Le grandi sfide dell`Universo - Osservatorio Astronomico di Brera

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Le grandi sfide dell’Universo
Tommaso Maccacaro
Per millenni abbiamo studiato il cielo, anticamera dell’Universo,
utilizzando unicamente la debole luce che proviene dagli astri. Quella
minuscola parte dello spettro elettromagnetico che noi astronomi
chiamiamo “il visibile” e a cui la nostra atmosfera è trasparente e l’occhio
umano sensibile. Per millenni, osservando e studiando il cielo a occhio
nudo, i nostri avi vedevano il Sole, la Luna, cinque pianeti, poche
nebulosità, un paio di “stelle nuove”, molte cadenti, e qualche cometa, oltre
a poche migliaia di puntini luminosi. Quanto bastava a scatenare la loro
fantasia. Il cielo stellato, oltre che a permettere di orientarsi nel tempo e
nello spazio è sempre stato fonte di grandi ispirazioni, poetiche, artistiche e
filosofiche.
Poi, quattrocento anni fa, nel 1609, un salto qualitativo: Galileo alza al cielo
il cannocchiale che si è da poco costruito. Quel gesto produrrà una vera
rivoluzione culturale e scientifica. Nell’arco di pochi mesi Galileo osserva
infatti le irregolarità del terminatore (la linea di demarcazione tra luce e
buio) sulla Luna, scopre i quattro maggiori satelliti di Giove e le fasi di
Venere. Quanto basta per scombussolare la concezione dell’Universo
dell’epoca e consacrare a modello fisico il sistema Copernicano che
riproponeva, ma con migliori condizioni al contorno, il sistema eliocentrico,
già avanzato da Aristarco da Samo due secoli prima di Cristo. Cambia il
centro dell’Universo e quindi il ruolo dell’Uomo; l’aristotelica perfezione
celeste diventa un concetto astratto e superato, inizia l’astronomia moderna
basata sulla mediazione strumentale tra noi e il Cosmo, sull’utilizzo di una
nuova strumentazione che, permettendo di amplificare i deboli segnali
provenienti dalle stelle, ci ha consentito di vedere ciò che prima era
invisibile.
Dopo questo primo passo importante ne sono stati fatti altri, ad esempio
sostituendo l’occhio umano con ricettori ben più sensibili e versatili che
permettessero l’archiviazione e la condivisione del dato e, successivamente,
approfittando della conquista dello spazio, impadronendoci rapidamente di
tutto lo spettro elettromagnetico per le osservazioni astronomiche.
Abbiamo oggi telescopi di dieci metri di diametro (quello di Galileo era di
tre centimetri) istallati nei siti più bui e deserti della terra o addirittura in
orbita intorno al nostro pianeta. Abbiamo a disposizione sensori sensibili
alle onde radio, alla radiazione infrarossa, al visibile, ai raggi X e gamma,
per non parlare di attrezzature per la rilevazione di neutrini e dei raggi
cosmici, per dare risposte agli interrogativi più profondi e affascinanti sulla
natura del mondo.
In questi quattrocento anni (soprattutto negli ultimi cento) abbiamo
imparato molto; siamo convinti di aver misurato l’età dell’universo e le
caratteristiche fisiche e chimiche delle stelle e delle galassie che lo
compongono; di saper descrivere in dettaglio i primi istanti dopo il Big
Bang, secondo dopo secondo, minuto dopo minuto, così come i processi che
nel tempo hanno aggregato la materia in stelle, galassie e ammassi di
galassie, e quelli che hanno portato alla formazione di tutti gli elementi
della tavola periodica.
Abbiamo ottenuto immagini dettagliate dei fenomeni più estremi: nascita e
morte delle stelle, collisioni tra galassie, pulsar in rapida rotazione. E ancora
baby galassie in formazione nelle fasi primordiali dell’Universo; nubi di gas
che collassano e formano sistemi planetari; esplosioni catastrofiche
fotografate nel momento in cui avvengono: miliardi di anni fa!
Ciò nonostante sono ancora tanti i misteri dell’Universo. Paradossalmente,
più conosciamo e più ci rendiamo conto di quanto poco sappiamo. Per ogni
domanda a cui diamo risposta, altre ne sorgono spontanee. Come
quattrocento anni fa, siamo incredibilmente ignoranti e – forse – solo un po’
più consapevoli di ciò. Infatti, il nostro modello corrente dell’Universo,
fragile quanto quelli precedenti che ha sostituito, ci dice che dell’Universo
conosciamo si e no il 5% (la materia “normale” o barionica), essendo un
buon 20% costituito da materia “oscura” (che conosciamo solo attraverso i
suoi effetti gravitazionali ma di cui non sappiamo ancora la vera natura),
per non parlare dell’energia “oscura” (oscura vuol dire che non abbiamo la
più pallida idea di cosa sia) che costituisce circa il 75% dell’intero
Universo.
Come il miglior spettacolo di strip-tease, l’astronomia eccita e stimola,
mostrando un poco, lasciando immaginare molto e invogliando a scoprire il
resto.
Cosa vorremmo scoprire nei prossimi anni? Quali sono le grandi sfide che
ci attendono? Sfide strumentali e tecnologiche quanto cognitive e
intellettuali. Me ne vengono in mente tre:
o la comprensione della nostra (apparente) solitudine cosmica;
o la rivelazione delle onde gravitazionali e il loro utilizzo per una nuova
astronomia;
o la comprensione della natura della materia oscura, dell’energia oscura
e più in generale della “geometria” e della storia dell’espansione
dell’Universo, nonché della sua unicità.
Già Fermi si era posto, nel secolo scorso, la domanda: se è così probabile
che esistano altre forme di vita nell’Universo, dove sono tutte quante?
Perché questo grande silenzio? Il problema è che, sull’orologio cosmico,
l’intervallo di tempo che ci ha visto affacciati all’Universo è del tutto
insignificante e infinitesimo. E le distanze e i tempi di attraversamento del
Cosmo sono tali da rendere le esplorazioni lente e i contatti estremamente
improbabili. Siamo impazienti, ma non sappiamo ancora quali siano
veramente le regole del gioco per quanto riguarda, non dico la
comunicazione con altre civiltà, ma anche solamente la comprensione delle
condizioni adatte allo sviluppo della vita e alla sua successiva evoluzione.
Conosciamo ormai diverse centinaia di pianeti extrasolari. Alcuni li
abbiamo addirittura “fotografati”. Ma ancora non sappiamo quanto in essi, e
in altri ancora sconosciuti, sia comune – o raro – lo sviluppo e l’evoluzione
della vita. La posta in gioco è altissima e sempre più missioni spaziali sono
dedicate alla scoperta di altri pianeti (COROT e Kepler sono già operativi,
Gaia è in avanzato stato di costruzione, Plato e Terrestrial Planet Finder
sono progetti attualmente in fase di valutazione, altri sono in studio).
Difficilmente nella prossima decade, forse in questo secolo, quasi
sicuramente entro il millennio, avverrà la scoperta di un’altra forma di vita,
esistente o esistita. È l’evento più dirompente che io possa immaginare.
Già da diversi anni, da terra, esperimenti come l’americano LIGO e
l’europeo VIRGO cercano di rivelare onde gravitazionali. L’ESA e la
NASA hanno allo studio una missione spaziale estremamente ambiziosa e
promettente: disegnare nello spazio un triangolo equilatero di ben 5 milioni
di chilometri di lato ponendo, ai vertici del triangolo, tre rivelatori identici
che controllino la loro posizione relativa bersagliandosi reciprocamente con
un raggio laser. Un’onda gravitazionale che attraversasse il sistema
produrrebbe una minuscola alterazione dello spazio stesso e verrebbe
rivelata come una impercettibile variazione della distanza reciproca dei tre
rivelatori. L’impresa è al limite delle nostre capacità tecnologiche e il costo
è esorbitante. Ma il ritorno scientifico può essere immenso. L’astronomia a
onde gravitazionali ci permetterà di “vedere” i noccioli delle ipernove
quando collassano a formare buchi neri, i sistemi binari di stelle di neutroni
che si schiantano una sull’altra e più in generale le catastrofi cosmiche dove
è in gioco l’accelerazione di enormi quantità di materia, inclusi
possibilmente i primi momenti di formazione dell’Universo stesso. Per non
parlare di quanto verrebbe scoperto di totalmente inaspettato e oggi
imprevedibile, così come è successo ogni volta che si è riusciti ad aprire una
nuova “finestra” sull’Universo.
Il lato “oscuro” dell’universo si fa sempre più imbarazzante. Da
quarant’anni conviviamo con la materia oscura, senza capirne la natura, e
da un decennio dobbiamo anche convivere con una quantità ancora più
ingombrante di energia oscura. Ma esiste veramente questa energia oscura
responsabile dell’apparente accelerazione dell’espansione dell’Universo? O
è piuttosto il risultato di non voler violare il principio cosmologico, proprio
quello che deriva dalla rivoluzione copernicana di quattrocento anni fa?
Una sorta di tabù culturale, ormai.
Il satellite Planck, che ha appena iniziato una nuova e più dettagliata
mappatura della radiazione cosmica di fondo, l’Holy Grail della
cosmologia, produrrà la fotografia più affidabile e più nitida mai avuta di
come si presentava l’Universo neonato, quando non aveva ancora neppure
un decimillesimo della sua età attuale. È in quella fotografia e nei suoi
dettagli più minuti che gli astronomi contano di scoprire il segreto
dell’Universo oscuro, la sua geometria, la sua storia e il suo fato.
Probabilmente in meno di un paio d’anni.
E poi? Poi altre domande, altre sfide, per continuare a spostare i limiti della
conoscenza sempre più in là.
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