spartirsi il campo con quello di fedeltà, stavolta inteso “in senso stretto”, secondo quanto contemplato dal legislatore, quando vieta al prestatore di lavoro di « trattare affari per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore » (obbligo di non concorrenza), nonché di « divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa », o « di farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio » (obbligo di riservatezza). Si vedrà se e in che misura la tipizzazione di tali obblighi renda superfluo ogni richiamo agli artt. 1175 e 1375 c.c., esaurendo così gli spazi riservati a correttezza e buona fede, allorché dette clausole siano volte a proteggere l’organizzazione imprenditoriale in senso dinamico. Si cercherà altresì di comprendere se condotte idonee a porre a repentaglio l’immagine, il buon nome e il generale il progetto organizzativo dell’impresa possano dirsi contrarie agli obblighi di protezione gravanti sul dipendente, allorché siano tenute al di fuori dell’orario di lavoro e ineriscano alla vita privata del medesimo. 11.3.1. Dovere di protezione dell’organizzazione dal punto di vista economico. Configurano violazione dei doveri di protezione ex artt. 1175 e 1375 c.c. tutti quei comportamenti volti a pregiudicare il patrimonio del datore di lavoro, attraverso l’appropriazione di somme di danaro dell’azienda, il tentativo di truffa (484), o altre analoghe azioni. È stato, del resto, lo stesso Giudice delle leggi a pronunciarsi espressamente in tal senso, quando ha rilevato come « l’illecito impossessamento del contenuto della corrispondenza operato da agenti del servizio postale al fine di trarne profitto per sé o altri » non configura un’ipotesi di negligenza nell’adempimento della prestazione, bensì costituisce inottemperanza « dell’obbligo speci(484) Cass. civ., sez. lav., 17 giugno 1991, n. 6814, in MGI, 1991. 337 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore fico di evitare nell’esecuzione del contratto comportamenti pregiudizievoli alla persona e ai beni del creditore: obbligo pure derivante dal contratto in virtù della regola di correttezza sancita dall’art. 1175 c.c. » (485). La giurisprudenza di merito e di legittimità ha, al contrario, sempre privilegiato diverse ricostruzioni a riguardo. Di solito, ha richiamato la lesione del vincolo fiduciario, con l’effetto, ad esempio, di ritenere valido il licenziamento irrogato alla cassiera di un supermercato che aveva indebitamente utilizzato una tessera punti-sconto riservata ai clienti, nonostante il « tenue valore economico » del danno arrecato al datore di lavoro (486). All’opposto, ha reputato illegittimo il recesso nei confronti del dipendente della società Aeroporti di Roma per aver venduto a terzi, anziché utilizzarli direttamente, due biglietti aerei acquistati a tariffa ridotta, anche in ragione della « tenuità » del pregiudizio sopportato dall’azienda. Talora i giudici hanno, invece, valutato la gravità della condotta del prestatore sotto il singolare profilo del suo « disvalore ambientale ». Hanno così giudicato legittimo il licenziamento irrogato al responsabile della piccola cassa di uno stabilimento industriale per essersi appropriato « di due importi di vecchie lire 1.200.000 e 500.000 senza autorizzazione e senza giustificativi, omettendo di restituirli » e così rappresentando, con la sua condotta, un « modello diseducativo o comunque disincentivante nei confronti degli altri dipendenti della compagine aziendale, specialmente se a lui sottoordinati », data la sua specifica posizione professionale e la responsabilità nel servizio svolto (487). 11.3.2. Doveri di protezione e atti preparatori della concorrenza. Si discute circa la riconduzione, nell’ambito delle condotte vietate dall’art. 2105 a tutela della competitività dell’impresa, dei c.d. atti preparatori della concorrenza. La nozione ampia di affari concorrenziali (488) e la configurazione del divieto di concorrenza nei termini di un divieto di (485) (486) (487) (488) Corte Cost., 17-28 febbraio 1992, n. 74, cit. Trib. Milano, 16 novembre 2000, in OGL, 2000, p. 962 ss. Cass. civ., sez. lav., 4 dicembre 2002, n. 17208, cit. Bellomo, 2013, p. 317. 338 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore “pericolo” (489) porta la giurisprudenza prevalente a concludere che detti atti rappresentano l’avvio dell’attività concorrente con violazione, pertanto, della citata norma codicistica (490). Rimarrebbero, di conseguenza, estranee al suddetto divieto le sole esternazioni intenzionali non accompagnate dal compimento di atti preparatori strictu sensu intesi. In quest’ottica costituirebbero, tra gli altri, inadempimento dell’art. 2105 c.c. la costituzione di una società il cui oggetto sociale prevalente coincida totalmente o parzialmente con l’attività del datore di lavoro (491), l’acquisto, da parte della moglie del dirigente, di alcune quote della società concorrente (492), il c.d. storno di dipendenti (493) e, secondo parte della dottrina, lo svolgimento di attività lavorativa a carattere subordinato ovvero autonomo in favore di impresa concorrente (494), a prescindere dalle mansioni cui il lavoratore viene adibito (495). Le opinioni non appaiono comunque del tutto unanimi in materia (496); ma la cosa dovrebbe scarsamente rilevare ai nostri fini, poiché ciò di cui si discute è la riconducibilità o meno di taluni comportamenti nella nozione di “atti preparatori”, non l’ascrivibilità di questi ultimi — ossia degli atti preparatori medesimi — alla fattispecie vietata dell’art. 2105. Ne deriva che non v’è alter(489) Menegatti, 2012a, p. 83. (490) Cass. civ., sez. lav., 1° febbraio 2008, n. 2474, cit.; Trib. Bologna, 31 gennaio 2006, n. 690, in GD, 2006, 37, p. 87 ss.; App. Milano, 20 febbraio 2004, in LG, 2004, p. 1009 ss.; Cass. civ., sez. lav., 15 dicembre 2003, n. 19132, ivi, 2004, p. 593 ss.; Cass. civ. sez. lav., 17 febbraio 1987, n. 1711, in NGL, 1987, p. 413 ss.; Cass. civ., sez. lav., 22 gennaio 1987, n. 595, in MGI, 1987. (491) App. Milano, 15 febbraio 2001, in LG, 2001, p. 895 ss.; Cass. civ., sez. lav., 20 gennaio 1987, n. 495, in MGI, 1987; Cass. civ., sez. lav., 2 febbraio 2004, n. 1878, cit..; Cass. civ., sez. lav., 26 agosto 2003, n. 12489, cit..; Cass. civ., sez. lav., 18 luglio 2006, n. 16377, in MGI, 2006. (492) Cass. civ., sez. lav., 1° giugno 1988, n. 3719, cit. (493) App. Milano, 20 febbraio 2001, cit.; in dottrina, Mattarolo, 2000, p. 115. (494) Bellomo, 2013, p. 319. (495) Boscati, 2012, p. 990 s.; contra, in giurisprudenza, Trib. Milano, 28 novembre, 1998, in OGL, 1998, p. 909 ss., il quale ritiene che « non configura giusta causa di licenziamento per violazione dell’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c., il semplice svolgimento di mansioni esecutive in favore di una impresa concorrente da parte di un lavoratore impiegato a tempo parziale, non essendo tale attività idonea ad arrecare danno al datore di lavoro »; condivide questa impostazione giurisprudenziale Mattarolo, 2000, p. 89. (496) V. sul punto Mattarolo, 2000, p. 111 ss. 339 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore nativa: o una condotta configura “atto preparatorio” e allora è vietata ex art. 2105 oppure, se non può dirsi tale, sarà senz’altro legittima anche ai sensi degli artt. 1175 e 1375, perché insuscettibile di determinare quei pericoli anche potenziali all’organizzazione produttiva intesa in senso dinamico, che il richiamo alle clausole generali intende evitare, col prescrivere condotte del prestatore ispirate a correttezza e buona fede. Con il che è implicitamente dimostrato che quando la posizione di mercato dell’imprenditore è posta a repentaglio da comportamenti atti a nuocere anche solo potenzialmente all’impresa sul piano concorrenziale, l’art. 2105 c.c. esaurisce ogni spazio riservato alle clausole sopramenzionate, costituendone, appunto, la specificazione, e ne rende superfluo il richiamo. 11.3.3. Doveri di protezione e denuncia, critica o divulgazione di notizie pregiudizievoli per l’impresa. Vi sono ipotesi in cui gli obblighi di protezione, posti a salvaguardia dell’organizzazione in senso dinamico, devono fare i conti con specifici diritti o interessi assicurati alla persona del prestatore da norme preminenti rispetto a quelle che tutelano l’interesse dell’imprenditore. A ragione si è osservato che le aspettative economiche dell’impresa prevalgono « su esigenze del lavoratore della medesima natura, cioè patrimoniali », ma « sono subordinate a quelle personali del dipendente » (497). Ciò è coerente con la stessa funzione attribuita a detti obblighi, di salvaguardare l’utilità della controparte, nei limiti in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio dell’interesse proprio. Si tratta di un interesse che non può declinare, tanto se più corrispondente a posizioni soggettive attive del prestatore, riconosciute nella forma di diritti: il diritto alla difesa in sede giurisdizionale; il diritto alla denuncia alle autorità competenti di vicende collegate all’esigenza di tutela dei lavoratori o di terzi; il diritto alla libera manifestazione del proprio pensiero, attraverso la diffusione di fatti ovvero l’espressione di giudizi e opinioni in ambito extraaziendale. In senso contrario, non è invocabile il richiamo ad un supposto vincolo fiduciario sussistente tra i contraenti, utilizzato in connu(497) « Salva la tutela dei diritti, anche giurisdizionale »: Gragnoli, 1996, p. 59. 340 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore bio con la solita nozione “allargata” di fedeltà, sì da accreditare l’esistenza di un dovere di leale comportamento a carico del dipendente (498). Neppure è pertinente un generico riferimento alla correttezza e alla buona fede, considerato che dette clausole, nella loro funzione di salvaguardia della posizione economica di mercato dell’azienda, hanno ricevuto apposita specificazione e tipizzazione all’art. 2105 c.c. (499), dando vita a due precisi obblighi di non facere. Pertanto, è con riferimento a questi ultimi che andranno valutate vicende come quelle inerenti, ad esempio, all’utilizzo processuale di documenti aziendali. Se il prestatore ne è venuto in possesso legittimamente, ossia ne abbia avuto accesso nel corso dell’esercizio delle sue funzioni, allora non dovrebbero rinvenirsi particolari restrizioni nell’esibizione di tali documenti sia in ambito giurisdizionale, sia all’interno di tentativi di conciliazione o « di interventi apprestati dalle organizzazioni sindacali a vario titolo » (500). Anche la loro materiale riproduzione in fotocopia (501) non può essere illegittima, qualora ricorrano ragioni di difesa del prestatore. D’altronde, la fattispecie è lungi dal comportare una violazione del divieto di divulgazione della documentazione aziendale ai sensi dell’art. 2105 c.c. La produzione in giudizio, infatti, non integra gli estremi della « divulgazione », considerato il numero limitato di persone che vengono a conoscenza di detta documentazione, nonché il contesto in cui ciò avviene (502). Si può semmai rientrare nella diversa ipotesi dell’uso delle notizie aziendali (503), (498) Così, invece, Cass. civ., sez. lav., 14 luglio 2009, n. 16000, in GL, 2009, 41, p. 46 ss.; Cass. civ., sez. lav., 14 giugno 2004, n. 11220, cit.; in senso critico, da ultimo Papa, 2010, p. 810 ss.; Dessì, 2013, p. 402 ss. (499) Sull’obbligo di fedeltà come specificazione delle clausole generali di buona fede e correttezza V. Mancini, 1957, p. 131; Grandi, 1987, p. 343; Mengoni, 1965, p. 477; Pisani, 2004, p. 121 s. (500) Gragnoli, 1996, p. 59. (501) Cass. civ., sez. lav., 7 luglio 2004, n. 12528, cit., ove espressamente si afferma che la fotocopia di documenti non integra gli estremi della sottrazione degli stessi; in dottrina, Pisani, 2004, p. 142 ss.; Mattarolo, 2000, p. 201. (502) Cass. civ., sez. lav., 8 febbraio 2011, n. 3038, in MGC, 2011, p. 197 ss.; Cass. civ., sez. lav., 4 maggio 2002, n. 6420, cit.; in dottrina Mattarolo, 2000, p. 200; Boscati, 2012, p. 1005. (503) V. Mattarolo, 2000, p. 203, la quale precisa che « non sempre la riproduzione di documentazione contenente notizie anche riservate può essere ricompresa nel concetto di uso di notizie (...), giacché spesso si tratta di una mera conservazione di documenti »; in 341 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore il cui carattere ipoteticamente pregiudizievole per il datore è destinato a cedere, di necessità, a fronte delle esigenze processuali del prestatore, espressione del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. (504) Diverso è il discorso ove vi sia stata sottrazione di documenti aziendali, siccome estranei alla disponibilità del prestatore, secondo modalità illegittime — sottrazione ai colleghi, forzature degli archivi, ecc. — qui venendo effettivamente in rilievo il mancato rispetto degli artt. 1175 e 1375, sub specie di violazione degli obblighi “atipici” di protezione, posti a salvaguardia dell’organizzazione imprenditoriale in senso sia “statico”, sia “gestionale”, ossia del patrimonio complessivo dell’impresa e del normale funzionamento dell’attività aziendale (505). Chiamano in causa l’art. 2105 c.c. anche quei comportamenti del prestatore, che si concretino nella presentazione di denunce o esposti alle autorità competenti circa eventuali irregolarità commesse dal datore di lavoro (506). Se si guarda a una recente pronuncia (507), emblematica tuttavia di un orientamento consolidato, è facile riscontrare come la giurisprudenza tenda a escludere il contrasto con la norma codicistica sopra menzionata, giungendo pertanto a ritenere invalido il licenziamento disciplinare irrogato in tali casi dal datore (508). Lo fa, però, sullo sfondo di una ricostruzione teorica del rapporto di lavoro che non si allontana, almeno formalmente, dal richiamo persistente al “vincolo fiduciario”. Così, la denuncia di fatti illeciti commessi all’interno dell’asenso contrario Cass. civ., sez. lav., 2 marzo 1993, n. 2560, in RIDL, 1993, II, p. 476 ss., con nota di Poso, Mammone. (504) Sulla produzione in giudizio di documentazione aziendale come esercizio del diritto di difesa ex art. 24 Cost., v. Marinelli F., 2005, p. 527. (505) Pisani, 2004, p. 142 s.; invece la giurisprudenza fonda anche l’illegittimità di tali condotte sui doveri di lealtà e correttezza dell’art. 2105, trascurando dunque il fatto che in questo caso l’antigiuridicità del comportamento del lavoratore deriva dalle modalità di sottrazione del documento, e non dall’uso dello stesso: v. Cass. civ., sez. lav., 25 ottobre 2001, n. 13188, in NGL, 2002, p. 45. (506) In tema, v. Carinci M.T., 2014b, p. 6 ss. anche se con un approccio, che è tipico di coloro i quali si occupano di whistleblowing teso a porre sullo stesso piano le denunce all’autorità competenti con le denunce a giornali e mass media, le quali invece si connettono al tema del diritto di critica. (507) Cass. civ., sez. lav., 14 marzo 2013, n. 6501, cit. (508) Cass. civ., sez. lav., 28 gennaio 2013, n. 1814, in CED Cass., 2013; Cass. civ., sez. lav., 12 dicembre 2012, n. 22798, in CED Cass., 2012. 342 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore zienda è, per i giudici, contegno incapace di giustificare il recesso del datore, in quanto inidoneo a ledere la fiducia dell’imprenditore. È peraltro curioso notare come il riferimento alla fiduciarietà della relazione di lavoro non precluda ai magistrati un successivo confronto con il « dovere di riservatezza », contemplato all’art. 2105 c.c. La giurisprudenza ne offre, a questo punto, una lettura restrittiva, ritenendo tale dovere circoscritto al solo « divieto di abuso di posizione mediante condotte concorrenziali e/o violazioni di segreti produttivi (non già segreti tout court non meglio specificati) ». La posizione può essere comprensibile, se si considera che i giudici, con il consueto pragmatismo, tentano in ogni modo di offrire tutela giuridica a chi denunci illeciti alle autorità competenti anche all’interno del rapporto di lavoro (privato) (509), salvo il carattere calunnioso della denuncia stessa o dell’esposto. « Diversamente », affermano gli stessi giudici, « si correrebbe « il rischio di scivolare » in « una sorta di dovere di omertà (ben diverso da quello di fedeltà di cui all’art. 2105) », il quale, « ovviamente non può trovare la benché minima cittadinanza nel mostro ordinamento » (510). La posizione può essere comprensibile, ma non è appagante, perché così argomentando, si finisce per arrivare al paradosso di una fiduciarietà del rapporto ormai del tutto mancante di fondamento, giacché privata persino del suo più consolidato aggancio normativo alla fedeltà “in senso lato”, e di un dovere di riservatezza, letto secondo criteri assai stringenti, ben più di quelli comunemente invalsi presso la dottrina. Piuttosto sarebbe il caso di ragionare sul fatto che l’art. 2105 impone un obbligo — di « non divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, né (di) farne uso » secondo modalità pregiudizievoli per l’impresa — obbligo (509) Nel settore pubblico, l’art. 54-bis d.lgs. n. 165 del 2001 tutela espressamente il dipendente che segnala illeciti, disponendo che non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia. Sul punto v. Carinci M.T., 2014b, p. 4 che rileva che la norma si limita ad affermare esplicitamente per il pubblico impiego principi già ricavabili dal sistema nel suo complesso e valevoli anche per i dipendenti del settore privato. (510) Cass., civ., sez. lav., 14 marzo 2013, n. 6501, cit. 343 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore che, in quanto ascrivibile alla categoria degli obblighi di protezione, cede a fronte di un apprezzabile sacrificio dell’interesse del prestatore; sicché un dovere di astensione da denunce alle autorità competenti non potrà mai ravvisarsi di fronte a prevalenti interessi personali del medesimo e della stessa collettività. A tal stregua, bisognerebbe considerare al riparo da legittime reazioni disciplinari dell’imprenditore il comportamento del lavoratore, che denunci il proprio datore per atti illeciti, anche qualora questi non afferiscano strettamente alla tutela dei lavoratori e delle loro aspettative, ma solo ad interessi pubblici (diversi) (511). Potrebbe, invece, fondatamente pretendersi dal lavoratore, stavolta sì ai sensi di correttezza e buona fede, che una tale denuncia non cali sul datore come una sorta di “doccia fredda”, ma rappresenti piuttosto l’extrema ratio, ossia l’esito finale, almeno ove possibile, di un dialogo interno della struttura imprenditoriale teso a sollevare preventivamente il problema, affinché l’organizzazione produttiva medesima, nella persona del datore e dei suoi collaboratori vi possa, volendo, reagire e porvi rimedio. Discorsi non del tutto diversi debbono compiersi allorché gli obblighi di protezione siano chiamati a fare i conti con la necessità di garantire l’esercizio del diritto di critica del lavoratore, estrinsecazione della più generale libertà di espressione del pensiero di cui all’art. 21 Cost., libertà ribadita dall’art. 1 St. lav. e attinente alla manifestazione e alla divulgazione delle proprie opinioni. Per i motivi sin qui prospettati, la questione non può essere affrontata sulla scorta di una presunta “connotazione fiduciaria” del rapporto, come ha, invece, sovente ritenuto la giurispru(511) V. Carinci M.T., 2014b, p. 8, la quale rileva come la denuncia del lavoratore possa riguardare condotte del datore di lavoro che concretino o possano concretare illeciti sul piano penale, amministrativo o civile; sul punto v., in giurisprudenza, Cass. civ., sez. lav., 16 gennaio 2001, n. 519, in RIDL, 2001, II, p. 453 ss., con nota di Di Paola; in senso contrario Gragnoli, 1996, p. 61 s., secondo cui « in casi gravi », il datore di lavoro « può anche recedere dal rapporto con chi gli provochi misure sanzionatorie, qualora gli illeciti denunciati non afferiscano alla tutela dei lavoratori, della loro sicurezza o delle loro aspettative. Nel caso consueto in cui il dipendente riconosca trasgressione alla disciplina tributaria o ad altre previsioni, l’imprenditore può pretendere una astensione, se tale silenzio è irrilevante per il prestatore di opere e non incide sulla sua sfera giuridica, seppure in via ipotetica. La fedeltà si estende fino al divieto della sollecitazione di interventi punitivi delle autorità pubbliche, qualora non rilevino prevalenti interessi personali, anche di terzi ». 344 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore denza (512). Né si può pensare di doversi indirizzare verso la valorizzazione degli artt. 1175 e 1375 c.c., perché questi, ove orientati alla salvaguardia dell’organizzazione intesa in senso dinamico, cioè alla tutela della posizione di mercato dell’imprenditore, trovano specificazione e tipizzazione nell’art. 2105 c.c., la cui previsione di un dovere di riservatezza a carico del prestatore appare sufficientemente ampio per ridurre alquanto gli spazi applicativi delle clausole generali. È ben vero che non tutte le accuse o critiche anche pesanti « comportano necessariamente la divulgazione di notizie attinenti all’organizzazione o ai metodi di produzione dell’impresa o possano favorire direttamente la concorrenza a danno del datore di lavoro medesimo » (513). Ciò se non altro perché ci si può trovare pur sempre di fronte a giudizi, ad esempio, relativi alla sola persona del datore di lavoro, che non involgano quindi la sua struttura produttiva, comportando semmai un danno economico a quest’ultima solo di riflesso. In tal caso saranno certo gli artt. 1175 e 1375 c.c. a far da argine a comportamenti scorretti del prestatore. Più spesso, tuttavia, l’esternazione di fatti e opinioni chiama immediatamente in causa l’art. 2105 c.c., considerata soprattutto la lettura ampia che si fa del dovere di riservatezza ivi contemplato. Da un lato, si ritiene che esso tuteli la posizione economica dell’impresa nel suo complesso, mirando a salvaguardare quest’ultima da qualsiasi pregiudizio, anche non tipo strettamente concorrenziale (514), incluso, pertanto, a questo punto, quello relativo all’immagine aziendale presso i consumatori (515). Dall’altro lato, si è generalmente offerta una lettura particolarmente ampia dell’oggetto della prescrizione, ritenendosi che il legislatore abbia inteso riferirsi « a tutte le cognizioni concernenti i “metodi di (512) Cass. civ., sez. lav., 18 settembre 2013, n. 21362, in CED Cass., 2013; Cass. civ., sez. lav., 10 dicembre 2008, n. 29008, ivi, 2008; Cass. civ., sez. lav., 14 giugno 2004 n. 11220, cit.; Cass. civ., sez. lav., 25 marzo 2003 n. 14179, ivi, 2003; Cass. civ., sez. lav., 17 settembre 2009, n. 20048, in GD, 2009, 44, p. 59 ss.; Trib. Palermo, 24 maggio 1995, in OGL, 1995, p. 316 ss. (513) Mattarolo, 2000, p. 190. (514) Ibidem, p. 160; Gragnoli, 1996, p. 56. (515) Diversamente parrebbe Pisani, 2004, p. 137 quando afferma che il pregiudizio all’avviamento, all’immagine, il discredito al buon nome dell’azienda, ai suoi prodotti e servizi sia coperto dagli obblighi di protezione atipici di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. 345 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore produzione” e “la organizzazione”, senza riguardo esclusivo per le soluzioni tecniche, per le strategie di presenza sul mercato, per i profili finanziari, ma con la considerazione di ogni aspetto significativo per l’iniziativa economica » (516). Di fronte alla necessità di garantire l’esercizio del diritto di critica, il dovere di riservatezza deve, ad ogni modo, cedere il passo. Al contrario di quanto ritiene la giurisprudenza, non v’è alcun bilanciamento tra diritti costituzionali da operare: da un lato, l’art. 21 Cost.; dall’altro, l’art. 2 Cost. Né si tratta di evocare criteri tratti dal c.d. decalogo dei giornalisti (517), per elaborare, su tale falsariga, il c.d. decalogo del buon lavoratore (518), il cui dissenso potrà essere legittimamente esercitato solo quando i fatti denunciati siano veri (519) o ritenuti tali dallo stesso, vengano espressi con toni improntati a correttezza e misura (520) e la loro divulgazione sia connessa ad un interesse di rilevanza sociale (521). Nel contesto del rapporto di lavoro, tuttora condizionato da una concezione prettamente fiduciaria del rapporto, questi criteri sono spesso serviti per affermare la legittimità del diritto di critica, nei limiti segnati da una non meglio precisata esigenza di tutelare il decoro, nonché l’immagine dell’azienda (522). Bisognerebbe, invece, prendere atto del fatto che quello alla riservatezza è obbligo di protezione, destinato a dover essere ottemperato solo nei limiti segnati dall’inesistenza di un apprezzabile sacrificio dell’interesse proprio. Come per la denuncia di illeciti all’autorità competente, anche in questo caso, allora, è la (516) Gragnoli, 1996, p. 55. (517) Dessì, 2013, p. 398. (518) Cfr. Cass. civ., sez. lav., 25 febbraio 1986, n. 1173, in RIDL, 1987, II, p. 127 ss., con nota di Trioni; in dottrina, Aimo, 2003, p. 246 ss. (519) Cass. civ., sez. lav., 8 luglio 2009, n. 16000, cit.; Cass. civ., sez. lav., 15 maggio 1998, n. 4952, cit.. (520) Cass. civ., sez. lav., 14 giugno 2004, n. 11220, cit.; Cass. civ., sez. lav., 15 maggio 1998 n. 4952, cit.. (521) In tema, Carinci M.T., 2014a, p. 521; per la giurisprudenza, cfr. Cass. civ., sez. lav., 10 dicembre 2008, n. 29008, cit.; Cass. civ., sez. lav., 14 giugno 2004, n. 11220, cit.; Trib. Milano, 6 febbraio 2014, in RIDL, 2014, II, p. 504 ss., con nota di Carinci M.T. (522) Non è neppure corretto, peraltro, risolvere coi medesimi criteri il problema dell’esercizio del diritto di critica, quando questo riguardi il singolo prestatore e il sindacalista, prestandosi, tal ultimo caso, a considerazioni assai diverse, anche nell’ipotesi in cui il rappresentante dei lavoratori sia un RLS, che è pur sempre figura avente natura lato sensu sindacale. 346 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore tutela di interessi personali del prestatore e di terzi a rilevare, determinando così la prevalenza del diritto di critica. Il fatto che il lavoratore debba astenersi da dichiarazioni mendaci e diffamatorie nella manifestazione del proprio pensiero e, quindi, nella divulgazione di notizie relative all’organizzazione d’impresa, è regola valevole non in ossequio all’art. 2105, ma ai principi generali del comune vivere civile e, pertanto, prescinde anche dal livello di inquadramento del prestatore. Ciò che rileva « non è l’aderenza stretta alle posizioni datoriali », ma la formulazione di dichiarazioni, anche di dissenso, in modo irrispettoso dell’organizzazione datoriale e dei suoi vertici (523). Ciò che, invece, occorrerebbe richiedere è che il lavoratore, questa volta sì a stregua di correttezza e buona fede, si adoperasse, ove possibile, per attivare un dialogo preventivo interno alla struttura imprenditoriale sui fatti oggetto di critica, prima ancora di rivolgersi all’esterno, presso gli organi di stampa. Sarebbe bene che i giudici indagassero più a fondo su questo aspetto, per capire se il lavoratore avrebbe potuto discutere del problema nell’ambito della struttura produttiva e invece vi si sia astenuto. Ciò per quanto non possa probabilmente prospettarsi un obbligo generalizzato, a carico del prestatore, di informazione, scritta o orale, al datore o ai suoi collaboratori in ordine ai fatti oggetto della successiva denuncia ex artt. 1175 e 1375 c.c. Ciò perché si finirebbe forse per scoraggiare eccessivamente l’esercizio della critica ad opera del prestatore, specie in contesti organizzativi tradizionali, connotati da uno scarso coinvolgimento del personale e dei suoi rappresentanti alla gestione dell’impresa, per volontà, spesso, dello stesso management, poco incline allo sviluppo di sistemi partecipativi di tal fatta. Eppure, tali sistemi sono oggi richiesti dallo stesso legislatore in più occasioni, se si considera quanto disposto dal d.lgs. n. 231 del 2001 e dallo stesso d.lgs. n. 81 del 2008 in materia di sicurezza. Essi rappresenterebbero effettivamente un buono strumento preventivo rispetto a simili fenomeni. È, tuttavia, frequente che gli stessi codici etici e di comportamento eludano la questione e risultino privi di procedure dirette a favorire il dialogo nell’ambito dell’organizzazione, nonché la stessa denuncia ad opera dei prestatori, sicché non è escluso che la critica “rabbiosa” (523) Gragnoli, 1996, p. 71. 347 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore formulata dai dipendenti all’esterno possa ritenersi in certi casi la spia di un più generale “malessere” organizzativo della struttura produttiva nel suo complesso. 11.3.4. Doveri di protezione, vita privata e qualità personali del prestatore. Benché nell’economia del presente lavoro non sia possibile trattare la questione con il dovuto rilievo, si può escludere che gli obblighi di protezione abbiano una portata espansiva tale da richiedere al lavoratore la tenuta, anche nella vita privata, di comportamenti di salvaguardia dell’altrui utilità. Le condotte extralavorative possono effettivamente incidere negativamente sull’organizzazione imprenditoriale intesa in senso dinamico, determinando discredito, lesione dell’immagine e, dunque, inficiandone il buon nome, nonché la posizione di mercato. Tuttavia, non può ritenersi che esse costituiscano inadempimento di obblighi contrattuali e che, pertanto, giustifichino una reazione disciplinare dell’imprenditore. Se si eccettua l’ipotesi del pubblico impiego, “privatizzato” e non, dove il discorso è diverso e peculiare, non esiste un dovere di “buona condotta” a carico del debitore di opere e questo non può certo ricavarsi dalla clausole generali di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto. Senza dubbio, alcune vicende e qualità del prestatore, non strettamente tecniche, ma personali possono rilevare in rapporto al tipo di prestazione dovuta. Tuttavia, anche qui non è persuasivo « parlare di lesione del vincolo di fiducia » (524) per giustificarne l’idoneità a incidere negativamente sulla prosecuzione del rapporto. Simili evenienze non tollerano di essere ricondotte all’inadempimento di obblighi contrattuali, giacché quel di cui si discute è il venir meno dell’idoneità personale (e non tecnica) del lavoratore, richiesta dal tipo di prestazione dovuta. Ciò legittima certo il recesso imprenditoriale, ma in quanto causa idonea a riverberarsi (524) Così, invece, di recente, tra le tante, Trib. Trento, 10 giugno 2014, in RIDL, 2014, II, p. 780 ss., con nota di Dagnino, relativa al licenziamento per lesione del vincolo fiduciario di un autoferrotranviere, che su Facebook — in parte sul profilo personale e in parte sul profilo del gruppo dedicato al trasporto pubblico locale — si era reso autore di gravi affermazioni di stampo razzista e neo fascista, secondo quanto emerso dalla pubblicazione della vicenda sui giornali locali. 348 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore negativamente sul progetto organizzativo del datore e a costituirne una minaccia. Quando vicende attinenti alla persona del prestatore determinino effetti obiettivamente negativi sull’azienda è ammissibile la configurabilità di una giusta causa “oggettiva”, intesa proprio « come tutto ciò che non è inadempimento, ma che invece attiene alle ragioni aziendali » (525), con conseguente licenziabilità del prestatore nel rispetto delle procedure di cui all’art. 7 della l. n. 604 del 1966 — qualora si versi nell’ambito applicativo dell’art. 18 St. lav. — e non, invece, delle procedure sancite all’art. 7 St. lav. Quel che, infatti, l’ordinamento sollecita in tali casi è una verifica di compatibilità tra gli scopi del datore, alias il suo progetto organizzativo, e le qualità personali del prestatore, che devono evitare di porre in discussione quel progetto. Non depone, del resto, in senso contrario l’art. 3 l. n. 604 del 1966, nel cui ambito non sembrano potersi rinvenire ragioni ostative all’accoglimento della tesi qui sostenuta, nonostante alcune opinioni affermino il contrario, ritenendo che una tal norma avrebbe consacrato una distinzione netta tra eventi attinenti alla persona del lavoratore (giustificato motivo soggettivo) e vicende che vi prescindono completamente (giustificato motivo oggettivo) (526). Se così stanno le cose, non si può, allora, pensare che il venir meno delle menzionate qualità, in relazione alla prestazione dovuta, possa di per sé causare il licenziamento, dovendo quest’ultimo pur sempre giustificarsi alla luce di esigenze inerenti all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa. Sicché il giudice non sarà tanto chiamato, in dette ipotesi, a interrogarsi sul particolare disvalore sociale dei contegni tenuti dal prestatore, bensì sull’idoneità degli stessi a ledere l’interesse organizzativo del datore (527). (525) Pisani, 2004, p. 148; contra Napoli, 1980, p. 108 ss. (526) Napoli, 1980, p. 358 ss. e più di recente Pantano, 2012. (527) Sicché, se ad esempio, il datore di lavoro lamenti un’incompatibilità di talune vicende personali del lavoratore con l’immagine aziendale, bisognerà capire se effettivamente una lesione dell’interesse organizzativo da tal punto di vista possa dirsi sussistente e ciò alla luce di una serie di elementi, tra cui in primis, la notorietà delle vicende, ma anche la loro collocazione nel tempo: Cass. civ., sez. lav., 13 aprile 1999, n. 3645, cit., ha ad esempio giudicato illegittimo il licenziamento irrogato al dipendente bancario per passati trascorsi di tossicodipendenza, ma lo ha fatto, in modo poco persuasivo, sulla scorta di un bilanciamento 349 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Riferimenti bibliografici. AA.VV. (2013), Il controllo della Cassazione sulle norme generali, in CGL, 1, pp. 5-89. AIMO M.P. (2003), Privacy, libertà di espressione e diritto del lavoro, Napoli, Jovene. ALBI P. (2008), Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona. 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Per la Suprema Corte, il giudice di merito ha, in tal caso, ben coordinato e valutato tutti gli elementi processuali, sì da concludere « che i fatti, per il “forte disvalore sociale” (...) erano ″indubbiamente idonei ad avere negativi riflessi sull’immagine dell’azienda, (...) e sulla fiducia della clientela nella correttezza nella correttezza dei suoi dipendenti, tanto più ove si consideri il notevole rilievo dato alla vicenda dagli organi di stampa, taluni dei quali anche a diffusione nazionale, i cui articoli hanno dato particolare risalto alla qualità di dipendente delle Poste » del lavoratore in questione. 350 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore BENASSI G. (2012), Clausole generali e giudice del lavoro: l’art. 30, primo comma, della legge n. 183 del 2010, in ADL, pp. 91-109. BENATTI F. (1960), Osservazioni in tema di “doveri di protezione”, in RTDPC, pp. 1342-1363. BENATTI F. (1991), Doveri di protezione, in DDPCiv., VII, Torino, Utet, pp. 221-227. BESSONE M. 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Concludeva chiedendosi “quali” dovessero essere questi criteri,, “qualitativi” e non “quantitativi”, per una più efficace valutazione del lavoro e ponendosi dei dubbi sulla eventuale loro attendibilità. Io ritengo che, se esiste un ruolo che la dottrina giuridica, e in particolare quella giuslavorista, possono ancora svolgere, è di rispondere a questa domanda. Più in generale, gli studiosi di diritto sono chiamati a cogliere le istanze provenienti dalla realtà — nel nostro caso dalla realtà produttiva — attraverso il confronto con le scienze sociali e a leggerla alla luce delle categorie sistematiche tramandate dalla tradizione. Tuttavia, è necessario che tali categorie generali siano sottoposte a continua verifica. Laddove ciò non avvenisse vi è il rischio di una ricostruzione falsata; di una lettura non veritiera della realtà e, di conseguenza, della restituzione di ricostruzioni inadeguate alla risoluzione dei problemi concreti. Per questo ringrazio i relatori per il loro sforzo ricostruttivo 363 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore originale. In particolare ringrazio la Prof.ssa Campanella, anche per essere stata una dei più generosi tra i miei lettori. Anche alla luce degli spunti di riflessione suggestivi offerti dalle relazioni, sono convinto che, per cogliere a pieno le trasformazioni repentine e continue del tessuto socio-economico e produttivo, sia necessaria una radicale inversione di rotta rispetto a certe tendenze che mi paiono assai diffuse nel ragionamento dei giuslavoristi italiani: sia nella dottrina, sia nella giurisprudenza. Al centro della ricostruzione giuridica della relazione lavorativa deve essere riportato l’interesse dell’impresa quale elemento caratterizzante di tutta l’operazione economica dell’art. 2094 del codice civile e nelle disposizioni a esso correlate. Per tali ragioni, ad esempio, non mi sento di condividere impostazioni per le quali “il vincolo obbligatorio primario non è riducibile ‘alla sola prestazione di lavoro in sé considerata’ in relazione al solo interesse del datore di lavoro, poiché vanno considerati pure gli interessi del lavoratore”, come sostiene la Prof.ssa Campanella. Sono invece convinto che, all’interno dell’equilibrio causale del contratto di lavoro, la ricostruzione della natura e del contenuto dell’obbligo di lavorare debba essere proprio centrata sull’interesse dell’impresa, in quanto è la realizzazione di quell’interesse che costituisce la ragione sociale della stipulazione del negozio. Gli interessi di rilievo costituzionale del lavoratore, legati alla tutela della sua persona, restano esterni al nucleo centrale dell’operazione economica definita dalle parti e, non a caso, trovano tutela e riconoscimento attraverso il meccanismo eteronomo dell’inderogabilità. Soprattutto, resto convinto che sia necessario prendere atto che l’obbligazione di lavoro è un’obbligazione di risultato e che solo attraverso questa ricostruzione la regolamentazione del rapporto possa trovare un assetto equo, corrispondente alla natura concreta degli interessi perseguiti con la sua stipulazione. E ciò non tanto e non solo perché la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato sia stata abbandonata dalla dottrina e dalla giurisprudenza civiliste, seppure, in effetti, da quest’ultima con orientamenti altalenanti. Ma soprattutto perché soltanto attraverso il risultato l’obbligazione lavorativa raggiunge gli esiti per i quali è riconosciuta e regolata dall’ordinamento, cioè la realizzazione di un momento di congiunzione tra l’apporto del singolo prestatore di 364 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore opere e il disegno organizzativo dell’imprenditore, cioè il suo progetto. È evidente che il paziente nutre un’aspettativa giuridicamente tutelata a una “buona cura” e non alla guarigione e che il cliente dell’avvocato non può vedersi assicurata la vittoria della causa, ma soltanto una strategia difensiva adeguata. Nondimeno, una “buona cura” e una strategia difensiva adeguata costituiscono di per sé un risultato, e non una mera condotta conforme a diligenza. È per questi motivi che la lettera del Prof. Cerny al Financial Times mi ha suscitato il mio interesse. Perché attesta un’effettiva domanda sociale di riconsiderazione delle categorie generali tramite le quali il contenuto del rapporto di lavoro deve essere ricostruito. Da una simile impostazione è agevole dedurre che la diligenza non costituisce il criterio giuridico per l’accertamento dell’adempimento, che invece si concentra sulla realizzazione del risultato, “misurato attraverso il rendimento, concepito (...) come capacità del prestatore di rispondere nel tempo al risultato atteso dal datore”, come scrive, illustrando le mie teorie, la Prof. Campanella. Alla diligenza spetta il ruolo di misurare l’adeguatezza dei comportamenti posti in essere dal lavoratore per preservare la possibilità di adempiere. Essa costituisce il criterio di verifica degli sforzi o delle condotte omissive imposte al prestatore di opere, anche attraverso l’esercizio del potere direttivo, affinché egli non interferisca con il substrato organizzativo su cui si innesta il risultato dovuto, minimizzandone l’utilità ricevuta dall’imprenditore o impedendone del tutto la realizzazione. In tal senso, la diligenza dell’art. 2104 c.c. svolge, nel rapporto di lavoro, un ruolo del tutto speculare rispetto a quello designatole, per le obbligazioni in generale, dall’art. 1176, in conformità allo schema definito dall’art. 1218. Nel caso dell’art. 1176, è la buona fede, secondo una nota impostazione civilistica, ad adattare la realizzazione dell’impegno richiesto alla dinamicità della vita economica contemporanea. Nell’ambito del rapporto di lavoro tale funzione è invece svolta dall’art. 2014 e, quindi, dalla diligenza, anche per via delle direttive fornite dall’imprenditore tramite l’esercizio del potere direttivo. In questo scenario ricostruttivo, non restano spazi per la correttezza e la buona fede quali fonti di integrazione del contenuto obbligatorio. Mi sembra, infatti, che la gran parte dei com365 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore portamenti che comunemente sono ricondotti agli obblighi di protezione, possano invece rientrare tra i doveri connessi alla conservazione della possibilità di adempiere, intesa appunto quale non interferenza con la concretizzazione delle utilità attese dall’impresa. Sul versante datoriale, le stesse clausole generali costituiscono regole per l’esercizio del potere, affinché esso sia esercitato secondo modalità conformi alle finalità per cui è riconosciuto all’imprenditore dall’ordinamento. Sul piano dell’esecuzione del lavoro, esse possono, se mai, indicare norme sulle modalità di adempimento degli obblighi o di godimento di prerogative (a tale schema si possono ricondurre le prescrizioni relative alla fruizione delle ferie o al godimento dei periodi di sospensione per malattia), ma sempre in via di principio, senza un reale contenuto precettivo, che può sempre essere ricondotto alla regola della diligenza, in senso, appunto, “conservativo”. Riprendendo dal punto da cui sono partito, ritengo — e mi auguro — che gli spazi di rielaborazione del nostro consueto armamentario dogmatico e concettuale non si fermino ai temi di oggi, ma si debbano invece aprire verso altri problemi, per i quali gli studiosi delle discipline economiche e organizzative invocano una ricostruzione giuridica più consona al reale andamento dei processi di organizzazione del lavoro. Se si guarda, ad esempio, al tema della flessibilità, la dottrina pare troppo incline a seguire gli orientamenti del legislatore, concentrati su quella in entrata e in uscita. Al contrario, restano inascoltate le richieste di una radicale revisione delle norme che regolano la mobilità interna. Occorrerebbe, a sentire e leggere i commenti degli studiosi di organizzazione e degli stessi imprenditori, una più profonda riflessione sull’art. 2103 c.c., che si rivela ormai, nonostante i tentativi di adeguamento operati dalla giurisprudenza, foriero di rigidità incompatibili con una più evoluta rielaborazione della nozione di professionalità. Fintanto che tali richieste di revisione e adattamento della rielaborazione giuridica resteranno inascoltate, il pensiero giuslavorista non avrà raggiunto la sua finalità essenziale, che è quella di fornire gli strumenti teorici per un equo contemperamento dei conflitti che insorgono nello svolgimento delle attività produttive, e, in ultima analisi, di delinearne le soluzioni secondo un criterio di giustizia. 366 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore ENRICO GRAGNOLI Credo che non si debba solo ringraziare gli amici per le tre bellissime relazioni, ma anche il Consiglio direttivo per avere colto un tema aperto, perché vi è stata una varietà di opinioni sul punto nodale della questione, non tanto che cosa siano le clausole generali, ma a che cosa dobbiamo attribuire il nome di “clausole generali”. Né il prof. Loy, né il prof. Bellomo misconoscono la differenza tra le clausole generali intese dalla tradizione e le norme a struttura elastica, ma ritengono che ci siano elementi prevalenti tali da portare a una rilettura sintonica delle norme a struttura elastica rispetto alla clausole generali della tradizione e, in particolare, al principio di buona fede. Pure apprezzando molto i contributi del prof. Bellomo e del prof. Loy, la tesi tradizionale mi convince di più per tre ordini di motivazioni, una di carattere strutturale, una di carattere funzionale e una di ordine storico. La terza è la più evidente; di fronte al contratto tipico con la regolazione più intensa del nostro ordinamento, nel senso che le norme dedicate al nostro contratto tipico sono dieci volte tutte le altre messe insieme, è necessario distinguere la tradizione civilistica e il suo riferimento ai parametri relazionali sociali rispetto all’intervento eteronomo di contenimento del potere del datore di lavoro e volto a ripristinare una maggiore parità all’interno del rapporto. L’equiparazione o la ricerca di una simmetria più stretta tra le norme a struttura elastica e la buona fede o, comunque, le clausole generali della tradizione civilistica è un po’ singolare a proposito del contratto di lavoro, nel quale il contenimento del potere dell’impresa e il ripristino di condizioni di maggiore tutela per il lavoro eterodiretto è svolto dalla legge e dalla contrattazione collettiva, quindi dalle scelte dell’ordinamento democratico, più che dalle scelte affidate alla valutazione giudiziale nell’incontro con l’esperienza sociale. 367 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore C’è un problema di ordine strutturale che la prof. Campanella mette bene in luce; bisogna distinguere il rinvio all’esperienza sociale al fine dell’identificazione del precetto con il rinvio all’esperienza sociale ai fini dell’applicazione al caso concreto di un precetto che trova la sua ragione di essere all’interno del tessuto normativo. Regolato il matrimonio, bisogna vedere chi si è sposato, ma questo non significa che il matrimonio è desunto dall’esperienza sociale; se mai, occorre applicare l’istituto del matrimonio all’interno dell’esperienza sociale. Non possiamo dire che sia la stessa cosa rinviare all’esperienza sociale e al sistema relazionale dei rapporti tra privati, al fine dell’identificazione del precetto o al fine dell’identificazione della premessa minore del sillogismo giuridico. Altro è rimandare all’esperienza sociale per cogliere la premessa maggiore, altro è fare riferimento all’esperienza sociale per cogliere la premessa minore. C’è una terza considerazione, tipica del diritto del lavoro; noi abbiamo molte norme elastiche, le quali rimettono di sicuro (e hanno del tutto ragione il prof. Bellomo e il prof. Loy) al giudice un ampio spettro di valutazioni attente al caso specifico, ma rispetto ai parametri dell’organizzazione aziendale, per capire dove stia la corretta struttura e fino a che punto si possa spingere nei confronti dei diritti dei lavoratori. Questo ha poco a che vedere con la buona fede che rimanda alla dimensione relazionale dei rapporti tra privati per la scoperta di regole di condotta che non inglobano la considerazione dell’organizzazione aziendale, ma momenti assiologici inerenti a regole di condotta. Per esempio, con un effettivo ricorso alle clausole generali, per una sentenza ineccepibile, un malato terminale non è in grado di calcolare il periodo di comporto e, se c’è un principio generale secondo cui non bisogna avvertire il lavoratore dell’approssimarsi della fine dello stesso periodo di comporto, questo principio subisce una deroga per la persona sottoposta a chemioterapia. A tale riguardo, si invoca il principio di buona fede e non si guarda tanto alla dimensione organizzativa, ma a regole di condotta a ragione desunte dalla vita sociale, regole le quali si impongono per la dimensione relazionale dei rapporti tra privati. È del tutto diverso il ragionamento rispetto alla giusta causa e al giustificato motivo. Queste norme, con maglie larghe nella loro applicazione, sono diverse dalla buona fede, perché non c’è nessun raccordo con l’esperienza sociale, ma se mai con questioni organiz368 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore zative. Le vere clausole generali con impatto sul rapporto di lavoro sono molte o poche? Quando, a proposito dell’art. 2105 c.c., per la Suprema Corte, oltre a violare l’obbligo legale, alcuni inadempimenti sono anche contrari alla buona fede, cade in un pleonasmo. La violazione della norma legale implica il disvalore giuridico senza la necessità di invocare le clausole generali. Ma non è sempre così, e richiamo un caso che, dimostra come l’esatta identificazione di quella che sia la buona fede porta a conseguenze rilevanti dal punto di vista economico. Qual è il problema? La violazione del dovere di applicazione dei criteri di scelta nel caso del licenziamento individuale. Ci sono massime della Suprema Corte che risalgono al 2000 e ascrivono questo principio all’applicazione del criterio di buona fede. Se hanno ragione e se nel licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo si discute di buona fede, cioè dell’applicazione di criteri che derivano dal vivere sociale mediante l’osmosi nel sistema legale, ha ragione la maggioranza dei giudici di merito che nega l’applicabilità dell’art. 18, quarto comma, St. lav.. Se non si discute del giustificato motivo, in quanto tale, ma dell’applicazione di criteri di buona fede che vengono dopo l’identificazione del giustificato motivo oggettivo, deve ricorrere la tutela indennitaria. Ma è così? È un problema di buona fede? Credo di no e che dalla buona fede, intesa come osmosi delle regole del vivere civile all’interno del sistema legale, non si possa dedurre l’applicabilità dei criteri di scelta al giustificato motivo oggettivo, che sono sicuramente applicabili. Invece, soccorre l’applicazione analogica al licenziamento individuale dell’art. 5 della legge n. 223 del 1991, in tema di licenziamenti collettivi. In tale caso, si deve invocare in via analogica anche la norma sulla sanzione, quindi l’art. 18, quarto comma, St. lav.. Potete essere d’accordo o no, ma l’esatta delimitazione del concetto di buona fede sposta entità economiche significative, perché, a seconda che voi aderiate alla tesi della Suprema Corte, ci sono conseguenze evidenti su un problema con gravissime ricadute patrimoniali. Grazie. 369 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore GIULIO PROSPERETTI Il principio di correttezza e buona fede assume una nuova particolare rilevanza allorchè, per così dire, si incorpora in determinate fattispecie produttive di diritti: uno è l’esempio dell’antisindacalità, l’altro è l’esempio del mobbing a ben vedere anche la nuova disciplina dei licenziamenti. L’antisindacalità di cui all’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori di per sé ricomprende il principio di correttezza e buona fede, perché l’intenzionalità del comportamento del datore finisce per qualificare la fattispecie, quindi la norma generale, il principio di correttezza e buona fede non sta sopra alla fattispecie, ma ne diventa proprio il contenuto. Anche se per la verità non condivido la dottrina processualistica e la giurisprudenza che hanno trasformato in un giudizio ordinario quello che nell’intenzione di Giugni era una sorta di “injunction”, proprio perché che poteva essere richiesta da organismi senza personalità giuridica e che consentiva al giudice di emettere provvedimenti di urgenza senza valore anticipatorio, ma assistiti da sanzione penale. Altro fenomeno è quello del mobbing, che alla fine riusciamo a rendere giustiziabile tramite il concetto di costrittività organizzativa, il 2087 c.c., il danno biologico. Per esempio capita spessissimo di trovare lavoratori che lamentino la violazione del principio di parità: hanno promosso tutti i suoi colleghi alla qualifica superiore tranne loro. La tutela di questa situazione di per sé è difficile perché non esiste un principio di parità, ma ci si può arrivare considerandola una discriminazione, ma anche questa via è problematica, perché non siamo difronte ad una discriminazione tabellata; comunque proprio tramite il mobbing si può arrivare a rendere giustizia in queste fattispecie. Anche in questa situazione fa da padrone proprio il principio di correttezza e buona fede, senza il quale non potremmo costruire 370 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore un’efficiente fattispecie di mobbing, come invece ha provato a fare la giurisprudenza. Aggiungerei che anche la nuova disciplina dei licenziamenti è retta dal principio di correttezza e buona fede riferito al datore di lavoro, sicché una volta valutata la irrilevanza dell’inadempimento del lavoratore le conseguenze in ordine alla reintegrazione non riguardano più la fattispecie a carico del lavoratore, ma l’apprezzamento della buona o mala fede da parte del datore di lavoro. Purtroppo i giudici non sembrano essere culturalmente attrezzati a giudicare sulla base dei principi generali e normalmente si rifugiano in uno sterile formalismo, che non rende giustizia sostanziale. 371 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore CARLO PISANI Il “costo” in termini di incertezza delle norme inderogabili a precetto generico 1. Mi chiedo se in questo nostro Paese, pieno di debiti e di disoccupati, che nel 2013 ha avuto il 54% di incremento della disoccupazione giovanile, il record di fallimenti, 54 al giorno; in cui hanno chiuso 330 imprese artigiane al giorno; mi chiedo, dunque, se in questa situazione possiamo ancora permetterci il lusso che gli aspetti più delicati del rapporto di lavoro siano regolati esclusivamente da norme generali. Qui mi riferisco alle norme generali, alle norme elastiche, a quelle vaghe, ecc.; parlo di giusta causa, di giustificato motivo soggettivo, di equivalenza, ecc; invece le clausole generali in senso tradizionale sono buona fede e correttezza; la confusione l’ha fatta l’art. 30, comma 1 della legge n. 183/2010, laddove usa il termine “clausole generali”, mentre doveva esprimersi in termini di norme generali. Pertanto io voglio soffermarmi sulle norme generali che regolano importanti aspetti del rapporto di lavoro e sappiamo quali sono. 2. Mi chiedo, allora: possiamo ancora permetterci di pagare il prezzo, in termini di incertezza e di imprevedibilità, delle decisioni giudiziarie che interpretano e applicano norme come la giusta causa, il giustificato motivo soggettivo, l’equivalenza, la subordinazione, l’art. 2087? Siamo condannati a morire con queste norme? Il costo in termini di incertezza di queste norme lo conosciamo tutti e qui vi faccio una carrellata velocissima di esempi noti, soprattutto per i più giovani. Fa sorridere che una norma anti incertezza, come l’art. 30, comma 1 della legge 183, sul giustificato motivo oggettivo (che, come tutti sanno, prevede che il giudice non può sindacare il 372 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore merito delle valutazioni tecniche, organizzative e produttive del datore di lavoro), venga sistematicamente disattesa da un filone consistente di sentenze perfino della Cassazione, le quali ritengono legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo solo se è attuato per fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti e non per aumentare profitti, invece di limitarsi, come prevede testualmente la norma, a controllare il presupposto di legittimità e il nesso di casualità tra la motivazione organizzativa, l’esigenza organizzativa e il posto soppresso del lavoratore. Io sospetto che ci sia di mezzo, più che sottili e articolate interpretazioni, l’ideologia; e già il mio maestro Gino Giugni, negli anni ’90, sosteneva che le norme generali aprono le porte all’ideologia nelle sentenze, se tali norme non vengono utilizzate — e mi è piaciuta questa espressione di Loy — in modo educato. Tutto ciò incide, ovviamente, su tasso di incertezza, in relazione ad un aspetto del rapporto, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che risulta una norma cardine, come diceva Mario Napoli, della dimensione dell’organico del datore di lavoro, oltre ad essere una norma spartiacque tra il sistema capitalistico e un sistema diverso. 3. Mi veniva da sorridere anche a pensare che, se una norma del genere, così chiara, non è servita a dare un poco di certezza, figuriamoci che fine ha fatto l’altra norma, emblema di manifestazione di impotenza del legislatore, quella del 3° comma del 30, quando si limita a prescrivere che il giudice deve soltanto “tener conto” delle tipizzazioni del contratto collettivo nei casi di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo; ed infatti questa norma non è servita assolutamente a niente! Ancora adesso dobbiamo osservare incertezze clamorose su tipici motivi disciplinari di licenziamento: si pensi alle oscillazioni della Cassazione sul furto o appropriazione indebita di modico valore da parte del dipendente, o a quelle in materia di insubordinazione del dipendente. Alcune sentenze sono troppo interessanti per essere sottaciute; ad esempio la Cassazione ha negato la giusta causa, in un caso in cui il marito aveva preso a schiaffi la moglie in azienda, durante l’orario di lavoro; a quel punto era intervenuto il superiore per dividerli ed il lavoratore aveva cominciato ad inveire anche contro di lui; la Cassazione ha sostenuto che non sussisteva la giusta causa 373 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore perché, innanzitutto, si trattava di un fatto privato tra marito e moglie; quanto alle offese nei confronti del superiore, insomma, costui si è messo in mezzo tra moglie e marito, come si era permesso? Questa diventa una commedia; però, in realtà, la cosa è molto seria perché ci sono fior di sentenze che hanno affermato l’ingiustificatezza del licenziamento del lavoratore che si rifiuti di adempiere a un ordine, qualora il rifiuto posto dal datore si configuri “solo” come un atto di insofferenza del lavoratore. Io non voglio entrare neppure nella disputa se l’appropriazione di modico valore da parte del dipendente costituisca giustificazione del licenziamento oppure no; a me interesserebbe soltanto mettere il datore nelle condizioni di sapere ex ante se questo fatto integra o no il giustificato motivo. L’imputato principale di questo danno è, appunto, questa nefasta norma a struttura aperta che lascia spazio al soggettivismo giudiziario. 4. Che dire, poi, come altro esempio significativo delle oscillazioni della Cassazione, dell’ampiezza del repechage del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ora esteso anche alle mansioni inferiori e non solo a quelle equivalenti. In un mio articolo ho parlato della creazione che si espande al pari dell’incertezza. Si consideri che il datore di lavoro, in caso di effettiva soppressione del posto e di assenza di mansioni equivalenti libere, deve preoccuparsi di dimostrare l’assenza di posti liberi in tutte le altre mansioni inferiori della scala classificatoria, tanto più numerose se il dipendente licenziato aveva un’alta qualifica. Si potrebbe dire che questo è “il bello della creatività”, che rende la vita meno monotona. Peccato però che questa attività creativa non si riversa nel mondo dell’estetica ma in quello del diritto, dove l’esistenza di regole giuridiche dovrebbe impedire l’ingresso del principio nichilistico del “tutto è permesso”. 5. Per quanto riguarda l’altra norma a precetto generale fonte di innumerevole contenzioso, l’equivalenza, non mi sento di condividere le opinioni secondo cui la giurisprudenza faccia riferimento al contratto collettivo per ridurre l’incertezza. Non mi risulta. 374 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Anzi, in materia di mansioni promiscue le Sezioni Unite del 2006 hanno imposto pesanti limiti all’autonomia collettiva, in modo del tutto creativo, sostenendo la legittimità di tali mansioni promiscue solo se le diverse mansioni appartengono alla stessa qualifica e la modifica sia giustificata da esigenze aziendali. Il che rappresenta un regresso, in quanto in precedenza le mansioni promiscue avevano il solo limite del loro consolidamento e della frode alla legge. 6. In materia di mansioni nel lavoro pubblico contrattualizzato, ci si è messo anche il legislatore ad eliminare una delle poche norme che devolveva interamente la materia dell’equivalenza alla classificazione professionale prevista dai contratti collettivi: come è noto il d.lgs. 150 del 2009 ha modificato tale norma prevedendo che il lavoratore può essere adibito alle “mansioni equivalenti nell’ambito delle aree di inquadramento”. Il che ovviamente non significa che tutte le mansioni inquadrate in ciascuna area siano equivalenti; altrimenti, se avesse voluto dire questo, non sarebbe stato più necessario il riferimento all’equivalenza in quanto sarebbe stato sufficiente sancire il solo limite costituito dall’area di inquadramento. 7. Come se non bastasse vi è stata anche la modifica del 360 n. 50 c.p.c.: sparisce l’impugnazione in Cassazione per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, che costituiva lo strumento principale per sottoporre al giudice di legittimità il controllo in ordine all’applicazione da parte del giudice di merito delle norme generali. Sicché i cittadini a cui tali norme generali sono applicate, si ritrovano nella totale incertezza, abbandonati alla mercé dei giudici di merito. 8. Incertezza, dunque, e problema occupazionale. Io dubito fortemente che questo quadro incentivi le assunzioni e incentivi a far investire in Italia. Qualche anno fa parlavamo sempre di incertezza del diritto, però era una nobile battaglia di principio; alcuni ci prendevano un po’ in giro sostenendo fosse una nostra fissazione anacronistica; e noi rispondevamo con alcune belle citazioni; per esempio quella di Grossi, tratta dal suo libro “Mitologie giuridiche della modernità”, 375 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore in cui dice: “Il giurista è un cercatore d’ordine, un tessitore d’ordine, perché il diritto è essenzialmente scienza ordinante. Egli si sforza di individuare e segnare la ragnatela dell’ordine che soggiace invisibile, ma reale, al di sotto dell’incomposta rissa delle cose”; sembra una frase sapienziale. Il problema, però, oggi, non è neppure più questo, ma è molto più concreto perché si tratta di incentivare gli imprenditori ad assumere ed io temo fortemente che questa regolazione per norme generali sia uno dei più forti disincentivi. Gli economisti ci dicono che agli investitori stranieri occorre sapere e sentire che l’Italia sia un’entità prevedibile; quindi per creare un ambiente favorevole agli investimenti vi è l’aspetto cruciale della prevedibilità delle regole. Anche se non vogliamo andare dietro ai sacri principi, sussiste comunque l’interesse concreto di combattere questa emergenza della disoccupazione. Di questi tempi sono gli imprenditori privati che debbono assumere, in quanto la Pubblica Amministrazione non assume più nessuno; sono finiti i tempi in cui i governi gonfiavano di personale inutili Enti e Ministeri per ragioni di consenso elettorale, contribuendo così a creare l’attuale montagna di debito pubblico. 9. Chiudo con una parola di speranza: in questi ultimi mesi qualcosa si è cominciata a fare; finalmente hanno tolto le causali generali del contratto a termine, ovviamente con adeguati contrappesi: il limite del 20% dell’organico e la durata di 3 anni. Queste soluzioni alcuni le proponevano da anni, tanto erano logiche e scontate; ma è chiaro che c’era l’ideologia di mezzo; quindi si sono fatte solo ora e questa è già una buona cosa, però altamente insufficiente; come insegnava Giugni negli anni ’90, la strada maestra è quella della devoluzione al contratto collettivo in funzione di integrazione della norma. In verità vi sarebbe già, in proposito, una norma di questo tipo, ed è il noto art. 8, sugli accordi di prossimità, che non viene applicata forse — ritengo — più per pregiudizi ideologici che per problemi tecnico-giuridici; ma di quella norma io vorrei sottolineare non tanto la potenzialità derogatoria che pure c’è, ma mi accontenterei della funzione integrativa di aspetti e materie come “equivalenze e recesso” ai fini della certezza. Ad esempio, che si preveda pure, in questi accordi di prossimità, che la sanzione per il 376 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore furto di modico valore è solo la sospensione di 10 giorni, invece del licenziamento; ma almeno il datore di lavoro lo riesce a sapere ex ante e non ex post da un giudice, anni dopo. In conclusione, io credo che occorra sfatare il mito che le norme generali siano indispensabili al diritto del lavoro; si tratta soltanto di una delle varie tecniche utilizzabili, neanche delle migliori, forse tra le peggiori se coniugata con la norma inderogabile. 377 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore SIMONE VARVA Sul sindacato di ragionevolezza nell’esperienza spagnola Nella sua relazione scritta il professor Stefano Bellomo riporta l’efficace espressione secondo cui a « fonti fluide corrispondono giudici potenti » (Cordero, 1981). Anche sulla base di questo suggestivo e condivisibile assunto, intendo affrontare il tema dell’applicazione delle “formule elastiche” (termine a cui faccio riferimento in senso atecnico) nell’ambito del controllo sul licenziamento per ragioni oggettive. Più specificamente, vorrei soffermarmi brevemente (nei limiti in cui cioè lo consente l’intervento) sul ricorso da parte della giurisprudenza ai principi di ragionevolezza e di proporzionalità: nozioni sulla cui incerta natura hanno indagato ampiamente i relatori e sulla cui analisi, perciò, non indugio ulteriormente. In tema di utilizzo giurisprudenziale di tali principi trovo significativo richiamare in particolare l’esperienza offerta dall’ordinamento spagnolo in merito controllo sul “licenziamento economico”. Tengo a precisare che non vi è alcuna velleità di procedere ad una indagine di tipo comparatistico e ricorderò, prima di tutto a me stesso, quanta estrema prudenza occorra adottare laddove si tenti di raffrontare situazioni apparentemente analoghe che, tuttavia, fanno riferimento a differenti esperienze giuridiche nazionali. In ordine al licenziamento per ragioni oggettive, il legislatore spagnolo è più volte intervenuto negli anni recenti. Mi riferisco in particolare alle modifiche introdotte all’art. 51 dello Statuto dei lavoratori nazionale (più precisamente del “Texto refundido de la Ley del Estatuto de los Trabajadores”, d’ora innanzi ET), prima nel 2010 e, successivamente, nel 2012. Procedendo all’analisi del suddetto articolo, vi è in primo luogo da rilevare come sia stata da subito chiara l’intenzione del legislatore di delineare e di tenere separate le diverse species di recesso, 378 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore pure tutte riconducibili al genus del licenziamento per ragioni oggettive. In particolare, da una parte è stato definito il recesso fondato su cause economiche; dall’altra parte i licenziamenti connessi a cause tecniche, organizzative e produttive (fattispecie poi, a loro volta, distintamente individuate in via legale). Su questo impianto normativo il legislatore è intervenuto una prima volta nel 2010, innestando una nuova disposizione con cui si impone all’imprenditore che recede di dimostrare la ragionevolezza della decisione. Tale obiettivo è stato attuato attraverso la valorizzazione del nesso causale tra recesso, ad un capo, ed esigenza economica, tecnica, organizzativa o produttiva, all’altro capo. Alla luce di come tale disposizione è stata intesa dalla giurisprudenza, all’interprete sembra venga sostanzialmente richiesto di effettuare un vaglio di “coerenza funzionale” fra mezzo e fine. A due anni di distanza il legislatore, tornando sullo stesso art. 51 ET, ha rimosso dal testo il riferimento alla nozione di ragionevolezza. Nel contempo egli ha tentato di introdurre in via legale (e perciò in termini predefiniti e generali) una specifica ipotesi di licenziamento economico giustificato: alludo a quella fattispecie, piuttosto conosciuta anche in Italia, secondo cui la persistenza di una situazione economica sfavorevole sarebbe dimostrata dalla sussistenza di perdite per tre trimestri consecutivi rispetto ai tre trimestri corrispondenti dell’anno precedente (nell’originale: « en todo caso, se entenderá que la disminución es persistente si durante tres trimestres consecutivos el nivel de ingresos ordinarios o ventas de cada trimestre es inferior al registrado en el mismo trimestre del año anterior »). Merita di essere enfatizzato il fatto che il legislatore del 2010, nell’intervenire cercando di meglio definire le species di licenziamento per ragioni oggettive, nel contempo introduce positivamente nell’ordinamento il principio di ragionevolezza. Di primo acchito, si potrebbe allora dedurne che in quel frangente il legislatore abbia ottenuto l’effetto contestuale di affinare gli aspetti definitori e (quasi come tecnica di “bilanciamento”) di aggiungere allo strumentario del giudice un elemento che ne amplia i margini d’apprezzamento. In termini generali, l’esplicito riconoscimento del sindacato di ragionevolezza potrebbe qui essere considerato quasi una “valvola di sfogo” dell’ordinamento, un elemento di elasticità che permette al potere giudiziario di adattare il controllo e la valutazione alla fattispecie concreta e alle caratteristiche 379 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore specifiche del caso reale. In via puramente incidentale è curioso notare come, paradossalmente, nella intentio del legislatore storico fosse invece da riscontrare il fine di circoscrivere il sindacato giudiziale, considerato che all’interprete si chiedeva (nella formulazione originaria del decreto legge, da cui è stato poi rimosso l’avverbio in fase di conversione) di verificare che dalle allegazioni probatorie potesse dedursi « mínimamente » la ragionevolezza della decisione di porre fine al rapporto di lavoro. Al di là dei rilievi formali e delle questioni interpretative, mi pare interessante passare a verificare se l’inserimento (prima, nel 2010) o la rimozione del riferimento al controllo di ragionevolezza (poi, nel 2012) abbiano inciso concretamente sull’ampiezza del sindacato giudiziale. In termini estremamente sintetici si può rilevare come, sotto questo aspetto, i margini per le prerogative giudiziali non sembrino essere sensibilmente mutati. L’analisi delle pronunce consente infatti di mettere in luce come i giudici continuino a fare riferimento e a rivendicare l’utilizzo di “principi elastici” e “concetti valvola”, quali sono per l’appunto la ragionevolezza e la proporzionalità. Si possono riportare, ad esempio, alcuni argomenti utilizzati dal Tribunale Superiore di Giustizia di Madrid in una pronuncia dell’inizio del 2014, avente ad oggetto l’interpretazione dell’art. 51 ET nella versione post 2012 (Tribunal Superior de Justicia de Madrid, Sala de lo Social, Sección 1a, Sentencia num. 29/2014 de 10 enero). Il Tribunale ritiene in primo luogo che « il controllo di ragionevolezza è consustanziale al potere costituzionale garantito di giudicare e di assicurare una tutela giudiziale effettiva »; aggiunge che « la ragionevolezza stessa si erge quale manifestazione della giustizia come valore superiore dell’ordinamento giuridico, essendo proprio l’imprenditore per primo colui che è interessato al fatto che i mezzi adottati siano razionali e proporzionali ». Il giudice, poi, indugia nell’elencazione di una pletora di formule elastiche, statuendo che il licenziamento deve rispettare i criteri di ragionevolezza, razionalità, congruenza, proporzionalità e ponderazione. In conclusione, dall’autorità giudicante viene confermato come il test di proporzionalità e di adeguatezza sui motivi di licenziamento sia sopravvissuto all’abrogazione del riferimento normativo esplicito; d’altro canto, viene negato « il controllo di proporzionalità in senso stretto che presupporrebbe, invece, l’in380 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore dispensabilità del licenziamento stesso considerato secondo la prospettiva del licenziamento quale extrema ratio ». Anche l’Audiencia Nacional, peculiare organo giurisdizionale superiore dell’ordinamento spagnolo a cui sono riconosciute ampie competenze di materia, ha confermato che il controllo sulla connessione funzionale tra esigenze economiche e licenziamento sopravvive alla soppressione del riferimento alla ragionevolezza (Audiencia Nacional, Sala de lo Social, Sección 1a, Sentencia num. 40/2013 de 11 marzo). Controllo, in ogni caso, reso necessario anche al fine di rispettare la Convenzione n. 158 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Convenzione che, a differenza di quanto accaduto in Italia dove non è stata ratificata, la Spagna ha da tempo recepito); l’art. 4 della medesima, in particolare, prevede che per porre termine a un rapporto di lavoro occorre che sussista una valida giustificazione connessa a elementi soggettivi (attitudine o condotta) relativi al lavoratore ovvero legata a esigenze organizzative. Sempre secondo l’Audiencia Nacional, la scelta abrogativa del legislatore del 2012 comporterebbe al più l’opportunità di intendere la ragionevolezza « declinata soprattutto in termini di proporzionalità ». Si tratterebbe perciò di un controllo di ragionevolezza e proporzionalità sui mezzi impiegati ovvero, sotto un’altra prospettiva,di una tecnica di bilanciamento tra sacrifici e interessi contrapposti. Può dedursi da questi rapidi cenni che è sempre rinvenibile a favore del giudice un margine di apprezzamento del caso concreto in definitiva insopprimibile; margine che diviene peraltro particolarmente ampio dinnanzi a disposizioni che fanno riferimento a formule generali: formule generali tra le quali si può certamente annoverare il licenziamento economico. Forse allora non è un caso se le opzioni normative adottate nei diversi ordinamenti per definire e limitare il potere di licenziamento sono accomunate da connotati di elasticità e indeterminatezza. Il riferimento all’esperienza spagnola, in questo senso, ci conforta sul fatto che il delicato rapporto di bilanciamento (ovvero di “check and balance”) tra competenze e prerogative del legislatore, da un lato, e del giudice, dall’altro, non sia affatto una cura esclusivamente italiana e ci conferma nuovamente come, specialmente in alcuni ambiti dell’ordinamento, un significativo margine per il sindacato giudiziale sia fondamentalmente irrinunciabile. 381 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore FRANCESCA MARINELLI Vorrei sottoporre alla vostra attenzione nell’ambito dei c.d. poteri datoriali e, dunque, ponendomi in linea di continuità con la relazione del Prof. Loy, due clausole generali che a mio avviso meritano di essere ricordate. Si tratta di due clausole inserite nell’art. 18 St. lav. dalla riforma Fornero e mi riferisco a quella parte della norma che sancisce la nullità — con conseguente reintegrazione — del licenziamento determinato da motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 c.c. Sebbene le clausole generali non siano immediatamente visibili nella norma appena citata, esse affiorano non appena si svolga il rinvio fatto all’art. 1345 c.c. Come è stato infatti già rilevato dalla dottrina lavoristica (mi riferisco alla Relazione Aidlass di Maria Teresa Carinci del 2012), negli atti unilaterali — qual è l’atto di licenziamento — causa e motivo determinante finiscono per coincidere. Da un lato, infatti, il motivo determinante di licenziamento viene inteso come la ragione individuale che ha spinto il datore di lavoro a compierlo; dall’altro, la causa di licenziamento viene intesa da tempo non più solo come la funzione economico-sociale del negozio (che, come noto, nei negozi tipici come gli atti unilaterali è sempre lecita, essendo di creazione legale), quanto, piuttosto, come l’interesse comune alle parti che la singola operazione sottesa al negozio è diretta a soddisfare, ossia, nel caso dell’atto unilaterale di licenziamento, l’interesse del datore di lavoro sotteso al licenziamento stesso. Ma se le cose stanno così, cioè se è lecito — come tutti ritengono — sovrapporre, nel caso dell’atto unilaterale di licenziamento, causa e motivo determinante, è chiaro anche che quest’ultimo sarà illecito tutte le volte in cui risulti illecita la causa, ossia, come afferma lo stesso codice civile agli artt. 1343 e 1344, tutte le volte in cui il motivo determinate del recesso datoriale sia o illegale 382 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore (ossia contrario a norme imperative o in frode alla legge), o antigiuridico (ossia contrario all’ordine pubblico) o immorale (ossia contrario al buon costume). Ed ecco affiorare le clausole generali. Ordine pubblico e buon costume, infatti, possono senz’altro essere riguardate — come ricordato poc’anzi dalla stessa Prof. Campanella — come direttive predisposte dal legislatore a favore del giudice, affinché quest’ultimo fondi la decisione sullo standard di ordine pubblico e di buon costume presente in una data realtà storica. Quale sia il contenuto di queste clausole generali è dunque un compito volutamente lasciato al giudice dal legislatore (tramite appunto l’utilizzo di tali clausole) e che pertanto varierà caso per caso a seconda dei valori in gioco. Tutta questa premessa per arrivare a dire che è proprio questa voluta genericità della nozione di motivo illecito di licenziamento — dovuta, come visto, al suo stretto collegamento con le clausole generali di ordine pubblico e buon costume — ad imporci di non trattarla come una variante semantica del licenziamento discriminatorio (come invece tende a fare una parte della dottrina e della giurisprudenza). Se, infatti, le ragioni discriminatorie, essendo elencate dallo stesso legislatore, non ammettono un sindacato di merito sulla loro intrinseca riprovevolezza, essendo esse sempre contra legem — a meno che non sia provata l’esistenza di una esimente —, la categoria dei motivi illeciti in quanto, come detto, categoria aperta, necessita di un controllo caso per caso con attenzione alla giustizia del caso singolo. Ciò significa che, mentre una volta provata la discriminazione il giudice sarà sempre (cioè indipendentemente dall’interesse del creditore della prestazione) tenuto a dichiarare la discriminatorietà del licenziamento (salvo esimente), nel caso del licenziamento per motivo illecito, il giudice sarà chiamato a verificare di volta in volta se quel motivo — ritenuto indispensabile per il datore di lavoro ai fini della realizzazione del suo interesse creditorio — non sia in realtà contrario alle clausole generali di ordine pubblico o buon costume; e non mi sembra, questa, una differenza da poco. 383 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore PIERA LOI Ragionevolezza e clausole generali Il mio breve intervento è stato sollecitato in particolare dalle relazioni di Gianni Loy e di Stefano Bellomo e dai riferimenti contenuti in queste relazioni al tema del ruolo della ragionevolezza nell’interpretazione giudiziale delle clausole generali. Gianni Loy, ad un certo punto, parlando del rischio di arbitrarietà della decisione del giudice chiamato a dare contenuto alla clausola generale, ha ricordato che l’ultimo limite che il giudice ha è quello di assumere una decisione non irragionevole. Emerge, chiaramente, in quest’affermazione il tema della ragionevolezza della decisione giudiziale quando il giudice sia chiamato ad applicare una clausola generale. Anche Stefano Bellomo ha fatto riferimento alla ragionevolezza come criterio, come canone, per valutare la contrattazione collettiva, individuata come standard per dare contenuto alle clausole generali. In uno degli interventi di chi mi ha preceduto è stata citata una recente sentenza del Tribunale di Madrid in materia di licenziamento collettivo, nella quale i giudici spagnoli riaffermano la necessità di sottoporre al vaglio del principio di ragionevolezza e proporzionalità la sussistenza della causa oggettiva di licenziamento, onde valutare la legittimità stessa del licenziamento. Il tema della ragionevolezza emerge ogni volta che si debbano interpretare “nozioni a contenuto variabile nel diritto”. Credo sia preferibile adottare, come fa Gianni Loy, la categoria di “nozione a contenuto variabile nel diritto” elaborata dal filosofo del diritto Chaim Perelman, anziché limitarsi all’esame delle sole clausole generali. Innanzitutto perché semplifica una serie di problemi tassonomici. Com’ è stato evidenziato, infatti, ad ogni teoria sulle clausole generali corrisponde normalmente una indicazione di quali locuzioni rientrino nelle clausole generali, quali nei principi, o quali nelle norme generali. Uno dei criteri utilizzabili per giusti384 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore ficare le proprie scelte tassonomiche è senz’altro quello del diverso tipo di attività che il giudice compie nell’interpretare e applicare le diverse locuzioni, ma è preferibile, almeno in questa sede e data la brevità del mio intervento, non concentrarsi su tali aspetti. Il vantaggio della categoria “nozione a contenuto variabile nel diritto” risiede nel fatto che ha un campo di applicazione molto ampio che ricomprende tutte le categorie di cui oggi si discutono i rispettivi confini: clausole generali, principi generali e standard. L’elemento caratterizzante della categoria consiste nella specificità dell’intervento giudiziale nell’interpretazione e applicazione delle nozioni a contenuto variabile, caratterizzato da una maggiore discrezionalità, ma soprattutto da un’attività considerata creativa del diritto. Inevitabili sorgono le domande su come vincolare il giudice, su come limitarne gli eccessi creativi, soprattutto in un terreno come quello del diritto del lavoro, nel quale, al contrario, si assiste ad una chiara volontà da parte del legislatore di limitare il più possibile il controllo giudiziale in presenza di clausole generali in materia di lavoro. Il riferimento è sicuramente all’art. 30 della l. n. 183 del 2010, che circoscrive il controllo giudiziale alla sussistenza dei requisiti di legittimità degli atti datoriali e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive. Nella stessa direzione, tuttavia, si trovano ampi riferimenti nel diritto comparato, come la Ley n. 3 del 2012 che, nel modificare l’art. 51.1 dell’Estatuto de los Trabajadores, ha formalmente eliminato il controllo di ragionevolezza del giudice nei licenziamenti economici, dovendosi il giudice limitare a verificare che vi siano state per tre mesi consecutivi perdite consistenti. Questa tipologia di interventi legislativi non fa che limitare il campo delle possibili argomentazioni giuridiche utilizzabili dal giudice nella sua attività interpretativa, escludendone alcune, perciò, in definitiva, il tema delle nozioni a contenuto variabile, anche nel diritto del lavoro, implica l’esposizione delle rilevanti teorie dell’interpretazione e dell’argomentazione giuridica. A partire dalla descrizione del diritto come argomentazione giuridica (sulla base delle teorie di Alexy, riprese da Atienza), nei sistemi a carattere costituzionale che si fondano su principi tra cui occorre effettuare un bilanciamento, si deve evidenziare l’emergenza — sempre più chiara sia nell’ordinamento comunitario, che 385 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore negli ordinamenti nazionali — della ragionevolezza come canone di legittimazione stessa dell’ordinamento giuridico. La ragionevolezza, come nozione variabile nel diritto, che peraltro alcuni civilisti, un po’ apoditticamente, classificano come clausola generale, (mentre al più potremmo dire che si tratta di un principio generale) è un tratto tipico del diritto moderno. Il diritto ottocentesco era caratterizzato da una razionalità di tipo cartesiano, per cui il giurista nell’applicare il diritto era chiamato a compiere operazioni di tipo logico-matematico, di qui l’idea che il giudice fosse la bouche de la loi. Il diritto moderno, invece, è lo specchio di società complesse in cui la crisi regolativa si manifesta, da un lato, attraverso eccessi di iper-regolazione e, dall’altro, attraverso un abuso delle clausole generali. È un diritto profondamente trasformato dalle Costituzioni che hanno positivizzato una molteplicità di valori spesso confliggenti tra di loro. È inevitabile che nel diritto così trasformato il mito della razionalità e della certezza del diritto manifestino dei cedimenti e si faccia spazio, invece, il bisogno del diritto di essere ragionevole, di proporre tecniche e modalità di argomentazione giuridica che consentano di contemperare gli interessi contrapposti. In questo senso la ragionevolezza è veramente la chiave di volta dei moderni ordinamenti giuridici nei quali non sempre il legislatore può determinare attraverso una norma generale ed astratta l’assetto definitivo degli interessi e rimanda al giudice la concreta determinazione degli stessi. E quando, come nel diritto del lavoro, il legislatore non sia in grado di predeterminare in una norma tale assetto degli interessi, che spesso rimandano a diritti costituzionalmente garantiti, si fa ricorso a nozioni a contenuto variabile, affinché sia il giudice ad individuare, in concreto, tale assetto tra interessi e diritti contrapposti. Nell’effettuare questa operazione, comunque la si intenda, — e abbiamo visto che i tre relatori si richiamano a diverse teorie ricostruttive sul grado maggior o minore di apertura verso criteri esterni all’ordinamento giuridico — il giudice è vincolato al rispetto di un principio generale dell’ordinamento che è il principio di ragionevolezza. La ragionevolezza oltre a svolgere un ruolo determinante nel giudizio di eguaglianza, come attributo delle legittime differenze di trattamento, è declinabile come proporzionalità quando una determinata misura comporti la limitazione di un diritto fondamentale da parte del legislatore, ma anche da parte di un privato. In questa seconda accezione il principio di 386 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore ragionevolezza-proporzionalità implica che il giudice sottoponga la misura adottata, secondo la prassi applicativa del principio fattane dalla Corte Costituzionale tedesca, ma anche da molte altre Corti, compresa la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ad un test in più fasi: il primo diretto a valutare la legittimità dei fini, il secondo l’adeguatezza al raggiungimento dei fini, il terzo la necessità della misura (secondo certe ricostruzioni queste due fasi coincidono) e per ultimo la proporzionalità in senso stretto, attraverso la quale si realizza un vero e proprio bilanciamento tra diritti confliggenti. L’esempio dei licenziamenti economici o per giustificato motivo oggettivo è da questo punto di vista illuminante. Il giustificato motivo oggettivo è una nozione a contenuto variabile, in quanto la legge non ne definisce il contenuto, che dovrà essere, invece, completato dal giudice al fine di definire la fattispecie astratta e, dunque, il campo di applicazione al caso concreto. Perché l’art. 3 della l. n. 604 del 1966, nel descrivere le ragioni oggettive che possono legittimare il licenziamento fa riferimento a “ragioni inerenti all’attività produttiva all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, cioè ad una nozione a contenuto variabile? Perché non può fare diversamente, in quanto la complessità della realtà, come ha evidenziato Gianni Loy, è talmente elevata che non ha più senso né aumentare la produzione normativa con legislazione di dettaglio, anche di carattere amministrativo — pena il rischio di colonizzazione della realtà denunciato da Habermas — ed è invece è fondamentale, al fine di garantire l’adattabilità delle norme alla mutevolezza delle situazioni sociali, inserire nozioni a contenuto variabile del diritto ed è altrettanto imprescindibile assegnare al giudice un ruolo così pregnante. Naturalmente questa centralità del giudice non deve sfociare nell’arbitrio. In questo caso la ragionevolezza è fondamentale, in quanto si tratta di un canone che il giudice deve utilizzare ogni qualvolta vi sia la restrizione di un diritto fondamentale, e che lo vincola ad un’argomentazione giuridica solida, strutturata e valutabile nei suoi esiti, dopo aver effettuato un bilanciamento di interessi contrapposti che il legislatore in anticipo non può fare. La giurisprudenza spagnola ha dimostrato come, concretamente, si applica il principio di ragionevolezza nei licenziamenti economici: nella sentenza del giudice madrileno del 2012 nel caso Telemadrid, al fine di definire cosa si intenda per licenziamento 387 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore economico giustificato, si afferma che il giudice debba comunque effettuare un controllo di ragionevolezza intesa come proporzionalità, qualificata come tecnica di ponderazione dei sacrifici. Anche nel nostro ordinamento al fine di determinare cosa si intenda nel singolo caso concreto per licenziamento giustificato per motivo oggettivo, il giudice deve, a mio parere, far riferimento al principio di ragionevolezza intesa come proporzionalità e applicare il relativo test: i fini economici sono legittimi? I mezzi per raggiungere questi fini economici sono adeguati? Vi erano altri strumenti per limitare al minimo la limitazione dei diritti fondamentali, in questo caso del diritto fondamentale del lavoratore all’occupazione. Questa è la fase nella quale si realizza il bilanciamento, perché appunto il bilanciamento è tra principi, la libertà di iniziativa economica e privata e il diritto al lavoro. Mi sento, quindi, di difendere questa posizione e mi sento di affermare che se il tempo della certezza del diritto non è finito: non dobbiamo pensare che la certezza sia l’unico mito da salvare, nel diritto del lavoro forse bisogna pensare di più alla giustizia, abbiamo bisogno di giustizia più che di certezza. 388 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore MASSIMO CORRIAS Clausole generali e responsabilità (contrattuale) del datore di lavoro in materia di sicurezza sul lavoro Dalle relazione che abbiamo appena ascoltato è emerso che uno dei numerosi problemi che le clausole generali (intese in senso lato come categoria nella quale rientrano differenti disposizioni tutte caratterizzate dalla presenza di espressioni o “sintagmi indeterminati”) sollevano è quello dei criteri di integrazione. A tale riguardo, è condivisibile l’opinione di chi ritiene che la concretizzazione delle clausole generali debba avvenire non con criteri extragiuridici bensì ricorrendo a principi e valori riconosciuti dall’ordinamento, ossia con l’interpretazione sistematica che, come noto, richiede il ricorso a fonti e, in particolare, a principi di diritto positivo. L’argomentazione per principi, come criterio di giustificazione delle decisioni giuridiche, è preferibile perché impone di portare su un livello elevato di razionalità la motivazione delle decisioni giuridiche e ad esplicitare i giudizi di valore condivisi dall’interprete. Tuttavia, quando l’applicazione delle clausole generali o delle norme a contenuto variabile si inserisce in un rapporto obbligatorio, come accade anche nel caso del rapporto di lavoro, si pone anche il problema del coordinamento con le regole della responsabilità contrattuale. Quest’ultima, secondo autorevole dottrina, deve essere intesa come responsabilità da violazione di obblighi e si contrappone alla responsabilità ex art. 2043 del c.c. che è una responsabilità da lesione di diritti. Ciò posto, dunque, la responsabilità per violazione di obblighi è configurabile esclusivamente nel caso in cui il comportamento del debitore costituisca inadempimento di una regola di condotta preesistente al fatto lesivo. In altri termini, l’elemento fondante della responsabilità — e della conseguente reazione dell’ordinamento — è la violazione di una regola di condotta conosciuta o 389 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore conoscibile e non la lesione (per quanto grave essa sia) di una diritto. L’operatività delle clausole generali nel rapporto obbligatorio, quindi, non solleva solo il problema della limitazione della discrezionalità del Giudice ma anche quello relativo alla necessità di ricostruire le posizioni di vincolo delle parti in modo coerente con l’assetto di interessi dedotto nell’accordo negoziale e con le disposizioni legali e contrattuali che disciplinano quel determinato rapporto. Sotto questo profilo il settore della sicurezza offre notevoli spunti di riflessione. Si pensi alla interpretazione e all’applicazione dell’art. 2087 c.c. proposte da quella parte della giurisprudenza che afferma il principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile. Ancorare l’adempimento dell’obbligo di sicurezza del datore di lavoro all’osservanza di tutte le misure in tecnologicamente disponibili trasforma, di fatto, la responsabilità ex art. 2087 c.c. in una responsabilità di tipo oggettivo (alla stregua di quella per esercizio di attività pericolosa). Infatti, il principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile non è e non può essere un parametro per determinare le misure di sicurezza che ciascun imprenditore è tenuto ad osservare nello svolgimento della propria attività in quanto non ne consente la preventiva individuazione. Questa interpretazione della disposizione in esame sembra violare, quindi, la regola fondamentale della responsabilità per inadempimento prima esaminata proprio perché comporta il riconoscimento della responsabilità (contrattuale) del datore di lavoro per la violazione di una regola di condotta individuata ex post. Ci sono poi anche gli aspetti processuali. L’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c. è un obbligo diretto ad un risultato negativo, ossia evitare la lesione dell’integrità psico-fisica e della personalità morale del creditore-lavoratore. Per tale ragione esso, sotto il profilo probatorio, deve essere assimilato alle obbligazioni negative, con riferimento alle quali la giurisprudenza prevalente (per tutte, Cass. Sez. Un. 30 ottobre 2001 n. 13533) ritiene che la prova dell’inadempimento sia a carico del creditore che, in questo caso, dovrà dimostrare oltre al titolo del proprio diritto, il fatto positivo dell’inadempimento. Questo significa che in caso di evento dannoso il lavoratore che voglia dimostrare la violazione da parte del datore di lavoro 390 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore dell’obbligo di sicurezza dovrà provare il danno subito e il nesso di causalità tra questo e le specifiche misure di sicurezza che si assumono violate che, quindi, dovranno essere concretamente individuate (Cass. 11 aprile 2007 n. 8710; Cass. 18 gennaio 2007 n. 8710, in MGL, 2007; Cass. 1 giugno 2004 n. 10510; Trib. Monza, 12 maggio 2009, n. 241); solo a questo punto scatterà, per il datore di lavoro, l’onere della prova (liberatoria) consistente nella dimostrazione di aver predisposto ogni misura idonea ad evitare l’evento. Non è condivisibile, quindi, il differente orientamento giurisprudenziale (Cass. 16 dicembre 2005 n. 27838; Cass., 3 luglio 2003 n. 10548; Cass., 7 ottobre 2002 n. 14323) secondo il quale il lavoratore si può limitare a dimostrare il rapporto di lavoro, il danno e il nesso di causalità tra questo e l’ambiente in cui è svolta la prestazione. L’adesione al primo dei due indirizzi giurisprudenziali appena indicati non rileva solo con riferimento ad una diversa configurazione dell’onere della prova nel caso di evento dannoso ma comporta significative conseguenze anche sul piano della ricostruzione del contenuto dell’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c.: richiedere al creditore — lavoratore la specifica allegazione della disposizione o della misura di sicurezza violate dal debitore — datore di lavoro comporta che quest’ultimo non potrà più essere considerato responsabile per l’omissione di una condotta idonea ad escludere ogni possibile fonte di pericolo (Cass., 18 gennaio 2007 n. 8710, cit., 635), ossia per la violazione di un obbligo di sicurezza inteso quale obbligo di rispettare ogni cautela innominata diretta ad evitare un qualsiasi danno e quindi, di una regola di condotta non preventivamente individuata o individuabile. 391 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore LUCA CALCATERRA Moriremo con le clausole generali e le norme elastiche? Il dibattito ha fornito stimoli innumerevoli ed è impossibile dar conto di tutte le riflessioni che ha suscitato. Questo intervento, tra l’altro, non era preordinato, ma nasce spontaneamente dal desiderio di rispondere all’interrogativo proposto dal professor Pisani: “Moriremo con le clausole generali e i concetti giuridici indeterminati?”. La sollecitazione vuole provocatoriamente indurre una riflessione sulla indefettibilità della normazione cd. elastica nel diritto del lavoro. La risposta non può in realtà essere univoca. Con alcuni concetti elastici utilizzati nella disciplina giuslavoristica (e non solo giuslavoristica...) direi che moriremo, nel senso che l’ordinamento non può in alcun modo fare a meno di essi. Il ricorso a questa tecnica normativa è in alcuni casi indefettibile. Condivido la sottolineatura di Piera Campanella e di Enrico Gragnoli sulla necessità di distinguere tra clausole generali e altri tipi di norme elastiche, poichè soltanto nel caso delle clausole generali possiamo dire che l’opzione del legislatore per questa tecnica normativa è inevitabile. Ciò perché le clausole generali sono norme prive di fattispecie, che attraversano l’ordinamento trasversalmente consentendogli di recepire dei valori come vivi in quel determinato luogo e momento storico. Gli altri tipi di norme che, con espressione riassuntiva, possiamo indicare come “norme elastiche” sono invece delle disposizioni normative a fattispecie aperta, quindi ancorate a una singola fattispecie, della quale però il legislatore omette di completare gli elementi, lasciandone alcuni aperti all’integrazione da parte dell’interprete e, in primo luogo, del giudice. Delle clausole generali, che da qualcuno, come Rodotà, sono state definite “le branchie attraverso cui l’ordinamento respira”, l’ordinamento non può fare a meno del tutto. Esistono degli standards valutativi immanenti nella realtà sociale di un dato luogo 392 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore in un dato momento storico che non è possibile cristallizzare in via definitiva, incapsulare in una costruzione normativa di diritto positivo. E ciò non è possibile sia perché essi mutano al mutare delle condizioni di luogo e di tempo, sia perché essi fanno propriamente riferimento a valori che rilevano in diverse fattispecie. Si pensi, per intenderci, alla classica espressione del comportamento secondo buona fede o del comportamento corretto e diligente, espressioni che ritroviamo in tutto l’arco del diritto dei contratti. È possibile invece, probabilmente, fare a meno di molti concetti giuridici indeterminati, delle cosiddette norme elastiche, cioè di quelle norme a fattispecie “aperta”, che il legislatore sceglie consapevolmente, in base a un’opzione di politica del diritto, di non completare, ritraendo la potestà legislativa e rinviando il perfezionamento della disciplina ad altri soggetti. È in particolar modo il caso dei rinvii all’autonomia collettiva, che molto a lungo hanno caratterizzato il diritto del lavoro italiano. Il rinvio all’autonomia collettiva, pur scontando i noti problemi derivanti dall’informalità del nostro diritto sindacale, presenta l’indubbio vantaggio di conferire, almeno tendenzialmente, a una voce sola la potestà di integrare la disciplina legale. La valorizzazione dell’autonomia collettiva, al di là di altri pregi pure indiscutibili, consente di evitare quella estrema frastagliatura degli esiti dell’applicazione della norma, che discende, invece, dal rinvio alla autorità giurisdizionale, frutto inevitabile dell’ampliamento del ricorso alla tecnica normativa per concetti giuridici indeterminati. Per ragioni di ordine diverso si sta oggi rinunciando, nel riformare la disciplina dei rapporti flessibili, al sistema del rinvio all’autonomia collettiva, che avrebbe potuto garantire l’esigenza di certezza del diritto senza alterare i rapporti di forza e gli equilibri tra le parti. A mio modesto avviso questo indebolimento del sistema sindacale deriva non solo da una scarsa capacità del sindacato italiano di farsi protagonista dell’evoluzione del sistema produttivo e di consentire la strutturazione di robuste forme di partecipazione dei lavoratori (come mi pare si possa dire sia accaduto in altri paesi, in primis in Germania), ma anche all’informalità del nostro sistema di relazioni industriali, che andrebbe superata. Ma non è questa la sede per discuterne. La normazione per clausole generali ha incontrato l’entusiastica adesione di una parte della dottrina a partire dai primi anni ’60, adesione ancora ferma oltre un ventennio dopo (penso in 393 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore particolare, ma non solo, agli scritti di Stefano Rodotà degli anni ottanta). Di questo entusiasmo, pure talora temperato da maggiore consapevolezza delle possibili distorsioni indotte dal ricorso alle clausole generali (Castronovo scrisse un saggio che chiamò “L’avventura delle clausole generali”, nel quale tracciò la parabola storica di questa tecnica normativa e dei problemi connessi), hanno però beneficiato non solo le clausole generali, ma la normazione elastica in senso ampio, cioè tutta quella che si avvale di concetti giuridici indeterminati. La enucleazione della categoria delle norme elastiche in senso ampio, intese appunto come norme contenenti concetti la cui valenza semantica varia in ragione delle condizioni di tempo e di luogo (e, più in generale, della specifica situazione contrattuale cui il concetto va riferito), e, più propriamente, l’entusiasmo che ha sostenuto il ricorso a questa tecnica normativa hanno fruttato danni notevoli all’ordinamento giuridico, in special modo perché i concetti elastici sono serviti in molti casi al potere politico, come strumento per una legislazione di compromesso e poco trasparente in settori delicati. In particolare le norme elastiche sono servite (e servono spesso tuttora) per attuare delle forme di flessibilizzazione dell’impiego di manodopera in modo seminascosto o, comunque, per evitare di assumere una chiara responsabilità politica rispetto a delle decisioni che erano poco digeribili sul piano del consenso. Il ricorso alla famosa clausola delle ragioni tecniche organizzative e produttive, già sperimentata nella disciplina della mobilità interna, poi diffusasi nella disciplina delle forme di impiego flessibile della manodopera, trasformandosi, a partire dalla riforma della disciplina del contratto a tempo determinato introdotta con il d.lgs. n. 368/2001, con l’aggiunta delle ragioni sostitutive (con un italiano assolutamente discutibile), ha portato alla situazione attuale, vale a dire all’estrema parcellizzazione dei risultati dell’applicazione della normativa. Una parcellizzazione che significa assenza, pressochè totale in questi campi, di certezza del diritto e incremento esponenziale del contenzioso. Considerati gli enormi costi che si riverberano sul sistema giudiziario, questa distorsione non poteva essere trascurata, tanto più che nel nostro ordinamento l’assenza del valore vincolante del precedente e un debolissimo ruolo nomofilattico della Cassazione non hanno aiutato a contenerne le conseguenze più negative. 394 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Dobbiamo, allora, morire così? Probabilmente no, prima di tutto perché la tecnica normativa che fa uso (e abuso) dei concetti giuridici indeterminati non è indefettibile, come è dimostrato — una volta tanto in positivo — dalla disposizione della Legge Fornero che, ribadendo il contenuto dell’art. 12 della l. n. 604 del 1966, valorizza le clausole di contratto collettivo che prevedono sanzioni conservative a fronte di inadempimenti disciplinari, attribuendo a queste previsioni carattere vincolante per il giudice su un duplice piano, quello della valutazione della illegittimità del licenziamento e quello della necessità della sanzione reintegratoria. Questa disposizione, sebbene ribadisca il contenuto di una norma più risalente, è comunque indice di un cambiamento di rotta, perché il legislatore dopo moltissimi anni segna il verso “meno” sull’uso dei concetti giuridici indeterminati e stringe il campo in cui il giudice è libero di valutare la giustificatezza o meno del licenziamento. In secondo luogo, un’indicazione molto importante in questo stesso senso e una conferma di un trend più generale verso la riduzione dell’uso legislativo dei concetti giuridici indeterminati, e sul punto devo dissentire dal pur pregevole intervento di Simone Varva, viene proprio dal caso della recente legge spagnola n. 3 del 2012, che proprio l’altro ieri è stata valutata come legittima da un Comitato tripartito, nominato in sede OIL e presieduto da Raffaele De Luca Tamajo nella parte in cui cristallizza nelle perdite continue per più trimestri la nozione di crisi persistente che giustifica il licenziamento. Il Comitato è tripartito, quindi composto anche da rappresentanti sindacali, che hanno ritenuto non costituisca compressione indebita del potere giurisdizionale il fatto che un legislatore canonizzi il contenuto di una nozione indeterminata come quella di giustificatezza del licenziamento indicando in modo univoco quando questa sussista effettivamente. Ciò conferma ulteriormente che il ricorso a concetti giuridici indeterminati nella normazione non rappresenta una necessità indefettibile, perché delle alternative esistono e sono praticabili e legittime. E il caso della legge spagnola mi sembra particolarmente interessante poiché concerne delle fattispecie, come quelle giustificative del licenziamento, tradizionalmente considerate necessariamente elastiche. Ancora, e per concludere, il Decreto Renzi-Poletti (d.l. n. 34/2014, conv. in l. 78/2014), seguendo un orientamento politico 395 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore che qualcuno ha definito come post-ideologismo, fa quello che nessuno finora aveva osato. Con il decreto n. 34/2014 il Governo liberalizza il ricorso al contratto a termine e alla somministrazione di lavoro a tempo determinato. Non è più necessario giustificare l’impiego di queste forme contrattuali con la sussistenza di ragioni tecniche o produttive. Il Governo dismette così lo schermo del concetto giuridico indeterminato e assume la responsabilità di una scelta che è eminentemente politica, ovverosia la liberalizzazione piena di queste forme contrattuali flessibili attraverso il superamento dell’infausta formula delle ragioni o esigenze tecnicoproduttive e organizzative. Una formula che, come hanno evidenziato anche Piera Campanella, Piera Loi e altri, è stata introdotta nell’ordinamento non in modo neutro, ma con l’intento chiaro di flessibilizzare la disciplina, quindi di favorire la parte datoriale, finendo tuttavia per provocare a quest’ultima molti più problemi di quanto si sarebbe potuto immaginare e, forse, di quanti se ne siano risolti. Al di là di ogni valutazione del merito, vale a dire sulla condivisibilità o meno di questa ulteriore liberalizzazione del ricorso alle forme contrattuali flessibili dell’impiego dei lavoratori, il decreto n. 34/2014 evita infingimenti e supera con un atto di coraggio, in fondo, la prassi dell’uso delle norme elastiche quale schermo per rendere più accettabili delle decisioni politicamente poco digeribili. La sostituzione di un sistema di valutazione ex post affidato al giudice e fondato su una norma, come quella delle causali giustificative del ricorso al contratto a termine e alla somministrazione a tempo determinato, di contenuto giuridico indeterminato è un indubbio passo in avanti dal punto di vista della tutela della certezza del diritto e della deflazione del contenzioso. Del resto si tratta di una norma di incerta portata garantistica, perché in molti casi è assolutamente dubbio che il lavoratore sia più tutelato perché un giudice può sindacare le ragioni per cui l’utilizzatore ricorre alla somministrazione. La sua sostituzione con l’individuazione di un tetto — per il contratto a termine almeno — del 20% dei lavoratori complessivamente impiegati ha probabilmente un’efficienza maggiore sul piano delle tutele del lavoratore e, in più, non ha gli enormi costi in termini di sacrificio della certezza del diritto che si è cercato di evidenziare. Certamente si può discutere sulla quantificazione del tetto, ma senza dubbio 396 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore questa disciplina semplifica l’applicazione della normativa e garantisce la prevedibilità degli esiti delle decisioni imprenditoriali. Dunque, per rispondere all’interrogativo di Carlo Pisani, spero che non moriremo così e, tutto sommato, credo ci siano dei margini di miglioramento, in termini di certezza del diritto, nella tensione verso una regolamentazione più completa e, soprattutto, verso una disciplina conformata in modo da non scaricare sulla magistratura l’ingrato compito della mediazione politica, che non spetta ai giudici e per la quale non sono, naturalmente, attrezzati. Per concludere, mi sembra quindi, riassumendo quanto detto, che la distinzione fra clausole generali e norme elastiche vada riaffermata, perché le seconde vengono normalmente utilizzate per disciplinare una fattispecie che esiste e che può essere precisata dal legislatore in tutti i suoi elementi risolvendo i problemi di cui stiamo discutendo. Il ricorso a una normazione elastica è frutto di una decisione eminentemente di politica del diritto (e non solo), rispetto alla quale esistono alternative. Al contrario, quando siamo in presenza di buona fede, correttezza e di clausole generali in senso proprio il legislatore non ha scelta rispetto alla tecnica normativa da utilizzare e dunque i margini di incertezza applicativa che derivano naturalmente dal deferimento al giudizio del caso concreto della creazione della regola di diritto sono un male necessario e inevitabile per consentire il funzionamento del sistema, o, riprendendo la metafora citata all’inizio di questo intervento, la sua “respirazione”. 397 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore MARIA TERESA CARINCI Clausole generali e frammentazione dei contratti collettivi Ho ascoltato con grande interesse le relazioni molto approfondite ed interessanti di Stefano Bellomo, Gianni Loy e Piera Campanella. Per parte mia vorrei ritornare con qualche interrogativo — più che con qualche risposta — sul nodo teorico fondamentale che tutti e tre i relatori hanno affrontato: la distinzione fra clausola generale e norma generale. Mi sembra che sulla questione le posizioni dei relatori si siano divaricate: da una parte Stefano Bellomo e Gianni Loy propendono per una accezione ampia ed allargata dei due concetti, che sostanzialmente finisce per sovrapporli; dall’altra invece Piera Campanella con grande nettezza accoglie la lettura mengoniana secondo la quale, al contrario, i due concetti sono chiaramente distinti. Com’è a tutti noto, infatti, secondo la ricostruzione di Luigi Mengoni (1986), solo le clausole generali sono norme incomplete, che rinviano a parametri sociali esterni al sistema giuridico per il completamento del loro precetto; al contrario le norme generali, pur se riferite ad una classe di casi, contemplano per intero il precetto che l’interprete deve dunque ricostruire nell’ambito dell’ordinamento. A me pare che la scelta dei relatori per l’una o l’altra impostazione non sia per nulla neutra. E non lo è a mio parere soprattutto nella lettura di Stefano Bellomo. Anticipo subito che concordo con la tesi di Luigi Mengoni. In particolare mi sembra che la lettura mengoniana aiuti a chiarire due concetti importanti per il diritto del lavoro e sui quali ho avuto modo di soffermarmi nei miei studi in tema di licenziamento: il concetto di giustificato motivo oggettivo di tipo economico, da una parte, ed i concetti di giusta causa e giustificato motivo soggettivo, dall’altra. 398 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore Come ho cercato di illustrare altrove, a mio parere in entrambi i casi non vengono in rilievo clausole generali, ma norme generali, cioè concetti i cui elementi sono tutti interni al sistema giuridico. Le nozioni di giustificato motivo oggettivo, di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo danno infatti positivo rilievo all’interesse del datore di lavoro a disporre di una organizzazione in vista dello svolgimento di una attività. In breve danno rilievo all’interesse tipico del contratto di lavoro e dell’atto di licenziamento e dunque alla loro causa (Carinci M.T., 2012). Più in particolare il giustificato motivo oggettivo di tipo economico — declinando in modo più specifico l’interesse a disporre di una organizzazione — dà rilievo all’interesse a modificare o estinguere una organizzazione esistente (Carinci M.T., 2005). Esso infatti evidenzia come a seguito di una riorganizzazione — e dunque nel nuovo assetto organizzativo disposto dal datore di lavoro nell’esercizio della propria libertà d’impresa (art. 41 Cost.) o di altra libertà costituzionalmente riconosciuta (artt. 18,19, 39, 49 Cost.) — venga meno l’interesse datoriale alla prestazione di quello specifico lavoratore. In questo contesto il cd. “obbligo di repechage” non solo non configura propriamente un obbligo, ma soprattutto non è elemento esterno, ma interno al concetto di giustificato motivo oggettivo. Il cd. “obbligo di repechage” impone infatti di riguardare da una particolare prospettiva il collegamento fra nuova organizzazione predisposta dal datore e mansioni del lavoratore (il cd. nesso causale negativo) e così saggiare ancora una volta il venir meno della causa del contratto di lavoro subordinato: se le mansioni del lavoratore non sono utilizzabili in nessuna delle articolazioni della nuova organizzazione produttiva predisposta dal datore di lavoro va evidentemente escluso in radice il persistere dell’interesse datoriale a ricevere la prestazione di quel lavoratore. Così ragionando dunque il giustificato motivo oggettivo economico di licenziamento — comprensivo di tutte le sue componenti: riorganizzazione effettiva, nesso causale, cd. obbligo di repechage — richiama un concetto tutto interno all’ordinamento giuridico. Se così è esso configura una norma generale e non una clausola generale. Dunque un concetto che non necessità di essere completato per il tramite di parametri extragiuridici. Ugualmente bisogna ragionare, a mio parere, con riferimento ai concetti di giusta causa e giustificato motivo soggettivo di 399 Copia riservata ai soci AIDLASS© Giuffrè Editore licenziamento (Carinci M.T., 2012). Anch’essi danno positivo rilievo alla causa del contratto di lavoro e dell’atto di licenziamento e cioè all’interesse a disporre di una organizzazione, qui declinato nel più specifico interesse ad assicurare la funzionalità della organizzazione esistente. Anche in questo caso dunque gli elementi cui l’interprete deve fare riferimento sono tutti interni all’ordinamento giuridico. Si tratta in particolare del concetto di inadempimento delineato in generale dal Codice civile (art. 1218 c.c.) ed al contenuto dei singoli obblighi che gravano sul lavoratore, individuati da specifiche norme (per es. obbligo di diligenza art. 2104 c.c.; obbligo di fedeltà art. 2015 c.c. ecc.). Questa è la mia opinione. Diversa invece è la posizione espressa da alcuni dei Relatori, in particolare di Stefano Bellomo che al contrario allarga la portata delle clausole generali — così da ricondurvi anche la giusta causa, il giustificato motivo soggettivo ed oggettivo, — vincolando però al contempo l’interprete al rispetto del contratto collettivo inteso come parametro sociale di riferimento per colmare le lacune ed indeterminatezze della norma giuridica. Quale è il senso di questa proposta? Il contratto collettivo può oggi, nella situazione in cui ci troviamo, costituire effettivamente parametro sociale generalmente condiviso cui attingere per colmare le lacune della norma giuridica? Può dunque permettere ancora oggi di utilizzare al meglio le clausole generali come “polmoni del sistema giuridico” e dunque come strumenti volti a permettere all’ordinamento di progredire? Come altri ha già osservato prima di me il contratto collettivo è oggi indebolito dagli effetti della globalizzazione che determina una concorrenza al ribasso fra ordinamenti e nell’ambito del medesimo ordinamento e sfiancato dalla crisi economica che lo costringe a soluzioni differenziate e frammentarie nel tentativo di tamponare l’emorragia occupazionale. Il sistema contrattual-collettivo si sfrangia dunque in una miriade di contratti, a vari livelli. In questo panorama diventa difficile pensare ad un contratto collettivo che possa costituire parametro generale affidabile per l’interprete e prima di tutt