3.1.5. Giulietta e Romeo - Biblioteca civica di Rovereto

3.1.5.
GIULIETTA E ROMEO
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Raffaello de Rensis, Conversando con Zandonai - In attesa di “Giulietta e Romeo”, «Il
Messaggero», 31.1.1922 - p. 3 col. 1-2-3
Il maestro Zandonai un po’ sbuffante, un po’ sudante, ma dall’aria abbastanza soddisfatta
se ne discendeva, nel pomeriggio di ieri, per via Nazionale. Io che non sbuffavo, non sudavo,
né avevo l’aria soddisfatta non essendovi alcuna ragione per tutto ciò, me ne salivo per la
stessa via. Era dunque inevitabile che c’incontrassimo, anzi che quasi ci battessimo muso
contro muso. Era anche inevitabile che io gli domandassi:
-Maestro, e Giulietta?
-Giulietta? sta bene in salute, ha mosso or i primi passi e, per quanto mi abbia già fatto
molto sbuffare e sudare, son soddisfatto. Esco in questo momento dal Costanzi, ove s’è
iniziata la lettura in orchestra.
-E l’orchestra incontra le solite difficoltà delle sue pensose e nutrite partiture?
-Affatto! Questa mia ultima partitura è semplice, spontanea, rapida, come semplice,
spontaneo e rapido è l’amore di Giulietta e Romeo. Niente acrobatismi strumentali, come ne
ho fatti per il passato e come ne han fatto e fanno tutti i giovani musicisti italiani timorosi di
apparire ignoranti. La dottrina armonica e strumentale della quale ci siamo impossessati,
siccome era nostro dovere per non diminuire al confronto degli stranieri, ci era necessaria
come il pane, anche a costo di soffocare un po’ della nostra natia ispirazione e di essere
tacciati di esotismo e di servilismo. Ma ora che tutti i ferri del mestiere sono nelle nostre
mani, occorre servirsene per un unico grande scopo, per un unico luminoso miraggio: quello
di ricercare noi stessi, esprimere noi stessi, rievocare la nostra arte gloriosa, esaltare la nostra
musica immortale, cantare con la nostra ugola privilegiata, gridare col nostro cuore pulsante e
generoso.
-Sicché Giulietta canta? Romeo canta?
-Ecco, il carattere della mia opera, s’io non erro, e come il pubblico sentirà e giudicherà, è
predominantemente vocale nel senso che l’eloquio dei personaggi e specie dei due
infelicissimi amanti si sviluppa in un’onda melodica chiarissima e di facile percezione e,
m’auguro, di facile comunicativa. Io non sono stato premuto o afflitto da alcuna
preoccupazione di scienza o di sistemi, mi sono abbandonato totalmente, ciecamente...
-... nelle braccia di Giulietta...
-... no, a me stesso e al mio animo e mi sono immedesimato nella sublime passione dei
giovanetti veronesi sino a gioire, a soffrire... e starei per dire, a morire con essi. Ho cercato di
penetrare la natura del soggetto essenzialmente lirico, ingenuo, puro, che non ammette
complicazioni intellettuali od esibizionismi tecnici, ho creato intorno ai leggendari amanti
un’atmosfera appropriata, assai diversa dall’ambiente e dal colore locale e storico della
Francesca, di cui l’amore sensuale torbido, fatale, contorto m’induceva alla ricerca
psicologica paziente e minuziosa.
In una parola, quel processo interiore di semplificazione a cui tendo, e credo dimostrato
chiaramente nella successione delle mie opere, coincide e meglio si adatta e più saldamente si
afferma nella Giulietta.
-Sicché niente indagini storiche, nessuna riproduzione di ambiente, nessun elemento di
luogo e di tempo?
3.1.5/1
-Precisamente, ed in questo concetto ho tenuto conto di uno schietto consiglio di Gabriele
d’Annunzio a proposito della Francesca: ho pensato e scritto tutto da me, senza ricorrere a
pergamene e ad archivi. L’amore di Giulietta è l’amore di tutti i tempi, è la glorificazione
dell’amore grande, illimitato e ripudia elementi che ne fissino l’epoca e la terra: è l’amore
sublime che può nascere soltanto sul suolo italiano, sotto il nostro sole come i fiori più belli.
In Conchita sì, ho fatto del vero e proprio ambiente, recandomi in Spagna, frequentando
strade, campagne, osterie, fermandomi lunghe ore nei baile (una specie di caffè concerti) e
cogliendo impressioni musicali autentiche e notando canzoni caratteristiche e ritmi speciali;
ma in Giulietta, tranne alcuni episodi indispensabili allo sfondo, ogni nota è sgorgata dal mio
essere. Sono stato preso irresistibilmente da un fervore lirico e sentimentale che investe e
impregna anche i passaggi sinfonici, anche l’intermezzo che descrive la cavalcata febbrile di
Romeo tra pioggie e fulmini.
-E dica maestro, il libretto che è la piaga perenne e sanguinante del moderno teatro di
musica, l’ha favorito pienamente questo suo concetto?
-Sì, posso dirlo con vero compiacimento. Io da moltissimi anni accarezzavo l’idea di una
Giulietta, la quale, sebbene trasportata in musica da innumerevoli autori sino a Gounod, mi
sembrava che reclamasse la sua schietta voce, il suo schietto cuore; ma le difficoltà del
libretto mi fece[ro] rimandare il disegno: finché nel Rossato ho trovato il collaboratore ideale,
il collaboratore non librettista di professione, che sentisse l’atto subietto nella sua nuda
bellezza e che questa rendesse senza perplessità e senza schiavitù di formalismi.
Arturo Rossato è un nome quasi nuovo al gran pubblico, ma egli oltre a contare al suo
attivo alcune applaudite commedie in dialetto veneto, vari volumi di liriche e di prose (il suo
più recente volume di novelle, L’amore che ride, va incontrando fortuna) è anche noto nel
giornalismo milanese come un polemista formidabile. Inoltre ha composto un libretto tratto
dalla Tempesta di Shakespeare per il maestro Lattuada ed ha condotto a termine la riduzione
della Bisbetica domata.
-Anche per Giulietta, come i suoi innumerevoli predecessori, ha ricorso al poeta inglese?
-No, vivaddio, il Rossato, com’era appunto mio desiderio, ha attinto direttamente alle
fresche e abbondanti fonti della novellistica italiana, e precisamente a Luigi da Porto e a
Matteo Bandello, allontanandosi perciò dalla complessa e non sempre felice ricostruzione
dello Shakespeare e avvicinandosi, nei limiti delle necessità sceniche, alla tradizione, che è
tanto gentile e seducente.
-Mi vuol narrare brevemente, maestro, la trama del libretto del Rossato? Ciò dicendo,
essendomi accorto che ormai Zandonai, così parco di parole, mi aveva offerto, contro la sua e
la mia stessa volontà, sufficiente materia per una intervista, lo trassi lievemente in un caffè,
gli porsi elegantemente una sedia e cominciai: siamo a Verona verso il 1300...
-Già, ed anche a Mantova, per poi tornare a Verona.
-Il primo atto è, al solito, un atto di preparazione...
-Già, ma ci conduce anche nel centro della tragedia con una zuffa tra Capuleti e
Montecchi, con uno scontro tra Tebaldo, il cugino di Giulietta, e un giovine mascherato, che
è poi Romeo, e con una romantica scena d’amore sotto gli argentei raggi della luna. I due
leggendari innamorati, l’uno nella strada e l’altra sul balcone, intrecciano il dolce dialogo di
ogni notte...
Il maestro trae di tasca una gualcitissima bozza del libretto e legge:
GIULIETTA - Anima mia, che fate solo in quest’ora?
ROMEO - Quel che vuole amore!
GIULIETTA - Pavento...
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ROMEO - Deh! Bel fioretto. Non datevi pena per la mia vita! I vostri occhi soavi valgono
più di cento spade. E morrei, morrei starne lontano, ch’essi sono il mio dolce sacramento!
Ma il maestro chiude d’un tratto e d’un colpo le stampe, s’alza e dice: Ma dove andiamo a
finire. Ho fretta, ho fame e mia moglie mi attende...
-Giustamente. L’accompagnerò e mi dirà quel che accade dopo il duetto.
-Accade che Romeo dà la scalata al balcone e imprime un ardente bacio sulle labbra di
Giulietta.
-E l’atto non potrebbe chiudersi più lietamente.
-Al secondo atto siamo in un giardino di casa Capuleti. Giulietta con l’amica Isabella
ascolta un cantatore che passa per la via. Poi si fa il gioco bizzarro del Torchio. Entra in
iscena il focoso Tebaldo. Duello con Romeo che trovavasi colà nascosto, ed uccisione di
Tebaldo. Le genti sono in tumulto. Romeo, abbracciata Giulietta, fugge.
Il terzo atto s’apre sopra una vivace e pittoresca scena in Mantova, dove è bandito Romeo.
Un Cantastorie racconta la morte di Madonna Giulietta Capuleto, avvenuta poco prima del
suo maritaggio col Conte di Lodrone. Romeo ascolta, getta un urlo, lo afferra per il petto
singhiozzando, interrogando, lamentando. Indi ingroppa il destriero e sotto una bufera
infernale (l’intermezzo) corre verso Verona. Giunge al chiostro ove giace il corpo di Giulietta
“con le mani in croce sul petto”; tenta invano di forzare la cancellata, finché disperato ingoia
un veleno che porta seco. Giulietta, che aveva presa la bevanda “che assopisce come morta”,
si desta, scorge Romeo che geme e si getta folle e bianca tra le sue braccia. Romeo muore e
Giulietta, reggendo il capo di lui, affranta ma rasserenata, si spegne anch’essa.
Tutto d’un fiato ha parlato Zandonai, conchiudendo con un sospiro: e pare che basti.
-Sì, maestro, ne ho abbastanza, e la lascio libero.
Eravamo già dinanzi al portone dell’albergo e l’ho salutato col rituale romano: in bocca al
lupo!
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Tristano, Le prime indiscrezioni su “Giulietta e Romeo” di Zandonai al Teatro Costanzi - In
una sala del “Costanzi” - Zandonai al piano - «Urla, tempesta!» - Il duetto d’amore - Il
lamento del “Cantatore”, «Il Giornale d’Italia», 1.2.1922 - p. 3, col. 3-4-5 (con un ritratto
fotografico di Zandonai in una cornice ovale)
Sabato, alle ore 17, nella gran sala di prova al pianoforte al Teatro “Costanzi”, il maestro
Zandonai è da oltre un’ora seduto al pianoforte, circondato dagli interpreti ch’egli ha
prescelto per la sua nuova opera Giulietta e Romeo, che Roma dovrà, verso il 10 di febbraio,
tenere a battesimo.
Ormai il “Costanzi” novera nella sua storia pagine che illustrano simili avvenimenti d’arte.
Quante opere dal 1890 – dall’epoca cioè in cui la musica teatrale si ridestò con un palpito di
rinascente vita all’ombra di Verdi, intento nonostante gli ottant’anni a comporre il Falstaff,
l’ultimo sorriso di una verde vecchiezza – quante opere dal 1890 a questa di Zandonai, che
sta sciogliendo i primi vagiti, non si sono avvicendate sotto l’arcoscenico dello Sfrondini?
Cavalleria Rusticana segnò il primo squillo di tromba. E sorse così la cosidetta giovane
scuola: Mascagni, Puccini, Giordano, Franchetti, Leoncavallo, Cilea, Luporini...
E dopo Cavalleria la storia del “Costanzi” nota: Amico Fritz, Tosca, Iris, Le Maschere, La
Fanciulla del West (se di questa non si voglia tener conto della première al “Metropolitan” di
New York), Il Piccolo Marat, per non accennare che alle opere più insigni.
3.1.5/3
Adesso è la volta di Giulietta e Romeo, che giunge dopo quella Francesca da Rimini che
ha posto nella pubblica estimazione Riccardo Zandonai in prima fila.
Nella sala del “Costanzi”, dunque, nessuno tenta parlare. Parla per tutti il pianoforte
attraverso le mani animatrici di Zandonai, parlano all’autore gl’interpreti della sua nuova
opera con gli accenti delle agili voci. Perfino Carlo Clausetti – che per la Casa Ricordi è già
sulla piazza, vigile, autorevole sentinella – si tace, nonostante la sua facondia e il suo spirito
di acuto sottile osservatore e di aspro critico. Egli gode della nuova musica come me. Un
editore trasformato per l’occasione in... statua di carne. Emma Carelli non resiste alla
consegna del silenzio – e la voce del... cantor è sempre la stessa. Ella va su e giù per la sala,
dando qualche consiglio a questo e a quel comprimario.
Zandonai è instancabile. È da due ore che sta al piano e non se ne allontanerà che fra due
ore.
Il 3° atto della Giulietta volge alla fine.
“Romeo”, pardon, il tenore Fleta, in abiti da passeggio, in ispregio dei costumi del ‘300,
ancora in custodia nei ben chiusi bauli, canta: Urla tempesta - sii tu il mio cuor dannato!
Zandonai ha eseguito con le concitate mani, i capelli in disordine, gli occhi accesi, poco
prima del grido di schianto del tenore, la “Cavalcata di Romeo”, un pezzo orchestrale che fa
da intermezzo fra l’un quadro e l’altro onde è diviso l’ultimo atto. È una pagina... Ma non è
possibile riprodurre nessuna impressione. Zandonai non consente indiscrezioni.
Ma Clausetti, che ha meno responsabilità del musicista, ci svela... il mistero della scena
con la quale si conclude la nuova opera.
«Allo schiudersi del velario – è stato detto – dopo l’intermezzo (testé eseguito) siamo nel
piccolo chiostro del convento veronese. Sul fondo, a traverso le arcate, si vede il giardino. Da
un lato, dopo gli archi, si avanza la cappella dei Capuleti, chiusa dal fitto cancello di ferro: è
illuminata da una lampada e, nell’interno, sopra l’arca coperta di veli e di fiori, si intravvede
il corpo disteso di Giulietta, con le mani sul petto. Dorme ella insepolta l’ultima sua notte e
all’alba sarà rinchiusa nell’arca.
«Ma prima dell’alba giunge Romeo. Tenta invano lo sventurato di forzare la cancellata,
invano chiama la triste sposa; disperato del suo destino tracanna il veleno che ha con sé e si
appoggia lì presso in attesa della morte. Giulietta apre in quella gli occhi smarriti dal letargo:
scorge Romeo che geme, apre il cancello e si getta folle e bianca fra le sue braccia, mentre
l’alba già illumina il cielo e fa sentire dall’esterno le sue prime voci. Ma il veleno compie la
sua opera e Romeo cade in preda al delirio. Giulietta, reggendo nel grembo il capo di lui,
invoca Romeo e, affranta ma rassegnata in quella mistica aurora, si spegne sul corpo dello
sposo».
E la musica? Ascolterà e giudicherà il pubblico fra poche sere. Roma non si è mai
ingannata, ed ha una buona preparazione in materia. L’errare humanum est è un aforisma che
non gli appartiene.
Gilda Dalla Rizza, che creerà la parte di “Giulietta”, canta al suo “Romeo”:
Con te, con te, sempre con te passare
pura e soave nell’eternità
e come le campane, alto, gridare
il tuo bel nome per l’immensità
Romeo! Romeo! Romeo!
E, come un’eco, un canto liturgico, voci dal chiostro:
3.1.5/4
Luce di Dio, sorridi ai vivi e ai morti!
E si conforti nostra suora vita...
Un contrasto musicale si disegna netto: le voci degli amanti, la voce del chiostro.
Pausa. Zandonai si tace. Gilda Dalla Rizza interloquisce e svela al Maestro la intima
impressione prodotta dalla commossa voce della sua sensibilità, così come ella è riuscita a far
sua questa nuova anima canora. E il tenore Fleta gesticola, soddisfatto, articolando
monosillabi, a gioia repressa degli squillanti acuti che ha dispensato con munifica signorilità
in tutto il 3° atto.
Zandonai sorride. Par quasi che, ricordando l’estate trascorsa a Sacco, nella ridente Val di
Loppio presso Rovereto, egli rinnovi a sé stesso la gioia quando in una giornata di sole pose
fine alla sua opera.
Questo 3° atto è nato nelle giornate torride dell’agosto. Ed è balzato fuori dalla fantasia
dell’artista in un lampo di genialità. Perché... Ma non è lecito dir nulla sulla musica.
Zandonai è di nuovo dinanzi al piano. E inizia il 1° atto.
Il baritono Maugeri – che il pubblico ha ammirato vigoroso “Gianciotto” nella Francesca
al “Costanzi”, canta... È “Tebaldo”, il Capuleto, una figura cupa.
È stato detto qualcosa su questo 1° atto.
Tebaldo Capuleto entra in scena e si unisce ad un gruppo di dame mascherate, con cui
motteggia, per recarsi alla festa, non senza aver prima ammonito i suoi dell’osteria di far
buona guardia perché ha sospetto che un “falconello” di parte avversa si aggiri con segreto
fine intorno al palazzo.
La brigata dei Montecchi, avvinazzata, esce ora dall’osteria con la donna, intonando una
canzonaccia; alcuni dei Capuleti se ne risentono, li affrontano. La zuffa si appicca fra le due
parti, si dà mano alle spade, già corrono botte, quando un giovane cavaliere mascherato sbuca
dal vicolo del ponte, si getta di sorpresa fra i contendenti, li divide, li rampogna; ma egli si
trova subito di fronte Tebaldo che un Capuleto è corso a chiamare in palazzo. Tebaldo
raccozza la sua gente ed impone allo sconosciuto di levarsi la maschera: questi non si svela
ma tenta di placare l’avversario; gli animi invece si esasperano e, sotto l’incitamento di
Tebaldo, il quale, facile all’ira, sfida il mascherato – che gli resiste calmo ed inerme, solo
invocando la pace – si rimette mano dalle due parti alle spade che più furiosamente
s’incrociano. In quella però ecco accorrere un Capuleto gridando che sta per giungere la
scolta; chi vien preso con l’armi in pugno è bandito: fuggite, fuggite! Le due fazioni si
sbandano confusamente, anche Tebaldo è tratto via. Solo il giovane cavaliere mascherato si
cela dietro le colonne di un portico, mentre la scolta, guidata dal banditore, traversa la piazza
al passo cadenzato del tamburo.
E dopo? Ma non è l’ora di riassumere adesso il libretto.
Zandonai prosegue nella “prova”.
Ed eccoci al duetto d’amore. Si scioglie la melodia in bocca a “Giulietta”:
Parlate piano...
E “Romeo”:
Piano,
che tu sola, tu sola, oda, Giulietta:
La notte è piena e il dì tanto lontano.
3.1.5/5
E “Giulietta”:
Tanto lontano! Ma cinguetterà
la lodoletta,
ma la triste aurora
dalla mie braccia ti ritoglierà,
ed io qui rimarrò, tacita e sola,
e invan ti chiamerà l’anima mia.
E “Romeo”:
Io ti illuminerò come un’aurora,
e perché viva o mora,
con teco lascerò l’anima mia...
Sono ormai trascorse quattro ore di prova. È tempo di dare riposo agli artisti e – perché
no? – all’autore.
Zandonai parla di Shakespeare e s’intrattiene a discorrere con una foga meridionale, egli
ch’è un trentino, della leggenda dei due giovanissimi amanti veronesi. E mostra di conoscere
e di aver meditate tutte le opere di poesia e di musica inspirate alla tragedia shakespeariana.
Nessuno ignora che abbiamo su questo tema circa venti melodrammi e tutti nati nell’800.
Felice Romani scrisse tre libretti su “Giulietta”, uno dei quali musicato da Bellini. Ma non
uno di questi melodrammi resisté alle ingiurie del tempo. Neppure Bellini riuscì a trarsi
dall’oblio che pesò su Giulietta e Romeo.
Forse per questo Zandonai parve invogliarsi con maggior fervore a musicarne le vicende.
È un atto di audacia, senza dubbio, ma ormai pure per la Francesca, divenuta popolare e fra i
più bei melodrammi della nostra epoca, egli ha sfidato il destino e lo ha debellato. Perché egli
non ignorava che dell’episodio dantesco prima di lui s’invaghirono e vi si cimentarono con
vana fatica parecchi operisti.
Tutti i libretti di Giulietta e Romeo, fino al più recente, quello del Gounod, presero le
mosse dalla tragedia di Shakespeare, riducendola, adattandola più o meno alle varie esigenze
della scena lirica; ma il librettista di Zandonai, Arturo Rossato – il noto valente scrittore – ha
preferito attingere direttamente alle fonti novellistiche italiane, prediligendo la novella quasi
ignorata del vicentino Luigi Da Porto – il poeta più ornato di Vicenza cinquecentesca – che fu
il primo cantore della leggenda di Giulietta e Romeo.
Perciò i tre atti del dramma musicato da Zandonai non si avvicinano all’azione scenica di
Shakespeare se non negli episodi divenuti tradizionali, derivati anch’essi dalla novellistica
italiana e senza dei quali il dramma non sarebbe più quello amato e conosciuto dal nostro
popolo.
La nuova opera, dunque, è in tre atti e l’ultimo atto in due quadri. L’azione, che si svolge
nel 1300 a Verona e in uno dei quadri a Mantova, è riassunta da tre personaggi principali:
Giulietta Capuleto, Romeo Montecchio e il cugino di Giulietta, Tebaldo, l’impetuoso giovane
di parte capuleta, quale fu tramandato dalla leggenda. Tra le poche figure secondarie spicca
quella di un “Cantatore” medievale, che appare nel primo quadro del 3° atto a Mantova.
V’è, infatti, nell’opera di Zandonai un lamento del “Cantatore” che musicalmente...
Ieri, intanto, Zandonai ha iniziato le prove in orchestra. La sala al buio era deserta: nessun
indiscreto.
3.1.5/6
Fra cinque o sei giorni cominceranno le prove con gli artisti di canto. E Gilda Dalla Rizza,
il tenore Fleta, il baritono Maugeri, la Ricci, la Donati, la Rettori [sic], la Bortolasi, La
Torelli, il tenore Nardi, il tenore Palai sono in attesa di passare dalla sala di prova al
pianoforte sul palcoscenico.
182
A[driano] Belli, Ad una prova di “Giulietta e Romeo” di Riccardo Zandonai, «Il Corriere
d’Italia», 11.2.1922 - p. 3, col. 1-2-3-4 (con la riproduzione di due bozzetti: quello dell’Atto I
e quello dell’Atto III, scena IIa
Sul palcoscenico del Teatro Costanzi. Un’atmosfera di penombra rotta solo da brevi zone
luminose. Giù dall’orchestra sale un’onda sonora che avvolge e commenta un dialogato
drammaticissimo tra il tenore (Fleta) e il baritono (Maugeri). Mi fermo un istante per
domandare. È il duetto tra “Tebaldo” e il “Mascherato” al primo atto. Affretto il passo, per
quanto lo consentano cumoli di attrezzi, corde, “pezzati”, scene...
Il duetto d’amore
Per la breve scaletta sono in platea. È quasi deserta. Qua e là veggo qualche collega, e poi
Nicola D’Atri, Clausetti, Giacompol, e l’inseparabile amico di Zandonai, Pizzini.
... Un rullo di tamburri. È la scolta che passa. Poco dopo s’inizia il duetto tra Romeo e
Giulietta. Esso si divide in due parti. La seconda si svolge su nell’alto balcone, dopo che la
fanciulla cedendo alle appassionate istanze scioglie e getta all’amato la scala di seta. Le
melodie si svolgono nel pretto stile caratteristico dello Zandonai, qui più libero e chiaro. La
scena d’amore culmina con un lungo bacio dei due innamorati. La chiusa dell’atto è piena di
suggestione con le campane del mattutino. L’alba comincia a colorare il cielo, i due si
sciolgono dal dolce lunghissimo bacio, e Romeo discende e si allontana mentre in lontananza
passa come una folata di vento una canzone:
...e mi voria cambiarme al cor in vento
per vegnir pian pianelo stamatina
la to’ boca a basar!...
I professori d’orchestra applaudono con la caratteristica battuta dell’archetto sui leggii.
Non è il caso di anticipare giudizi e fare previsioni, ma certo questo finale è di una perfetta
teatralità, anche musicale.
È il riposo. Tutti si sparpagliano qua e là. Zandonai, piccolo, irrequieto, dagli occhi
vivacissimi, non si concede però tregua. Domanda se i tali effetti risultano bene; dà
suggerimenti, fa dei segni a delle parti, e non bada a sé stesso che, sudato, potrebbe
infreddarsi. Ma la sua gentile signora è sempre lì pronta a coprirgli le spalle con la pelliccia.
Mi avvicino al Maestro.
-È giunto ora?
-No, ho inteso tutto il duetto.
-Le piace? Risulta bene? crede che incontrerà il favore del pubblico?
-Glie l’auguro di cuore...
-Ho scritto come sempre con grande sincerità. In questa opera più ancora che in Francesca
ho voluto scrivere della musica chiara, molto chiara. Non ho voluto perdermi in ricerche di
colore e di dettagli che allentassero la mia foga. I personaggi cantano sempre. Le parti di
3.1.5/7
Romeo e di Giulietta sono tutte un cantare. E anche nei recitativi ho desiderato seguire la
scuola italiana, riportandomi modernizzandole alle gloriose tradizioni del nostro
melodramma. L’orchestra è semplice e chiara, e non deve mai sopraffare le voci, ma aiutarle
a meglio farsi intendere.
Il libretto
-E del libretto è contento?
-Molto. Il Rossato ha fatto un vero e grande libretto da teatro. Da moltissimo tempo
carezzavo l’idea di musicare questo soggetto, ma volevo qualche cosa di nuovo che si
allontanasse dalla tragedia shakespeariana, e nulla mi accontentava. Arturo Rossato ha
compreso il mio pensiero e, messo da parte Shakespeare, si è rivolto alla novellistica nostra e
specie alla novella cinquecentesca di Luigi Da Porto, che pur non avendo un gran valore
letterario è così poeticamente suggestiva e così ricca di elementi drammatici. Dalle umili
pagine del piccolo racconto del novelliere vicentino, e da quelle più vive e più calde di vita e
di poesia che Matteo Bandello scrisse intorno alla pietosa storia degli infelici amanti
veronesi, il mio librettista ha tratto la trama per l’opera.
-Quanti personaggi?
-Pochissimi: “Giulietta Capuleto” che sarà un soprano: la Dalla Rizza; “Romeo di
Montecchio”, un tenore: il Fleta, e il cugino di Giulietta: Tebaldo, un baritono: il Maugeri.
Due parti secondarie: “Isabella” ancella di Giulietta, e il “Cantastorie” e poi il coro: capuleti,
montecchi, fanti, maschere.
-L’opera è in tre atti.
-Di cui l’ultimo è diviso in due quadri collegati tra loro da un brano sinfonico.
-Un intermezzo?
-Sullo spartito così l’editore ha voluto chiamarlo, e... chiamiamolo pure così; ma esso non
è un brano staccato: esso s’innesta nell’ultima scena che lo precede e non ha carattere
descrittivo. Questo tengo a mettere in chiaro. Niente “cavalcata”, niente “temporale”: la
tempesta è tutta interiore; è la tempesta che s’agita nel cuore di Romeo, mentre disperato
corre verso Verona a rivedere la donna adorata di cui gli è stata annunciata la morte.
Ora poi lo sentirà.
La sveglia delle rondine [sic]
-L’opera le è costata molto lavoro?
-L’ho scritta tutta di getto, preso dalla bellezza del libretto e dall’alta e commovente
poesia. Ebbi il copione a fine giugno 1920 e scrissi subito in pochi giorni il primo atto. Poi
sospesi dovendo dirigere Francesca in molte città, tra le quali Napoli e Palermo. Scrissi il
secondo atto nell’aprile 1921 in venticinque giorni. Poi, come sa, caddi malato e tanto
gravemente che credevo proprio che il sogno vagheggiato da tanto tempo non si potesse
realizzare. Nell’agosto mi recai, ancora sofferente, a Sacco di Rovereto e lassù nel mio
romitaggio, di fronte alle Alpi, strumentai i due atti, quasi con frenesia.
Sull’alba, alle tre e mezzo, una rondine – e non è mancata mai – veniva a poggiarsi su di
uno sporto della mia finestra e mi svegliava col suo cinguettio. Allora mi sollevavo sui
cuscini e cominciavo a scrivere pagine su pagine di partitura senza alcun sentimento. Appena
finita la convalescenza ho scritto e istrumentato il terzo atto.
-La sorte le è stata benigna...
-Voglio bene a quest’opera cresciuta per il mio conforto, tra i dolori del male che mi
affliggeva. E le voglio bene perché mi ha portato fortuna e mi ha ridato completa la salute...
-Come le darà nuova gloria artistica...
3.1.5/8
-Grazie. Creda che nel comporre questa Giulietta ho trovato una grande gioia. Ho trovato
in questo amore così bello e sublime un respiro ampio, una freschezza deliziosa e mi sono
lasciato trasportare...
-Il lavoro è dedicato?...
–A Nicola D’Atri: all’Uomo che quando ero sconosciuto mi ha con grande cuore sorretto e
simpaticamente incoraggiato; ed ha lottato per me e mi ha voluto e mi vuole veramente bene.
Era dunque un doveroso atto di gratitudine e di ammirazione.
L’intermezzo
È finito il riposo e i professori vanno riprendendo i loro posti.
-La saluto. Che vuole, con tutti i contratti di lavoro, e la Federazione, la prova è misurata
col... tassametro. Deve finire alle ore 14.40, non un minuto di più, altrimenti, se passa
quell’istante, guai! Cinque minuti di più di conversazione con lei costerebbero... biglietti da
mille!
-Mi raccomando! – interrompe la signora Carelli, che sopraggiunge preoccupata con
l’orologio alla mano.
Zandonai corre verso l’orchestra. Un colpo secco sul leggio e il disarmonico stridìo degli
istrumenti che s’accordano cessa d’incanto.
-Dalla fine del terzo atto: il n. 26, dice ad alta voce, richiamando il segno della partitura...
Romeo a Mantova, dove era in esilio dopo aver ucciso in un duello Tebaldo, viene a sapere
da un Cantastorie che la sua Giulietta è morta. Sconvolto, fa insellare un cavallo e, urlando e
piangendo, si precipita verso Verona, mentre infuria la tempesta.
È il brano di cui parlava poco prima il maestro. L’orchestra accompagna Romeo che va
nella disperazione, col volto percosso dalle criniere e dal vento e gli occhi ciechi per lo
scroscio e per il pianto. Galoppa per vie e per borghi, per viottole e pei campi, riempiendo
della sua anima e del suo grido la bufera: «Giulietta» urla il suo cuore. «Giulietta» ulula il
vento. «Giulietta! Giulietta!» romba il tuono. «Giulietta mia, morta» gridano disperatamente
il cielo e la terra. E l’orchestra prosegue mentre, da lontano, il coro, con una vera trovata,
grida la disperazione di Romeo «Giulietta mia, morta!». Poi a poco a poco la furia si placa e
il cielo tace.
Lo Zandonai, che è un formidabile concertatore, dirige il grande brano in modo magnifico.
L’epilogo
L’epilogo è breve. Romeo invoca inutilmente la sua diletta che sta immobile con le braccia
in croce, e ignorando che Giulietta ha preso un narcotico e giace in letargo, trae il veleno e lo
beve. Poco dopo Giulietta si desta, scorge il suo amore, apre il cancello della Cappella e si
getta su Romeo. Ma troppo tardi. Il giovane non vuol credere che la donna amata sia viva, e il
delirio lo prende. Giulietta gli dice le più dolci parole, ma egli quasi più le intende. Allora
disperata si trafigge a morte con lo stesso pugnale di Romeo. Due soli nomi risuonano e si
ripetono: «Romeo», «Giulietta», mentre dal vicino Chiostro si alza una preghiera
Per ogni creatura affaticata
per frate vento che spegne le stelle
alba di Dio, luce di Dio... laudata
Sorge il giorno. I due innamorati giacciono ora nel sole: le campane e le voci si spandono
festose e la vita sorride sulla morte; con la sua giovinezza sempre uguale ed eterna...
..................................................................................................
3.1.5/9
La prova con l’orchestra è terminata; ma il lavoro di preparazione non ha tregua.
Dei servi di palcoscenico spingono un pianoforte verso la ribalta e i maestri Ricci e
Santini, veramente infaticabili, son pronti per le prove di scena, a cui, con grande amore e
competenza, si dedica il comm. Cauletti [sic], régisseur magnifico e insuperabile.
E mentre mi allontano, le prove proseguono con grande fervore nella penombra armoniosa
del palcoscenico del Teatro Costanzi, per preparare a Giulietta e Romeo la sua ora di
splendore...
183
F[rancesco] P[aolo] Mulè, Nell’imminenza della “Giulietta e Romeo” di Riccardo Zandonai,
«Il Mondo», 12.2.1922 - p. 3, col. 2-3-4-5-6-7 (con la riproduzione di sette bozzetti di Pietro
Stroppa raffiguranti i quattro quadri scenici e i personaggi di Romeo, Giulietta e Tebaldo)
Di Riccardo Zandonai nulla oggi diremo: il pubblico sa attraverso quale severa
preparazione egli è pervenuto agli ardui cimenti del teatro, dove la Conchita specialmente, e
con la Francesca da Rimini, che è indubbiamente un organismo di suoni di mirabile unità,
egli ha conseguito due significative vittorie conquistando un posto d’onore ma insieme di
responsabilità fra i compositori della così detta giovine scuola italiana. Nessuna reminiscenza
né del Mascagni, né del Puccini: Riccardo Zandonai anela ad essere non altri che se stesso. Se
stesso, ma nella tradizione di casa nostra, e bisogna dargliene lode. Senza essere un ingenuo e
tanto meno un improvvisatore privo d’una coscienza estetica, non si è tormentato né si
tormenta intorno al problema del dramma musicale. Reca nell’anima un suo nativo mondo di
suoni e ne costruisce, spontaneo, drammi musicali che non si dilungano dai suoi modelli
prediletti; modelli, del resto, prediletti anche dal pubblico e che resteranno con immutabile
decoro nella storia del melodramma.
Alla vigilia della nuova battaglia auguriamo a Riccardo Zandonai quella piena vittoria che
è anche nei voti del pubblico, che in lui vede, oggi e per domani, una forza genuina e
promettitrice del nostro brancolante teatro lirico.
Il libretto di Arturo Rossato
Del libretto di Arturo Rossato non faremo un vero e proprio cenno critico. Qualche
impressione soltanto. Un libretto come tanti altri, che oggi del resto vanno per la maggiore,
che offre al musicista “situazioni interessanti” e nel quale si notano qua e là tutt’altro che
trascurabili intenzioni letterarie. L’argomento, in verità, è tale... Non sappiamo, anzi, capire la
ragione per la quale il Rossato sia uscito dal folto della lirica di amore e di dolore che
Guglielmo Shakespeare gettò a piene mani nelle scene più belle e possenti della tragedia
immortale. Attenendosi alle fonti italiane, svestendo cioè la tragedia fino a renderla, pur con
le immagini di cui l’ha infiorata, un nudo fatto di cronaca, ha creduto di rendere un servigio
al musicista? Se ciò il librettista ha pensato, ci dispiace dovere da lui dissentire. Ha costretto
invece il maestro a spiccare il suo volo giù, dal piano, mentre questi poteva immediatamente
essere trasportato sui vertici eccelsi del lirismo e intonarsi – come il Zandonai ha mostrato di
saper fare – a quella, già poeticamente realizzata, atmosfera d’imagini profonde e sovrane.
Ciò non toglie però che Riccardo Zandonai, il quale è anche un appassionato... alpinista, non
abbia potuto compiere per conto suo la salita dell’erta faticosa collocando il dramma dei due
sventurati giovani all’altezza dove lo aveva lanciato per l’eternità l’ala formidabile di
Guglielmo Shakespeare e dove è necessario rivederlo perché ci si renda riconoscibile. Il
3.1.5/10
melodramma, il dramma musicale, tutto sommato, è, per la natura stessa della musica,
successione di stati d’animo travagliosamente lirici.
Diremo ancora che i personaggi principali – Romeo, Giulietta, Tebaldo – son troppo
generici, non recano cioè i segni della loro specifica umanità – ciò che rende più ardua la
fatica del maestro – e che Tebaldo, del quale forse il Rossato volle rendere il carattere, è – tra
i Capuleti e i Montecchi – una figura psicologicamente arbitraria, un cugino da... bassifondi
sociali addirittura. Arturo Rossato può confortarsi pensando che i tanti libretti tratti dalla
tragedia shakespeariana non sono affatto migliori del suo, e in ciò potrebbe magari avere
ragione; a noi premeva dire che, anche dopo questo amorevole tentativo, un libretto d’opera
sulla Giulietta e Romeo è ancora da farsi. A meno – e lo auguriamo di cuore – che la musica
di Riccardo Zandonai non sia tale da farne passare la voglia a poeti e a musicisti.
[segue una minuziosa analisi del libretto, atto per atto]
184
[senza titolo], «Il Giornale d’Italia», 14.2.1922 - p. 3, col. 1-2-3-4-5
(il giornale riproduce su 5 colonne le due pagine dello spartito di Giulietta e Romeo
corrispondenti al “Lamento del Cantatore”)
[...]
Domani sera, dunque, al Costanzi avrà luogo la prima rappresentazione della nuova attesa
opera di Riccardo Zandonai, Giulietta e Romeo.
Giulietta e Romeo avrà a interpreti principali, sotto la direzione dell’illustre autore, Gilda
Dalla Rizza, il tenore Fleta, il baritono Maugeri. Le altre parti sono affidate alla Ricci, alla
Donati, alla Bertolasi, alla Rettori [sic], al Nardi, al Pellegrino, al Fiore e al Palai.
Ma prima che l’opera discopra i ... veli, il Giornale d’Italia è lieto di offrire ai suoi lettori
una primizia.
**
Il “lamento del Cantatore” è una limpida gemma del nuovo spartito di Riccardo Zandonai.
Per cortesia dei commendatori Clausetti e Valcarenghi, gerenti della Casa editrice Ricordi,
noi possiamo riprodurlo in questa pagina e offrirlo come una primizia di Giulietta e Romeo ai
nostri lettori, tra cui gli appassionati di musica e gli ammiratori di Zandonai sono una folla.
Essi ci saranno grati di poter pregustare al pianoforte un brano dell’opera. E il brano, uno fra i
tanti dello spartito, darà loro un’idea delle semplici e commosse melodie che il casto amore di
Giulietta ha inspirate al potente e geniale musicista che seppe esprimere la torbida passione
della Francesca d’annunziana.
Nel libretto – in cui il poeta Arturo Rossato ha, si può dirlo, felicemente inquadrata la
leggenda dei due giovanissimi amanti veronesi – il “Cantatore” appare, in principio del terzo
atto, durante una sagra festosa in Mantova, dove si trova Romeo Montecchio, bandito per
aver ucciso in duello Tebaldo il Capuleto. Secondo l’uso del tempo, i cantatori erranti
recavano di luogo in luogo le notizie che raccoglievano lungo la strada. E in quel giorno di
sagra a Mantova, un cantatore, incitato a cantare, dice, sotto forma di strofa intonata sul liuto,
l’ultima novella da lui appresa sulla strada di Verona, ma prima avverte che la novella è triste
e il suo canto sembrerà quasi “un lontano pianto”.
Così Romeo, che è confuso tra la folla in piazza, apprende inaspettatamente che Giulietta è
morta.
Riportiamo qui la strofa del “Cantatore” che è in versi veneti:
3.1.5/11
Done, piansì, ché Amor pianse in segreto.
Quela ch’era cantà da ogni canzone
e de Verona era il più bel fioreto,
questa matina i l’à trovada in leto,
con le do mane in crose sora el pèto,
vestia de bianco come le Madone.
Oi me! Piansì! Piansì, putele e done,
che xe morta Giulieta Capuleto...
185
“Giulietta e Romeo” di Zandonai al Costanzi, «Il Tempo», 14.2.1922 - p. 3, col. 5-6
Questa sera, dunque, va in iscena al Costanzi la nuova opera di Riccardo Zandonai
Giulietta e Romeo su libretto di Arturo Rossato.
L’attesa del mondo musicale – non italiano soltanto – è grande, febbrile.
Al Costanzi si susseguono alacremente le prove di questo lavoro che, per la sua
complessità scenica e musicale, richiede cure minuziosissime.
Con Giulietta e Romeo Riccardo Zandonai, pur proseguendo la linea ideale di Francesca
da Rimini, è voluto tornare, con bella audacia e con intendimenti moderni, alla forma del
nostro melodramma tradizionale di carattere prettamente romantico. Auguriamo che a questo
tentativo senza dubbio interessante possa arridere il più schietto successo.
L’autore del libretto è Arturo Rossato, il giovane scrittore che nello studio e nel silenzio
procede diritto verso la sua fortuna. Dalle vivaci colonne del Popolo d’Italia che lo fecero
noto sotto il nome di Arros, il giovane vicentino è passato all’operoso silenzio dell’arte per
incontrare altre battaglie e per tentare altre vie faticose con la stessa fede e con lo stesso
entusiasmo che lo avevano portato al giornalismo e alla guerra. Il suo primo libro fu
precisamente un libro di guerra che ribocca di poesia pur essendo “atroce e forte” secondo la
definizione di Ettore Ianni.
Seguirono dopo un anno il Cuore della strada e L’amore che ride, un volume di novelle
fresche e liete che segnano un più vasto respiro e suscitarono il consenso e l’elogio del
pubblico e della critica. E tutto ciò mentre la compagnia di Dario Niccodemi ha in prova
Pinocchio innamorato, favola grottesca in tre atti scritta in collaborazione con Cavacchioli.
Giulietta e Romeo è il primo libretto di Arturo Rossato.
Riproduciamo qui di seguito, per comodità del lettori, un largo sunto del libretto di
Giulietta e Romeo, che già pubblicammo alcune settimane orsono.
[...]
186
“Giulietta e Romeo” di Riccardo Zandonai - Un grande avvenimento al “Costanzi”,
«Musica» XVI/3, 15.2.1922 - p. 1, col. 1-2-3-4 (con foto di Zandonai, Dalla Rizza, Fleta,
Maugeri)
La sera del 14 febbraio è andata in scena al “Costanzi” l’attesissima nuova opera che
Riccardo Zandonai è venuto costruendo negli ultimi due anni con indefesso appassionato
3.1.5/12
lavoro. L’avvenimento così importante da aver richiamato a Roma i critici più in vista d’Italia
e dell’Estero, deve essere messo in giusta luce dal nostro giornale.
Il libretto della nuova opera è stato scritto da Arturo Rossato che ha superato abilmente e
felicemente la grande difficoltà della riduzione della tragedia Shakespeariana a trama per la
musica. Egli è riuscito a sgombrare l’azione di molti personaggi secondari che, mantenuti,
avrebbero resa prolissa e troppo diffusa l’azione. Lo sfondo d’ambiente lo ha ottenuto coi
numerosi cori. Vediamo come si svolge il lavoro.
[segue il racconto dettagliato del libretto]
Tale la trama che il M.o Zandonai ha rivestito della sua bella musica: musica
straordinariamente drammatica ed espressiva: della quale ci riserbiamo di trattare più a lungo
prossimamente. Per ora basti dire per cronaca che il successo è stato grandioso; il Maestro è
stato evocato alla ribalta in complesso una ventina di volte oltre le altre con gl’interpreti
principali: Gilda Dalla Rizza (Giulietta), Michele Fleta (Romeo), il baritono Maugeri
(Tebaldo) e il Nardi (il Cantatore), pei quali ogni aggettivo è superfluo. L’orchestra diretta
dallo stesso Autore. Le scene dello Stroppa ci parvero non bene intonate.
187
Alberto Gasco, Giulietta e Romeo del m. Zandonai - La prima rappresentazione al
“Costanzi”, «La Tribuna», 16.2.1922 - p. 3, col. 1-2-3
Ancora oggidì, in una chiesa di Verona, si mostra ai pellegrini d’arte e d’amore la tomba di
Giulietta Capuleto. È un rozzo sarcofago di marmo rosso, privo di ceneri ma pieno di fiori
secchi e di biglietti ornati di frasi assai sentimentali. Il Padovan, anni or sono, ne lesse alcuni:
«Come te mia Giulietta, infelicissima anch’io» - «Hai avuto dei fiori sulla tua tomba: eccoti i
miei» - «Come te bionda, come te disperata...». Ora, dopo che Arturo Rossato e Riccardo
Zandonai hanno riacceso la simpatia della folla intorno all’eroina di una leggendaria
passione, nuove coorti di amanti dogliosi correranno ad infiorare la tomba della veronese. C’è
poi da scommettere che qualche collega italiano, mescolandosi alle vittime di Cupido, andrà
furtivamente a mettere nell’arca funebre la scritta: «A Giulietta, ispiratrice di operisti,
tormentatrice di critici musicali...»
Eccoci intanto alla fatica giornalistica che, in questo caso, assume press’a poco la dignità
di missione estetica. Stimiamo opportuno dare preliminarmente la cronaca della serata e al
tempo stesso qualche ragguaglio sui brani salienti dell’opera.
Folla enorme, splendore di eleganze, attesa vigile. All’apparire del maestro Zandonai sul
podio, un applauso clamoroso, che attesta della fiducia del pubblico. Le prime scene
interessano giustamente. Si nota la franchezza di mano del maestro nel tradurre in orchestra
ogni dettaglio dell’azione teatrale, si nota la coloritura appropriata. La canzone Diavolo che
ho d’intorno... apparisce, nella sua rudezza popolaresca, genialmente caratteristica.
L’episodio della zuffa tra i Capuleti e i Montecchi, resa con vigore genuino e quello del
passaggio della scolta – su di un motivo di marcia funebre – piacciono chiaramente. Segue il
magno duetto amoroso, il “duetto del verone”, quello che per le anime semplici costituisce
l’unica ragion d’essere della nuova Giulietta e Romeo. La fantasia del musicista, eccitata
beneficamente, dà vita a cantabili di fluidità piacevolissima. La melodia Ah, siete bello e mio!
è tra le più felici di tutta la produzione dello Zandonai: il motivo che si determina alle parole
L’alba che infiora di sue rose il dì... ha anch’esso una linea incisiva e ribocca di aristocratica
3.1.5/13
affettuosità. Purtroppo, col procedere del colloquio, il tono lirico non s’eleva ma si sgonfia e
diventa enfatico. Gli innamorati dimenticano di trovarsi in un luogo esposto a ogni agguato e,
lungi dal bisbigliare – come fanno Pelléas e Mélisande in una situazione presso che identica –
alzano la voce spensieratamente, giungendo a culmini spasmodici nell’“acme” Del nostro
amor bearei...[?] È un miracolo che la città non si desti a tanto vociare e che la scolta non
intervenga, dichiarando Romeo e Giulietta colpevoli di schiamazzi notturni e passibili di
contravvenzione pecuniaria...
Comunque, a parte codesto difetto – non lieve –, la scena d’amore risulta attraente sia dal
lato artistico che da quello teatrale. C’è dell’ispirazione vivida e dell’emozione. La chiusa
dell’atto, con un effetto blando di campane e di canti interni, è quanto di meglio si possa
desiderare. L’orchestra sente i brividi dell’alba e freme delicatamente. Bella visione di quiete
mattutina dopo una notte di risse e di delirii sentimentali. Questo primo atto, che iersera si è
chiuso con otto gioconde chiamate, supera nettamente gli altri: in esso Riccardo Zandonai ha
dimostrato non solo bravura grande di drammaturgo ma cuore fervido di melodista.
Ben diverso deve essere il giudizio sul secondo atto dell’opera. La primavera dà fiori ai
mandorli ma non motivi peregrini all’orchestra. Si procede con sufficiente nobiltà e non
mancano, qua e là, le affermazioni di un maschio talento d’operista: però si attende invano
quella parola che meriti di essere ricordata. L’esordio, con l’invocazione alla “felice
stagione” e il duettino tra Giulietta e Romeo sono tuttavia da apprezzarsi. L’uditorio, pur
senza dichiararsi entusiasta, applaude replicatamente gli interpreti e il maestro al calar della
tela. Si contano sei chiamate. Il successo è confortante.
L’estro del compositore si riaccende alle scene iniziali dell’atto terzo. L’episodio del
cantastorie ha un rilievo singolare. Specialmente la ripresa della tenerissima canzone: Done,
piansì, che Amor pianse in segreto... mentre Romeo, appresa la novella della morte di
Giulietta, singhiozza disperato e il cielo livido nel lontano orizzonte è squarciato da folgori,
risulta suggestiva a tutta oltranza. Per contro, l’intermezzo sinfonico – la così detta “cavalcata
di Romeo” – basato su di un motivo plastico, ritmato robustamente, affatica l’ascoltatore per
l’insistenza diabolica del fortissimo: converrà che Riccardo Zandonai modifichi
sostanzialmente la strumentazione di questo pezzo. Sembra che il compositore abbia voluto
descrivere non la cavalcata di una sola persona ma la galoppata strepitosa di tremila ulani!
La scena finale del dramma ci riporta in un’atmosfera di pace triste e solenne. La melodia
vocale riprende i suoi diritti. Prima di morire, Giulietta e Romeo ci dicono cose amabili: però
la loro verbosità supera ogni limite ragionevole. L’agonia di Romeo si protrae dolorosamente,
a causa della pessima qualità del veleno ch’egli ha bevuto. Il coro claustrale: Alba di Dio,
luce di Dio, di per sé interessante, compie l’ingrato ufficio di ritardare ancora il compimento
della tragedia. Un buon taglio metterà a posto ogni cosa.
Sebbene alquanto stanco, il pubblico iersera non ha lesinato i battimani all’illustre e
simpatico Zandonai, finita l’opera. Abbiamo visto comparire alla ribalta il maestro sette o
otto volte. I suoi nemici sono stati ridotti al silenzio dai molti, moltissimi che andavano a gara
nel complimentarlo.
***
Nei corridoi, durante gli intervalli dello spettacolo, gli uomini in frak sputavano sentenze,
rammaricandosi di non avere la coda di Minosse per potersela ravvolgere intorno al corpo e
render la sentenza definitiva.
-È un’altra Francesca da Rimini. Un eadem in idem inutile.
-Finché non avremo dodici Francesche non saremo contenti...
-C’è della stoffa che il tempo non consumerà. Broccato erto un dito...
-Un po’ pesante, non vi pare?
3.1.5/14
-Macché! Quanto basta appena per ripararsi dal freddo che ci viene d’oltralpe...
-Si ritorna al melodramma!
-Meglio un melodramma generoso che cento drammi musicali aridi come la sabbia del
Sahara!
-Però...
-Vada là. È musica italiana, scritta da un maestro che conosce il proprio mestiere
stupendamente. Discutiamola, ma rispettiamola!
***
Parole saggie, queste ultime. Ci proponiamo ora appunto di discutere Giulietta e Romeo,
con tutta la deferenza che si deve a Riccardo Zandonai che in un breve giro d’anni ci ha dato
sei opere, quale più quale meno riuscita, ma sempre composte secondo intendimenti d’arte
buona e tutte ricche di eleganze armoniche e orchestrali. Giulietta – non lo si può nascondere
– corteggia il melodramma assai più spesso che Conchita e Francesca. Probabilmente
l’ombra del glorioso uomo di Busseto si aggirava nei pressi della casa dello Zandonai mentre
egli andava febbrilmente improvvisando la musica della nuova opera. Accenti verdiani – alla
maniera specialmente dell’Otello – echeggiano qua e là, tra l’una e l’altra zuffa dei Capuleti e
dei Montecchi. La cosa non ci dispiace affatto. Riprendere la tradizione romantica per poi
andare innanzi a modo proprio, giungendo per gradi sino all’originalità perfetta, può essere
un saggio divisamento. L’epigonismo è odioso; ma chi, dopo aver ascoltato Giulietta e
Romeo, volesse classificare lo Zandonai come un musicista prono dinanzi all’ [ ] dell’opera
italiana, dimostrerebbe leggerezza ed anche stoltezza. E ricordiamo l’ammonimento di
Nietsche [sic]: talvolta un artista fa un passo indietro per prepararsi a spiccare un gran salto in
avanti. Del resto, i ritorni sono fatali nell’arte, su per giù come nella economia e nella
politica. Anche il Piccolo Marat di Mascagni mostra un ripullulare di formule
melodrammatiche perente. La pagina più alata dell’ultima produzione mascagnana è
precisamente redatta con i criteri operistici d’un periodo che taluno credeva concluso e
tramontato per sempre.
Dopo il Piccolo Marat, l’avvento di Giulietta e Romeo ha una significazione anche più
precisa: si determina nell’arte lirica nostra un orientamento imprevisto: per non essere divelti
dal patrio suolo, i compositori teatrali vanno abbrancandosi al tronco valido del melodramma
ottocentesco. Non c’è da far querele né meraviglie. Del resto, se ciò può servire ad arrestare
la progressiva snazionalizzazione della nostra musica, dobbiamo anzi dichiararci soddisfatti.
Restiamo in attesa della prossima messe italica, che ci auguriamo sia tale da far sbiancare
d’invidia i bagarini dei mercati musicali stranieri.
Non vorremmo tuttavia che le nostre parole traessero in inganno il lettore,
rappresentandogli Giulietta e Romeo come una produzione vecchiotta, senza luci di
ardimento. Diciamo subito, per dissipare ogni equivoco, che la nuova partitura di Riccardo
Zandonai ha bellezze formali di modernità incontestabile. Strumentazione elaborata,
armonizzazione saporosa, contrasti vividi, aspri talora. Il maestro signoreggia la compagine
orchestrale e se ne serve a meraviglia. A un suo cenno si fa l’ombra più misteriosa; quando
egli vuole i cento strumenti, trattati con perizia estrema, si fondono in un urlo che scuote sino
all’imo chi ascolta; se poi si tratta di pingere un’alba lo Zandonai dispensa colori argentini
freschissimi e sfumature rosee assolutamente paradisiache. Padronanza piena di tutti i mezzi
tecnici; signorilità somma nell’usarne e, magari, nell’abusarne.
L’abuso si rileva nella sovrabbondanza degli episodi vocali e orchestrali violenti. La
partitura troppo spesso è parossistica. Non solo l’iracondia di Tebaldo ma anche il lirismo
amoroso di Giulietta e di Romeo dà luogo a gridi esorbitanti. Si poteva raggiungere un
risultato drammatico uguale, se non maggiore, con mezzi più semplici: il Boris Godunow
3.1.5/15
insegni. Come Pietro Mascagni in Isabeau e Parisina, lo Zandonai in Giulietta e Romeo canta
l’odio e l’amore con voce intensa, persino stentorea. L’epoca trecentesca, ben lo sappiamo,
non era leggiadra: si badava, allora, più al ferro che ai merletti. Ma una maggiore gentilezza,
diciamo piuttosto discrezione, avrebbe giovato in qualche scena del lavoro. Le anime dei
veronesi ci si appalesano tutte dilaniate da furiosi sentimenti. Il fuoco greco arde,
inconsumabile, i cuori degli eroi di questa tragedia. In qualche momento si avverte un senso
di soffocazione e vien la voglia di strillare: aria! aria! Troppo scarsi sono i silenzi riposanti.
Pure, la virtù delle pause, nella musica drammatica, è grande: assai sovente anzi
indescrivibile!
Noi pensiamo che lo Zandonai possa pur sempre riparare all’accennato inconveniente.
Giulietta merita cure ulteriori. Alleggerita, arieggiata, essa acquisterà un reale potere di
seduzione, sino a trionfare delle riserve di ogni critico. Qualche amputazione avverrà
prontamente. Più difficile sarà poter incidere le vene ai congestionati personaggi dell’opera,
compiendo un generoso salasso. Ma nessuna impresa, da chirurgo o da flebotoino, deve
sembrare repellente ad un padre che voglia assicurare la vitalità alle proprie creature...
***
La consanguineità di Giulietta e di Francesca è chiara. Cresciute in ambienti somiglianti,
capaci di passioni ugualmente forti, nate ambedue per morire nel bacio di un uomo prode e
fedele, la Capuleto e la sua maggiore sorella si esprimono presso a poco all’istesso modo, pur
usando vocaboli in gran parte diversi. Senza dubbio, i rosai dei Malatesta, trapiantati sulle
rive dell’Adige “che macina carne” hanno dato fiori di un colore porporino più cupo: ma il
profumo è sempre quello. Altri penserà a rimproverare lo Zandonai per aver scelto un libretto
che può dirsi un pendant di quello della Francesca: noi non consentiamo nel rimprovero.
L’artista deve essere anzitutto onesto. Orbene lo Zandonai, preso da irruente amore per
Giulietta, avrebbe commesso una colpa grave andando a genuflettersi ai piedi di un’altra
dama. Il pericolo di cadere in ripetizioni non ha spaventato il maestro: la gioia di esser
sincero lo ha reso alacre. In effetto, la sincerità traluce da ogni parte della nuova opera. E se
talora il musicista si abbandona alla voluttà di cantare a perdifiato, ciò deriva precisamente
dal suo proposito di montrer son cœur à nu e di esprimersi senza ritegno, senza ambagi,
seguendo l’impulso del momento. Ove la schiettezza rifulge, il giudice non deve atteggiarsi a
severità inflessibile. Quanto al libretto di Arturo Rossato, d’una italianità cristallina, d’una
grazia verbale insolita, nessuno potrebbe disconoscerne i pregi. Ci sono manchevolezze ed
anche ingenuità: ad esempio, l’atteggiamento dei famigliari dei Capuleti che, dopo
l’uccisione di Tebaldo, guardano il morto senza preoccuparsi di acciuffare l’omicida che sta
lì, a quattro passi di distanza. Tuttavia, nell’insieme, la tragedia, innestata direttamente sulla
novella del Da Porto, svela una dignità propria, notevolissima. E poi l’argomento, per quanto
sfruttato, riesce sempre squisitamente dilettoso.
For never was a story of more woe
than this of Juliet and her Romeo.
«Non ci fu mai una storia di maggior dolore di questa di Giulietta e Romeo». Storia – o
leggenda – che vivrà sinché la poesia non avrà esulato per sempre dal cuore degli uomini.
Abbiamo detto del successo che ha arriso al lavoro, al successo che crediamo destinato a
crescere qualora la partitura venga resa più snella. Ci resta soltanto, ora, da parlare
brevemente dell’esecuzione, che in complesso è stata degna di alto encomio.
Non si sarebbe potuto pretendere di più da Gilda Dalla Rizza, sulla quale gravava il peso di
una parte spossante. Come già nelle vesti di “Francesca”, in quella di “Giulietta” l’artista si è
3.1.5/16
mossa con una distinzione ammirevole insegnando alle sue colleghe in arte il modo di
contemperare la correttezza con la passionalità più profonda. Ella sembrava, iersera, una
principessa bella e trepidante. Nel duetto d’amore del primo atto e nella scena conclusiva
dell’opera, le malie del suo canto hanno conquiso ogni ascoltatore. La vittoria della
infaticabile cantatrice è stata decisiva.
Traendo sussidio dalla sua voce ampia, resistente e a volte estremamente carezzevole, il
tenore Michele Fleta ha saputo essere un “Romeo” degno di tanta “Giulietta”. Il valore
dell’interprete è stato riconosciuto esplicitamente dall’assemblea elettissima nel brano di
dolorosa esaltazione al terzo atto: gli acuti squillanti del Fleta hanno dominato l’urlo della
bufera.
Buon terzo il baritono Maugeri, l’insuperabile “Gianciotto” della recente Francesca da
Rimini. Lo Zandonai professa una illimitata stima per questo cantante, non a torto: si tratta di
un artista intelligente, che sa caratterizzare a dovere una parte un po’ torva e che eccelle là
ove si richiede una rudezza d’accento.
Del tenore Nardi, che già altre volte si era vigorosamente imposto nell’estimazione nostra,
dobbiamo ora dire un gran bene per la sua originale raffigurazione del Cantastorie di questa
Giulietta. Egli ha cantato ed agito da signore del canto e della scena.
Mediocri le parti minori; superba la massa corale. Gli scenari, non troppo opulenti, sono
parsi tuttavia dignitosi. Ricchi invece i costumi. Quelli indossati da Gilda Dalla Rizza hanno
destato l’ammirazione della folla.
L’orchestra è stata precisa e piena di gagliardia. Lo Zandonai l’ha diretta con una
sorprendente fermezza. Nessun generale di esercito si è mostrato mai così sereno come
l’autore di Giulietta e Romeo nell’ingaggiare una delle più grosse battaglie della sua vita
d’artista. Riconosciamo però che i suoi gregari hanno combattuto per lui in guisa da
agevolargli la conquista del serto di vittoria.
188
M[atteo] Incagliati, “Giulietta e Romeo” di Zandonai al primo cimento, «Il Giornale
d’Italia», 16.2.1922 - p. 3 col. 4-5-6
Se sia stato bene inspirato Riccardo Zandonai a scegliere a tema della sua sesta opera
teatrale la dolente tragedia di Giulietta e Romeo, dirà il tempo. E il tempo segnalerà ancora se
il fato sinistro che pesò sulle due creature immortalate da Shakespeare, quando queste
trasmigrarono nel mondo della musica, sia stato abbattuto, debellato dal compositore trentino.
Certo fu supremo orgoglio quello di Zandonai, quando, accingendosi a musicare la Giulietta
e Romeo, egli parve non preoccuparsi di ciò che fu il tentativo di un genio – e il pensiero
corre ai Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini – e di ciò che rappresentò lo sforzo di
energie intellettuali non inferiori quali lo Zingarelli, il Vaccaj, il Marchetti. Ma è destino di
questo giovane musicista provarsi con i giganti – e tant’è, si è provato con Bellini.
Quanti non s’erano misurati prima di lui con un tema qual è quello di Paolo e Francesca –
e le terzine dantesche formavano più di un sacro epitaffio percosso dalla fantasia di un poeta
immortale –; eppure Zandonai tenta e crea l’opera d’arte che di queste sere ha trionfato sulle
scene del Costanzi, quasi buon viatico alla sorella nascente: la Giulietta.
L’opera d’arte
Nessuno ormai ignora che di tutte le Francesche che precedettero quella ideata da
Zandonai non una è rimasta in piedi sulla ribalta. L’ultima in ordine di tempo canta e ripete la
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eterna sua tragedia, rivivendo, sana e rigeneratrice linfa, la musica di un artista che pari
all’ardimento sembra abbia in sé la consapevolezza della propria energia.
In forza della quale e fidando su di essa non v’ha dubbio che Zandonai sia stato preso dalla
vaghezza di musicare Giulietta e Romeo. Anzi, diremo di più: che a dissuaderlo non valsero
talune affinità sceniche, taluni aspetti ambientali, talune caratteristiche di natura psicologica
che ricorrono pure nella tragedia da lui precedente[mente] musicata. La fantasia si leva
talvolta di sopra ad ogni pur legittima considerazione di natura estetica e di incompatibilità
intellettualistica.
Che Giulietta e Romeo contenga in sé gli elementi di vivacità drammatica, rispetto alla
funzione della scena lirica, di compiutezza logica, non pare, se è vero che la tragedia di
Shakespeare ha mostrato di esaurire nella sua forma e nella sua espressione la turbata
ascensione di due anime fanciulle verso la morte, attraverso l’amore. Perché, o noi
c’inganniamo, la scena ultima, quella del sepolcro, per così dire, di Giulietta, la creatura che
risorge alla vita di fronte al suo innamorato in abbandono delle sue facoltà smarrite o
sconvolte, non è altro che una finzione che la musica non pare riesca a tradurre in azione
scenica. Ma l’artista non conosce limiti, quando di questi sappia stimare e il grado e la
latitudine.
E sia. Zandonai ha fornito vita musicale, nonostante tutte le pregiudiziali della critica e
dell’estetica, alla Giulietta. Nata iersera al mondo e all’arte, essa ormai è se non altro un
titolo della probità artistica dell’autore che se ne innamorò e volle che respirasse la musica di
un secolo in cui le più opposte favelle si balbettano per infondere un po’ di spirito e un po’
d’anima ai ben disposti e compiacenti pentagrammi. Ma se oltre la probità egli abbia sentito il
palpito dell’ala del genio, è ciò che, con pacato animo, vedremo in questa rapida rassegna.
***
La Giulietta e Romeo, su libretto di Arturo Rossato, è divisa in quattro quadri.
Quadro 1.: a Verona: l’atto del duetto d’amore.
Un bell’accordo di natura sonora e di spiccata natura plastica cresce, si sviluppa, si snoda,
si risolve. Nell’interno della scena un’orchestrina suona della musica da balletto. Piccoli
episodi orchestrali. Passano delle mascherine, e la musica ha il fruscio della seta. L’atmosfera
si delinea netta con tocchi deliziosi: voci notturne, cantilene, stornelli. I Capuleti e i
Montecchi si azzuffano, e l’orchestra leva su tutte le sue voci non con effetti di vuota sonorità
ma con una musicalità incisiva e caratteristica. Passa la scolta. Prima di lontano i tamburi con
il passo cadenzato, poi la scolta appare in iscena, mentre si spande lento, pauroso il grido del
banditore. La scena s’inargenta di luce. Appare al balcone Giulietta. Romeo la raggiunge
attraverso la scala di seta ch’ella gli discioglie; le due voci palpitano, sorridono, si baciano e
il canto dell’amore si disperde alle prime luci dell’alba.
Quadro 2.: il cortile del palazzo dei Capuleti. Cinguettìo di donzelle. Con un ramo fiorito
di mandorlo appare Giulietta. Si gioca al torchio. Episodietti orchestrali: l’organetto, le
rondini, il tepore della primavera, il cinguettìo di dolci voci. Ma ecco Tebaldo: ha accenti di
tenerezza musicali prima, cupi e terrificanti dopo, per dissuadere Giulietta dall’amore di
Romeo. Ma la scena tragica passa e Giulietta e Romeo, ricongiunti, cantano con una
tenerezza melica in dolce abbandono, un lirismo a linee pure e quasi ingenue, senza alcuna
preziosità strumentale. Ma ecco ancora Tebaldo. S’incrociano le spade di Romeo e Tebaldo.
Questi barcolla e stramazza a terra. La scena si popola. Un grido si leva dall’orchestra e dalla
voce di Romeo: «Addio, Giulietta!»
Quadro 3.: a Mantova. Canto di “sagra”, echi lontani, festosità musicale. Poi un cantastorie
che, in una dolente melopea, racconta la morte di Giulietta. Romeo ascolta. La bufera è
3.1.5/18
nell’anima di lui e solca sinistramente il cielo: l’orchestra urla la tempesta... A cavallo,
Romeo volge verso la sua fanciulla morta. Il velario si chiude.
Un interludio: l’orchestra descrive la corsa a cavallo di Romeo verso Verona, l’ansia
dell’infelice amante, l’angoscia, il terrore, la bufera.
Quadro ultimo: il sepolcro di Giulietta nel chiostro del convento. Romeo è dinanzi alla sua
fanciulla. Canta e rimembra. Poi Giulietta si ridesta e geme a Romeo: «Anima mia», il grido
della ormai spenta passione. Romeo, per aver bevuto il veleno, vaneggia e muore. Voci dal
chiostro, il canto liturgico. Voci dalla strada, l’eco dei bei dì della gaiezza e dell’amore.
L’orchestra raccoglie e spande un’ultima eco dell’ormai morto amore. I due amanti, stretti
per mano, giacciono immobili a terra illuminati dal sole.
Tale, in rapida sintesi, lo sguardo ad un tempo al libretto e alla partitura.
***
Che valore abbia questa musica considerata in sé stessa e rispetto alla produzione delle
altre opere di Riccardo Zandonai, è esame da compiersi con libertà di giudizi, se pure qualche
osservazione possa apparire un po’ aspra. Ma un artista come l’autore di Conchita e di
Francesca non può sottrarsi a quella saggia e onesta critica, se non a danno della sua
personalità che ha ormai assunto forma e tono di individualità tanto spiccata nel mondo della
musica.
Un fatto indiscutibile è questo: che nella Giulietta il musicista ha, rispetto alla precedente
produzione, acquistato un più vivace e libero movimento nell’ideare e costruire la forma
strumentale. Egli non appare più impigliato nelle tristaneggianti movenze wagneriane; ha
posto alquanto da parte quel divisionismo della trama orchestrale e del contenuto ideologico.
Lo strumentale, pure essendo ricco, magniloquente, ornato, prezioso, con tutte le sue varietà e
la sua poliritmia, non è più denso sino a divenire rettorico, enfatico. Alla superanalisi del
contenuto sinfonico è succeduta adesso una più saggia e logica concezione: quella di far
parlare l’orchestra più che strumentalmente vocalmente. Non più rigido in certe determinate
predilezioni ideologiche, egli si abbandona in Giulietta al canto, con una vocalità tutta
italiana, se pur con eccessi di sonorità e con arbitrarie tessiture.
Ma detto ciò non credo che Zandonai, rispetto alla Francesca che è l’espressione più
caratteristica della sua genialità, abbia compiuto un passo innanzi in fatto d’inventiva.
L’artista, sovratutto per l’affinità che il libretto di Giulietta aveva con quello del d’Annunzio,
del quale risente la amplificazione delle imagini e la preziosità della fraseologia, è parso
come imprigionato, quasi stanco di uno sforzo già mirabilmente compiuto, se la inspirazione
non gli fu prodiga di più ampi respiri e di musicalità nuova. Certo, la parte ornamentale
dell’opera come le voci notturne, le cantilene, le stornellate, il canto del banditore, taluni
tocchi strumentali, è quella che più merita di essere pregiata. Anzi, pare che in ciò Riccardo
Zandonai abbia fatto suo l’aforisma di Hanslick secondo il quale la musica non può esprimere
sentimenti se non nella loro forma più indeterminata e più astratta, perché essa è un puro
giuoco di forme sonore; il suo bello è un bello essenzialmente musicale: un arabesco sonoro.
Ma un’opera di teatro non vive unicamente di arabesco sonoro. Occorre che a questo si
accoppi un pathos che giochi sulla gamma delle sensazioni, che riproduca il senso della vita,
che susciti quel tale brivido per cui l’amore e la morte di Giulietta esaltino, turbino,
commuovano, destino cioè tutto un mondo di poesia e diano tocchi e figurazione a tutte le
passioni di cui è capace il cuore, quando palpiti e comunque palpiti...
Considerate Giulietta nel complesso della sua concezione musicale: le caratteristiche
forme poliritmiche, cioè, l’eloquio puro di quelle canore e le originali movenze di quelle
armoniche, i cui vari timbri, attraverso i differenti strumenti, sono sempre genialmente
amalgamati – trovano costantemente la loro scaturigine nel più alto senso estetico. La loro
3.1.5/19
dinamica è infallibilmente improntata alla più austera aristocraticità. Così in Giulietta egli
rispecchia la sua natura di imaginoso inesauribile cesellatore di forme sonore.
Ora, resta a vedere quale grado di espressività lirica e drammatica l’insigne compositore
sia riuscito a raggiungere attraverso questi elementi e conseguentemente che grado di
intensità emotiva essa possa dettare.
***
La espressività di Riccardo Zandonai in Giulietta scaturisce da un pathos, per così dire,
sereno e indeterminato, senza che la forte passione lo prenda o lo turbi, senza quella facoltà,
cioè, che produce la vampata capace di esaltare la fantasia. Il suo è un lirismo sempre terso,
casto, castigato: in una parola, di natura classica, tale cioè che si presta più alla
contemplazione della pura bellezza in sé che alla voluttà dei sensi e all’ebrezza del cuore.
Così in Giulietta il duetto d’amore al primo atto è un succedersi d’imagini, pur con
qualche richiamo alla melodia di Francesca, le quali risplendono di un chiarore che riflette
un turbamento dell’animo ma non lo riscalda. Così il successivo duetto tra Giulietta e Romeo
al secondo atto è tutto intessuto di una melodia quasi ingenua, dilettosa ma non plasticamente
concepita, che sappia insinuarsi in fondo al cuore. Sono voci di bellezza pura, ma lontana dai
colpi della passione umana.
Ma non bisogna dimenticare che a dare carattere al primo quadro del terzo atto vi è una
pagina, quella del “Lamento del Cantatore”, che è un mesto nostalgico canto in cui la fantasia
di Zandonai non è rimasta insensibile a quel melismo per cui rimangono grandi nella storia
del melodramma e Bellini e Donizetti. Forse nuoce alla bellezza della scena la parte musicale
che precede. Comunque, chi di tutta la musica di cui risuona questo nuovo spartito non
riporterà nell’anima commossa il desolato canto del “Cantatore”?
Ma Riccardo Zandonai, da quel forte sinfonista qual egli è, non poteva non innamorarsi di
un pezzo descrittivo – e balzò dalla sua fantasia l’“Interludio”. Ma, pure riconoscendo
l’abilità dello strumentatore, esso non ci pare che esprima, se non nella forma fonica,
l’angoscia di Romeo in corsa verso il sepolcro di Giulietta. Plastico è il tema spiccatamente
vigoroso ed espressivo; ma la prolissità non concorre ad accrescere vigore all’“Interludio”.
Ed eccoci alla scena della tomba di Giulietta. È qui che Riccardo Zandonai ci è parso
vittima di un errore di estetica. Ora è lì appunto che la tragedia esce dalla vita ed entra nel
campo dell’arbitrario, in una di quelle atmosfere dove non si sa se più valga la parola o il
silenzio. La situazione è tale da rendere perplesso pure il genio – e Bellini era un genio. Ora,
che cosa è avvenuto? Dinanzi a Giulietta che sorge dal sepolcro, Romeo canta, canta, canta.
La finzione scenica precipita in una finzione più concreta e più inattesa qual è quella di un
uomo, demente qual è, che non sa a chi parla e dinanzi a cui non v’è che un’impressione da
realizzare, e doveva essere il compianto, la morte nell’anima e nelle cose.
Riassunti così i pregi ed i difetti di quest’opera, noi vorremmo concludere con un voto: che
Riccardo Zandonai si allontani definitivamente da un’epoca a cui il suo spirito e la sua
speculazione intellettuale si sono largamente abbeverate.
La prova di iersera al Costanzi è stata comunque vittoriosa. Ne segnano la misura gli
applausi, le acclamazioni imponenti che hanno salutato Zandonai, [alla] fine di ogni atto, alla
ribalta.
Lo spettacolo - gl’interpreti
Posto alla cronaca. Quante volte fu evocato alla ribalta il Maestro? Sette dopo il primo
atto, cinque dopo il secondo e nove alla fine dell’opera.
Un successo, dunque, nonostante le legittime riserve della critica, pieno caloroso e
incontrastato, cui contribuì la esecuzione che fu di quelle destinate a rimaner memorabili.
3.1.5/20
Gilda Dalla Rizza, la giovane cantatrice che si è ormai provata con così salda preparazione
e con così geniale intuizione a dare i primi tocchi, a delineare gli aspetti, a rendere la
individualità psicologica di tante creature meliche balzate dalla fantasia dei musicisti
contemporanei in questi ultimi anni, conta nella sua sorridente istoria un’altra bella vittoria.
Bella nei suoi atteggiamenti di commossa femminilità, soave nei suoi accenti di accorata
dolente poesia, drammatica nei suoi impeti canori – parve che di Giulietta ella rivivesse e
comunicasse la sottile e pietosa tragedia. Nel duetto d’amore, là sul balcone, la sua voce si
spande con la dolcezza di un’arpa eolia e nel secondo atto il suo canto in quel brano del Sarò
piccoletta assume un tono di così fresca ingenuità e una tenerezza così ingenua da rendere
mirabilmente la poesia nostalgica che la musica esprime. E nei gridi di terrore e di
sbigottimento la voce trova la concitata vibrazione. E in tutte le fasi dell’ardua parte si
insinua quella nota di cui ella conosce il segreto, e che è nota di poesia e d’amore, una nota
indefinibile tanto essa ha forza di suggestione e di fascino. Una nota che ritorna e appare
sempre inattesa tanto è bella e pervasa da una forza interiore, da un’anima sensibile e pronta
alla voce della commozione.
Il tenore Fleta ha, da parte sua, diviso con Gilda Dalla Rizza gli ambiti onori del trionfo.
Ed il suo fu un trionfo autentico, il maggiore e più significativo conseguito dal giovane e già
celebre tenore sulle scene del Costanzi.
Il suo canto assunse ieri sera una personalità così netta che non sarà possibile obliare la
nobile fatica compiuta e realizzata con un saggio intelligente senso di arte. Voce maschia,
timbrata, larga di respiro, bene accentata, piena di animazione. Ad ogni nota egli impresse un
accento, alla figura di Romeo calcò una ben determinata individualità. E si levarono lucidi e
squillanti gli acuti che una commossa sensibilità animava. Interprete e cantante si fusero in
una linea sobria e aristocratica.
Il baritono Maugeri, per quanto avesse a lottare con una tessitura da porre a duro rischio
qualsiasi voce, cantò con foga e con vibrato accento.
La Ricci fu una Isabella piena di espressione melica; la Bertolasi signoreggiò nella scena
del torchio con la sua bella vellutata voce: e cantarono con grazia la Rettore colla sua voce
fresca e intonata, e la Donati con le morbide note da mezzo soprano.
Il tenore Nardi cantò il “lamento” del Cantatore con dolente espressività, e il tenore Palai
non risparmiò la sua sicura e bella voce. Bene nelle rispettive parti il Fiore e il Pellegrino.
Diresse lo spettacolo con animoso slancio l’autore.
Non va dimenticato l’Ansaldo che realizzò la scena della tempesta con un gioco di luci
indovinatissimo e presiedé con il consueto prestigio alla messa in scena.
All’inizio del secondo atto il pubblico, per rendere onore al Principe ereditario e alla
Principessa Mafalda ch’erano nel palchetto di Corte, a proscenio, fu suonata la Marcia Reale
tra un subisso di applausi.
189
Raffaello de Rensis, “Giulietta e Romeo” di Zandonai, «Il Messaggero», 15.2.1922 - p. 3,
col. 1-2-3-4 (con una foto di scena: Atto terzo, scena della morte)
Il Costanzi, ieri sera, ha segnato nei suoi annali non ingloriosi un’altra data importante. La
prima rappresentazione della nuovissima opera di Riccardo Zandonai, dell’autore cioè su cui
si concentrano tutte le speranze del mondo musicale italiano, resterà nella memoria di tutti
coloro che ieri sera gremivano la luminosa e sfolgorante sala del nostro massimo teatro.
3.1.5/21
La nostra epoca musicale non è certamente delle più liete, ma tende a risolversi nella
maniera più giusta, più logica e più auspicata da quanti dell’arte sentono lo stesso culto e lo
stesso amore che per le manifestazioni nobili e pure della propria razza.
Ci troviamo, nella storia del melodramma, in uno svolto decisivo, al quale lucidamente
assistiamo; per superarlo lottiamo fervorosamente, fiduciosi di riaprire al nostro passo la via
maestra del trionfo e della gloria.
Sono ancora baldi e forti due illustri campioni, Mascagni e Puccini, che ci siano conservati
in eterno!, i quali a traverso tentennamenti e dubbi non son riusciti a soffocare il loro istinto
drammatico e hanno conservato, talora anche contro la loro volontà, tutte le peculiarità della
loro arte di razza, ed ecco che già sull’orizzonte, a dispetto delle cassandre di dentro e di
fuori, sale e da vario tempo sale diradando le nubi e ricercando la luce, l’astro di Zandonai.
Nato costui in un periodo in cui la rinascita della musica strumentale – fenomeno
importantissimo e nobilissimo – con tendenze inevitabilmente moderniste doveva fortemente
influire sull’indirizzo dell’opera teatrale, era anche inevitabile nonché utile che egli, giovine
dall’anima aperta ad ogni conquista, risentisse di queste nuove ondate provenienti d’oltr'alpe
e ne approfittasse largamente. Senonché, mentre i suoi colleghi e coetanei, abbacinati
dall’orpello delle musiche esotiche, hanno spento in queste ogni calore spirituale, ogni palpito
di cuore e continuano così a saltellare sopra lo stesso mattone come pupazzi mossi da fili
invisibili e fremono prometei minuscoli attaccati alla rupe del servilismo, Riccardo Zandonai
ritrova ogni giorno se stesso, riallaccia ogni giorno la sua anima all’anima collettiva ed
italiana, ed aspira a comporre l’eterno conflitto tra musica e parola, tra sinfonismo e melodia
con un senso sempre più acuto e sano di equilibrio.
L’opera d’arte
Con la Francesca, come abbiamo già altra volta notato, il maestro trentino s’è accostato
alla folla più che con le altre opere precedenti che costituiscono tante tappe magnifiche e
sicure verso un divenire costante e fortunato; la Francesca delimita il passaggio dalla fase
preparatoria tecnica e dottrinaria d’importazione alla fase estetica, più strettamente personale,
sempre più definitiva. La Francesca, inoltre, per il suo carattere classicheggiante, per le
passioni tortuose, torbide, incestuose, richiedeva un’analisi psicologica che spontaneamente
conduceva ad un’elaborazione sonora minuziosa, paziente, penetrante, indagatrice.
Invece l’amore di Giulietta e Romeo, fulmineo, trascinante, pieno di ingenui abbandoni,
quasi schivo di sensualità, profondamente romantico, altamente lirico, ha chiesto alla musa di
Zandonai ritmi rapidi e vari, lunghe e calde frasi, soavità di poesia, semplicità di mezzi,
freschezza e facilità di movimenti, ecc.: tutto ciò in buona parte ottenuto.
In buona parte e non in gran parte e tanto meno in ogni parte dell’opera, perché la
musicalità del compositore, la sua forma mentale, le sue attitudini artistiche, i suoi mezzi
tecnici non potevano venir aboliti da un presupposto o da un preconcetto.
Giulietta e Romeo cantano più e meglio che Francesca e Paolo, ma il loro canto è pur
sempre quello di Zandonai, che si differenzia profondamente dal canto dei nostri melodisti di
tradizione: un canto involuto di cromatismi sviluppantesi in tonalità varie e contrastanti, più
vicino al nuovo declamato che alla vecchia melodia; un canto che non prescinde dalle risorse
armoniche e strumentali ormai acquisite, che non si lancia mai con quella pienezza di note e
di ritmi saldi e robusti. Ma è pur canto, è pur melodia ed occorre seguirli e comprenderli,
apprenderli e sentirli per riconoscervi la bellezza e ricercarvi l’emozione. Zandonai piega
tutto se stesso per accostarsi all’anima popolare, ma occorre anche che questa, da parte sua, si
avanzi per avvicinarsi all’anima di lui. Egli certamente non riproduce l’eco popolaresca del
3.1.5/22
pathos collettivo; egli è artista distinto ed aristocratico che si rivolge ad un pubblico elevato
nel gusto musicale.
Ma tralasciamo queste considerazioni, che ci porterebbero assai lontani, e volgiamo la
nostra attenzione al libretto di Arturo Rossato.
Il libretto
Qualcuno ha rimproverato già, e qualche altro rimprovererà certamente, al Rossato di non
essersi ispirato alle immortali pagine shakespeariane. Noi invece vogliamo liberamente e
vivamente complimentarci con lui che nella ricostruzione della tragica leggenda abbia
creduto attingere alle dirette fonti italiane. È una sensibilità natìa che va riconosciuta e lodata,
specie se si converte in un atto di audacia. La tragedia di Guglielmo Shakespeare, com’è
risaputo, è disorganica e frammentaria, infarcita di episodi e personaggi superflui, ricca di
bellezze liriche e drammatiche, manco a dirlo, ma infiorata assai spesso di un linguaggio così
banale e di dubbio gusto che, con tutto il rispetto al genio albionico, ripugnano stranamente in
una vicenda di amore così gentile e appassionata. D’altra parte, dei libretti d’opera tratti
direttamente da Shakespeare nessuno è riuscito un capolavoro. Rileggete anche, se ne avete il
coraggio, i più recenti, quelli del Foppa [!] per Bellini e dei signori Carré e Barbier per
Gounod e riceverete un’impressione disastrosa: sembra che gli autori siano rimasti
grottescamente disorientati e sperduti nel laberinto delle miriadi di scene e scenette infilate da
Shakespeare o dai suoi postumi collaboratori.
Noi ci guarderemo dal dir male di Shakespeare; ma nessuno potrà proibirci di ritenere che,
come egli si è ispirato alla novella del Bandello (fatto assodato), così un poeta italiano,
modesto che sia, abbia lo stesso diritto di ispirarsi alla novella del Da Porto, della quale
quella del Bandello è un rifacimento (qualificato da alcuni un vero e proprio plagio).
Leggetela, rileggetela la novella del Da Porto e vedrete quale semplicità di stile, quale
vaghezza di immagini, quali tesori di sentimenti si trovino in essa e ne rendano la lettura
interessante e commovente.
Piuttosto è da domandarsi perché il Rossato non si sia mantenuto, a parte le inderogabili
necessità sceniche, più fedele al racconto italiano. Una volta che egli ha voluto, ed ha fatto
bene, ricondurre l’istoria dei nobili amanti con la loro pietosa morte alla sua scaturigine
prima, bisognava che questa fosse rispettata nel miglior modo possibile. Invece egli, alcune
volte, ha troppo condensato (per es. in Tebaldo son crogiolati tutti i Capuleti e i loro odi:
perciò Tebaldo è venuto fuori un mostro così feroce), alcune altre ha aggiunto personaggi ed
episodi non necessari (per es. il Cantastorie che nel terzo atto apprende a Romeo la triste fine
di Giulietta). Né persuade la figura d’Isabella, che si sostituisce alla nutrice e a frate Lorenzo,
affidando a lei il compito di offrire il narcotico a Giulietta.
Aver soppresso il frate perché, immaginiamo, personaggio troppo melodrammatico è poca
cosa quando si è interpolata una tempesta ed una cavalcata altrettanto melodrammatiche. Ed
altre osservazioni sarebbero da farsi, e ciascun osservatore ne farà per conto suo; però
bisogna subito riconoscere che il taglio del libretto è ben misurato e che il linguaggio usato,
lievemente arcaico, è sempre nobile e appropriato. I due celebri amanti si esprimono sempre
con parole e immagini elette e gentili. Né è poco merito riscontrare in un libretto forbitezza di
lingua, che non è consueta neppure nei nuovi e più accreditati poeti del nostro teatro lirico. Il
Rossato non ha riformata la struttura del canevaccio per musica; ma, indubbiamente
d’accordo col maestro, ha adoperato una forma che sta fra il vecchio e il nuovo stile, che
permette di aiutare e di sfruttare musicalmente le situazioni.
3.1.5/23
Ieri sera, nelle conversazioni del pubblico, non erano risparmiate le solite rampogne al
librettista, a cominciare dalla scelta dell’argomento a finire alla incruenta morte dei
protagonisti. Ma il Rossato, che è alle prime armi in questa materia, saprà rifarsi presto.
La tragedia d’amore
Atto primo
Passiamo intanto, ch’è già tardi, ad un rapidissimo esame della nuova partitura. Le prime
battute dell’orchestra e l’orchestrina in casa Capuleti in festa, per le loro particolarità
armonica e cromatica, ci immergono subito nell’atmosfera musicale propria di Zandonai. Egli
possiede il segreto delle sicure e affascinanti ambientazioni, di cui in questa opera si trovano
saggi ragguardevolissimi.
Il gruppo e il vocio dei Capuleti da un lato, la canzone lubrica dei Montecchi dall’altra, il
viavai delle maschere, l’episodio della putta, gli alterchi, le provocazioni, le risataccie, la
furiosa rissa, l’intervento di Tebaldo e di Romeo, i capi delle due fazioni, compongono un
quadro vigoroso e formano lo sfondo storico della tragedia.
Il lontano rullo dei tamburi e il passo cadenzato della scolta sbanda la folla irrequieta e
ristabilisce il silenzio. Il ritmo grave e lento della scolta, il canto stentoreo e imperioso del
banditore, diffondono nella notte, per la originalità ed espressività dell’invenzione, un senso
di paura e di mistero.
Quando tutto tace, si leva dall’orchestra, come un susurro, un tema, il tema che
accompagnerà sempre la persona di Giulietta nelle vicende della sua passione mortale. Ecco
un quadro soavissimo, armoniosissimo, di autentica marca Zandonai. Giulietta appare sul
balcone (ormai classico) e Romeo s’intravede nel buio della piazzetta. S’intreccia tra i due
innamorati, protetti da un tenue chiarore lunare, un colloquio gentile, fresco, infantile. È il
duetto, il vero e proprio duetto che bizzarre teorie di cervelli algebrici e di animi torpidi
vorrebbero escluso dal dramma musicale. Oh! perché? Quali leggi divine impongono a questa
convenzionalissima tra le convenzionali forme d’arte, qual è il melodramma, l’ostracismo del
duetto? Diamogli pure una forma più aderente ai nostri gusti, che, dicono, si sono evoluti;
spogliamolo della rettorica, che quando la facevano e la fanno i nostri grandi non è un difetto
ma un eccesso di sentimento, gonfio e pletorico; rivestiamolo di armonie squisite, leggiadre,
analizziamolo e commentiamolo con brevi intellettualismi e invenzioni diverse,
sviluppiamolo in onde strettissime e sottilissime di cromatismi (tutto ciò ha fatto Zandonai),
ma conserviamolo in vita, Santi Numi, ché quando è sentito e si fa sentire rimane sempre uno
dei più bei trovati dell’arte musicale.
Questo duetto di Giulietta e Romeo, ravvolto in onda sonora soavissima, è una delle
pagine più commosse sgorgate dal cuore di Zandonai. L’espressione melodica combacia con
quella sentimentale e la segue in ogni più tenue voluta, passando attraverso ritmi coloriti,
pensieri i più contrastanti. Un alito profumato di poesia, poesia un po’ decadente se volete,
investe e persone e cose; non sempre discende nella sala, non sempre penetra l’anima
collettiva, ma l’impressione, anche vaga, che se ne ricava, del lungo colloquio, alla prima
audizione, è di cosa schietta e vissuta.
L’atto si chiude con una nuova pennellata poetica ed ambientale: un coretto di donne, a
flutti, ed un arpeggiato delizioso di celeste.
Atto secondo
Dopo un lungo intervallo, nel quale le discussioni più o meno vivaci, pro e contro, le
sottigliezze critiche degli habitués hanno avuto agio di sfogarsi abbondantemente, il velario si
alza sul giardino e sul cortile dei Capuleti. Un altro quadro suggestivo di ambiente: è la
3.1.5/24
primavera in fiore: di lontano giunge il suono flebile di un organetto; uno sciame di fanciulle
invita Giulietta a scendere giù, la circonda, le danza intorno per toglierla dalla triste
malinconia. Si fa il gioco del Torchio (menzionato anche dal novelliere da Porto), che
consiste nel trasmettersi una fiaccola a passo di danza, per il quale Zandonai ha inventato un
disegno felicissimo che sottolinea e guida le piccole fughe giocose delle fanciulle. È un’altra
gemma della partitura. Al termine del grazioso gioco prorompe nel cortile, preceduto dal suo
tema incisivo e scrosciante come una scudisciata, Tebaldo, il violento cugino di Giulietta. Il
suo parlare aspro ed alto, sempre sostenuto con insistenza esasperante ed efficace dal suo
tema, delineano forte, senza contorsioni, la feroce figura.
La scena tra Giulietta e Tebaldo è drammatica, è una scena importantissima ma non si
ripercuote adeguatamente nell’animo degli spettatori. Più impressionante l’incontro di
Tebaldo e Romeo, il loro diverbio rapido e serrato, l’uccisione di Tebaldo. Il duetto che
precede rallenta un po’ le fila dell’azione, appare troppo lungo, per quanto in alcuni momenti
si levi alla più poetica passionalità.
Questo atto, che ci ha portati nel centro della tragedia, ha incontrato, come il primo, favore
generale.
Atto terzo
Nella vicina Mantova, in un rustico piazzale, si muove una folla di gente. Un nuovo
quadro d’ambiente superfluo ma breve (se si fosse cominciato dalla scena del Cantatore si
sarebbe andati più dritto allo scopo), scena che comincia ad interessare nel momento in cui,
lento e pensoso, sopra un commento orchestrale già noto, e che caratterizza la sua figura
musicale, giunge Romeo. Il lamento del Cantatore che narra e piange la morte pietosa di
Giulietta Capuleto, brano ispiratissimo di immediata percezione, commuove irresistibilmente.
Il grido terribile che scoppia dal cuore di Romeo, i lampi che fendono il cielo, qualche
brontolio di vento che annunzia la tempesta imminente, costituiscono un saggio non soltanto
di magistero tecnico ma di genialità operistica veramente cospicua. Romeo non vuol credere
e vuol risentire il lamento. Ripetizione non necessaria ma psicologicamente spiegabilissima: Dunque è vero? Giulietta è morta? Alla tempesta del suo cuore fa eco la tempesta del cielo,
all’urlo del temporale si unisce l’urlo del suo cuore, che è spasimo, tortura senza nome.
L’imprecazione fatta di note che sono schianti esplode veemente e leva la voce più alta e più
culminante del dramma.
L’impetuoso intermezzo, sopra un ritmo persistente di cavalcata sotto l’infuriare
dell’uragano, esalta, esaspera il dolore dell’amante in clamori inauditi.
Questa cavalcata, questa tempesta insieme, che vengono ad aggiungersi alle altre
innumerevoli che registra e glorifica la letteratura musicale, producono un grande effetto ma
peccano di prolissità e di frastuono eccessivo; il nome di Giulietta che emerge dalla ridda
degli elementi, intenzionalmente bello, non risulta anche per la troppa vicinanza del coro.
Placata l’ira del cielo e sfinite le forse dell’uomo, ecco Romeo dinanzi al sepolcro. Egli
parla a Giulietta le stesse dolci frasi del loro amore divino: la invoca, la vuol richiamare in
vita.
Squarcio commovente ma non tale da conquistare l’anima collettiva. Neppure il ridestarsi
della fanciulla, la tremenda rivelazione del fosco destino, il duetto, chiamiamolo così, della
duplice morte, raggiungono le vie del cuore. Sarà la inverosimiglianza leggendaria del fatto,
la imperfetta situazione scenica, la vecchia trovata del delirio, la mancanza di pathos nelle
melodie; certo è che questo epilogo, che dovrebbe strappare, per virtù poetiche e musicali, le
lagrime dagli occhi lascia quasi indifferente il pubblico. La cornice poetica fatta dal canto
3.1.5/25
sereno e lieto dei frati, che vien troppo da vicino e turba, e dalla canzone del Bocoleto de
rosa, non realizzano il sogno del musicista e del poeta.
L’esecuzione e il successo
In ogni modo, nonostante questa manchevolezza che, colpendo le ultime scene, influisce
non poco, presso la massa s’intende, sul giudizio dell’opera, siamo lieti di registrare nel
complesso un bellissimo e schietto successo che ha degnamente coronato la nobile fatica del
maestro Zandonai. Sempre avanti, sempre diritto, sempre in alto: ecco ciò che sta scritto sulla
bandiera artistica di Riccardo Zandonai, ed ecco ciò che ha voluto dire e significare
l’applauso del foltissimo pubblico del Costanzi.
L’esecuzione dell’opera è risultata eccellente sotto tutti i riguardi. La preparazione
orchestrale – ch’è stata non breve né facile –, quella dei protagonisti, irta di difficoltà di
tessitura, quella corale e scenica, sotto la vigile, amorevole, acutissima cura dell’autore, ha
pienamente corrisposto ed ha condotto innanzi al pubblico uno spettacolo di primissimo
ordine. Tale come si desiderava per un battesimo d’arte della importanza di quello attuale.
I protagonisti, quelli stessi della Francesca e perciò adatti a comprendere e ad assimilare
meglio di altri gli elementi particolari dell’arte di Zandonai, hanno superato, con fervore ed
abbandono, ogni ostacolo. Gilda Dalla Rizza ha dato anima e moto alla fanciulla veronese di
cui, per gentilezza di caso, ella è concittadina.
Nei vari duetti con Romeo ed in quello con Tebaldo ella ha ornata la sua voce di tutte le
dolcezze, di tutte le passioni, di tutti i dolori, suscitando ammirazione e commozioni infinite.
Il tenore Fleta, tempra ardente di interprete, cantante ricco di ogni risorsa, ha realmente
vissuta la triste storia di Romeo. Soavissimo nei duetti con Giulietta, impetuoso
nell’imprecazione alla tempesta, ha vinto, per virtù di commozione, anche la imbarazzante
situazione della... lunga morte. Violento, brutale, il baritono Maugeri, altro valente interprete
a cui arride un grande avvenire, e provvisto di un’ugola resistente come occorre all’aspro
Tebaldo.
I personaggi secondari hanno lodevolmente concorso alla esatta riproduzione della
tragedia. Primo va ricordato il tenore Nardi, che nella parte del Cantatore ha detto il lamento
con espressione commossa e comunicativa: la chiarezza della sua dizione è di quelle che
raramente posseggono i cantanti, anche di cartello. Bene la Porter e le altre donne, amiche di
Giulietta. Disinvolta nella sua scabrosa parte della donna nel primo atto, Lucia Torelli.
Le masse dei Montecchi, Capuleti, maschere, hanno molto conferito allo sfondo storico e
locale con i loro movimenti agili e armoniosi.
Gli scenari e i costumi sono stati giudicati chiassosi e di dubbio gusto.
Riccardo Zandonai, ritto e saldo sulle gambe corte e tozze, ha diretto l’orchestra con quel
vigore e con quell’entusiasmo che ha messo nel creare la sua musica. Alla fine del primo atto
il pubblico imponentissimo gli ha diretta un’acclamazione formidabile; lo ha evocato alla
ribalta con gli artisti e da solo innumerevoli volte. Non abbiamo contato il numero preciso,
ma un numero di volte eccezionale, che segna ed assicura il successo di un’opera. Ma fortuna
e giustizia hanno voluto che anche il secondo atto seguisse le sorti liete del primo e
l’intermezzo, sebbene lungo (per il cambiamento di scene), ha continuato a tener viva
l’attenzione del pubblico, la quale s’è un po’ affievolita durante l’episodio della morte. Si
tratta di praticare qualche taglio e apportare qualche modificazione, dopo di che Giulietta e
Romeo gireranno i teatri del mondo, a maggiore ed imperitura opera [!] del melodramma
italiano.
[...]
3.1.5/26
190
F[rancesco] P[aolo] Mulè, La prima della “Giulietta e Romeo” di Riccardo Zandonai, «Il
Mondo», 16.2.1922 - p. 3, col. 1-2-3-4-5-6-7 (con una grande caricatura di Zandonai, le foto
di G. Dalla Rizza, C. Maugeri e M. Fleta e tre foto di scena)
Le impressioni della serata
La sala
La sala del teatro Costanzi gramita in ogni ordine di posti di tutto il fiore della cittadinanza
romana, la visibile speranza in tutti d’un trionfo completo dell’opera che per la prima volta
affrontava il giudizio del pubblico; i Sovrani rappresentati dai Principi Augusti: prova più
manifesta Riccardo Zandonai non poteva aspettarsi dell’alta estimazione e della simpatia di
cui è circondata la sua nobile figura di musicista.
Al suo apparire in orchestra scoppia e si propaga rapido per la sala un vivo applauso di
saluto e d’augurio e comincia, in un raccoglimento religioso degli spettatori, l’esecuzione
della «Giulietta e Romeo».
Seguiamola, cercando di raccogliere fedelmente le impressioni del pubblico.
Il primo atto
L’opera non ha preludio; comincia bruscamente, con una forte e breve sonorità orchestrale.
È in iscena Tebaldo, insonne accenditor di zuffe fra i Capuleti e i Montecchi. Aspro il suo
fraseggiare, aspra l’orchestra, ora grave ora tetra. Riccardo Zandonai tenta di dare fin dalle
prime battute un carattere di violenza a questa che, come abbiamo accennato dicendo del
libretto, è dal lato psicologico la figura più arbitraria della tragedia.
È festa nella casa dei Capuleti, ma voci ed orchestra in nessun momento s’illuminano d’un
lampo solo di gioia. Armonie e impasti orchestrali sono come in preda a un triste
presentimento. Nell’anima dello scrittore è ognor presente – e sarà così fino all’ultima scena
dell’opera – la catastrofe pietosa. Neanco l’arrivo delle maschere riesce a mettere nel lugubre
che impera una nota di schietta gaiezza. Ma si nota già una grande scorrevolezza nel discorso
drammatico, che fluisce rapido, caldo e qua e là scultoreo: la mano del maestro s’è fatta più
nervosa e più agile. Nella taverna si canta, e tosto appare il coloritore fresco e sapiente della
«Conchita» e della «Francesca da Rimini». In queste pennellate tendenti a ritrarre un
ambiente e a comporre un’atmosfera, Riccardo Zandonai riesce sempre mirabilmente: sono
frasi di schietto sapore popolare, piene di vigore e di carattere. Seguono clamori vocali e
strumentali: una zuffa fra gli uomini delle due parti, che presto però è sedata da Romeo, al
quale l’autore ha dato un’anima musicale riboccante di malinconia e che acquista quasi forza
di carattere allorché non si altera se non per accorarsi maggiormente alle frasi di collera e alle
rampogne dileggiatrici di Tebaldo. Se il libretto fosse stato foggiato in guisa da apprestare
costanti al musicista i segni distintivi, logici, umani, ond’è impresso questo breve dialogo,
Riccardo Zandonai, cui non fanno difetto le virtù necessarie, avrebbe indubbiamente creato
un bel dramma musicale di caratteri.
Invano Romeo, con frasi musicali purissime, invoca ed implora pace; la sua umiltà e la sua
dolcezza – che restan tali nel linguaggio canoro – non riescono a piegare il nemico, che
urlando frasi d’odio sta per riaccendere più atroce la zuffa, allorché tutti fuggono, ché si
appresta la scolta. È questo uno degli episodi musicali più caratteristici dell’opera. Tristezza
nella voce del banditore che invita gli uomini alle case e minaccia di morte i spargitori di
sangue; presagi paurosi nelle corde, che gemono desolate. Né vale la squisita introduzione
orchestrale al dialogo d’amore fra Giulietta e Romeo ad attenuare questa impressione di
3.1.5/27
sventura che avanza. Tanto l’introduzione orchestrale che l’inizio del dialogo hanno tono
d’elegia. Ma con l’incanzare dei sentimenti il duetto, nelle voci e nell’orchestra, si vien
colorando e accendendo, finché si entra nel sensuale. Né quello ingenuo ed oserei dire
candido dei diciotto anni, ma in un sensuale raffinato, languido, quasi stanco. La giovinetta
appena disbocciata di Guglielmo Shakespeare se n’è bella e andata: questa qui è una [ ]
poesia, tale la sua veste di suoni. Fatta quest’osservazione necessaria a distinguere cosa da
cosa e cioè questo libretto dalla miracolosa tragedia del Shakespeare, volentieri
riconosceremo la virtù d’eloquenza e di suggestione delle espansioni amorose che lo
Zandonai ha messo in bocca ai due amanti. Le frasi melodiche si atteggiano sempre
elegantemente, né mancano di calore, ed ora son palpitanti di tenerezza, ora s’intorbidano di
desiderio. Il tumulto delle due anime si propaga nell’orchestra e prorompe in onda di
passione allorché Romeo sale anelante alla finestra, sparendo tra le braccia anelanti della
donna amata. Le due voci divampano in un ardente unisono, ed ecco nuove pennellate di
colore: canti lontani e ancora di carattere popolare: il contrasto giova alla fine del dialogo e
dell’atto, che è coronato da lunghe ovazioni.
Il secondo atto
Un rivolo melodico di deliziosa eleganza che vien dalla scena, alcune sospirose frasi di
Giulietta, ed ecco, più triste che allegro, il gioco del torchio. Gioco, ma nessuna di quelle
fanti giovani e leggiadre sa ridere. Sembra si muovano e cantino sotto il peso d’un incubo;
l’orchestra s’incupisce anch’essa di ombre nere. Invano il ritmo, accentuandosi, spinge le
giocatrici a scatti di gioia: Riccardo Zandonai vede, anche scrivendo queste pagine, Giulietta
e Romeo travolti dal fato nemico, e non è lieto né può dar letizia alle sue creature. Movenze
di gioco, ma contenuto musicale d’elegia. Nel cortile piomba Tebaldo: una furia. La sua
natura violenta, in questa scena che nulla – è giusto notarlo – ha a che fare con la tragedia
shakespeariana, qui traligna in villania tanto più repugnante quanto più arbitraria. Il musicista
non poteva che dare rilievo alle frasi sconce e ingiustificate con le quali il ribaldo si accanisce
contro Giulietta esterrefatta; ma più parole e musica s’inturgidano di minacce, più il pubblico
– nonostante le grida e le sonorità – si allontana spiritualmente da un episodio dal quale non
può essere preso, perché istintivamente avverte che quella roba lì è falsa tutta quanta, senza
umanità e però senza vita. Un’altra zuffa, fuori. Tebaldo accorre, ed è fortuna, ché
l’atmosfera musicale si rischiara di tocchi delicati annunzianti la presenza di Romeo. Un altro
breve dialogo fra i due amanti, che sbocca in una notevole espansione lirica di Giulietta, ed
ecco la belva ritorna e grida ancora ed insulta, col furore d’un forsennato, a Giulietta, a
Romeo. È uno strepito di voci e di strumenti, finché Romeo, con un colpo bene assestato, si
toglie di tra i piedi l’idrofobo e lo toglie anche di tra i piedi del pubblico, che in quel vociare
a freddo lo ha tollerato pel giusto rispetto che si deve a Riccardo Zandonai e pel miracolo – è
proprio la parola – di colorazione, d’accentuazione, d’arte drammatica compiuto con la voce
magnifica e col gesto irreprensibile del baritono Carmelo Maugeri, rivelatosi nel corso
dell’attuale stagione uno dei più gagliardi interpreti della scena lirica.
Ma Riccardo Zandonai è destro uomo di teatro e seppe riguadagnasi il pubblico. Ecco la
scolta del primo atto, con lo stesso canto, con lo stesso comento di suoni, passare lontana.
L’effetto è immediato e il contatto tra sala e palcoscenico tosto si ristabilisce. E più ancora,
all’addio disperato che si scambiano i due amanti.
Il terzo atto
Si apre con un simpatico coro di folla, e siamo alla scena che vorrei quasi dire più
musicale dell’opera. Non importa se essa sia affidata a un cantatore popolare che, col
3.1.5/28
carattere della sua melodia nata dall’intimo, fa contrasto con tanta parte dell’opera, dove
spesso una ricerca troppo “voluta” di eleganze esteriori intiepidisce o spegne affatto l’estro
animatore. L’ottava onde il librettista fa annunziare dal cantatore la morte di Giulietta è
fresca e bella e Riccardo Zandonai l’ha vestita d’una melodia che dà una profonda
commozione. È un canto sgorgato vivo dall’anima e materiato di lacrime. Qui c’è, sia pure
riflessa, la tragedia di Giulietta.
Lo schianto di Romeo al tremendo annuncio è meno efficace, perché freddamente
letterario. La furia degli elementi si sovrappone senza aumentare l’intensità al dolore del
giovane.
Una pagina di molto effetto è la cavalcata di Romeo verso Verona. Il ritmo balzante,
concitato, affannoso, la disperazione degli ottoni, il fremito angoscioso di tutta l’orchestra, le
voci agghiaccianti che si confondono coi suoni fanno di questa pagina una della più
caratteristiche intuizioni dello Zandonai. Il pubblico ne è preso, ma la sua commozione si
attenua nel secondo quadro dell’atto, che pure si ingemma di frasi melodiche che sono
certamente fra le più squisite dell’opera. Giulietta e Romeo parlano in verità troppo, non solo,
ma la costruzione di tutto il “finale” con quei “voluti”, ingombranti ed eterni contrasti, è oltre
ogni credere artificiosa. Siamo, con una forma poetica decorosa, ai libretti dei nostri bisavoli.
Ma il pubblico, vinto dal buono che trova nella lunga fatica del maestro, corona di lunghi
applausi la fine dell’opera, che guadagna felicemente la riva.
Sul valore estetico dell’opera
Ed ora qualche nota critica o –più esattamente – qualche impressione sull’opera, ché ad
una valutazione definitiva di essa sarebbe necessario un più pacato esame.
Riccardo Zandonai ci si ripresenta quale già lo conosciamo, resta cioè nell’orbita
d’intenzioni e di attuazioni nella quale da anni si è posto. Da Riccardo Wagner altro non ha
appreso e non ha voluto apprendere se non l’intenzione d’un recitativo sempre aderente al
libretto e, con alquante limitazioni, il valore drammatico dell’orchestra: cose, l’una e l’altra,
che già troviamo, con semplicità e chiarezza italica, nelle maggiori scene dell’«Otello» e in
tutto quanto, quasi, il «Falstaff». Dall’«Otello» e dal «Falstaff» anzi, più ancora che
direttamente da Wagner, son venuti a Riccardo Zandonai l’insegnamento non solo, ma il
modello. E se l’illustre musicista così sente, se questa è l’espressione più immediata e idonea
del suo particolare mondo fantastico, la fedeltà devota che egli dimostra alle due ultime opere
di Giuseppe Verdi gli fa sicuramente onore. Ma c’è di più: chiaro è apparso iersera che il
Zandonai della «Giulietta e Romeo» risale in certi episodi più lontano nella produzione di
Verdi: fino alla ricostruzione di certe forme che il maestro immortale attuò nel giro di tempo
in cui gli uscivan di mano opere sullo stampo de «La forza del destino» e che poi abbandonò
a poco a poco per non tornarvi mai più. La morte di Romeo e di Giulietta non soltanto
s’infiora di qualche vena melodica di pretto e squisito carattere verdiano: -Salir con teco a
Dio...- ma nel suo taglio e nello svolgimento s’illumina della stessa vita scenica che il Verdi
predilesse nel tempo appunto che ho ricordato. Bene o male? Non giudico, osservo un fatto;
né sarò io a muover censura a Riccardo Zandonai per questo suo amore a una geniale
tradizione di casa nostra. Non debbo però tacere che il Zandonai, nella scena della morte di
Romeo e Giulietta, ha forse ecceduto in effetti di contrasto più forse che allo stesso Verdi non
sia capitato. Troppi canti dalla via e dalla chiesa – quand’anco possano riuscir graditi al
grosso del pubblico – distraggono l’ispirazione dello scrittore e l’interesse degli spettatori
dallo strazio delle due creature morenti. Il dramma, che in un simile momento dovrebbe
sgorgare dalla più profonda intimità dell’essere, si fa meccanico ed esteriore. Colpa in gran
parte del libretto, che così è concepito. Or io dico: se questo Riccardo Zandonai, che è anche
3.1.5/29
dotato d’una salda coscienza estetica, vuol fare; se questa è la via che egli si è prefisso di
percorrere, abbia maggior coraggio e ricorra magari – perché no? – alla melodia chiusa. A
questo patto, del resto, i nostri sommi dell’ottocento – Bellini, Rossini, Donizetti, Verdi –
trionfavano degli artifizi delle loro costruzioni melodrammatiche. Astraevano spesso dal
libretto, ma volavano, cantando, e il pubblico rapito, estasiato, dietro a quei voli canori. Chi,
pure prendendo da loro quel tanto che possa servirgli a raffinare il proprio strumento
d’espressione armonica e strumentale, non sente – come Riccardo Zandonai – il dramma alla
maniera di Wagner, dello Strauss, del Debussy, né ha temperamento e voglia da cimentarsi
con una forma di dramma – sia erronea o giusta – personalissima come, fra i nostri,
Ildebrando Pizzetti, può ben dire: “voglio far questo”; lo può, ma purché affronti tutte le
conseguenze del suo atto di volontà e di fede.
Nella «Giulietta e Romeo» è invece non so che vacillamento, non so che perplessità, che fa
ondeggiare lo scrittore fra due tendenze che – pure essendosi verificate nello stesso musicista,
il Verdi – sono fra loro quasi antitetiche: «La forza del destino», l’«Otello» e il «Falstaff»
recano, sì, il segno indelebile dello stesso creatore, ma la prima opera, in quanto organismo
drammatico, fu dalle altre due definitivamente oltrepassata. Di contro all’ultimo quadro della
«Giulietta e Romeo» sta il primo atto – di getto, organico, equilibrato, scorrevolissimo – nel
quale lo scrittore non risale così lontano a interrogare la produzione del Verdi e getta con
mano franca le basi psicologiche ed estetiche del dramma. Siamo – fin dove glielo ha
consentito il libretto – ai criterii informatori della «Conchita» e, più ancora, della «Francesca
da Rimini», per la quale, modelli sensibili ma guardati con mirabile indipendenza di fantasia,
Riccardo Zandonai ebbe l’«Otello» e il «Falstaff»: armonie e tavolozza orchestrale quali
abbiamo già accennato, e discorsi melodici rampollanti immediati dal tessuto mutevole dei
sentimenti e delle situazioni: discorsi dalle articolazioni varie, in perenne divenire, e rotti
sempre, e sempre mobili d’inflessioni e d’accenti, come vuole, se non proprio il dramma, il
succedersi del verso con le sue immagini, e talvolta della stessa parola, che in verità dovrebbe
sempre essere assorbita dal sentimento che la produce. Rare – qui come già nella «Conchita»
e nella «Francesca da Rimini» – le ampie effusioni liriche, contro le quali – affrontiamo pure
l’argomento – troppo e con troppo distratta disinvoltura da esteti monchi o da sterili musicisti
s’è detto e bestemmiato; e però rari i momenti nei quali i discorsi melodici si snodano e
fluiscono – la distinzione è del Pizzetti – in onde libere e beate di canto, allorché, nel
travaglio della creazione, tutte le facoltà intellettive sembra tacciano e si annullino nell’istinto
che, divinamente inconsapevole, riassume in una strofe lirica intensa, luminosa ed alata il
mistero lieto o triste d’un’anima, il roseo o il pauroso d’una vicenda drammatica. Perché – si
badi – è un abisso incolmabile tra questi irresistibili colpi di sole e le attillate, incipriate,
dinoccolate romanzette poste lì, tra l’una e l’altra pigrizia, tra l’uno e l’altro torpore di
recitativi incolori, a vellicare la facile epidermide delle folle opache.
Sta in due, insomma: o Riccardo Zandonai concepisce il dramma musicale come nella
«Francesca da Rimini» e nel primo atto della «Giulietta e Romeo» e adotti pure il suo
fraseggiare drammatico e i suoi consueti discorsi melodici, essendo essi bastevoli a
un’efficace trasfigurazione sonora del dramma; o vuole con la gagliarda freschezza della sua
fantasia rianimare schemi ormai logori del vecchio melodramma, come nell’ultimo quadro
della «Giulietta e Romeo», e allora, audacia: sgombri la sua mente d’ogni preconcetto e si
abbandoni totalmente al canto, anche – lo ripeto – nella forma, da cui sembra rifugga, della
strofe chiusa, non bastando il suo consueto eloquio musicale a nascondere il falso
dell’artifizio scenico. Un dilemma – per intenderci – che si può soltanto porre a un musicista
vero e nel cui ingegno si abbia fede assoluta, come quella che io non da oggi ho nell’ingegno
di Riccardo Zandonai.
3.1.5/30
L’esecuzione e il successo
L’esecuzione dell’opera, perfetta. L’orchestra, diretta dallo stesso autore, rese con nitida
evidenza fin le minime sfumature dello strumentale. Gilda Dalla Rizza è una Giulietta di
fascino irresistibile. Voce, arte di canto, vibrazione drammatica, tutto contribuisce a fare di
lei una protagonista ideale dell’opera.
Le è degno compagno il tenore Michele Fleta: bella voce, figura prestante, passione: un
Romeo magnifico.
E magnifico anch’egli il baritono Carmelo Maugeri, al quale ho accennato dove parlo del
secondo atto dell’opera. Questo cantante dai mezzi poderosi e intelligentissimo è un vero
signore della scena.
Ottimo il Nardi, che modulò con profondo sentimento la bella ottava del terzo atto.
Bene anche la Porter e la Torelli.
Intonatissimi, come sempre, i cori educati da un artista di tutto valore, il maestro Consoli.
Una parola d’alto encomio merita il comm. Carlo Clausetti, rappresentante della Casa
Ricordi, che lungo le prove faticose prodigò le sue cure sapienti perché i quadri scenici
riuscissero impeccabilmente armoniosi. E tali riuscirono.
L’opera ebbe il più lieto successo, consacrato da una ventina di chiamate agli interpreti e
all’autore, che volle accanto a sé, a condividere gli applausi, il poeta Rossato.
[...]
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FALBO, Giulietta e Romeo di Zandonai, «L’Epoca», 16.2.1922 - p. 3, col. 1-2-3 (con piccole
foto di Zandonai, Maugeri, Dalla Rizza, Fleta)
La nuova opera di Riccardo Zandonai era attesa con le migliori speranze.
Chi ha dato al teatro lirico italiano la «Francesca da Rimini» che segna una data ben lieta
nella storia della nostra produzione melodrammatica, che rappresenta l’affermazione
vittoriosa di un talento musicale che ha trovato la sua via, che ha saputo fondere
armoniosamente i diritti della tradizione e quelli dell’evoluzione, i diritti della parola e quelli
della musica, che ci ha dati una forma di discorso melodico pieno di musicali malìe e di
drammatica efficacia meritava la più che benevola attesa di cui la nuova opera ha beneficiato
largamente iersera.
Ancora un passo avanti, pensavamo, un po’ più di fantasia creatrice e un po’ più di calore
nel discorso musicale e noi potremo salutare in Riccardo Zandonai l’erede delle migliori virtù
dei nostri maggiori melodrammisti, il più geniale campione della giovane scuola italiana che
ha brancolato per molti anni e che continua a brancolare fra le più tortuose vie, povera di
idee, povera di ardimenti e povera di fortuna.
Avevamo letto con piacere alcune confessioni del Maestro su l’opera nuova. «Questa mia
ultima partita, egli aveva detto a un collega intervistatore4, è semplice, spontanea, rapida,
come semplice, spontaneo e rapido [è] l’amore di Giulietta e Romeo. Niente acrobatismi
strumentali, come ne ho fatto per lo passato e come ne han fatto e fanno tutti i giovani
musicisti italiani timorosi di apparire ignoranti. La dottrina armonica e strumentale della
quale ci siamo impossessati, siccome era nostro dovere per non diminuire al confronto degli
stranieri, ci era necessaria come il pane, anche a costo di soffocare un po’ della nostra natìa
4
v. intervista a R. De Rensis, «Il Messaggero», 31.1.1922 - al n. 180.
3.1.5/31
ispirazione e di essere tacciati di esotismo e di servilismo. Ma, ora che tutti i ferri del
mestiere sono nelle nostre mani, occorre servirsene per un unico grande scopo, per un unico
luminoso miraggio: quello di ricercare noi stessi, esprimere noi stessi, rievocare la nostra arte
gloriosa, esaltare la nostra musica immortale, cantare con la nostra ugola privilegiata, gridare
con nostro cuore pulsante e generoso.
«Il carattere della mia opera, se io non erro, è predominantemente vocale nel senso che
l’eloquio dei personaggi e specie dei due infelicissimi amanti si sviluppa in un’onda melodica
chiarissima e di facile percezione e, m’auguro, di facile comunicativa. Io non sono stato
premuto o afflitto da alcuna preoccupazione di scienza o di sistemi, mi sono abbandonato
totalmente, ciecamente al mio animo, mi sono immedesimato nella sublime passione dei
giovanetti veronesi sino a gioire, a soffrire... e starei per dire, a morire con essi. Ho cercato di
penetrare la natura del soggetto essenzialmente lirico, ingenuo, puro, che non ammette
complicazioni intellettuali od esibizionismi tecnici, ho creato intorno ai leggendari amanti
un’atmosfera appropriata, assai diversa dall’ambiente e dal colore locale e storico della
“Francesca”, di cui l’amore sensuale torbido, fatale, contorto m’induceva alla ricerca
psicologica paziente e minuziosa.
«In una parola, quel processo interiore di semplificazione a cui tendo, e credo dimostrato
chiaramente nella successione delle mie opere, coincide e meglio si adatta e più saldamente si
afferma nella “Giulietta”».
Riccardo Zandonai non poteva farci promesse più liete: niente acrobatismi musicali, ma
esaltazione della nostra musica immortale, «ma gridare col nostro cuore pulsante e
generoso».
Ciò che tutti desideriamo, ciò che tutti predichiamo da anni.
Ma dal dire al fare...
Riccardo Zandonai ha compreso ciò che l’opera di teatro – che si dirige alle grandi masse
– deve essere; ha compreso come tutte le risorse della strumentazione non bastino a dar vita a
un melodramma in cui si canti poco o si canti male, cioè senza riuscire a interessare, a
esaltare, a commuovere gli ascoltatori. E ha scelto un soggetto eminentemente lirico e
romantico, la leggenda dei due giovinetti veronesi innamorati, che sulla scena lirica non ha
avuto troppa fortuna, poi che i musicisti i quali si sono provati a cantare il purissimo e fatale
amore nulla o troppo poco hanno aggiunto, con la loro arte, all’alto lirismo della poetica e
dolente istoria.
Riccardo Zandonai, forte di tanti insuccessi o dei mediocri successi di quanti all’amor
casto e folle di Giulietta e Romeo si erano rivolti, ha voluto ritentare la prova: la classica,
mirabile istoria ben meritava una più moderna, una più viva, una più toccante interpretazione
musicale. E ha messo da parte i fioretti del perfetto musicista, dell’esperto sinfonista, e si è
abbandonato – come egli dice – al suo animo per scrivere semplicemente, sinceramente,
davvero amorosamente ciò che il cuore dettava.
Ma non era l’ora della più felice ispirazione; e il Maestro, pur essendosi riavvicinato alla
tradizione, pur avendo lasciato per via molte delle frangie inutili di cui si era servito “ad
abundantiam” in precedenti partiture, non è riuscito a realizzare le ottime intenzioni con le
quali si era accinto alla nuova fatica.
Il sinfonismo questa volta non sovrasta e non guasta; l’orchestra crea con efficacia e
sobrietà l’atmosfera musicale entro la quale si muoveranno – e canteranno – Giulietta,
Romeo, Tibaldo, i Capuleti e i Montecchi. E le voci imperano, e il canto melodioso è in
onore; il discorso musicale è enunciato sempre o quasi con una conoscenza mirabile delle luci
e delle ombre; l’onda corale ci avvolge e tenta di penetrare nei nostri cuori. Ma non riesce a
commuoverci.
3.1.5/32
Evidentemente l’invenzione melodica scarseggia e la melodia che ascoltiamo non si eleva
e non ha forza di seduzione, di penetrazione, di esaltazione. Qua e là, nel duetto del bacio al
primo atto, nel tentativo di seduzione di Tebaldo al secondo, nella prima parte del pianto di
Romeo al terzo, l’autore par che trovi la via del cuore. E in noi si acuisce l’attenzione e il
desiderio di un po’ di emozione schietta e travolgente. Ma si tratta di spazi fugaci, ché subito
dopo il discorso melodico ridiventa arido e incolore, prolisso e vano.
Il nostro interesse si mantiene desto, invece, nei quadretti di ambiente – Riccardo Zandonai
è un coloritore di rare virtù – e là dove l’orchestra discorre e commenta per proprio conto. Le
prime scene dell’opera, che vogliono “ambientarci” nella Verona trecentesca divisa tra
Capuleti e Montecchi, hanno tocchi magistrali di illustrazione musicale. Il giuoco del torchio
al secondo atto è un grazioso intermezzo, degno delle pagine più gentili della «Francesca».
L’arietta del “cantatore” al terzo atto, che ricorda un po’ il lamento dell’innocente di «Boris»,
è un piccolo gioiello.
Si può anche avvertire che la parte del “cugino” geloso, del fiero Tibaldo è tratteggiata con
bella vigorìa, che fa pensare all’«Otello» verdiano. Né si può negare che l’intermezzo
sinfonico della “cavalcata” di Romeo, che divide i due quadri del terzo atto, sia una robusta
pagina musicale, solidamente piantata e abilmente svolta: interessante anche se un po’
prolissa e un po’ enfatica, ricca più di rumori – notte di tempesta – che di dolore, vigilia di
morte.
Troviamo, insomma, nella nuova opera molte delle virtù che assicurano ammirazione e
rispetto a un musicista. Pochi scrittori d’Italia posseggono come lo Zandonai il magistero di
una strumentazione raffinata; pochi come lui sanno colorire musicalmente un ambiente,
sanno dar vita a un quadretto di genere, sanno sfruttare col massimo rendimento la ricca
famiglia dei vecchi e nuovi strumenti.
Ma da Zandonai attendevamo questa volta, all’infuori e al di sopra di ogni preziosità
stilistica e decorativa, il canto dell’infinito amore – dell’amor puro, cieco, travolgente – e il
canto dell’infinito dolore – che accomuna nella morte gli eroi della leggenda trecentesca. E
questo canto abbiamo atteso invano, nel primo, nel secondo, nel terzo atto.
Ché anzi l’interesse è andato decrescendo. Il primo atto che ha un finale scenicamente,
pittoricamente felicissimo – e v’è tuttavia chi non risparmia critiche al librettista per
discolpare il compositore: eterna e crudel sorte dei poeti di melodrammi poco fortunati – si
era chiuso con applausi caldi, sinceri, bene auguranti. Nel primo duetto d’amore è qualche
spunto grazioso, che si sperde ahimè nel seguito del lungo declamato melodico al quale non
dà vigorìa emotiva l’eccessiva enfasi orchestrale e vocale. Anzi!
Il Maestro deve avere ricordato, scrivendo il duetto del bacio al chiaro di luna – lei sul
balcone tra i fiori, lui su la via pronto a raggiungerla –, la poetica scena del «Pelléas e
Melisanda»: duetto susurrato a fior di labbra. Non volevamo dal Maestro italiano
dell’impressionismo debussiano. Ma non ha pensato egli che il misterioso e pericoloso
colloquio d’amore notturno fra Giulietta e Romeo, all’angolo di una pubblica via, doveva
essere tradotto più e meglio di quello tra Pelléas e Melisanda in un sottile susurrìo di dolci
frasi, anzi che in un canto spiegato, a gran voce, che è la negazione di ogni verosimile
precauzione d’innamorati sorvegliatissimi e insidiati da ogni parte?
Il melodramma è finzione scenica sempre lontana dalla realtà?
E pure tutti i musicisti di oggi non tendono che a un fine: avvicinare, fondere più che sia
possibile Arte e Vita, ridurre al minimo necessario l’imperio dell’irrealismo. Il quale in
«Giulietta e Romeo» prende il sopravvento precisamente nell’ultima scena – la morte che
rivive, che ricanta, che rimuore –: scena che rompe la malìa di ogni schietta commozione se il
musicista non sa dotarla di quel “fascino irresistibile”, di quel “pathos” musicale che ogni
3.1.5/33
irrealtà ed ogni eccentricità di cattivo gusto può fare obliare. Questa potenza emotiva manca
al duetto dei morenti, prolisso e scialbo, e la tela cade lasciando nel nostro animo
un’amarezza profonda e sincera, poiché profondo e sincero era in noi l’augurio del più lieto,
del più grande successo.
***
L’opera, allestita con eccezionale diligenza – delle belle scene, disegnate dallo Stroppa, è
piaciuta specialmente la terza – ha avuto un’ottima esecuzione.
Riccardo Zandonai, seguendo l’esempio del suo illustre maestro Pietro Mascagni, ama
dirigere le sue opere. E se appariva incerto ai primi passi, ora è divenuto un concertatore e
direttore di rara valentìa. Già nella «Francesca» avevamo notato i suoi progressi.
Della partitura di Giulietta e Romeo egli ha messo in rilievo con sottile cura fatta di grande
amore e di squisita sensibilità ogni più delicato particolare. E se un appunto gli si può
muovere è questo, che spesso il musicista anzi il sinfonista ha preso la mano al direttore, il
quale nulla ha fatto per attenuare i pieni orchestrali che nella loro magniloquenza esuberante
hanno imposto agli artisti del palcoscenico sforzi eccessivi e talvolta inutili.
Naturalmente, là ove l’orchestra è padrona del campo, come nell’intermezzo della
cavalcata, Riccardo Zandonai ottiene più brillanti effetti dalle cento voci mirabilmente fuse e
intente ad esprimere l’intimo affanno e la fretta angosciosa del cavaliere galoppante verso la
morta in cerca di morte.
Gilda Dalla Rizza si è prodigata nei canti d’amore e di dolore, mettendo a servigio
dell’autore la sua bella intelligenza, la sua voce calda e suadente, la sua raffinata sensibilità
artistica.
Poche cantatrici hanno la efficacia del suo giuoco scenico, che le permette di ravvivare
deliziosamente la gustosa scena del giuoco del torchio e di prestare subito dopo alle scene
tragiche seguenti un’espressione così viva e impressionante d’intima sofferenza, un canto
così ricco di umano accoramento.
Magnifica voce quella del tenore Fleta, che abbiamo conosciuto quasi debuttante e che ci
appare dopo pochi anni artista di grandi risorse, fra i migliori che conti oggi la scena lirica.
La sua voce calda ha spesso dato alle note la passionalità dolorosa che non avevano. Nel
duetto finale del primo atto, in quello più dolce del secondo atto velato di tristezza e
nell’ultima scena egli ha raggiunto ogni possibile effetto emotivo e ha meritato, con Gilda
Dalla Rizza, applausi calorosissimi.
Il baritono Maugeri ha modellato un po’ troppo la sua interpretazione su quella, che gli ha
fatto onore, dello sciancato Gianciotto. La voce è possente e sarà artista di prim’ordine
quando avrà raffinata la sua educazione musicale e scenica.
Ha avuto la sua parte di applausi nel duetto del second’atto.
Delizioso come sempre il Nardi, che ha cantato assai bene l’arietta del terzo atto e ce ne ha
dato il “bis” per desiderio di Romeo, interprete questa volta del desiderio del pubblico.
Meritano una parola di lode le altre parti secondarie, tutte bene a posto: la Porter, la Torelli e
le altre “amiche” di Giulietta. Ottimi i cori.
Per la cronaca: sei chiamate dopo il primo atto, altrettante dopo il secondo, quattro dopo il
terzo. Con il maestro e con gli interpreti è stato evocato al proscenio anche il librettista
Rossato.
[...]
192
3.1.5/34
Edoardo Pompei, “Giulietta e Romeo” del maestro Riccardo Zandonai, «Il Paese»,
16.2.1922 - p. 3, col. 1-2-3-4-5 (con un grande ritratto a matita di Zandonai, una foto di scena
[Atto II/La scena della fiaccola nel pozzo] e un bozzetto [Atto III/Verona: scena seconda])
Il libretto di Arturo Rossato ha taglio antico negli atti, nella successione delle scene, nella
disposizione dei cori, nel valore delle persone sceniche. Antico e forse antiquato con le
osterie, le risse, le canzoni a ballo, i duetti, le voci lontane, tutti gli accorgimenti scenici e le
scaltrezze che un librettista del buon tempo sapeva disporre nei vari piani per offrire al
maestro compositore inspirazione e materia da musica, e allora musica significava melodia.
Nella tragedia in tre atti del Rossato vi sono tre osterie, due nell’atto primo ed una nel
terzo; poiché nel secondo atto si vede un cortile del palazzo dei Capuleti in Verona e in quel
cortile non c’era modo di collocare un’altra osteria... C’è invece una canzone a ballo con
l’annuncio del ritorno delle rondini come nella «Francesca da Rimini». E reminiscenze della
«Francesca» si scorgono qua e là, specialmente nel fraseggiare e in certi movimenti di scena
che richiamano le colorazioni d’ambiente care a Gabriele D’Annunzio.
Ma mentre nella «Francesca» la parola ha sapore di favella trecentesca e gli sfondi hanno
colore e disegno giottesco e le persone carattere netto, qui l’arcaismo della parola è
superficiale, inutile, privo di ogni sincerità: sono modi voluti per ricordare al lettore e
all’ascoltatore che l’azione si svolge in un qualche anno della fine del mille e trecento di
Nostro Signore, nella nobile città di Verona.
E invece si dovrebbe svolgere in ogni tempo e in ogni luogo, a Verona come a Rimini,
come a Ferrara, in terra d’Italia, nei paesi d’Europa, nelle città d’Oriente o d’oltre mare,
dovunque un cuore umano palpiti d’amore nella divina giovinezza degli spiriti e dei sensi.
Che importano le osterie e le torri veronesi, che importano le case munite di bertesche e di
serragli di Rimini malatestiana, o il castello ferrarese adorno di freschi e di arazzi, gloria
degli Estensi, se sola, se eterna la giovinezza canta su due bocche innamorate, e solo il bacio
è la muta parola che suscita l’infinita melodia che supera gli anni, vince i secoli, trionfa nel
tempo con la poesia e la musica.
Un verso di Dante, una melodia di Vincenzo Bellini, un preludio di Giuseppe Verdi e tutti
i cuori tremano come alla rivelazione di un prodigio nuovo ed antico, e alle pupille brilla
l’azzurro del firmamento, appariscono verzieri fioriti, e una primavera meravigliosa rinnova
le anime. Amore intona il verso, amore esprime la musica e i cuori tornano giovani e per un
istante che è miracolo dell’arte evocatrice il tempo è dominato, il passato diviene presente, i
venti anni sono evocati nell’incantesimo.
Più che in Francesca e Paolo, più che in Ugo e Parisina, in Giulietta e Romeo trionfa
l’amore che è giovinezza eterna. Non i terribili morti di Dante che tinsero il mondo di
sanguigno e che squassa la bufera infernale che mai non resta, non l’incesto degli Estensi che
par rinnovi la cieca arsura di Fedra, non il filtro magico di Tristano ed Isotta ma l’onda che
muove i due amanti nelle nebbie nordiche della leggenda hanno somiglianza di parentela con
la passione degli amanti di Verona; la loro fiamma è pura; arde e si consuma come un bel
fuoco di erbe aromatiche sopra un colle italico nella notte di San Giovanni: la prima notte
d’estate è la più bella perché la più breve.
Non il libro di Lancillotto e della Reina Ginevra, non il pellegrinaggio alla Santa Casa di
Loreto, non il sorso avvelenato d’incanto conduce gli amanti di Verona ad una morte, sì bene
lo schianto dell’una giovinezza spezza l’altra, e su Romeo morto piega e si abbatte Giulietta.
Nessun farmaco potrà salvare quella che amore uccide, né alcun veleno, alcuna arma potrà
spegnerla se non la legge di amore inesorabile.
3.1.5/35
Al verso dell’Alighieri: «Amor che a nullo amato amore perdona» [sic] risponde attraverso
i secoli il verso di Giacomo Leopardi:
Fratelli a un tempo stesso Amore e Morte
Ingenerò la sorte!
E Amore e Morte hanno anche nome Giulietta e Romeo. La novella di Masuccio
Salernitano dove Mariotto Mignanelli e Giannozza Saracini si amano è forse la più diretta
origine della leggenda veronese che ha tanta umanità di sensi. La novella ha svolgimento a
Siena. Mariotto uccide in rissa un avversario ed è costretto a fuggire e nella lontananza è
dannato per omicidio alla scure. Giannozza è sforzata dal padre ad altre nozze. Sta per
uccidersi, disperata, ma un buon frate di nome Lorenzo, nome di cui si sovverrà Guglielmo
Shakespeare, le dona un narcotico tale da rendere il sonno simile alla morte. Quando si
desterà tutti la crederanno spenta, ed essa potrà raggiungere Mariotto e questi parte come
forsennato e torna in Siena per rivedere l’amata nel sonno ultimo. È riconosciuto, afferrato,
dato alla giustizia: gli recidono il capo. Giannozza, che si è ridestata dal sonno e ode il tragico
annunzio mentre è per fuggire verso le sue braccia, accorre dove il giustiziato giace e su quel
corpo tronco muore per ambascia.
Novella aspra e rude ma d’ossatura gagliarda e tale, specialmente nella scena della morte,
da suscitare un’ispirazione di singolare potenza tragica in una grande artista.
Luigi da Porto, vicentino, che scrisse di storia e di poesia, per il primo disse di Romeo e di
Giulietta in una sua novella stampata circa il 1530 con la dicitura che precede la narrazione:
«Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti con la loro pietosa morte intervenuta
già nella città di Verona nel tempo del signor Bartolomeo della Scala».
Da questa storia più che dalla narrazione larga, ricca, eloquente, adorna di fiori retorici e di
eleganze grammaticali del vescovo Matteo Bandello proviene il libretto di Arturo Rossato.
Gli atteggiamenti, i coloriti, alcune movenze sono tolti dalla novella di Luigi da Porto
direttamente e recati sulla scena per offrire trama alla musica di Riccardo Zandonai. Lo
sforzo per dimenticare Shakespeare ed attenersi alla novellistica nostra non è riuscito.
Quando amore ispira, la tragedia di Guglielmo ritorna dominatrice. Nella scena del balcone e
in quella della morte il tragico inglese impone le sue maniere e le sue parole, perché egli solo,
con la possanza creatrice del genio, ha saputo esprimere la voce della giovinezza ardente e
folle. Giovinezza di anime e di parole che ogni cuore ha sentito vagamente, oscuramente a
venti anni e che nel verso del poeta ritrova la sua espressione diretta, la sua bellezza esterna.
La parola del poema eterno che canta nel verso di Guglielmo Shakespeare ha trovato
un’eco di grazia latina nella musica di Riccardo Zandonai? Nell’opera del maestro nostro vi è
forse un impeto lirico pari all’armonia divina ed umana che l’inglese concesse a due bocche
italiane? Un nostro compositore ha saputo emulare nella musica, nel linguaggio più
universale, il prodigio di passione creato dal poeta straniero?
Arte nobilissima è quella che sente ed esprime nei suoi modi musicali Riccardo Zandonai.
Severa nella forma che esclude ogni facilità volgare, elegante nel commento dell’orchestra,
ricca e varia nell’impasto dei colori, questa «Giulietta e Romeo» manifesta lo spirito alto del
maestro, la sua squisita sensibilità, la sua dottrina profonda. Non è mai arido, non è mai
fiacco e manierato, non compone mai inutili accademie. Il suo discorso musicale è sempre
elevato, i suoi cori sono pieni, variati, mossi. Tratta con maestria sicura voci ed istrumenti, e
le grazie del disegno melodico vocale trovano una corrispondenza immediata nei ricami
preziosi dell’orchestra.
La melodia c’è ma si affloscia, si attenua, si perde in effimeri frastagliamenti dopo poche
battute.
3.1.5/36
Non ha il respiro che trasporta le anime, non il colpo d’ala che solleva e ghermisce e
rapisce le moltitudini verso l’alto, il grido sicuro di passione umana che d’improvviso fa
palpitare ogni cuore e vela di pianto ogni pupilla, e rende una di pensieri, di senso, di
commozione la folla innumerevole.
Manca qualche cosa alla melodia del canto, alla polifonia dell’orchestra; manca quella tal
cosa imponderabile, quel tal segno inesprimibile, quella energia suprema che nessuno potrà
mai definire e che è come la rivelazione improvvisa di una verità che tutti sentono e nessuno
può dire, di una bellezza che tutti scorgono e nessuno può esprimere, di una gioia unica,
consolatrice di ogni cuore e che una stirpe può tramandare come l’eredità più cara.
Tanta eleganza fa desiderare talora maniere più sciatte ma più robuste, un impeto di
melodia rude ma di volo ardito, uno di quei movimenti irresistibili che Giuseppe Verdi
sapeva creare. Le persone sceniche possono essere disegnate o dal motivo dominante,
invenzione della scuola tedesca e più di Riccardo Wagner; o da un colorito melodico come è
tradizione della scuola nostra. Ma le persone per trapassare da maschere sceniche in creature
umane devono avere contorni certi ed ossa e polpa, muscoli e sangue, materiati di vita verace.
Devono essere caratteri e non ombre.
Tutte le grazie delle forme non valgono un canto pieno; tutti i pregi delle architetture
armoniose il rapimento di un pensiero semplice ed alto che dall’orchestra sale trasportando le
anime verso la luce.
In questa «Giulietta e Romeo» riappariscono le qualità di artefice esperto del Zandonai che
già più compiutamente e più luminosamente si erano palesate nella «Francesca da Rimini» –
che resta ancora l’opera migliore dell’insigne maestro trentino – ma vi riappariscono con più
accentuata deficienza di quegli elementi fondamentali che soltanto assicurano vitalità ad
un’opera. Anche qui abbiamo colori d’ambiente ma non melodia d’anime, atmosfera
musicale non grido schietto di passione, eleganze formali non disegno serrato, arte decorativa
non sagoma di creature vive.
I cori e specialmente la rissa del primo atto, e il giuoco delle fanti del secondo atto, e tutta
la prima parte del terzo con la deliziosa canzone del cantatore sono pagine vive, delicate,
ricche di colori, di sonorità caratteristiche. Ma non cori, non pittura d’ambiente, non
virtuosità orchestrali noi cerchiamo in una tragedia che porta nome «Giulietta e Romeo», ma
la voce ineffabile della passione umana e divina, il canto della giovinezza ardente e schietta
che ama e perché ama muore.
La melodia sovrana dell’amore e della morte, della giornata breve e fervida che non avrà
domani, di un piacere troppo forte per essere sostenuto da questi nostri sensi mortali noi
chiediamo alla voce dei due amanti. Non complicazioni sapienti, non artifici tecnici, non
arabeschi istrumentali, ma un grido solo e sincero, come semplice e sincera è la giovinezza
innamorata e folle. E la melodia che ammalia, incanta, rapisce, trascina; la melodia che ogni
cuore sente, che è verità, vita, passione, luce, non sorge certo dalle eleganze squisite dei due
duetti: quello d’amore del primo atto che nella sapienza delle combinazioni armoniche perde
il carattere della ingenua e folle giovinezza immortalata da Shakespeare, e quello di morte del
terzo atto privo di ogni potenza dominatrice sulle anime, troppo lungo e troppo complicato e
troppo riflesso per suscitare un senso di commozione.
E nemmeno il grande intermezzo del terzo atto che vuol essere l’eco della angoscia
disperata di Romeo, se impressiona per la irruenza e la insistenza delle voci e degli strumenti
sapientemente intrecciati in un unico motivo tematico, non determina attraverso le
combinazioni contrappuntistiche nessuna energia emotiva capace di dare l’illusione e la
sensazione dell’aspro dolore.
3.1.5/37
Riassumento queste rapide note e le impressioni del pubblico intorno alla nuova opera del
maestro Zandonai, si può con piena certezza affermare che questa Giulietta e Romeo rimane a
notevole distanza dalla sua maggiore sorella, la Francesca da Rimini. Anche gli applausi che
alla fine di ogni atto risuonarono nella sala magnifica del teatro Costanzi, affollata dal miglior
pubblico di Roma, indicarono la misura decrescente del successo che, delineatosi fervido e
pieno di promesse alla chiusa del primo atto, venne mano mano sensibilmente attenuandosi
negli atti successivi.
Per la esattezza della cronaca dobbiamo registrare complessivamente otto chiamate agli
artisti, al maestro Zandonai e al librettista Rossato al primo atto, sei al secondo e quattro
frettolose al terzo.
L’esecuzione artistica è riuscita degna della importanza dell’avvenimento e delle tradizioni
del nostro massimo teatro.
Il maestro Zandonai alla concertazione e alla direzione dell’opera recò ieri sera tutta la
fede della sua anima e tutta la sapienza comunicativa della sua arte, ottenendo dall’orchestra,
dagli artisti e dalle masse corali effetti magnifici di particolari e d’insieme.
193
Adriano Belli, “Giulietta e Romeo” di R. Zandonai, «Il Corriere d’Italia», 16.2.1922 - p. 3,
col. 1-2-3 (con una grande fotografia di Zandonai)
Il successo
Giulietta e Romeo si è chiusa ieri sera tra acclamazioni prolungate e con un vivace pugilato
tra i due partiti contrari su nel loggione. I Capuleti e Montecchi rinnovavano così, dopo tanti
secoli, le loro gesta per un’opera d’arte. Tanto meglio così. Dove c’è discussione c’è
interesse, e c’è intrinseco valore.
Sei chiamate al primo atto; cinque al secondo; sette od otto al terzo. Il solito computo
banale delle chiamate questa volta ha importanza significativa. La musica dello Zandonai per
la sua forma aristocratica e nobilissima non si concede ad una prima audizione, e si temeva,
tra chi aveva assistito a molte prove ed era potuto penetrare in questa speciale atmosfera
sonora, si temeva che il pubblico non riuscisse ad afferrare le bellezze del nuovissimo
spartito.
Ma il pubblico ha seguito Giulietta con un costante interesse, senza mai denotare segni di
stanchezza; ed ha applaudito con calore alla chiusa di ogni atto. E se l’opera avesse avuto
pezzi chiusi l’applauso avrebbe più volte interrotto la esecuzione come alla ronda alla metà
del primo atto, al duetto fra Giulietta e Romeo al secondo, alla canzone del giullare, alla
scena di dolore di Romeo, all’intermezzo.
Giulietta e Romeo, con degli opportuni ritocchi e dei tagli di cui parlerò in seguito, è opera
destinata a un grande avvenire, ed infatti la festosa accoglienza della prima esecuzione è
indice sicuro che l’opera conquisterà sempre più il gusto della massa e farà molta strada,
come l’ha fatta e sta facendo la sua sorella Francesca.
Il primo atto
Passiamo intanto alla cronaca della serata e ad un rapido esame del lavoro.
Lo spettacolo si è iniziato alle 20.55 precise. Il maestro Zandonai viene salutato con un
grande e prolungato applauso.
Fin dalle prime pagine con l’orchestrina interna di Casa Capuleti ove si svolge la festa da
ballo, con il dialogato di Tebaldo e con l’entrata delle maschere, lo Zandonai ci trasporta
3.1.5/38
nella sua caratteristica atmosfera. Si denota subito la squisitezza della forma, la suprema
abilità nel trattare l’orchestra. La “canzonaccia” che i Montecchi cantano nell’interno
dell’osteria battendo il ritmo sui bicchieri è resa in modo magnifico ed accompagnata con
sempre maggiore abilità. L’episodio che segue, della zuffa tra Capuleti e Montecchi, dà modo
al maestro di scrivere una pagina robusta per concezione e per sviluppo, e si svolge con
mirabile sicurezza. L’entrata di Romeo mascherato che implora pace sui rissanti non è che
una breve sosta, perché l’episodio riprende tutta la sua vigorìa sino ad essere bruscamente
spezzato all’arrivo della scolta.
Il passaggio del banditore è una pagina molto caratteristica e d’indovinato colore. Appena
si è spenta la eco del ritmo cadenzato di tamburi, s’inalza nell’orchestra una frase tenue piana
e calma, riboccante di dolcezza. È il duetto d’amore che s’inizia e che, interrotto appena dalla
breve sosta dell’uscita delle maschere, terrà tutto l’atto.
Questo duetto d’amore, forse un po’ lungo, è una pagina di pregevolissima invenzione. La
caratteristica melodia cromatica dello Zandonai dà a chi la sente la prima volta una difficoltà
di comprensione; ma di mano in mano che si sente piace sempre di più.
La melodia dello Zandonai non è di largo respiro e di immediata emotività, non ha la
robustezza e il calore che vi strappano l’entusiasmo e vi fanno passare i brividi di intensa
commozione e salire il pianto agli occhi; questa melodia, anche quando sale a potenti
sonorità, è sempre intima; esprime sempre un qualche cosa di interiore e di quasi nascosto
nell’anima del personaggio. In questo duetto – e chi non fosse del mio avviso torni a sentire
più volte queste pagine – sono cose pregevolissime anche come ispirazione: ad esempio la
frase – che ricorda un poco Francesca – Deh, bel fioretto non datevi pena, e la risposta di:
Siete bello e mio! e poi quella soavissima: L’alba che infiora di sue rose il dì, e l’altra anche
bella: Ove tu sia, ove tu vada, prendimi teco.
Il pubblico segue col massimo interesse questo grande duetto e rimane preso dalla chiusa
in cui lo Zandonai presenta uno di quei quadri di cui è maestro insuperabile. Sugli addii degli
innamorati e sugli ultimi loro baci, l’orchestra sussurra leggerissima frammenti del duetto
d’amore, e mentre da lontano giungono i rintocchi delle campane che suonano il mattutino,
passa l’eco di una canzone affidata al coro delle donne.
Giulietta e Romeo che da lontano si mandano l’ultimo lunghissimo bacio sono avvolti in
un velo di armonie semplici, pure, in cui sovrasta la melodia italianissima. E il velario si
chiude su questo quadro di sogno.
Scrosciano gli applausi e lo Zandonai è chiamato sei volte al proscenio. L’atto ha la durata
di 40 minuti.
Il secondo atto
Il secondo atto ha principio alle 10.5. Qui ci troviamo a contrasto con l’atto che precede.
L’idillio cede il posto alla sinfonia. La drammaticità dell’azione prende naturalmente il
sopravvento. A chi ascolta per la prima volta è un po’ oscuro, come il secondo atto di
Francesca, ma contiene pagine superbe trattate con maschia gagliardìa.
Il giuoco del torchio passa sotto silenzio e poco soddisfa la massa. Nel duetto tra Tebaldo e
Giulietta si nota una eccessiva sonorità. Un taglio non sarebbe inopportuno e quello fatto è
troppo piccolo. A questo duetto che è come una grande chiazza di colore rosso fa ottimo
risalto il duetto soavissimo tra Giulietta e Romeo, incastonato nella sinfonia orchestrale, che
sommessa cede il posto alle voci dei due innamorati, i quali sciolgono dal cuore e dal labbro
le melodie più tenere e appassionate. Poi l’orchestra riprende nella scena del duello e della
chiusa il suo alto potere espressivo con tutte le risorse di una strumentazione e di
un’armonizzazione estremamente ingegnose.
3.1.5/39
L’atto che è brevissimo – dura soli 35 minuti – è salutato da molti applausi e lo Zandonai
ha cinque chiamate.
Il terzo atto
Il terzo atto si apre con vivaci scene descrittive. Il coro si svolge simpaticamente e la
perizia del maestro si appalesa sempre più grande. L’entrata del Cantastorie è un po’ lunga e
da un piccolo taglio si avvantaggierà di molto; ma ecco la ballata, una pagina deliziosa che
non si può ascoltare senza un brivido di commozione. Delle approvazioni vengono subito
represse perché il pezzo non consente soste. Quando le strofe si replicano, uguale è l’effetto,
sebbene scenicamente non si comprende come Romeo, disperato fino quasi alla pazzia, perda
tempo a farsi ricantare la canzone del Cantastorie e non fugga subito, come poi fa, verso
Verona!
La scena della disperazione di Romeo è veramente grande. La tempesta della terra e del
cuore dell’innamorato è resa con forma potentissima e di una efficacia teatrale immancabile.
Il pubblico è veramente trascinato ma non può esprimere il suo giudizio perché l’intermezzo
s’innesta alla chiusa del quadro. Gli istrumenti a percussione marcano fortissimo lo scalpitìo
del cavallo, Romeo che corre disperato verso la donna amata riempiendo cielo e terra del suo
grido di dolore è reso magistralmente. Il pezzo, sebbene mantenuto ad una quasi costante
sonorità, è veramente bello. L’orchestra ha pieni effetti realistici e l’autore si afferma
sinfonista potente. Il brano nel costante ritmo del galoppo del cavallo si basa sul tema appena
cantato da Romeo Sii tu il mio cuor dannato che qui appare più stretto e nel grido: Giulietta
mia! affidato ora, con una vera trovata, al coro. Si abbandona a metà, pur mantenendo sempre
il “presto”, ad una bella pagina lirica con richiami a temi del duetto d’amore, riprende poi la
sua potenza drammatica per chiudersi pianissimo mentre sopra una lunga nota dei violoncelli
che attaccano una frase riboccante di dolore si apre il velario per il secondo quadro.
La seconda parte del terzo atto contiene il canto bellissimo di Romeo: Ma le fredde mani
or sui capelli tuoi voglio posare, ma nell’insieme appare un po’ lungo. La morte si trascina
pesantemente. Il successo sarebbe stato – e sarà certamente – maggiore se questo quadro si
ridurrà di molto nella proporzione di una brevissima scena.
Alla chiusa si hanno sette, otto chiamate.
L’atto intero dura 50 minuti. Poco prima di mezzanotte lo spettacolo è terminato.
L’opera d’arte
Giulietta e Romeo è opera di un raffinatissimo conoscitore della tecnica armonica e
istrumentale e di un artista a cui la difficile arte dei suoni non serba più alcun segreto. Il
maestro Zandonai è soprattutto un sinfonista, oltre che essere un melodista. Adopera
l’orchestra con una mirabile padronanza e con una pittoresca varietà di ritmi e d’impasti, nei
quali invano si cercherebbe l’imitazione di chicchessia. Egli si è sempre affermato e specie in
questa opera con una personalità spiccatissima. All’orchestra fa dire quel che lui vuole, e
sempre con una mirabile signorilità di disegno e di colorito. Poter conoscer come lui conosce
la tecnica, maneggiare gli strumenti con quella finezza impeccabile e con quel costante
equilibrio di cui si dimostra maestro assoluto, respingere ogni lusinga di effetto volgare sono
già doti che pongono un musicista tra i primissimi. Anche là dove la finzione del
melodramma porterebbe inevitabilmente ai soliti effetti oleografici egli sa infondere
all’insieme una tale signorilità di linee e tale aristocratica delicatezza di movimento che
suggestiona.
Sentendo ieri sera Giulietta ripensavo ad uno studio di un valoroso e simpatico nostro
collega, studio apparso parecchi anni orsono, e nel quale si affermava – cosa allora un po’
3.1.5/40
azzardata ma oggi giustissima – che il futuro genio dell’opera italiana dovesse essere colui
che potesse riunire in sé le qualità di melodista e di sinfonista.
L’opera italiana ha portato all’apogeo l’arte del canto con tutta la sua forza espressiva, ma
ha difettato di quella sinfonia che è il riflesso della mistica vita interiore. Il genio dell’opera
ventura dunque – secondo lo scrittore – avrebbe dovuto essere un cantore per istinto, ma un
cantore appassionato; e insieme un sinfonista per destino, ma un sinfonista alato e incantatore
con la malìa dei suoni. E fondendo queste due qualità avrebbe potuto così creare l’opera di
bellezza, l’opera d’arte per se stessa armoniosa di musica e di poesia, esaltandosi nell’estasi,
cantando, sinfonizzando la sua e la nostra anima.
A queste parole profetiche pensavo ieri sera ascoltando la smagliante sinfonia orchestrale
di Giulietta e il suo canto intimo, profondo, non a grandi linee ma sempre aristocratico e
convincente per chi penetri in questa speciale atmosfera canora.
Il futuro genio preconizzato dal collega molti anni fa è sorto con Riccardo Zandonai? È
forse dunque questa Giulietta un capolavoro?
Non ancora: ma certo soltanto da siffatte tempre di artisti possono sorgere i capolavori.
Non un capolavoro perché il capolavoro è così vicino alla perfezione che non deve avere
difetti.
In Giulietta v’è un eccesso di sonorità. Il duetto d’amore al primo atto, specie la seconda
parte che avviene nel balcone quasi nell’interno della casa di Giulietta ad un passo dalla sala
ove ha luogo il ballo, raggiunge una vera frenesia del forte. E si noti che esso si inizia con la
raccomandazione della fanciulla: Parlate piano, a cui risponde Romeo: Piano, che tu sola, tu
sola oda Giulietta, ma poi il musicista a poco a poco si lascia andare dalla foga melodica e
non conosce più freni, fino a giungere ad una strapotente sonorità vocale ed orchestrale. È
vero che il melodramma è tutto una finzione, ma vi sono pur cose che occorre guardare, che il
pubblico nota.
Eccesso di sonorità ritroviamo nell’intermezzo. Dopo le prime battute fortissime
dell’attacco, lo Zandonai avrebbe potuto portare al “piano” la sua orchestra e poi aumentare a
poco a poco d’intensità con grande e sicuro effetto. Così al contrario si è trovato a dover
sostenere un fortissimo con grave pericolo, e dal quale si è salvato solo per la sua enorme
perizia sinfonistica.
All’ultimo atto la scena della morte è troppo lunga. Il lungo canto di Giulietta, dopo la
catastrofe, rallenta l’azione – pur essendo bello ed ispirato – e distrae l’attenzione. Oramai
tutto è compiuto e la fine deve precipitare. Il canto interno perde di efficacia se ripetuto, come
è ora, due volte. Un buon taglio rimedierà ogni cosa. Altro taglio occorre al duetto troppo
lungo ed enfatico tra Tebaldo e Giulietta al secondo. Ed un altro al terzo all’entrata del
Cantastorie.
Riccardo Zandonai ha fatto un’opera pregevolissima, che pur attraverso i difetti che
abbiamo esposti con la consueta sincerità si fa ascoltare con vero godimento estetico e che
non stanca mai. Constatiamo con piacere e soddisfazione che oggi vicino a Francesca esiste
per l’arte un altro melodramma nobilmente scritto ed ispirato, e per il pubblico un’altra opera
italiana bella e convincente.
La esecuzione
Poche parole per la esecuzione che è stata come meglio l’autore non avrebbe potuto
immaginare e sperare per l’opera sua.
Gilda dalla Rizza ha dato al personaggio di Giulietta il contributo della sua intelligenza e
della sua voce bella e dolcissima e fu festeggiatissima col tenore Fleta, artista sicuro, preciso,
3.1.5/41
dotato di voce bella, facile negli acuti e calda nelle note centrali. Nella sua parte faticosa e
lunga ha mostrato una invidiabile resistenza.
Carmelo Maugeri ha dato alla rude parte di Tebaldo tutta la voluta linea d’arte. È cantante
sicuro, di buona voce e di efficace dizione.
Intorno alle parti principali voglio ricordare quelle delle parti secondarie, e prima fra tutte
quella del Cantastorie che Luigi Nardi ha reso da vero e grande artista. Il Nardi è eccellente
sempre, e di lui diremo che lo Zandonai l’ha dichiarato insuperabile.
E poi voglio notare la Porter, che ha cantato e agito molto bene nella parte di Isabella, e la
Torelli (una donna), il Calai [sic], il Piccheiro [sic], il Besanzoni, il Fiore.
L’orchestra ha suonato magnificamente sotto la direzione dello Zandonai, concertatore
eccezionalissimo.
Bene i cori istruiti dal maestro Consoli.
Le scene e gli effetti luce e i vestiari bellissimi.
L’opera avrà certamente molte repliche a cominciare da domani giovedì.
194
Bruno Barilli, “Giulietta e Romeo” di Zandonai al Costanzi, «Il Tempo», 15.2.1922 - p. 3,
col. 2-3
Anche questa volta, e per un’abitudine disperata, ci siamo ridotti a scrivere là sul posto
queste note di cronaca a zig-zag sulla première di ieri sera. Assumiamo frettolosamente e con
molta paura, al cospetto dei carabinieri di servizio in alta tenuta, le funzioni di un esaminatore
e di un giudice patentato. Ormai non c’è più tempo a riflettere, dobbiamo rinunciare ai
consigli della notte, della coscienza e della prudenza; non ci si dica di ordinare queste nostre
impressioni, di ripulire e di rassettare tutto il materiale confuso ed irto delle nostre reazioni,
di pesare le parole e di risolvere i dubbi; senza por tempo in mezzo s’ha da portare al giornale
qualche cosa su quest’opera nuova di Zandonai, e dobbiamo correre con tutto quel che di
crudo e di aspro abbiamo potuto strappare alla recita per rovesciarlo, con tutto il risentimento,
nel pentolone dove già bolle, si gonfia e stagna minacciosamente il piombo della tipografia.
Abbiamo la disgrazia di sedere, al Costanzi, in una poltrona che rientra nella giurisdizione
territoriale degli ottoni, dei timpani e della gran cassa; ma finora la cosa poteva andare e non
avevamo fatto gran caso di tale prossimità e di tale sudditanza: non si poteva dire che il loro
fosse un regime di oppressione e di violenza. Questi istrumenti che, vigilati e ammoniti dai
compositori contemporanei, s’erano fatti nell’ultimo secolo tetri e silenziosi, così che li si
poteva considerare da vicino come degli originali misantropi e innocui, scatenarono
improvvisamente ieri sera un tale baccano pieno di rancori da rendere quasi impossibile il
nostro lavoro di segnalazione. I tromboni si azzuffarono, per una nota, come cani intorno a un
osso, le trombe si inerpicarono leste sugli acuti strillando a perdifiato e i timpani si gettarono
rotoloni fra i litiganti percuotendo alla cieca con una tempesta di botte tutto e tutti. Noi
stringevamo con angoscia i bracciuoli della nostra poltrona senza sapere veramente più se
dall’altra parte dell’orchestra si sparassero fucilate, pistolettate o se la legione degli archi
fosse stata lanciata anch’essa all’attacco: una nebbia ardente sembrava invadere il teatro e fra
gli spari confusamente ci pareva di scorgere dei violini e dei clarinetti proiettati contro le
pareti e contro il soffitto come da un ciclone distruttore. A volte, nel frastuono, il quadro si
allargava e ci pareva di vedere anche Riccardo Zandonai trascinato e sospinto dalla routine,
rovinato dal mestiere, scrivere e scrivere correndo pagine su pagine, note su note a castelli, a
città, che nella fuga forsennata crollando dallo spartito si spargessero grandinando intorno,
3.1.5/42
come chicchi di grano turco, mentre l’orchestra intera e parecchi amatori con l’urgenza
comica dei tacchini affamati lo inseguivano beccando a destra e a manca ingordamente tutto
quel ben di Dio istrumentale.
Anche noi malcapitati, indotti dal nostro dovere di cronisti, ci siamo precipitati sulle sue
tracce perdutamente. Sentivamo via via, attraverso un garbuglio elaborato
approssimativamente al di fuori e dentro tutto pieno di vecchi arnesi dell’ortopedia musicale,
di grossi trappoloni, di tagliuole arrugginite e di reti luride e marce entro le quali avrebbe
dovuto incappare in massa la gente poco informata e senza indirizzo, sentivamo un lezzo
intollerabile venir su dalle rimasticature infracidite che coprivano a mucchi tutto il fondo del
lavoro. Gli artisti, costretti a muoversi sopra una intavolatura di armonie fraintese, malsicure,
rabberciate e sbilenche, si spingevano verso il pubblico urlando disperatissimamente come se
noi spettatori si stesse in ascolto dall’altra parte del canale della Manica; l’orchestra, simile a
un battello caricato male, strapiombava tutta dalla parte degli istrumenti di banda e qualche
volta affondava di peso scomparendo: allora in quella pausa disastrosa e gravida d’incertezza
era possibile di veder apparire, tristi e incappucciati come misteriosi mendicanti sulle
cantonate, gli espedienti scaduti e venerabili del basso melodramma, quelli che nel linguaggio
abulico degli impresari si chiamano gli effetti teatrali.
A buon conto noi abbiamo fatto tutte le ricerche possibili, frugando con gli sguardi e con la
punta del bastone in ogni angolo di quest’opera nella speranza di scoprire un documento di
identificazione, un’impronta riconoscibile, ma purtroppo non ci è stato dato di trovare un solo
indizio di autenticità, nemmeno quella zampa del leone affumicata che ogni discreto
compositore tira fuori nei momenti oscuri e difficili.
Ragionevole, energico e bonario, senza fisime e senza fantasia, Zandonai ha il colpo
d’occhio e la serietà positiva d’uno chaffeur meccanico; prodigioso di attività e largo d’amore
verso coloro che gli somigliano, egli costituisce oggi la più spiccata impersonalità del mondo
lirico; capo fila e guiderdone sicuro di tutti i mediocri, egli esce volentieri dalle sue schiere
per contribuire con tutta la sua praticaccia al già avanzato decadimento dell’opera italiana.
Naturalmente a questo suo tipico e fortunato programma non è mancato e non mancherà mai
anche l’adesione ufficiale e l’appoggio autorevole del nostro Governo. I suoi più sfegatati
sostenitori lo proclamano già immortale, mentre egli dimostra chiaramente anche in questa
Giulietta e Romeo di non volerne sapere: ogni volta si promettono di lui cose straordinarie
che egli tranquillamente non mantiene; gli cacciano la celebrità su per le scale di casa e gliela
spingono fino dentro al suo studio: egli allora, invece di abbracciarla e di tenerla stratta, apre
la finestra e la licenzia, come uno che non ha tempo da buttare.
Si dice un gran bene delle sue qualità di colorista, ma, a parer nostro, questi suoi pregi
speciali sono del tutto esteriori e quindi ordinarii e banali, del resto fin qui niente di male; in
quanto all’amore tra Romeo e Giulietta, l’amore Zandonai non lo può certo inventare. Il
primo quadro dell’ultimo atto si apre molto bene e si svolge caldo e naturale fin che non lo
guasta l’intervento di Romeo. Il brano istrumentale più rilevante e più organico è quello
cosiddetto della cavalcata, brano molto rumoroso, poco originale, probabilmente bolso, ma
purtuttavia plausibile e costruito su una intavolatura solida, ma in fatto di brani istrumentali
suoi conosciamo di meglio, di molto meglio, come la Primavera in val di Sole, e anche sotto
certi riguardi la suite «Patria lontana»; ci vien fatto allora di pensare che questo autore abbia
più attitudini per il genere sinfonico che per quello teatrale e vocale in genere.
A noi sembra che il taglio discreto e minuscolo di qualche atto e la soppressione di alcuni
elementi troppo decorativi e superflui come i due personaggi Romeo e Giulietta a vantaggio
di una maggiore attività scenica e musicale aggiungerebbero snellezza e interesse a
quest’opera tanto desiderata e punto ottenuta.
3.1.5/43
Il teatro era affollato in ogni ordine di posti dal pubblico imponente delle grandi occasioni.
L’opera, concertata e diretta con grande sicurezza dall’autore stesso e inscenata
egregiamente dal comm. Clausetti della Casa Ricordi, ottenne un’esecuzione eccellente e un
successo assai lusinghiero. Il maestro Zandonai venne evocato entusiasticamente e fu
costretto a presentarsi insieme a tutti gli artisti e poi solo sei volte dopo il primo atto, tre dopo
il secondo e otto alla fine del terzo ed ultimo atto.
Anche per il librettista, Arturo Rossato, le accoglienze furono calorosissime.
Non possiamo, per la ristrettezza del tempo, parlare dei meriti eminenti di ogni artista: tutti
sostennero la loro parte con grandissimo valore. Gilda Dalla Rizza, Giulietta, Michele Fleta,
Romeo, il baritono Maugeri, Tebaldo, il grande e impagabile Nardi, il tenore Palai e tutti gli
altri che ora non ricordiamo vorranno perdonarci se per brevità omettiamo quasi la cronaca
dell’esecuzione. Anche i cori e l’orchestra assolsero benissimo, presto e con grande slancio il
loro arduo compito. Le scene brutte ma appariscenti e l’insieme sfarzoso dello spettacolo
vennero molto ammirati.
195
a.d.d., “Giulietta e Romeo” di R. Zandonai, «La Voce repubblicana», 16.2.1922 - p. 3, col. 12
La tragedia
Arturo Rossato deve avere avuto la preoccupazione, nell’accingersi a sceneggiare un
libretto sulla leggenda tragica degli amori di Giulietta Capuleti e Romeo Montecchi, di fare
del teatro. Quindi movimentare scene, preparare con alcuni episodi di ambiente i duetti dei
protagonisti, ed essere alquanto vario. Con questi intenti, quali a noi appaiono, il poeta è
riuscito a fare il suo libretto, non brutto e non bello, non volgare e non nobile, sufficiente a
servire da guida al musicista che cercava cimentarsi con un altro famoso soggetto, dopo la
Francesca.
Ma proprio per questo il poeta ha stemperato e quindi diminuito il pathos di una leggenda
d’amore, consacrata dalla fresca fantasia dei novellieri italiani e dalla poesia oceanica di
Guglielmo Shakespeare. Rifare per il teatro lirico Giulietta e Romeo doveva significare per
un poeta che abbia squisita sensibilità moderna fare opera di sintesi e di interpretazione
insieme. E quindi fare un’opera un po’ soggettiva, anzi il più soggettiva possibile, circoscritta
dalla cornice del tempo quanto basti per la rievocazione ambientale.
Una tragedia del genere perciò non può essere che un’opera di stile, assolutamente, perché
è puerile la ricostruzione meccanica della cronaca del tempo narrata dai novellieri, ed è
paradossale la pretesa di accostarsi o di superare Shakespeare, il volgare e il sublime di
Shakespeare.
Arturo Rossato è rimasto dunque nei limiti della esteriorità e non si è curato di scavare nel
vasto palpitare del desiderio, della fedeltà tenace, del dolore, della disperazione degli
innamorati. E di conseguenza non sono balzate dalla cornice dei quadri le persone della
tragedia, la loro decisa individualità, la loro carnale e spirituale vita inconfondibile con le
figure secondarie.
Una specie di piatto livellamento costringe tutti ad obbedire alla rotazione meccanica delle
scene, e non basta, per il necessario rilievo, [in modo] che una scena duri più dell’altra, che
un duetto d’amore sia più prolisso di una mischia fra Capuleti e Montecchi: del grande fatto
che superi e sovrasti alle piccole cose banali della rissosa esistenza delle fazioni medioevali.
Grandezza in profondità, insomma, non in estensione.
3.1.5/44
La vastità della tragedia shakespeariana è tutta qui. Episodica, frammentaria, disparata
nelle proporzioni ma vertiginosa nel volo lirico, quando Giulietta e Romeo, quasi
transumanati, sono rapiti dall’estasi del loro amore. Viceversa il libretto di Arturo Rossato,
pur rispettando un certo ritmo architettonico, ci ha riprodotto la storia di due innamorati
qualunque, che invece di appartenere alle due famiglie rivali di Verona potrebbero essere i
modesti e capricciosi figlioli di due famiglie dei nostri giorni di un contado di Sicilia o di
Sardegna tra le quali non corre buon sangue per un prosaico contrasto di interessi. E di fatti,
dov’è l’odio fra Capuleti e Montecchi? è tutto in Tebaldo, legnoso, piatto, opaco personaggio,
che non giustifica il motivo della sua accigliata e rigorosa tutela su Giulietta, nemmeno con la
umana gelosia. Ma il musicista, scegliendo il suo poeta, ha messo in pace le sue aspirazioni e
si è accinto di buona lena al lavoro.
La musica
Riccardo Zandonai al folto pubblico del Costanzi, che lo ha accompagnato finora con
molta simpatia nei suoi passi circospetti e volonterosi lungo il difficile cammino dell’arte, è
apparso ieri sera uguale a sé stesso. E non esitiamo, quindi, a definirlo inferiore: perché
questa volta il musicista della Francesca d’annunziana doveva veramente dirci una parola
nuova, doveva rivelarci il tesoro della sua lirica, che finora sembrava gelosamente custodito e
soffocato nel cofano prezioso della ingegnosa tessitura sinfonica; doveva scoprirci la sua
anima canora, attutita dalle sonorità, spesso assordanti.
Si era detto infatti che Riccardo Zandonai, studioso e assimilatore intelligente della tecnica
moderna, paziente raccoglitore d’impressioni ritmiche, agile strumentatore e robusto
costruttore di impasti orchestrali, con Giulietta e Romeo si sarebbe un po’ abbandonato
all’estro, all’ispirazione. La scelta stessa del soggetto doveva significare il bisogno di
sprigionare il canto che da tempo gorgogliava nella compressione della tecnica. Ma purtroppo
anche questa volta il canto libero, avvincente, è rimasto rinchiuso ostinatamente nel petto di
Riccardo Zandonai.
Il primo atto possiamo dividerlo in due parti: quella corale, con la mischia fra Capuleti e
Montecchi, e quella duettistica, fra Giulietta e Romeo. La musica descrive con una certa
freschezza di tocco ed una bella efficacia di colorito il passaggio delle comitive mascherate e
si empie di festose sonorità nella rissa fra le fazioni. Il movimento delle masse è però senza
impeto di collera popolana e senza una virile asprezza. Quando compare la ronda, vediamo le
fazioni confuse insieme dileguarsi sotto lo stimolo della paura che sembra placarle. A nostro
giudizio, l’aver voluto affidare all’orchestra il compito di esprimere l’urto delle fazioni
piuttosto che alle stesse voci della folla costituisce un errore di prospettiva che doveva essere
evitato dopo il monumentale esempio offerto da Riccardo Wagner con la baruffa del secondo
atto dei Maestri Cantori. Il grande sinfonista ha saputo far cantare i varii gruppi del coro, con
una spiccata individualità di ciascuno, affidando all’orchestra un sobrio comento
complementare. Il primo duetto di Giulietta e Romeo, che culmina nella scena del bacio, ha
un certo sapore di sana poesia che lascia sperare un ulteriore sviluppo melodico. Siamo
ancora agli spunti, al caldo fraseggio che ha timidezze e incertezze di volo. La linea del
duetto è limpida, sicura; le modulazioni riescono gradevoli, e per quanto il pubblico si aspetti
il sospiroso cinguettio di due anime ingenue e rapite, la voce di Giulietta prorompe invece
con accenti virili. L’atto nel complesso è accolto con un certo favore, e l’aspettazione
vivissima del pubblico non è delusa. Autore e interpreti vengono chiamati quattro o cinque
volte al proscenio. Nell’intervallo i commenti sono disparati, ma i favorevoli superano i
contrari. Il musicista già noto ed apprezzato è apparso più disinvolto, più sicuro negli abbozzi
descrittivi e più amico del bel canto che sembra sicuramente annunziato.
3.1.5/45
Il secondo atto si inizia con una gioiosa scena, ma le allegre comari di Verona che
circondano la malinconia di Giulietta non si divertono sul serio e non divertono il pubblico.
L’entrata di Tebaldo non suscita alcuna impressione, il seguente duetto con Giulietta è
piuttosto grigio. Il duetto fra Giulietta e Romeo fa declinare le speranze riposte ascoltando
quello del primo atto. Siamo dinanzi ad un dialogo musicale; il canto ancora non si snoda, la
melodia non fiorisce, la passione non diventa musica che prorompe, e il pubblico resta freddo
dinanzi all’artificioso calore degli innamorati. Il duello fra Tebaldo e Romeo che ripete una
situazione del primo atto, con lo sfondo esterno di un’altra zuffa fra Capuleti e Montecchi,
non suscita alcuna emozione.
Il finale si appesantisce nel ritmo funebre del coretto che accompagna la salma di Tebaldo,
e l’atto si chiude senza suscitare sincere e nutrite approvazioni. Altre quattro o cinque
chiamate all’autore e agli interpreti, lievemente contestate.
Il terzo atto si divide in due parti. La prima, chiassosa e movimentata, è piuttosto
ingombrante ed estranea all’economia della tragedia. La notizia della morte di Giulietta, che
Romeo apprende da un cantastorie girovago, non persuade nessuno, per quanto la nenia
cantata con bella espressione dal tenore Nardi sia accolta favorevolmente.
La cavalcata è fragorosa e ridondante nella tessitura sinfonica; produce un certo effetto ma
non costituisce una bella pagina, presa a sé.
Le ultime speranze sono ormai affidate alla scena finale. Romeo dinanzi alla cappella
funebre che racchiude il corpo di Giulietta addormentata si abbandona ad un declamato senza
alcun particolare rilievo. Il risveglio di Giulietta, il duetto, la lunga morte di Romeo, l’alba
che bacia i corpi degli innamorati adagiati nella pace senza fine formano una successione di
ritmi, di spunti melodici, di frasi non sviluppate. L’attesa melodia non è più venuta, la
promessa del canto più volte annunziata durante gli episodi della tragedia non è stata
mantenuta.
La nuova opera di Riccardo Zandonai è dunque povera di idee, ossia di melodia. L’amore
di Giulietta e Romeo si esprime col più irresistibile lirismo, non con i quadretti di genere. Il
musicista ha indugiato intorno ai particolari, ha impiegato molto del suo tempo prezioso nelle
rifiniture marginali, ma ha dimenticato l’essenziale: il volto e l’anima dei protagonisti.
L’esecuzione è stata pregevole. L’orchestra, diretta con paterno amore da Riccardo
Zandonai, ha suonato splendidamente. Gilda Dalla Rizza ha confermato la sua fama di
poderosa cantante e di interprete efficace. Il tenore Fleta ha impiegato la ricchezza della sua
voce e le sue risorse sceniche ad animare la figura di Romeo. Il baritono Maugeri, un po’
impacciato e legnoso nei panni di Tebaldo, ha reso con brutale efficacia la sua parte vocale.
Bene i cori. Di dubbio gusto gli scenari, specialmente nel secondo atto.
Quando lo spettacolo è finito il pubblico si è maggiormente diviso negli apprezzamenti e
gli ottimisti sono stati sopraffatti. Forse è necessario tornare ancora sulle nostre osservazioni.
196
L. T., “Giulietta e Romeo” di Zandonai al Costanzi, «Il Popolo romano», 16.2.1922 - p. 4,
col. 2-3
Emma Carelli era raggiante.
Perché?
Per il rumoroso, strabiliante, sesquipedale successo di Zandonai? No. Per il suo. Che retata
d’oro ieri sera! Come ha fruttato la paziente reiterata insistente battuta di gran cassa di questi
giorni nella compiacentissima stampa cittadina e come ha portato il suo frutto.
3.1.5/46
«Lo Tesoro comenza dal dì che la réclame fiorio e fece frutto», direbbe anche Brunetto
Latini.
Noi non ci siamo prestati al giuoco e a qualcuno che ce lo ha rimproverato abbiamo
risposto che la critica si deve farla dopo lo spettacolo e non prima.
Il pubblico ha dunque, dicevamo, decretato a «Giulietta e Romeo» tale un subisso di
applausi tra ammaestrati e sinceri che il Costanzi ne ha tremato dalle basi ai fastigi.
Da molto tempo non eravamo abituati a tali manifestazioni assordanti di giubilo e di
ammirazione. Tal che sembrarono tepidi perfino gli applausi che salutarono l’apparire del
Principe Ereditario (come abbiamo sentito, o Bellezza5, la nostalgia di te che solo sai con così
invitta fede dirigere la Marcia Reale!). Non per nulla abbiamo insistito su questa fragorosità
di consenso della folla alla nuova opera di Zandonai perché mai il dissidio tra il così detto
“successo di pubblico” e il valore intrinseco del lavoro rappresentato ci è parso così aspro e
stridente: perché se il pubblico (claque a parte) ha voluto significare al maestro Zandonai che
egli ha compiuto opera vitale e nuova d’arte, noi dobbiamo recisamente affermare che opera
d’arte non è ma di mestiere, e che nuova non è ma decrepita, e vitale non è ma così bene e
definitivamente morta, invece, che non rimane che cantarle il “de profundis” doloroso, “de
profundis” più forte per noi che per Zandonai stesso poiché egli è, beato lui, uno di quegli
uomini che credono nella propria infallibilità artistica malgrado tutto e malgrado tutti.
Non per lui dunque ma per questa nostra povera arte melodrammatica travagliata
scriviamo queste frettolose note di critica, come il tempo e lo spazio ci consentono:
schematicamente.
Le ragioni che hanno fatto di questa «Giulietta e Romeo» una infelice creatura inadatta alla
vita sono essenzialmente due: la prima è che Zandonai non vede il melodramma. Egli, uomo
d’analisi, non sa concepire che episodii musicali; cieco per la virtù sintetica (virtù superiore,
comune a pochi ingegni, riservata per lo più ai genii) egli non sa concepire altrimenti
un’opera che come una sequela di episodii uniti in ordine cronologico e separati l’un
dall’altro da piccoli asterischi armonici puramente decorativi.
Il “pahtos” [sic] sentimentale o tragico del tutto non lo riscalda e non lo travolge.
Capace di miniare con meticolosa cura un volto nei suoi più piccoli particolari di
armoniosa estetica, egli non sa invece determinare i rapporti di ombra e di luce e cioè di
verità e di vita che questo volto deve assumere nello sfondo del quadro per appartenergli, per
essere parte del tutto, per non apparire una decalcomania piatta ed insipida appiccicata da un
fanciullo che ignori anche ogni legge di prospettiva su una veritiera immagine di paesaggio
ritrovata sul cassetto del babbo. Per Zandonai il babbo è ancora e sempre Mascagni.
Ed ecco venuto così senz’altro il momento di parlare della seconda ragione per cui l’ultima
(ultima?) opera di Zandonai è nata senza ragioni di vivere in sé e per sé.
Imitazione contorta, imitazione incompleta e faticosa dell’estetica Mascagnana ormai
sorpassata, essa ha tutti i difetti di questa mentre ne ha contraffatte le virtù innegabili di
sincerità e di buona fede per servire a scopi perfettamente antitetici alle intenzioni del
Maestro. Così quello che era in lui esuberanza romantica ma musica non artificiosa diviene
qui blaterazione vacua e pretenziosa, pleonastica e vana di sviolinate cui la prudenza di
sapienti cesure non riesce a togliere il carattere pedestremente retorico che a loro ha dato vita.
Vita effimera, buona soltanto a far vibrare di consentimento quella inferiore coscienza
emotiva del pubblico grosso che il Phluger [sic] chiama giustamente coscienza spinale.
Ricapitolando dunque:
5
Il direttore Vincenzo Bellezza.
3.1.5/47
Episodi lirici ricamati senza gusto e senza scopo su un vecchio canovaccio tecnico ed
inspirativo.
Con tutto ciò non si deve né si può negare allo Zandonai la qualità di ottimo strumentatore,
inteso nel senso accademico della parola e di esperto armonizzatore del periodo melodico.
Anche questo inteso nel senso professionale della parola. A riprova di questo indichiamo
quella famosa cavalcata che permette – a sipario calato – il lavoro dei macchinisti per il
mutamento della scena e che è nei riguardi sopraddetti una eccellente pagina musicale in cui
l’onomatopeia del galoppo riesce quasi ad eguagliare tecnicamente quella del meraviglioso
verso latino:
«Quadrupedante putrem quatit sonitu ungula campum...»
Ma a quale capolavoro di tragicità è mancata la forza in Zandonai dinnanzi a questo spunto
– l’unico buono del libretto – che il poeta Rossato aveva porto al musicista.
Ebbene in questo Zandonai non ha saputo che sorprendere il ritmo di uno zoccolo ferrato
che batte la terra.
Non ha sentito il galoppo della tragedia incalzante. Non ha sentito che Shakespeare era
presente: ha visto semplicemente lo starter del Campo dell’Ippodromo dei Parioli. E gli ha
dedicato senz’altro la sua onomatopeia musicale.
«Non sic – Zandonai – sic itur ad astra».
197
m[atteo] i[ncagliati], “Giulietta e Romeo” di Zandonai al Teatro Costanzi, «Il Piccolo»,
15.2.1922 - p. 4, col. 2-3
Un teatro magnifico per la prima della Giulietta e Romeo di Riccardo Zandonai.
Tornammo iersera al tempo in cui un’opera nuova destava così intensa curiosità e così vivo
interesse da rendere possibile giustificare in teatro “partiti” pro o contro l’autore. Ma le
vicende di Giulietta e Romeo per la sua stessa natura fatta di ingenuità e di poesia si svolsero
in una pace serena, salvo alla fine un tentativo di pugilato in loggione.
Quali siano i pregi e quali i difetti e come l’ultima scena, quella del sepolcro di Giulietta,
non sia stata colta e realizzata dalla fantasia del musicista e che fu dal librettista Arturo
Rossato svolta in un vano e prolisso avvicendarsi di parole e di imagini – diremo stasera6.
Poche note di cronaca varranno a segnalare l’ambita vittoria conseguita dal musicista
illustre. Dei tre atti il primo fu coronato da una entusiastica acclamazione che si rinnovò
ripetutamente ad ogni evocazione alla ribalta dell’autore. Il primo atto è quello nel quale
signoreggia il duetto d’amore che ha potenza di suggestione, così come nella prima parte è da
segnalare la zuffa tra i Capuleti e i Montecchi caratteristicamente disegnata vocalmente e
strumentalmente con una sonorità che non è vuota né enfatica ma piena di musicalità – e son
da tenere in pregio tocchi di colori bene appropriati all’ambiente; la Mascherata, musichetta
da ballo, voci notturne, cantilene, stornellate.
Zandonai appare cinque volte al proscenio prima con gl’interpreti, poi da solo.
Il secondo atto si distingue per un duetto tra Giulietta e Romeo in cui la vena limpida del
musicista scorre con grazia quasi fanciullesca e per il grido angoscioso di Romeo, dopo
l’uccisione di Tebaldo. Il velario si chiude e la sala prorompe in un caloroso applauso. Il
Maestro ha tre chiamate.
6
Forse Incagliati allude qui al suo articolo, ben più esteso nell'analisi, che comparirà il 16.2.1922 sul «Giornale d’Italia» (cfr. n.
188).
3.1.5/48
Il primo quadro del terzo atto risuona tutto della melopea del Cantatore – la pagina ispirata
che pubblicammo l’altra sera sul Giornale d’Italia. E poiché l’interludio non consente pausa
la tragedia va oltre. E siamo al quadro ultimo, del quale parleremo a lungo stasera. Alla fine
Zandonai è evocato alla ribalta otto volte.
[NOTA: l’articolo da qui in avanti è uguale – con solo qualche piccola modifica e
soppressione – a quello, dello stesso Incagliati, sul «Giornale d’Italia» del 16.2.1922 paragrafo “Lo spettacolo - gl’interpreti” (cfr. dietro, n. 188]
198
R[oberto] Forges Davanzati, “Giulietta e Romeo” al Costanzi, «L’Idea nazionale», 16.2.1922
- p. 3, col. 1-2-3-4
Riccardo Zandonai ha portato egli stesso a battesimo la sua nuova opera, ma la paterna
passione d’autore non ha fatto dubitare o tremare la bacchetta del direttore, che è stata sicura
e incitatrice sino alla fine dello spettacolo. Questo voluto diretto cimento non era in verità
audacia verso un pubblico dimentico o arcigno di volontà sentenziatrice. Ché anzi il primo
applauso all’apparire del maestro è stato di buon augurio, è stato il meritato saluto
amichevole all’autore e direttore di Francesca da Rimini che aveva italianamente e
festosamente schiusi i battenti della stagione.
Né Zandonai sollecitava ieri sera altro paragone che con se stesso; proprio con Francesca,
cui Giulietta doveva congiungersi, venendo da un’affine leggenda di amore e morte. I
melodrammi che hanno già avuto per soggetto l’istoria degli amanti di Verona non sono vivi
nella conoscenza del pubblico; appartengono agli archivi musicali. L’infortunata parentesi
comica de La via della finestra che Zandonai ha aperta nel melodramma tragico, cui si è
volto con nobile ardore, era già fuggita dalla memoria di quanti l’avevano ascoltata due anni
fa sulle scene del Costanzi. Viva e presente nel pubblico, come antecedente di Giulietta, era
Francesca.
Gli applausi fervidi che hanno salutato la fine del primo atto; quelli particolari che hanno
ripetutamente chiamato l’autore alla ribalta; il consenso plaudente mantenuto dopo il secondo
e il terzo atto, persuadono a ritenere che il pubblico, piuttosto che fermarsi ad un insistente e
severo paragone, si sia volto in favore di questa Giulietta quasi sospinto e accompagnato dal
grato imminente ricordo di Francesca. E quando un autore s’aiuta per se stesso per affinità di
sue creature d’arte, per affetto e rispetto di pubblico conquistati con un proprio modo di
sentire e di esprimersi, e raccoglie intorno alla sua nuova opera un plauso cordiale anche se
non entusiastico com’è stato ieri sera, vuol dire che, fra tanta incertezza e fugacità clamorose
di musica contemporanea e cosmopolita, c’è un segno d’intesa, un comune desiderio fra
pubblico e autore di volgersi senza diffidenze ma con un patto d’amistà ad un’emozione
d’arte particolare, significativa come quella cercata dal maestro Zandonai e per la quale egli
ha già ottenuto una schietta simpatia del pubblico.
Questa simpatia non è stata, ieri sera, nella sala colma del Costanzi, raffreddata dalle
immancabili preoccupazioni di un primo giudizio, che oramai, per gli sforzi tenaci
dell’impresa assicurante al massimo teatro della capitale le primizie più importanti, ha
assunto una minacciosa solennità nazionale e, pel teatro lirico, mondiale. S’è mantenuta viva
anzi, anche quando l’azione mancava o illanguidiva come nel secondo atto o nell’ultimo
quadro. Il pubblico non ha abbandonato mai l’autore, anche quando l’autore sembrava
abbandonasse lui, e non era, ché Zandonai cerca tenacemente, con ostinatezza montanara, il
3.1.5/49
senso teatrale; ma l’ispirazione abbandonava l’autore, lasciandolo alle prese con una passione
semplice e vasta come quella di Giulietta e Romeo, e che può essere riempita e agitata
soltanto da colme ondate di melodia. Il pubblico è stato fedele, grato quando alcuni episodi
come l’irrompere dei famigli e delle fanti dopo l’uccisione di Tebaldo giungono opportuni a
liberarlo dalla stanchezza; o come il quadro animato del piazzale di Mantova e l’arrivo del
Cantastorie gli dànno riposo e conforto e, nel grido di Romeo, gli dànno quella commozione
sia pure fugace che invano ha atteso dalla passione dei due amanti.
Questa simpatia, questa fedeltà degli ascoltatori, che potevano essere stravolti da qualche
insistenza inopportuna degli applauditori di professione, sono senza dubbio il segno più
caratteristico del successo di ieri sera, conquistato anche da un’esecuzione veramente
eccellente, che ha dato la misura dell’opera.
Da quando Romeo appare, mascherato, a far tacere la rissa dei Capuleti e Montecchi e
risponde con un’accoratezza wagneriana alle aspre provocazioni di Tebaldo, fino alla morte
attraverso gli accenti di dolcezza e di disperazione, il canto del tenore Fleta è stato fluido,
appassionato, melodico anche là dove l’espressione cedeva all’enfasi d’un’alta tessitura. E
tutta la poesia dell’improvviso, fremebondo affacciarsi di Giulietta al verone, subito dopo che
la scolta ha fugato i rissanti e messa una nota di pace nella quiete antelucana, è stata espressa
dalla voce rotonda di Gilda dalla Rizza, che riesce a serbarle note d’innocenza e di grazia
pure nel travaglio cui è costretta dalla esasperazione canora, cara purtroppo ai musicisti
contemporanei.
E se i due cantanti nulla hanno potuto aggiungere di virtù, nei loro incontri del secondo
atto e dell’ultimo quadro, ai felici accenti del primo colloquio, il colloquio del verone, non è
stata certo colpa loro. Poiché, per complicità del librettista e del musicista, questo primo
colloquio, il migliore dell’opera, segna già il climax della passione dei due amanti. È già una
vetta, da cui si discende irrimediabilmente.
Sebbene, per la naturalezza della scena, per semplice accorgimento teatrale, fosse stato
consigliabile in questo primo colloquio, infantile e ingenuo di contro a tanta violenza di odii,
una dolcezza furtiva, una tenerezza intima e paurosa, il musicista non ha saputo frenarsi.
Dopo i primi accenti di una soavità raccolta, i due amanti perdono ogni cautela. Smemorati
del luogo e dell’ora, si abbandonano alla declamazione del loro amore, e le loro voci sono
obbligate a superare possenti quanto anacronistiche sonorità orchestrali. Tutto quello che di
eroico è nella volontà dei due giovanissimi di amarsi contro l’odio delle famiglie, e si
sovrappone all’inconsapevole, all’amabile, al piacevole di questo effetto che s’inerpica su per
la scala e si fa beffa di tanta avversità, è subito esibito in questo primo colloquio, che
contiene già quel tanto di tragico di cui è capace la non ricca vena del musicista. In questo
duetto, che è in sé il migliore, che dice tutto ma è il primo, che dice meglio ma è il primo, è
l’errore estetico dell’opera. L’amore di Giulietta e Romeo comincia e si esaurisce in questo
primo colloquio. Il dramma è concluso, per non dire annullato, in questa prima espansione
lirica, che raggiunge la solita estensione spasmodica dell’espressione musicale
contemporanea. Nella passione dei due amanti non c’è più ascensione, c’è scadimento. E la
subita ascensione del primo colloquio è tutta a danno dell’emozione che dovrebbe suscitare la
tragedia dei due giovanissimi. E la bellezza musicale del primo duetto è decorativa, esteriore,
con appena qualche ritorno di intimità nel canto di Giulietta: «Che mai sarà, che mai sarà di
noi - dolce Romeo - se l’odio e il sangue della nostra gente - così ci struggon nel furore
antico...» Non appena è placata nella cadenza melanconica della scolta la rissa degli odiatori,
si accende subito con uguali bagliori di sonorità croscianti questa fiamma di amore, in una
espressione che, volendo sollevarsi d’impeto ad altezze liriche, annulla il carattere dei
personaggi, due giovanetti che s’amano di nascosto, e si perde in una retorica canora.
3.1.5/50
Ma questa retorica è propria di Zandonai? O piuttosto essa non tiene il campo della nostra
scena lirica contemporanea, da quando la musa dell’ispirazione è imprigionata come per un
triste incantesimo e aspetta ancora il principe che la liberi e le tolga il cilicio della castità e la
fecondi con trasporto?
È stato, questo che abbiamo detto, soltanto un errore estetico o non lo ha provocato la
siccità fantastica della nostra arte e questa sua tragica necessità di mascherare l’aridità
melodica e la piattezza inventiva con l’apparenza decoratiaca [?], in un fraseggiare
ondeggiante e indefinito che fatalmente domanda soccorso all’enfasi e allo strepito? Non
abbiamo sentito come, pur con le sue non distrutte ricchezze inventive, Pietro Mascagni non
ha saputo, non ha potuto quasi serbare il carattere infantile e tenero e ingenuo dei protagonisti
del Piccolo Marat contro la cupa cattiveria dell’Orco e si è abbandonato anch’egli all’enfasi,
illuminata qua e là dalle luci d’una non morta ispirazione?
Non risolviamo i dubbi degli interrogativi. Li poniamo. Li poniamo in quanto sono,
secondo la nostra impressione, nel giudizio dato dal pubblico iersera. Non pretendiamo di
sentenziare per la posterità. Vogliamo tenerci a una fedeltà di cronisti. E appunto la fedeltà di
cronisti ci dice che l’amore di Giulietta e Romeo è tutto nel primo colloquio e che l’emozione
della tragedia non è però al secondo atto, dove la vicenda ripete in un identico contrasto il
primo; non è nemmeno nella morte, raggiunta affannosamente, dopo una elegiaca
successione di canti, senza un solo accento profondamente drammatico, ma è sentita
nell’episodio migliore dell’opera, il lamento del Cantastorie che, nel piazzale di Mantova, su
un cielo fosco di bufera, apprende improvvisamente all’esiliato Romeo per la morte di
Giulietta.
L’emozione è cioè raggiunta con elementi lirici e drammatici che sono fuori del contrasto
fondamentale dell’opera: l’amore dei due e l’odio delle famiglie. Occorre l’episodio per
darla. Occorre l’aiuto di un corale facile e colorito, della canzone del Cantastorie,
perfettamente cantata dal bravissimo Nardi, e obbligata a una definizione melodica
popolaresca e però intima e caratterizzata, perché finalmente sui lampi della imminente
bufera il grido disperato di Romeo, pallido e tristamente presago, abbia finalmente una virtù
tragica. E appena l’episodio cessa, questa virtù scompare, poiché l’intermezzo che racconta il
galoppo furioso di Romeo è un brano di indiscutibile bravura ma atrocemente esteriore nella
sua estenuante sonorità, senza alcun pathos di ispirazione.
Da quanto abbiamo detto in questa fugace quanto fedele rassegna delle sensazioni di
iersera, è ben chiaro che noi non abbiamo da muovere alcun rimprovero al maestro Zandonai
e al suo poeta Rossato, perché essi hanno osato rivolgersi alla istoria, resa celebre dalla
tragedia di Shakespeare. Nessuno ha rimproverato, e bene a ragione, il maestro trentino di
aver domandato ispirazioni musicali a Francesca, alla Francesca di Dante e di Gabriele
d’Annunzio.
Giulietta e Romeo, storia o leggenda o storia e leggenda, appartiene alla rapsodia popolare,
e può e deve inspirare, anche dopo la tragedia di Shakespeare. La quale è tutt’altro che
perfetta. Crediamo anzi che Rossato e Zandonai abbiano lasciato una strada pericolosa
abbandonando decisamente la rappresentazione del poeta inglese, irriducibile per una scena
moderna, irriducibile musicalmente con la sua varietà episodica, con la sua ingenuità
fantastica mescolata alla più artifiziosa preziosità lirica.
Ma l’aver lasciato la strada pericolosa, l’esser tornati alle fonti della prima novella che
racconti l’istoria dei due amanti non era tutto. Ci voleva altro. E questo altro, che doveva
essere una felice ripresentazione della favola, è a parer nostro mancato perché manca la
favola. Il dramma è tutto nel primo contrasto del primo atto, e Tebaldo, a malgrado della viva
recitazione del baritono Maugeri, è personaggio troppo uniforme per poter interessare quando
3.1.5/51
dovrebbe, e cioè al secondo atto. Il suo colloquio con Giulietta è nullo. Egli è soltanto una
spada, una spada furiosa, impedita di battersi al primo atto dal sopravvenire della scolta e che
finalmente si batte al secondo. Tebaldo è troppo poco per essere l’odio, ed è tutto l’odio di
quest’opera. In contrasto d’un amore che si ferma dove comincia, al colloquio del verone,
perché in realtà non comincia ma scroscia già pieno e smisurato al suo apparire.
Venuto meno il contrasto drammatico, l’opera è monca nel suo centro e si regge per
episodii. I quali hanno bisogno di movimento esterno o di suggerimenti melodici
popolareschi, come nel terzo atto, quando difettano di inventiva come quello del torchio al
secondo.
Il successo di ieri sera potrà essere aiutato da qualche opportuno taglio, e l’opera potrà
correre sul nostro teatro lirico, per il quale le speranze e le aspirazioni continuano ad essere
assai più delle gioie e delle conquiste. Certo la tragedia di Giulietta e Romeo ha un altro
cantore che si aggiunge ai passati, ma non ha ancora il suo cantore. Forse non può averlo che
nel popolo, in qualche rapsodo di strada...
199
La sala
L’ammirazione della Sala del Costanzi, nelle serate delle grandissime occasioni, è una
gioia riservata a quei pochi che sentono di star lì in quella poltrona come una quantità
trascurabile, priva di qualsiasi funzione critica o decorativa, che non deve far niente altro che
ammirare.
I critici, si sa, poveretti, vivono quelle tre o quattro ore sotto l’assillo spaventoso d’una
spada di Damocle pendente sul loro capo: l’articolo da scrivere, tanto più difficile a scrivere
quando non c’è nulla di bene e nulla di male da dire. Gli uomini, per una sera tanto, si
sentono tutti un po’ membri di un tribunale che deve giudicare così su due piedi, ed hanno
una gran fretta, ad ogni calar di telone, di scappare nel “foyer” per scambiarsi le loro
impressioni. Le signore sono preoccupate più del solito di concedere un sapiente abbandono
alla loro pelliccia, che lasci vedere e non vedere il candore delle spalle e del seno. Non
troppo, per carità! Non per un malinteso senso di pudore: ma è diventato così indiscreto e
maleducato, quel loggione!
Noi invece eravamo ieri sera nella fortunata condizione di chi non ha niente da fare.
Neppure la curiosità di conoscere la nuova opera di Zandonai. L’avevamo ascoltata alla prova
generale e, per conto nostro, ci avevamo già messo una pietra sopra. Quante pietre in questi
ultimi anni! Ne abbiamo sullo stomaco una massiccia collezione, che si sopporta solo perché
di quando in quando si riapre qualche avello che si poteva pensare definitivamente chiuso e
ne vien fuori un alito così fresco e inebriante delle musiche del passato che quelle di oggi ci si
affondano come un masso terroso in un lago sereno e cristallino. Neppure l’ansietà di far
vedere un bel “frack”, essendo il nostro troppo consumato dalle cerimonie pontificali di
questi giorni per metterlo in mostra in un così autorevole consesso di abiti da sera usciti allora
allora dalle mani perfette del più perfetto tagliatore. E neppure, infine, l’obbligo di dover
riconoscere i nomi tra tante eminenti personalità dell’arte e della politica e dell’aristocrazia,
tra tante fulgenti signore. Per questo ci sono i giornali del mattino.
Quelli che c’erano
Non c’era dunque che guardare così, cogli occhi appena velati dalla mano leggera di una
dolcissima sonnolenza, e da ammirare come in sogno. Questa mattina, riaprendo gli occhi
dopo il sonno più pesante e ristoratore, abbiamo letto che ieri sera al Costanzi c’erano tra gli
altri: il conte Cito Filomarino, ammiraglio Bonaldi, donna Maria Ruspoli, principessa
3.1.5/52
Giovanelli, marchesa di Bagno, contessa Ciriani, contessa Giannotti, contessa Bruschi Falgari
e figlia, duchessa di Castoria, donna Giacinta Del Drago, contessa Antonelli, marchesa
Spinola, contessa Lovatelli, duchessa di Terranova, contessa Serristori, Carmen Mella, donna
Franca Florio, madama Lyda Borelli Cini, contessa Dorsey, signora e signorina Incagliati,
duchessa Lante, baronessa Scialoia, madama Finocchiaro Aprile, contessa di San Martino,
baronessa Grazioli, principessa Boncompagni,, contessa Teodoli, donna Osnella [sic] Fieschi
Roveschieri, marchesa Capranica del Grillo, signora Gayda, signora Minunni e signorina
Ester Lombardo, contessa Vannicelli, madama Chiovet e figlia, S.E. Bonomi, S.E. Rosadi,
S.E. Corbino, on. Ciraolo, on. duca di Terranova, on. Finocchiaro Aprile, on. Sardi, on.
barone Compagna, on. conte Fieschi Ravaschieri, principe Odescalchi, conte Macchi di
Cellere, marchese Capranica del Grillo, duca Sforza Cesarini, principe Lancellotti, conte
Ruggiero Suardi, ecc.
I Principini
Ma anche S.A. il Principe ereditario e la Principessina Mafalda avevano voluto onorare
della loro presenza la importantissima serata. Il Principe Umberto era nel palchetto di
proscenio, nella uniforme grigioverde di granatiere. La Principessina Mafalda, in un
semplicissimo ed elegante abito fragola, aveva preso posto nel palco attiguo, tra alcune dame
di Corte.
Il pubblico si accorse della loro augusta presenza quando lo spettacolo era già cominciato,
e nell’intervallo tra il primo ed il secondo atto tutti i binocoli si fissarono sulla figura aitante
del Principe Umberto e su quella gentilissima della bionda Principessina. Ma, prima che si
iniziasse il secondo atto, volle testimoniar loro tutta la sua devota simpatia, e chiese a gran
voce l’inno reale. Il maestro Zandonai, non appena salito sul podio direttoriale, attaccò con
slancio la Marcia reale, che fu ascoltata tra applausi scroscianti dal pubblico tutto in piedi.
La messa in scena
Che cosa dobbiamo dire degli scenari violenti e realistici d’una Verona e di una Mantova
che volevano darsi ad ogni costo l’aria di essere fatte di pietre vere, di veri mattoni? Dei
costumi stonati e chiassosi che parevano fatti apposta per tenere spasmodicamente aperti gli
occhi più assonnati, per perpetuare nell’urto dei rossi, dei verdi, dei gialli le risse dei
Montecchi e dei Capuleti, già così esacerbate nel tumulto dell’orchestra fragorosa?
Diremo solo che abbiamo dedicato una commossa lagrima ed un rimpianto agli scenari
fantasiosi e melodrammatici delle vecchie opere verdiane, che non si vergognavano di apparir
tela dipinta e cartone, perché c’era la musica a dar loro una vita particolare. Adesso, si sa, le
messe in scena sono così curate e precise che non c’è più un soldo di spazio per
l’immaginazione. Ma allora si diventa terribilmente esigenti. E non si capisce più come
Romeo possa ascendere una ripida parete su di una scala che non è riuscita a districare il suo
groviglio di finta seta per calare giù dal balcone; e perché delle fanciulle che giuocano
debbano sfuggire correndo la fiamma d’una torcia che non si è accesa.
Ma son piccole mende, queste, che non contano e che son state portate ora dal vento
impetuoso del successo sgorgato, come quasi sempre accade, dalle due regioni più elevate e
laterali della sala, per guadagnare poi a sbalzi e a scrolloni tutto quanto il teatro. Eccettuato,
beninteso, lo scettico e maligno “foyer” dove gli uomini si affollano per confondere il fumo
delle loro sigarette e quello delle loro impressioni. Le quali, ieri sera, erano in genere
alquanto discordanti cogli applausi risuonati nella sala a ogni fine d’atto.
3.1.5/53
Ma anche queste son cose che non contano, perché le chiacchiere del “foyer” sono fatte di
fumo. Quello che conta è l’arrosto degli applausi, che non poteva essere meglio cucinato e
più copioso.
a. f.
200
“Giulietta e Romeo” in recita diurna al Costanzi, «Il Piccolo», 18.2.1922 - p. 4, col. 3
È stato saggio consiglio quello della Direzione del “Costanzi” di porre la Giulietta e
Romeo di Riccardo Zandonai a contatto col gran pubblico domenicale, che ha in sommo
grado sviluppata la facoltà dell’intuizione artistica e la sensibilità musicale, col fissare per
domani, domenica, una recita diurna della nuova opera.
Perché il pubblico affollatissimo della seconda rappresentazione in abbonamento ha
tributato a Giulietta e Romeo tali cordiali accoglienze e tale fervore di consensi da rendere
giustamente pago l’illustre autore, il musicista geniale che con la Francesca da Rimini ha
ormai conquistato un posto d’onore nella storia contemporanea del melodramma italiano.
Successo, dunque, di pubblico che occorre segnalare onestamente e che pone ormai la nuova
opera di fronte a questa constatazione: che, tenuto presente il libretto e nonostante le
osservazioni estetiche e di natura teatrale che giustamente la critica non ha taciute, la
Giulietta e Romeo ha compiutamente conquistato l’elegante folla adunata nella vasta sala del
“Costanzi” durante le prime due rappresentazioni. E ciò che è nuda cronaca non è possibile
non riconoscere e non segnalare.
Domani, nella recita diurna, la Giulietta e Romeo affronterà un nuovo pubblico, quel
pubblico che giudica intuitivamente, scevro da ogni preoccupazione. E sarà un avvenimento
che potrà dare prova della vitalità dell’opera, nonostante qualche difetto di struttura che fu
rilevato in alcuni punti del libretto.
Perché è bene affermare che in tutta l’opera si succedono le pagine ispirate come il gran
duetto d’amore al verone nel primo atto, il canto pieno di tenerezza di Giulietta al secondo, la
melopea del cantatore e l’«Urla, tempesta» al terzo, e il canto di Romeo dinanzi all’arca di
Giulietta.
All’ancor giovane maestro trentino, del quale nessuno disconosce la genialità e la probità
dei propositi, pur nelle nobili discussioni cui ha dato luogo la sua nuova e interessante opere
d’arte, noi speriamo arrida domani anche il favore del gran pubblico popolare.
[...]
201
g.m.f., “Giulietta e Romeo” al Costanzi, «Il Popolo», 18.1.1924 - p. 3, col. 5
Riccardo Zandonai occupa il primo posto tra gli scrittori d’opera italiani del nostro tempo.
Si discute da qualcuno se la sua «Francesca da Rimini» sia più bella di «Giulietta e Romeo»,
ma il raffronto anzitutto non ci sembra ragionevole. La prima è opera a contenuto
drammatico e tutta pervasa di sensualità, «Giulietta e Romeo» è invece un’opera lirica, di
concezione affatto diversa. Per nobiltà di fattura, originalità ed organicità, ci sembra ch’essa
rappresenti in ogni modo un concepimento di arte più elevata e perfetta. E non solo la
giudichiamo la migliore creazione del nostro teatro al giorno d’oggi, ma aggiungiamo che
tale primato non è relativo poiché costituisce, almeno pel momento in cui viviamo, la forma
del dramma lirico la più completa e la [più] corrispondente al nostro gusto estetico.
3.1.5/54
Le pagine splendide racchiuse in «Giulietta e Romeo» sono tante che non si sa veramente
quali preferire: il duetto d’amore al primo atto ch’è tutto un incanto di chiarori, dal lunare a
quello dell’alba, contiene non solo un tema affascinante ma è ricco di altre frasi non meno
incantevoli.
Nel secondo atto, il tragico giuoco della Torcia fra le donzelle, in cui echeggia il
presentimento di morte, è di una “personalità” impressionante. Ricco di forti contrasti e
potente il duetto fra Giulietta e Tebaldo, e se il seguente breve duettino fra soprano e tenore
ricorda sagome melodiche già conosciute, esso è reso nuovo dall’efficace comento
orchestrale.
Finalmente, al terzo atto, la scena fra il Cantastorie che racconta la morte di Giulietta allo
sbigottito Romeo, l’intermezzo orchestrale della cavalcata furibonda e disperata di Romeo
nella tempesta mentre la sua angoscia è resa all’interno da scoppi di voci dolorose è di una
tale forza che sembra schiacciare la commovente e soave ultima scena della morte.
Novissimo in Zandonai il modo di concepire gli sfondi corali, a macchie di colore;
abilissima la sua maniera di trattare l’orchestra ove nulla è tralasciato per raggiungere la
pienezza dell’espressione, con impiego felicissimo di ogni specie di strumenti anche
secondari, senza che questa cura sorprendente dei particolari nuoccia alle grandi linee
d’insieme.
Ma quel che più ammiriamo in «Giulietta e Romeo» è, come accennammo, la sua nobiltà:
quest’opera non contiene una battuta che possa chiamarsi volgare.
Il pubblico del “Costanzi” ha avuto ieri sera la fortuna d’ascoltarne una esecuzione
magnifica. La Dandolo (Giulietta), il tenore Cingolani (Romeo) ed il baritono Gherardini
(Tebaldo) costituivano non solo una triade di primissimo ordine, ma il carattere dei mezzi
lirici di questi artisti era in corrispondenza meravigliosa col carattere dell’opera. Essi
mostrarono inoltre una bravura non comune come interpreti drammatici. A completare il
fascino di questa eccezionale rappresentazione s’aggiunse poi tutto il resto: i personaggi
secondari, la Porter, il Nardi, che disse alla perfezione la parte del Cantastorie, l’Uxa, il De
Petris e gli altri tutti furono impeccabili, come del resto i cori, la cui parte è irta di molte e
continue difficoltà. L’orchestra, diretta dal maestro Vitale che aveva concertato tutta l’opera
con amore, infine gli scenari, particolarmente quelli del verone al primo atto e della Tomba di
Giulietta, che Augusto Carelli seppe fare assurgere alla dignità dello spettacolo.
Dopo quanto abbiamo riferito ci sembra superfluo fare la cronaca degli applausi: il
successo di «Giulietta e Romeo» fu completo. Quest’opera è destinata a costituire una della
maggiori attrazioni dell’odierna stagione lirica.
202
Domenico Alaleona, “Giulietta e Romeo” al Teatro Costanzi, «Il Mondo», 18.1.1924 - p. 3
È tuttora vivo il ricordo delle affettuose dimostrazioni che furono rivolte due anni or sono
a Riccardo Zandonai nella serie di rappresentazioni da lui dirette al Costanzi; e del caloroso
successo riportato dalla Giulietta e Romeo nella sua prima presentazione, che l’autore volle
dedicare al pubblico romano sotto la sua personale guida. Da allora ad oggi la tragedia lirica,
felicemente semplificata e inquadrata per la musica da Arturo Rossato e animata dall’arte
dell’autore di Francesca da Rimini, ha compiuto con successo il giro dei principali teatri.
Cosicché ritorna fra noi rafforzata dal prolungato contatto col pubblico e da ripetuti e
molteplici consensi.
3.1.5/55
Sarebbe perciò affatto inopportuno riprendere i giudizi e le discussioni che il lavoro suscitò
al suo primo apparire, e che ne lumeggiano pienamente i pregi e le manchevolezze.
Limitandomi a qualche mia impressione, dirò che quest’opera mi interessa e mi avvince
più per gli elementi di ambiente che di figura: essa mi fa pensare ad un antico quadro di cui
rimanessero in perfetta conservazione alcune parti e alcuni particolari bellissimi dello sfondo,
ma di cui il tempo edace avesse oscurato, se non cancellato, le figure o meglio i volti e gli
sguardi delle figure. O – se volete – pensate ad un quadro in cui l’artista (come accadde a
Leonardo per il volto di Cristo nel Cenacolo) si fosse arrestato di fronte ai volti e agli sguardi
delle sue creature viventi.
Il che non toglie che la Giulietta e Romeo, nel suo insieme, possegga elementi
delicatissimi di fascino. Ricordo – accennando fugacemente ai punti secondo me più sensibili
del lavoro – nel primo atto alcuni momenti energici e corruschi del coro; l’episodio
felicissimo che precede l’entrata di Romeo con la ronda notturna, e con quella melodia
affettuosa in orchestra al clarinetto che introduce così delicatamente del “cielo sentimentale”
della scena che segue; l’uscita delle maschere poco più innanzi; nel second’atto tutta la
“scena del torchio”, di indovinatissima, elegante vivacità, venata di tristezza, esempio di
fusione perfetta dei gesti musicali e scenici; un momento di alta bellezza – il più bello
dell’opera – quando Giulietta, dopo il concitato, violento dialogo con Tebaldo, rimane sola in
scena e si appressa ed appoggia stanca al pozzo mentre su un sommesso mormorare
dell’orchestra s’ode il suono dolcissimo di un organino lontano; alcune parti del duetto fra
Giulietta e Romeo (questo del secondo atto è, a mio parere, il più bello dei tre); specialmente
qualche accento melodico, un po’ arcadico ma perfettamente intonato al personaggio e alla
situazione, del canto di Giulietta; il momento della morte di Tebaldo, con quei brividi di
armonici acuti su armonie gravi e religiose; nell’ultim’atto alcuni tratti delle apostrofi
dolorose di Romeo e del duetto finale che chiude l’opera in una atmosfera di soave poesia.
Questi ed altri elementi che potrei esemplificare, unitamente a molte risorse sceniche di cui
più avanti faremo cenno, rendono la Giulietta e Romeo di Riccardo Zandonai un’opera degna
di tutto il rispetto, che si ascolta con interesse e godimento; e spiegano le calorose
accoglienze da cui essa è stata ed è accolta nella sua fortunata peregrinazione.
Ammirabile sotto ogni aspetto è la realizzazione musicale e scenica con cui il lavoro si
presenta in questa riproduzione al Costanzi. Il che attesta della infinita, lodevolissima cura
che la Casa editrice Ricordi pone alle opere che le stanno – giustamente – a cuore. Cura che è
stata assecondata con ogni mezzo dalla impresa del teatro e dal direttore maestro Vitale, con
la sua valida esperienza di animatore e di interprete.
Vorremmo parlare insieme della realizzazione musicale e scenica, tanto i due elementi –
curati e armonizzati in ogni parte, così nelle linee e nei colori generali dei quadri come nei
particolari – si fondono in una unica visione integrale di bellezza. Chi vuole ricreare lo spirito
nella rievocazione di una vita d’altri tempi in un quadro d’arte armonioso si rechi al Costanzi
e troverà l’appagamento del suo desiderio in alcune scene ed episodi della Giulietta e Romeo.
Necessità pratiche ci costringono a spezzare, nella cronaca, i magici elementi inscindibili
del quadro. E, cominciando dalla parte musicale, diremo che gli artisti chiamati ad
interpretare le parti principali sono stati scelti molto felicemente.
Stefania Dandolo possiede voce chiara, timbrata, ben modulata: specialmente negli episodi
di dolcezza come nel duetto dell’atto secondo ella raggiunge notevoli effetti di commozione.
La sua elegante figura, la grazia e sobrietà della azione scenica contribuiscono a renderla una
interprete assai pregevole del personaggio di Giulietta.
3.1.5/56
Il giovane tenore Augusto Cingolani (Romeo) ha superato vittoriosamente una difficile
prova in questo che era il suo “debutto” al Costanzi. Voce bella e vibrante, passionalità di
accento, figura adatta per la scena sono le qualità di questo giovane artista marchigiano,
destinato certamente ad un brillante avvenire. Di tali sue qualità egli ha offerto larga prova
nella sua parte, ricca sia di accenti patetici che di apostrofi angosciose e violente.
Un baritono perfettamente tagliato per la parte di Tebaldo è Emilio Gherardini: voce facile,
timbrata, che giuoca baldamente in modo speciale con gli acuti ai quali volentieri Zandonai
spinge queste sue parti (notiamo la grande analogia del Tebaldo col Gianciotto della
Francesca da Rimini, e ripensiamo al duetto con Malatestino che si chiude con quel
magnifico «Voglio» sul sol acuto); sicuro, dignitoso incedere scenico improntato ad una certa
nervosità e direi quasi “dispitto” dantesco che infonde un carattere tipico al personaggio per
se stesso di scarso rilievo; e soprattutto chiarezza e incisività di dizione e di accento,
perfettamente rispondenti al declamato zandonaiano, sempre secco e poco musicale, ma non
privo talvolta di angolosa ed austera energia).
Il Nardi, come sempre, insuperabile nella breve parte del Cantastorie. La Porter, la Zotti,
l’Uxa, il De Petris, il Mellini hanno contribuito lodevolmente, nelle loro parti, all’armonia e
al successo dell’insieme.
Uno speciale elogio al coro, accuratamente addestrato dal maestro Consoli: eseguiti con
ogni precisione i molti non facili episodi interni e ben regolati in particolare i gridi tumultuosi
in lontananza che si aggiungono allo “sfondo” nell’ultima parte del concitato dialogo fra
Tebaldo e Giulietta all’atto secondo.
Già abbiamo fatto cenno del merito grandissimo che, nella felice integrazione di tutti
questi elementi, spetta ad Edoardo Vitale: dalla partitura non facile, spesso frastagliata e ricca
di ritmi tormentati e disegni e intrecci delicatissimi egli ha tratto il massimo delle risorse. È
stato un fraterno collaboratore dell’autore, che gli deve essere riconoscente.
Della realizzazione scenica abbiamo già parlato con elogio. Le scene di Augusto Carelli
sono fra le più belle e riuscite di questo artista: specialmente quella del primo atto e del
secondo quadro dell’ultimo sono state molto ammirate, anche per l’indovinato e ben regolato
giuoco di luci. Nella prima metà del primo atto il chiarore notturno, ottenuto con sapienti
distribuzioni, nei vari piani, di luci bleu, bleu-rosse e bleu-bianche, era realizzato in modo da
conferire al quadro un fascino delizioso, perfetto: e tali luci erano intonate anche
armoniosamente coi colori dei costumi, specialmente con quello di Romeo (rosso con manto
bleu). Molto indovinato anche il tono verde-bleu dell’ultima scena (La tomba di Giulietta)
realizzata dal Carelli in maniera felicissima, e assai diversa di quella che fu adottata alla
prima esecuzione dell’opera.
Di tutto ciò – e della felice composizione e movimentazione dei quadri scenici viventi:
bellissimi specialmente quelli cui partecipano gli aggruppamenti di ancelle, coi loro “gaietti”
costumi: indimenticabile, a tal riguardo, la scena del “torchio” – spetta molta parte di merito
al comm. Carlo Clausetti, l’intelligente direttore artistico della Casa Ricordi, che alla
realizzazione di queste visioni sceniche ha partecipato con grande amore, con la sua
competenza e il suo buon gusto.
Il successo è stato vivissimo: un primo applauso è scoppiato al duetto del primo atto. Alla
fine di ogni atto le imponenti ovazioni hanno costretto il maestro Vitale e gli artisti a
comparire infinite volte alla ribalta. Dell’intermezzo è stato chiesto insistentemente il bis, non
concesso.
Allo spettacolo ha assistito il Principe di Piemonte, salutato dalla Marcia Reale e da
ferventi applausi.
[...]
3.1.5/57
203
G. De V., “Giulietta e Romeo” di Zandonai al Teatro Costanzi, «Il Nuovo Paese», 17.1.1924
- p. 3, col. 2-3-4 (con un medaglione che ritrae Edoardo Vitale)
Mentre ieri sera si svolgeva nell’ampia cornice scenica del Costanzi la tragica vicenda
degli amanti di Verona, noi pensavamo a quel teatro del «Globe», a quella sordida baracca di
legno sorgente sulle nebbiose rive del Tamigi ove, nell’assenza assoluta di ogni apparato
scenico, alla luce di lampade fumose, Guglielmo Shakespeare dava vita alle sue immortali
creature. Quella sordida baracca – nota Edouard Schure – non era da meno del luminoso
anfiteatro scavato nel fianco dell’Acropoli se Guglielmo Shakespeare – fissando nel cuore
umano il fulcro della vita universale – dava alla Poesia un elemento che la Grecia non poteva
darle, quello dell’individualità vivente e cosciente che porta in se stessa il suo destino. In
quella baracca il Titano riversava nel cuore intirizzito della Poesia, emigrata oltre le porte
misteriose dell’al di là, la linfa feconda della vita, ridonava al suo scheletro una carne rorida
di sangue ed in essa infondeva i germi delle passioni più divoranti. Con lieve alzata di spalle,
si scaricava del dogma; poneva faccia a faccia il bene ed il male, per sbranarsi, per divorarsi a
vicenda; plasmava con pollice ferreo il delitto, la frode, l’irresistibile istinto; agitava l’anima
umana con le scosse più violente e dopo averla così annientata la risuscitava d’un tratto con
l’aroma inebriante dei fiori più candidi: Cordelia, Ofelia, Miranda, Giulietta.
Giulietta! Da quattro secoli l’umanità piangeva sul suo fato, vedendola sorgere dal
sepolcro per ritrovarsi accanto, freddo ed inanimato, l’amato amante: da quattro secoli, con la
voce dei suoi poeti, con la voce di Vittore Hugo, di Arrigo Heine, di Alfredo De Musset
proclamava la invulnerabile bellezza della tragica scena, divenuta patrimonio poetico
universale. Tutto ciò è durato fino al 1921, anno in cui Arturo Rossato, dovendo comporre in
libretto per Riccardo Zandonai la storia degli amanti infelici, si è accorto che all’uopo era
innanzi tutto indispensabile riformare Shakespeare.
Quando Arrigo Boito compose per Giuseppe Verdi il libretto dell’«Otello» qualcuno
osservò che egli, per il suo eclettismo un po’ facilone, era l’uomo meno adatto a rimaneggiare
l’opera shakespeariana, selva selvaggia a districare la quale si richiede volta a volta polso di
ferro e mano lieve: polso di ferro per scerpere il rovaio, mano lieve per cogliere il fiore
nascosto. Ma qualunque sia il giudizio che si possa formulare sull’opera poetica del Boito, si
deve riconoscere che egli dette esempio di alta dignità artistica, accostandosi con trepida
venerazione allo Shakespeare e ponendo ogni cura nel non alterare l’opera nello spirito e
nella forma.
Il Rossato non ha avuto queste preoccupazioni. Pare anzi che egli abbia posto ogni studio
nell’allontanarsi dalla grande orma shakespeariana. E noi non gli contesteremmo questo
diritto se la sua personale concezione poetica avesse agevolata l’espressione musicale del
poema. Glielo contestiamo perché abbiamo l’impressione che l’opera dello Zandonai abbia
subito in ogni sua parte l’influenza mortificante della falsa impostazione del dramma.
Il dramma di Romeo e Giulietta è tutto nel contrasto fra la sovrumana passione degli
amanti e la torva atmosfera di violenza e di odio da cui essa fiorisce. È un sottile fiore di
poesia che tremola su di un abisso spaventoso. E il profumo di quel fiore non può essere colto
se non da chi abbia prima scandagliato quell’abisso. Il Rossato ha completamente trascurata
quest’antitesi fondamentale ed imprescindibile. L’odio dei Montecchi e dei Capuleti, «che si
divorano di rabbia nel flutto purpureo che geme dalle loro vene», quest’odio – che satura di
sé tutto il dramma shakespeariano – è quasi completamente fuori della visione scenica. E
3.1.5/58
pazienza se il Rossato si fosse limitato a fissare nella sua trama soltanto i punti che – a suo
modo di vedere – si prestavano ad una pura espressione lirica. Riccardo Wagner, nel poema
di «Tristano e Isotta», sceverò pensatamente la leggenda da ogni elemento che avesse potuto
turbare la purità lineare del suo contenuto lirico. Il guaio è che il Rossato, volendo riempire i
vuoti risultanti dalle spietate amputazioni operate sulla tragedia shakespeariana, è ricorso a
ripieghi di ogni genere, come in quella scena della fiaccola, la cui derivazione d’annunziana
contrasta nel modo più evidente con l’intonazione generale dell’opera.
Altro errore è l’aver posto al primo atto quella “scena del balcone” che è il punto
culminante del dramma, sublime vetta di poesia alla quale non si può giungere di colpo.
Shakespeare pensò che il bacio degli amanti, quel bacio che scocca fra cielo e terra, non
potesse avere a testimoni che l’allodola e l’usignolo. A Rossato ciò non basta: ed eccolo a
intermezzare il duetto con canzoni di gente avvinazzata. Neppure la scena della morte –
dicevamo – è stata risparmiata. Quando Giulietta si desta, Romeo è ancora vivo. E anche qui
– pare impossibile – il Rossato ha ritenuto necessario far giungere dalla strada stornelli
dialettali, a menomare la tragica solennità del momento.
Tutto ciò doveva necessariamente mortificare l’ispirazione del musicista. Il quale deve
avere le spalle ben resistenti se non ha ceduto al peso di questo cumulo di errori.
***
Nella esigua schiera dei nostri compositori, Riccardo Zandonai occupa uno dei posti più in
vista. Nella sua produzione si possono distinguere nettamente tre momenti: quello del
dramma intimo («Grillo del focolare», «Conchita»), quello operistico-coreografico
(«Melenis»), quello veramente e propriamente melodrammatico («Francesca da Rimini»,
«Giulietta e Romeo»). Egli ha oramai conseguito la padronanza dei suoi mezzi, la libertà,
l’affrancamento della sua ispirazione da ogni presupposto teorico, da ogni strettoia scolastica.
Ha compiuto, o è in via di compiere, lo sforzo più arduo che ogni artista deve superare:
quello di ritrovare se stesso. Pare che in Italia questo sforzo sia più difficile che altrove. Pare
che i nostri artisti – i musicisti, specialmente – compiano una fatica enorme per restar fedeli
alla loro natura, per persuadersi che il loro tecnicismo fine a se stesso, che le loro fiacche
imitazioni, che il loro intellettualismo non si risolvono che in una faticosa e vana distillazione
di profumi artificiali, per ritornare al desiderio di un’arte ferma e chiara nei contorni,
totalmente realizzata, decisamente ed italianamente emotiva. In Zandonai questa crisi si è
risolta o è in via di risolversi felicemente. Questa impressione suscitata in noi due anni or
sono dopo la prima esecuzione di «Giulietta e Romeo» è stata pienamente confermata ieri
sera, dopo un più riposato esame dei pregi e dei difetti di quest’opera, che ci ha fatto
presentire prossima la manifestazione compiuta dalla genialità del maestro trentino,
manifestazione che in «Giulietta e Romeo» non è ancora effettuata. È evidente in quest’opera
lo sforzo del compositore per far scaturire dal suo temperamento drammatico la vena lirica
necessaria a dare degna espressione musicale a quella che Benjamin Laroche, illustre
traduttore di Shakespeare, definisce la più commovente storia d’amore che sia mai stata
scritta. Questo sforzo non poteva produrre che quella esasperazione di cui sono traccie
evidenti nelle pagine culminanti di quest’opera. Le grandi ascese liriche non possono essere
che spontanee. Ove il temperamento dello Zandonai ha potuto esplodere liberamente come
nella fragorosissima baruffa del primo atto, nelle concitate scene del secondo, nella
travolgente “cavalcata” del terzo, il successo, che da due anni accompagna quest’opera, si è
rinnovato calorosissimo, preannuncio sicuro di quell’immancabile, decisivo trionfo cui
questo nostro musicista ha incontestabilmente diritto per la nobiltà degli intendimenti coi
quali tenta da tempo la conquista del nostro teatro lirico.
***
3.1.5/59
L’esecuzione fu lodevolissima per merito specialmente di Edoardo Vitale, sapiente
armonizzatore e geniale animatore dello spettacolo. Dopo la famosa “cavalcata”, condotta
con felice slancio, il pubblico tributò all’illustre Maestro una grande ovazione.
Stefania Dandolo (Giulietta) si rivelò cantante fornita di magnifici mezzi vocali e di non
comune talento interpretativo. Il tenore Cingolani dette alla parte di “Romeo”, che è il suo
cavallo di battaglia, quel rilievo vocale e scenico che gli ha fruttato magnifici successi in tutti
i teatri nei quali egli ha interpretata quest’opera. Il baritono Gherardini (Tebaldo) fu ammirato
per il caldo timbro della sua voce. Nelle parti secondarie, la Porter, la Zotti, il Nardi, l’Uxa, il
De Petris, il Mellini assolsero egregiamente il loro compito.
Intonati e suggestivi i quadri scenici ideati da Augusto Carelli. Bellissimo quello del terzo
atto.
Moltissime furono le chiamate. Ci parve però che il calore degli applausi, altissimo dopo il
primo atto, diminuisse gradatamente negli atti successivi.
La sala era sfolgorante. S.A. il Principe di Piemonte assisté all’intero spettacolo.
204
r[affaello] d[e] r[ensis], “Giulietta e Romeo” di Zandonai al “Costanzi”, «Il Messaggero»,
17.1.1924 - p. 4, col. 2-3
Riudita l’opera di Zandonai a distanza di due anni dal suo battesimo nel nostro massimo
teatro, all’infuori da quell’ambiente inevitabilmente febbrile ed agitato, con addosso un
carico di allori colti in moltissime città dell’Italia e dell’estero, non poteva non apparire
quella che realmente è: un’opera, cioè, di sentimento, di passione, d’impeto e di teatro.
Piuttosto che negare ancora, come si fa più per inerzia che per convinzione, queste evidenti
qualità, io direi che Zandonai ha invece troppo concesso al romantico episodio d’amore e
morte e troppo al pubblico stesso. È dovere del pubblico intelligente di avvicinarsi allo
spirito, all’animo e allo stile di Zandonai, comprenderlo e rendergli quella giustizia
meritatissima che non si deve oltre fare attendere.
Per l’amore di Giulietta e Romeo, trascinante, romantico, altamente lirico, pieno d’ingenui
abbandoni, quasi schivo di sensualità, il maestro trentino ha chiesto alla sua musa ritmi rapidi
e mutevoli, frasi calde e larghe, soavità di poesia, gridi altissimi di dolore, di più facile
ripercussione sull’animo popolare, ma egli non poteva forzare la sua forma mentale, non
abolire le sue attitudini e i suoi mezzi di espressione.
Il canto di Zandonai si differenzia e deve differenziarsi dal canto dei nostri melodisti di
tradizione sino a Mascagni e a Puccini; e se esso procede involuto di cromatismi, in tonalità
varie e contrastanti, più vicino al nuovo declamato, non è perciò meno bello, sentito e
schietto.
Ieri sera il pubblico, pur nella sua consueta rigidità, stavo per dire frigidità, ha mostrato di
gustare le pagine melodiche, gli episodi d’insieme e il complesso della geniale partitura.
Il quadro iniziale e vigoroso del primo atto, il ritmo grave e lento della scolta, il duetto
d’amore ravvolto in un’atmosfera sonora d’infinita squisitezza, hanno profondamente solcato
l’animo degli ascoltatori.
L’altro quadro, d’intimità e di suggestione, del secondo atto con l’originale gioco del
Torchio, la drammatica scena tra il violento Tebaldo e la dolce Giulietta, il duello rapido e
serrato, lanciano la tragedia alle altezze dell’interesse e della emozione.
Che dire del lamento del cantastorie e dell’impetuoso intermezzo, che ha strappato
l’irrefrenabile applauso del pubblico che ne voleva la replica?
3.1.5/60
Siamo di fronte ad un’opera ricca di gemme musicali, alla quale giustamente arride il
continuo e crescente successo dinanzi agli spettatori dei grandi e piccoli centri; né dubitiamo
che questa nuova ed opportuna edizione romana sia destinata a raccogliere un suffragio
sempre maggiore ed entusiastico.
Anche perché quest’edizione, accuratamente preparata, ha concorso al successo di ieri sera
e concorrerà meglio al successo delle repliche. I protagonisti, giovani e volonterosi, sono
forniti tutti di ottime qualità vocali e sceniche e, superata la spiegabile preoccupazione della
prima rappresentazione, si dimostreranno degni delle parti difficoltose e delle responsabilità
numerose.
Stefania Dandolo, con la dolcezza della voce e con la delicatezza quasi ingenua degli
atteggiamenti, ha composto con proprietà la figura di Giulietta; il tenore Cingolani, nel
duetto, nel duello, nello scoppio dolorante del terzo atto si è mostrato artista di ugola
resistente ed attore disinvolto e schietto; il baritono Emilio Gherardini ha delineato con linee
decise il torvo personaggio di Tebaldo. Impagabile, come sempre, nelle vesti nel cantastorie,
il Nardi; bene le altre innumerevoli parti e i cori.
All’orchestra è affidato un compito arduo e preponderante poiché la partitura di Zandonai,
anche quando si semplifica, rimane sempre così densa d’idee, di ritmi, di colori e sempre così
logicamente serrata nei suoi elementi da richiedere una bacchetta che sappia indagarla,
sviscerarla, chiarificarla ed esporla. Questa bacchetta era ieri nella mano di Edoardo Vitale
che per la sapienza e l’esperienza ha reso il più segnalato servizio all’opera d’arte. Riccardo
Zandonai non poteva desiderare un interprete più sagace ed amorevole.
Al maestro Vitale, ammiratissimo durante lo svolgimento dello spettacolo, applaudito ad
ogni fine di atto ed evocato con gli artisti ripetutamente al proscenio, è stata indirizzata una
particolare e prorompente ovazione dopo la focosa galoppata dell’intermezzo.
Serata magnifica, dunque, per elevatezza artistica e per concorso di elettissimo pubblico.
Ha assistito allo spettacolo anche il Principe Umberto, al quale è stato reso l’omaggio
dell’inno reale e di calorosi applausi.
[...]
205
M[atteo] Incagliati, “Giulietta e Romeo” di Zandonai al Costanzi, «Il Giornale d’Italia»,
18.1.1924 - p. 3, col. 5-6
Il “Costanzi”, che la tenne a battesimo or sono due anni, ha iersera di nuovo ospitato sulle
sue scene la Giulietta e Romeo di Riccardo Zandonai. Per ogni opera nuova che ritorna nel
giro di un tempo breve sulla stessa scena, è legittimo arguire che la fortuna non manca mai.
A suffragare la bontà di questa fortuna valse il successo che si delineò sin dalle prime
scene e che, come le vicende della tragedia shakespeariana procedevano con la suggestione e
il fascino della musica di Zandonai, si intensificò, divenne clamoroso dopo l’intermezzo; e
significativo per l’unanime consenso – non una sola nota discordante – della folla che
gremiva la vasta sala. Nella quale era tutta Roma intellettuale e artistica. Non era assente il
Principe ereditario, del quale è nota la passione e la inclinazione per gli studî musicali, e a cui
il pubblico rivolse applausi cordiali prima che s’iniziasse il secondo atto, mentre l’orchestra
suonava la Marcia Reale.
Non era assente l’on. Acerbo, sempre primo ad ogni alta manifestazione d’arte, e quella di
iersera è stata tale che non si può negare non accresca prestigio e onore al patrimonio
musicale nazionale.
3.1.5/61
Roma ormai, checché si pensi e si dica, ha conquistato il primato per la celebrazione del
genio italico musicale, ed è dalla ribalta del “Costanzi” che tutte le nuove manifestazioni
d’arte acquistano diritto alla vita o alla... morte. Dalla Cavalleria rusticana alla Giulietta
quante opere nuove non mossero libere e agili, consacrate da un giudizio sereno e autorevole,
da questa ribalta che non ebbe mai a spegnersi dinanzi a chi aveva diritto a dire qualcosa?
E non è dalla ribalta del “Costanzi” che Riccardo Zandonai vide illuminare il suo genio di
così fulgido splendore per cui ormai le sue opere – e in particolar modo la Francesca e la
Giulietta – sono divenute messaggere, ovunque si rappresentino, di dilettazione estetica e di
commossa gioia?
Il musicista trentino è il solo che dopo la così detta giovane scuola, nata intorno al 1890,
abbia mostrato di isolarsi, di andare per una via diversa e di imprimere alla sua produzione
teatrale una fisionomia propria. La personalità di lui è ormai ben delineata e potremo dunque
parlare di una musica tipo Zandonai.
Possono i suoi ideali, le sue predilezioni estetiche e artistiche suscitare discussioni,
dissensi; ma dinanzi alla genialità del suo temperamento teatrale, dinanzi alla fedeltà ch’egli
mostra, pur possedendo una tavolozza orchestrale ch’è e costituisce una novità nel
melodramma inteso italianamente, di non discostarsi dalla tradizione verdiana – che conta
procedere in una critica spigolista?
***
In questa Giulietta, venuta quinta dopo quelle di Zingarelli, di Bellini, di Vaccai e di
Gounod e riuscita la sola a sopravvivere nella storia teatrale, lo spirito verdiano si rivela nel
taglio delle scene, nell’urto dei contrasti, nell’abbandono al canto melodico, senza
preoccupazioni di criterî formalistici, senza la paura che il canto abbia compiuto il suo ciclo.
Zandonai ha una sua singolare espressione musicale e opina a buon conto che laddove è
dramma, la vita, quivi è possibile di cantare come detta in fondo all’anima. In questa epoca
scettica e stanca in cui l’opera parla per i nuovi e un po’ afoni compositori con spezzettature,
a monosillabi, a respiro che tronca il periodo, la frase, e deturpa ogni imagine, Riccardo
Zandonai è di parere che il lirismo non abbia fatto bancarotta. Ma il lirismo di questo illustre
e ormai popolare musicista non vive in virtù di una pura bellezza formale; esso ha un soffio
di vitalità che avvince e si insinua simpaticamente nell’anima di chi ascolta. È la forza, la
fiamma della passionalità che arde infatti nella Giulietta.
Nella quale l’ardore drammatico si plasma sopra i rilievi psichici d’ogni personaggio. E il
canto risuona e si spande... Ma Giulietta, Romeo, Tebaldo, Isabella, il Cantatore, la folla non
sciolgono le loro voci senza un’anima orchestrale. Ed ecco una delle qualità distintive del
genio di Zandonai. Nella orchestra si riflette la sensibilità di un artista originale, ed è la sua
una sensibilità sottile, raffinata, aristocratica alla quale soccorre una fantasia agile non
insensibile alle più iridescenti combinazioni sonore. Ed è per ciò che il discorso musicale ha
una sua incisività tematica, un disegno strumentale e una vibrazione. In Giulietta il
compositore è divenuto l’artista spoglio, denudato d’ogni servitù, d’ogni schiavitù di
erudizione.
Sovratutto è caratteristico nella musica di Giulietta il senso nostalgico che tutta invade e
pervade la tragedia shakespeariana. È una nota ch’è di Zandonai, non di altri, di lui che scruta
e penetra l’anima dei due amanti infelici. È il musicista divenuto, che non dimentica di esser
poeta. Ha la sua atmosfera ogni quadro, e in rispondenza delle vicende drammatiche,
spiritualmente e musicalmente. E basti pensare a tutto il primo atto, al duetto d’amore al
secondo atto, alla romanza del Cantatore, all’intermezzo e a tutto l’ultimo quadro per
riconoscere in Riccardo Zandonai la felice disposizione a intendere e a dar forma all’opera
teatrale, secondo lo spirito verdiano. E che importa se talvolta la musica ha una foga
3.1.5/62
eccessiva? Beato colui che può largire da gran signore e con eccesso di prodigalità la
passione sonora che tormenta ed esalta la fantasia... E quale anima non hanno certe pause
psicologiche attraverso le quali si preannuncia o si determina un dramma psicologico –
l’attesa, la promessa, la paura – e in cui il valore espressivo è frutto di genialità? E quale
vulcanica potenza descrittiva non ha quell’intermezzo – la Cavalcata di Romeo – in cui
l’orchestra risuona come un rombo intramezzato da schianti furiosi e dall’urlo di
disperazione: – Giulietta! Giulietta mia! – con una melodia che è piena di varietà e di
arditezza?
Ma, come Margherita nel Faust, la Giulietta è giudicata ormai dal pubblico di Roma e di
quelli di tante altre città; e non vale dilungarsi oltre.
***
Conta piuttosto accennare allo spettacolo, che può star di paro a quello dei Rusteghi per
insuperabile interpretazione orchestrale, per valentìa di cantanti, per fasto di messa in scena.
Era un coro iersera, tra un atto e l’altro, quello che rilevava così indiscussa constatazione.
Edoardo Vitale è alla sua quinta battaglia in questa stagione, e il suo trionfo si rinnova, si
ripete. Com’egli abbia fatto vibrare la musica della Giulietta, come ne abbia reso lo spirito,
come ne abbia intesa la poesia e come sia riuscito a tradurre in una linea sobria ma sempre
fedelmente rappresentativa la tragedia, dissero meglio di ogni parola le manifestazioni degli
ascoltatori che all’illustre maestro direttore rivolsero con un consenso unanime, con legittimo
compiacimento.
Edoardo Vitale subordinò alla sua volontà, alla sua energia, alla sua bacchetta tutti gli
interpreti. La magnifica orchestra lo secondò mirabilmente. Rimarrà memorabile negli annali
del “Costanzi” l’impeto, il calore, l’anima con cui l’illustre direttore rese l’intermezzo, il cui
inizio ebbe un attacco così inatteso e magniloquente che il pubblico parve come preso da
terrore; e appena l’ultima nota si spense, dopo quella pagina sinfonica superba e tutta pervasa
da un cupo terrore e da un tumulto di mille anime in pena come ad esprimere la sciagura di
un’anima sola, gli applausi, le acclamazioni, divennero clamorose, imponenti. Per più minuti
la sala echeggiò di battimani e con tale impeto e con tale consenso che Edoardo Vitale fu
indotto ad associare a sé l’orchestra che, in piedi, partecipò alla ovazione di cui era fatto
segno il suo illustre duce.
In quella dimostrazione fu la consacrazione della nobile fatica compiuta dal maestro
Vitale. Alle richieste insistenti di bis, per la disposizione che li vieta, non fu possibile
rispondere che dando inizio al poetico ultimo quadro, concluso con una definitiva
dimostrazione di plausi.
Dei quali furono ben degni gl’interpreti sulla scena, scelti fra giovani artisti all’alba
radiosa della loro fortuna teatrale e ai quali senza dubbio questa prova vittoriosa conseguita in
Giulietta porterà fortuna.
Stefania Dandolo, che ha una voce di bel timbro, di sicura intonazione, rese le pene di
Giulietta con una tal quale ingenuità che accrebbe fascino al suo canto, che si sciolse sempre
con prodigalità. Nell’ultima scena la sua voce risuonò con ardore e poesia.
Il tenore Cingolani, dalla elegante figura, un Romeo agile e sottile, cantò con voce
maschia, di bel timbro, e che sale al registro acuto con facilità e padronanza. Di ogni
arditezza canora egli trionfò, e fu pieno di ardore nel duetto con Tebaldo e soffuse di
leggiadra poesia la scena d’amore dei due primi atti, così come rese tutto lo schianto della sua
anima nei quadri successivi.
Il baritono Gherardini compiva onorevolmente questo trittico canoro: voce ampia, robusta,
vibrante. Egli si rivelò artista intelligente, interprete e cantante di rara sensibilità. Nella
3.1.5/63
turbinosa scena con Giulietta prima e con Romeo poi, il suo accento – ed egli sillaba con arte
– trovò vivacità e vigore d’espressione.
E degli altri che dire? Il tenore Nardi, questo grande artista nell’umiltà del suo ruolo, cantò
con arte e con quella voce in cui pare vibri la passione umana, e con quella sillabazione che
dovrebbe essere additata ad esempio a chi aspiri a chiamarsi artista. Ecco in lui un tipico
esempio del recitar cantando. E ottimo l’altro tenore Uxa, che ha voce ben timbrata e di bel
colore, un prezioso acquisto di questa stagione al “Costanzi”. La signorina Clelia Zotti,
esordiente, rivelò una così simpatica e armoniosa voce di mezzo soprano, educata a buona
scuola e non insensibile ai moti dell’anima, che di lei si può ben presagire per l’avvenire.
Piena di vita, vivacemente espressiva la Porter. E anche efficacissimi il Melnikoff e il De
Petris.
La cronaca lieta continua. Il coro cantò con vigoroso accento, con bella fusione, con spirito
musicale, istruito dal maestro Consoli, ormai riconosciuto come il prezioso collaboratore del
Vitale.
Costumi degni dell’avvenimento per fedeltà storica, per vivacità di colori e per buon gusto.
Le scene che il pittore Augusto Carelli ha ideato furono molto ammirate. Il cielo con le
nuvole vaganti al 1. atto è tra le più riuscite concezioni scenografiche; pieno d’intimità il
cortile al 2. atto e suggestivo, tutto intonato a un senso di patetica poesia, il chiostro
all’ultimo quadro.
Giulietta e Romeo ha avuto così tributo d’onore, di ammirazione e di fedeltà da quello
stesso pubblico che nello stesso teatro disse all’opera di Riccardo Zandonai:
-Va, per la tua via!...
206
Vice B., “Giulietta e Romeo” al Costanzi, «Il Corriere italiano», 18.1.1924 - p. 3, col. 5
Per questa ripresa di Giulietta e Romeo – la fortunata opera del maestro Zandonai – ieri
sera il Costanzi presentava un colpo d’occhio stupendo. Tutto esaurito. La Corte e
l’aristocrazia avevano risposto all’appello nella persona del Principe reale e delle più giovani
e belle dame che mai abbiano ornato i palchi e la platea del nostro teatro d’opera. La colonia
straniera era anch’essa largamente rappresentata da un pittoresco e gaio stuolo di signore
inglesi e americane, non giovani queste, anzi, a lasciarsi ingannare dalle loro candide
capigliature, del tempo che Berta filava, ma così fresche, dignitose e decorative nelle loro
vistose toilettes che ci veniva fatto di pensare alla perenne gioventù delle fiabe. Dopo il primo
atto si volle la marcia reale. Come per incanto i personaggi che circondavano il Principe
ereditario s’allinearono e scomparvero in fondo al palco. Il Principe solo, in piedi sull’attenti,
raccolse sorridendo e ringraziando gli applausi festanti del pubblico che gli giungevano
dall’alto e dal basso e da ogni lato. Insomma, un’altra bella serata da registrare su queste
cronache.
L’impresa ha messa in iscena quest’opera con una cura eccezionale. La parte di Giulietta
era sostenuta dalla signora Dandolo Stefania. Soprano di buona razza, voce sicura, estesa,
calda, espressiva, squillante. Certo non è a lei che il rustico Capuleti avrebbe potuto rivolgere
nel risentimento dell’autorità paterna offesa quelle vivaci espressioni colle quali apostrofa,
nel dramma originale, la sua disubbidiente figliola: «Faccia di quaresima! Carogna
clorotica!». Non ci perdiamo ad immaginare ciò che lo Shakespeare avrebbe scritto in questo
caso, se invece di avere nella fantasia un bocciòlo avesse avuta una bella rosa in fiore. Il fatto
è che malgrado la sua rigogliosa e trionfante figura, la Dandolo ieri sera si sentì Giulietta
3.1.5/64
nell’anima dal principio alla fine. E mai un istante dalla sua bocca scomparve quel riso
innocente e triste che deve accompagnare nel canto, nell’amore e nella morte l’infelice
eroina. Dobbiamo aggiungere che la sua arte di stare in iscena è pari alle sue virtù di cantante
e che non ci sono pieni orchestrali che riescano a sopraffare la forza dei suoi acuti. Fu molto
festeggiata.
Perfettamente a posto come voce e figura ci parve nei panni di Romeo il tenore Cingolani.
Non è questa un’opera dove si possano isolare episodi e ottenere successi di bravura. La
qualità del Cingolani, come quelle di quasi tutti gli altri interpreti ieri sera, ci si dimostrarono
dunque nel saper sostenere la parte con quella costante unità di tono che si richiede. Questo è
tutto ciò che possiamo dire per oggi a sua lode.
La stessa cosa dovremmo dire per il baritono Gherardini, senonché la sua voce robusta e
colorita merita un cenno particolare. Egli cantò distesamente, con energia nella scena del
duello e morì da prode. La contralto, signora Porter Agnese, se non sbagliamo, faceva la parte
della nutrice, ah di quale squisita e affettuosa comicità l’immortale William circonda questa
figura! Ieri sera ella non poté fare altro per la sua Giulietta che cantarle qualche canzone. Ma
lo fece in modo cordiale e popolaresco, con dolcezza e pastosità. In modo che riconoscemmo
subito nella Porter il personaggio che figurava7.
Al simpaticissimo Nardi era riserbato il ruolo del cantatore. La sua voce, che è sempre
quella del principe e dello scemo del Boris e non può mutare, sembra fatta apposta per
esprimere il dolore e il pianto delle cose irremissibilmente accadute. Nel suo cantare tenero e
voluttuoso c’è qualche cosa di spietato, come un rimorso che, passando per gli orecchi, si
compiace di tormentare l’anima. È vaga e inquietante la sua voce come la voce che corre,
funesta come una notizia a cui non si vorrebbe credere. E la sua dolcezza lascia pienamente
sconsolati. Ieri sera egli cantò una canzone in dialetto veronese, riuscendo, colla sua consueta
intelligenza e perfidia, a trasmettere nel suo canto la molle cadenza veneta.
A tutti gli altri interpreti impartiamo, poiché il tempo stringe e ci fa obbligo di concludere,
una lode generale. I cori, che hanno molto da fare in quest’opera, si comportarono con rara
bravura. Tutti i quadri riuscirono composti con vivacità senza sacrificio dell’armonia e della
musica. La galoppata orchestrale del terzo atto alla fine del primo quadro, eseguita e diretta
magistralmente, suscitò tale entusiasmo nel pubblico che se ne richiese insistentemente il bis.
Bene intonate le scene. Il maestro Vitale diresse vittoriosamente lo spettacolo.
207
a[driano] b[elli], “Giulietta e Romeo” al Costanzi, «Il Corriere d’Italia», 18.1.1924 - p. 5,
col. 1
L’opera di Riccardo Zandonai varata con schietto successo la sera del 14 febbraio 1922 è
tornata ieri sera tra noi dopo un giro trionfale nei principali teatri d’Italia e dell’Estero. Alla
distanza di due anni il nostro giudizio non può essere mutato, come non è mutato quello del
pubblico. Sinceri estimatori dell’alto ingegno dello Zandonai, di cui abbiamo seguito dal
«Grillo del focolare» l’ascesa verso una forma d’arte sempre più nobile e più aristocratica,
non possiamo non essere sinceramente lieti che quel primo nostro giudizio, di fronte a
parecchi altri autorevoli contrari, sia stato confermato dai successi in altri pubblici ed abbia
trovato conforto dal decorso del tempo, vero e autorevole giudice in fatto di opere teatrali.
7
L'articolista cade in un equivoco: il personaggio di Isabella, inventato da Rossato, figura come «fante di Giulietta», non come
balia.
3.1.5/65
Dopo la prima rappresentazione dicevamo che Giulietta e Romeo è un’opera di un
raffinatissimo conoscitore della tecnica armonica e istrumentale, di un artista a cui la difficile
arte dei suoni non serba più alcun segreto, e sopratutto di un meraviglioso sinfonista, oltre
che di un melodista. E non avevamo errato. La melodia dello Zandonai ha nel suo
cromatismo tutta una speciale caratteristica, che diviene parte integrante della sinfonia. E
questa sinfonia, tutta malìa di suoni, magnifico riflesso della vita interiore dei personaggi,
costituisce l’opera d’arte armoniosa di poesia e di musica, e indubbiamente s’impone
all’attenzione anche del profano.
Invano si cercherebbe il largo respiro e quel tale colpo d’ala che rapisce le folle, o il grido
umano che fa palpitare il cuore e fa velare gli occhi di pianto; invano si cercherebbe tutto
questo perché questo Zandonai non vuole né mai ha voluto. Chi demolisce per queste ragioni
l’opera sua credo che finisca per fare un elogio al maestro: il quale ha voluto sempre tenere i
suoi lavori in una superiore forma di aristocrazia, senza mai concedere nulla all’effetto
immediato. Anche là ove la funzione del melodramma porterebbe inevitabilmente ai soliti
effetti oleografici, egli sa infondere all’insieme una tale signorilità di linee e tale aristocratica
delicatezza di movimento che suggestiona.
Egli sa adoperare l’orchestra con una mirabile padronanza e con una pittoresca varietà di
ritmi e di impasti; nei quali invano si cercherebbe l’imitazione di chicchessia. Egli dunque è
originalissimo, sia nella melodia, sia nell’armonizzazione, sia nella orchestrazione. Ma la sua
originalità non si risolve in astruserie o in stranezze, essendo sincera espressione della sua
squisita anima di artista.
Poter conoscere come lui la tecnica, saper maneggiare gli istrumenti con quella finezza
impeccabile e con quel costante equilibrio di cui si dimostra maestro assoluto, respingere
ogni lusinga di effetto volgare, sono già doti che pongono un musicista fra i primissimi.
Vi sono quadri, come quello con cui si inizia l’opera, la ronda e il finale del primo atto, nei
quali non si saprebbe che cosa ammirare maggiormente, se il gusto squisito della forma o la
spontaneità della ispirazione.
E quando poi si inizia e si svolge, si amplia e risolve il grande duetto in tutto il razionale
sviluppo, allora lo Zandonai sa essere melodista convincente e pieno di commozione e parla
un linguaggio così soffuso di soave e intima poesia che ogni parola e ogni pensiero vengono
coloriti in un’onda sonora squisitissima. È certo un linguaggio oltremodo personale che
immediatamente non si concede alla folla, un linguaggio così intimo che non scende subito
nella sala ma direi quasi bisogna andarlo a sentire più da presso per poter vivere più da vicino
la vita interiore dei diversi personaggi che quel linguaggio disegna e colorisce.
Non così si dica quando lo Zandonai deve rendere una situazione drammatica, perché
allora la sua forza è veramente grande e capace di trascinare al più schietto entusiasmo ogni
pubblico, come ad esempio nell’angoscia disperata di Romeo e nel famoso intermezzo, che
sono indubbiamente pagine di immediata emotività senza pari.
***
L’esecuzione, curata dal m.° Vitale, è stata eccellente. Il valoroso direttore ha saputo
mettere a profitto tutta la sapienza comunicativa della sua arte, ottenendo dall’orchestra, dagli
artisti, dalle masse effetti magnifici di insieme e di particolari. L’opera, sotto la sua guida
vigile e intelligente, è venuta fuori in una splendida chiarezza. Nell’intermezzo è stato
assolutamente magnifico e venne salutato da una ovazione calorosissima che si è prolungata
parecchi minuti. Si voleva ad ogni costo la replica, che non venne concessa. Il Vitale ieri sera
è stato un vero trionfatore.
Stefania Dandolo si presentava per la prima volta a Roma e, diciamolo subito, fu una
gradita rivelazione. Possiede una voce di bellissimo timbro, estesa, intonata, che si spiega con
3.1.5/66
dolcezza ad ogni esigenza della parte, e mostra di avere un temperamento artistico di primo
ordine. Essa ha saputo vivere il personaggio di Giulietta con sorprendente verità così negli
accenti di dolorosa poesia come nella pietosa drammaticità dell’ultimo atto. E fu
applauditissima.
Il tenore Augusto Cingolani anch’esso era nuovo per Roma, e anch’esso si rivelò fin dalle
prime scene per artista colto e dotato di voce bella, bene educata e che sa spingersi al registro
acuto con sicurezza ed efficacia. Nella disperata scena del terzo atto fu molto ammirato.
Il baritono Giulio [sic] Gherardini diede alla rude parte di Tebaldo tutta la sua giusta linea
d’arte. È cantante sicuro, di bella ed estesa voce e di una dizione efficacissima.
Luigi Nardi confermò nella parte del cantastorie il felice successo riportato due anni or
sono. Artista intelligentissimo, rende il personaggio con impressionante verità, e sa cantare le
famose strofe del terzo atto con accorata insuperabile espressione.
La Ricci fu una Isabella piena di espressione e di efficacia, cantò e rese la sua parte da
eccellente artista. Ottimi gli altri: l’Uxa, il De Petris, la Zotti, il Mellini.
Perfetti i cori istruiti dal bravo maestro Consoli.
Le scene magnifiche per disegno, prospettiva e colore. La via di Verona, il cortile della
casa di Giulietta, la piazza di Mantova e il portichetto con la tomba sono stati riprodotti da
visioni delle città ove si svolse la pietosa e terribile vicenda. Ma questa perfezione non deve
meravigliare. Sul manifesto è scritto il nome dell’artista che quelle scene disegnò ed eseguì:
Augusto Carelli.
208
A[lberto] G[asco], “Giulietta e Romeo” di Zandonai al Teatro Costanzi, «La Tribuna»,
18.1.1924 - p. 3, col. 3-4 (con una foto del soprano S. Dandolo)
Dopo di avere empito di gridi d’amore varie dozzine di teatri italiani e sud-americani,
Giulietta e Romeo hanno fatto ritorno a Roma, alla città ospitale e munifica dalla quale
appunto erano partiti due anni or sono per la conquista del mondo. Molta gente aspettava
ansiosamente la riapparizione degli amanti focosi e canori. Giulietta, nella sua prima
esibizione, aveva saputo sedurre il pubblico maschile del “Costanzi” e varie gentildonne
d’antica stirpe si erano compiaciute di gittar l’occhio su Romeo. Si desiderava che la bionda
Capuleto e il Montecchio pugnace si ripresentassero, per giudicare in modo definitivo dei
loro pregi, come campioni di pura razza italiana e aspiranti-eroi della scena lirica.
Per tanto, iersera, il ricevimento in onore della coppia illustre ha dato luogo a uno
spettacolo pittoresco e maestoso. Il “Costanzi”, non ostante l’asprezza dei prezzi, era
affollatissimo. Anche S. A. il Principe Ereditario aveva provato il desiderio di venire a fare la
conoscenza della bella veronese: s’indovina che l’intervento dell’Augusto personaggio ha
conferito alla festa un decisivo carattere di solennità. In onore del Principe è stata suonata la
Marcia Reale, tra applausi giocondi.
La rappresentazione dell’opera di Riccardo Zandonai si è svolta impeccabilmente, sotto la
direzione del maestro Edoardo Vitale. Il pubblico eletto ha potuto ammirare ad una ad una le
bellezze sparse per i tre atti del melodramma amoroso e guerresco: i difetti – che pur non
mancano – sono sembrati meno sensibili e perciò, grazie al valore spiegato dall’eminente
direttore d’orchestra e alla robusta interpretazione degli artisti principali, l’opera è passata tra
lieti consensi. Anzi, c’è stato un momento di entusiastico fervore: dopo l’intermezzo
dell’ultimo atto, pagina di un color rosso-fuoco, impetuosa di ritmo, esuberante di sonorità,
l’uditorio si è abbandonato ad acclamazioni prolungate e a richieste di bis. Il fatto ci è parso
3.1.5/67
assai significativo perché il pubblico delle premières al “Costanzi” è di una proverbiale
freddezza: gli abbonati ritengono di degradarsi applaudendo con calore: per convincerli a
uscire dal loro riserbo bisogna compiere miracoli, o poco meno.
Quanto ai giudizi complessivi sull’opera, tutti convenivano nel riconoscere il prestigio
teatrale di questa Giulietta e Romeo, sempre interessante per la vicenda scenica e per il tono
di acre passionalità della musica. Tutti, altresì, erano d’accordo nel preferire il primo atto e le
scene iniziali del terzo al resto del lavoro. In realtà, il vivace episodio coloristico della zuffa
tra i Capuleti e i Montecchi – con la indovinata canzone della taverna –, la prima parte, così
melodiosa e discreta, del colloquio di Giulietta e Romeo al balcone e la scena –
indiscutibilmente geniale – del cantastorie allor che la procella urge e il Montecchio piange
disperato, sono i momenti culminanti del nuovo melodramma. Qui l’arte dello Zandonai si
afferma poderosa e personale. Nel secondo atto si avverte invece una certa grevezza: sembra
che l’aria non circoli nel cortile di casa Capuleto. Comunque, l’effetto teatrale è sempre
raggiunto e ben si comprende come questa Giulietta e Romeo, non ostante le riserve di alcuni
critici, si sia imposta all’approvazione del pubblico, sempre ed ovunque.
Riccardo Zandonai, trattenuto a Genova da impegni professionali, non aveva potuto
accogliere l’invito di presenziare l’esecuzione di iersera. Peccato davvero, perché egli
avrebbe intensamente goduto assistendo allo spettacolo ricco e armonioso e vedendo
interpretato con esemplare fedeltà ogni suo intendimento di drammaturgo musicale.
Abbiamo già detto della straordinaria efficacia della direzione di Edoardo Vitale.
Aggiungeremo che l’orchestra ha seguito con sollecitudine infinita il maestro esperto: essa è
stata di volta in volta pieghevole, vibrante, carezzevole, imperiosa come appunto doveva
essere. Nell’intermezzo la sonorità sprigionata dalla falange istrumentale ha letteralmente
sbalordito l’uditorio. Altrove, e in ispecial modo nella seducente descrizione dell’alba alla
chiusa del primo atto, l’orchestra ha bisbigliato cose tenerissime.
“Giulietta” era Stefania Dandolo, artista assai giovane, venuta in rapida fama. Voce
abbondante, sicura e piena di malìa; giuoco scenico appropriato; figura leggiadra e mimica
passionale oltremodo espressiva. Nella costellazione lirica c’è una nuova stella. Ringraziamo
gli Dei del dono cospicuo... La balda cantatrice ha trovato nel tenore Augusto Cingolani il
compagno che le conveniva. Anche il Cingolani è quasi un debuttante, ma canta e recita
come un artista provetto. Dotato di mezzi vocali di prim’ordine, di un ardore lirico genuino,
di una bella figura fisica, questo “Romeo” ha fatto invidiare da molte dame il destino di
“Giulietta”. A quanto si afferma, è stato proprio il maestro Zandonai a scoprire il Cingolani,
allievo del Liceo musicale di Pesaro. Si tratta senza dubbio di una scoperta preziosa. Ottimo
terzo il baritono Gherardini, che ha cantato la parte di “Tebaldo” con deciso vigore, dandole
il massimo rilievo. Superiore ad ogni elogio il simpatico Nardi, nel ruolo del cantastorie;
lodevole la Porter; molto notata la signorina Clelia Zotti che, per quanto sacrificata in una
parte di scarso rilievo, è riuscita ad emergere, profondendo note di splendido timbro e di larga
risonanza. Coro egregio, educato con nobile disciplina dal maestro Consoli. Giuoco delle
masse regolato a perfezione. Di pieno effetto lo scenario dell’ultimo quadro, dovuto alla
fantasia fertile del pittore Augusto Carelli.
Concludendo, uno spettacolo allestito con estrema cura e singolare perspicacia
dall’impresa del nostro massimo teatro. A Giulietta la fortuna si serberà amica per molte sere.
[...]
209
3.1.5/68
gbar [= Giorgio Barini], “Giulietta e Romeo” di Riccardo Zandonai al Teatro Costanzi,
«L’Epoca», 18.1.1924 - p. 3, col. 5
Il più recente spartito di Riccardo Zandonai procede con fortuna la sua carriera e divide
con Francesca da Rimini liete sorti e favori di pubblico, a preferenza delle altre opere del
valoroso musicista, le quali, in verità, meriterebbero vita più attiva. Giulietta e Romeo, infatti,
ha una fisionomia che richiama direttamente alla nostra fantasia le linee fondamentali della
Francesca: ha efficacia drammatica innegabile ma è una seconda edizione, non perfezionata,
della maggior sorella: evidentemente l’onda di poesia che pervade il dramma del d’Annunzio
ha scosso la fantasia del musicista più vivamente e profondamente che non il libretto di
Arturo Rossato, libretto volutamente diverso dal dramma shakespeariano, di cui non ha né
l’intenso profumo poetico né la stupenda freschezza giovanile.
Ma la magnifica abilità dello Zandonai, la facilità scorrevole di scrittura, la chiarezza delle
idee melodiche e la organicità formale interessano e conquidono l’uditorio, anche se la
fantasia inventiva non è molto ricca né troppo caratteristica, anche se lo sviluppo scenico e la
modellatura dei personaggi presentino elementi non sempre gustosi. Le ire che di frequente si
sferrano, le lotte, i combattimenti tra Montecchi e Capuleti conferiscono allo spartito una
certa animazione sonora, una manifestazione di forza (forse più esternamente fragorosa che
internamente robusta) per cui i quadri che si seguono appaiono coloriti e mossi: ma la materia
veramente musicale, l’invenzione melodica non abbonda né si rivela efficacemente originale.
Il primo atto ha varietà di episodi, tra cui notevole per carattere e spontanea vivezza la
canzone che i Montecchi intonano nella taverna; ricche di felici contrasti le pagine in cui si
svolge il dialogo amoroso di Giulietta e Romeo; di buon effetto le voci lontane, stornellanti,
alla chiusa. Nel secondo atto, il dialogo bene spezzato dalle fanciulle, la scena turbolenta tra
il brutale Tebaldo e la dolente Giulietta; la baruffa, la sfida, il duello danno animazione alla
vicenda scenica, e l’orchestra ne ammanta la visione con vivaci colori. Nel terzo infine, la
scena animata iniziale, l’indovinato lamento del cantastorie preludono simpaticamente
all’intermezzo sinfonico della cavalcata: pagina poderosa e irruente, di grande effetto,
sebbene di una fragorosità sproporzionata e che pare voglia esprimere il pesante procedere di
un reggimento di cavalleria anziché la rapida corsa di due soli cavalieri nella notte piovosa.
Contrasto ben riuscito con la malinconia appassionata e lamentosa cui si informa la funerea
scena finale.
***
La esecuzione di Giulietta e Romeo al Costanzi è ammirabile, ed è tale da presentare al
pubblico lo spartito nella più attraente e animatrice estrinsecazione: Stefania Dandolo,
“Giulietta”; Augusto Cingolani, “Romeo”; Emilio Gherardini, “Tebaldo” sono interpreti e
cantanti intelligenti e appassionati, di singolare valore: belle voci, bell’arte di canto, efficacia
d’accento, disinvoltura scenica sono le qualità che in notevole grado si uniscono in ciascuno
di essi, così da destare la più sincera ammirazione e approvazione dell’uditorio: per le altre
parti, elementi preziosi come l’ottimo Luigi Nardi, eccellente: Montecchio, ammirabile
“Cantatore”: [!?] e bene a posto, affiatati e sicuri, come Agnese Porter e Clelia Zotti, Guido
Uxa, Alfredo De Petris, Nestore Mellini.
Edoardo Vitale ha concertato e diretto lo spartito con magistrale efficacia, con alto senso
d’arte, con intelligente acutezza di interprete, ben secondato dai solisti, dall’orchestra attenta,
agile, vibrante; dalla massa corale ottimamente istruita dal maestro Achille Consoli. Assai
lodati gli scenari, opera di Augusto Carelli; ben riusciti i costumi; ordinato e vivace il
movimento scenico, di cui si è occupato con sommo interessamento il comm. Carlo Clausetti,
appositamente venuto a Roma da Milano.
3.1.5/69
Ad ogni atto, applausi calorosi e insistenti hanno ripetutamente evocato al proscenio il
maestro Vitale e i cantanti; dopo la cavalcata le acclamazioni hanno assunto carattere
trionfale: si è chiesta con insistenza la replica di quell’intermezzo sinfonico.
All’indovinato spettacolo, che avrà certamente molte repliche, assisteva, festeggiatissimo
dal folto pubblico, il Principe di Piemonte.
210
r.m., “Giulietta e Romeo” al Costanzi, «L’Impero», 18.1.1924 - p. 3, col. 3
L’ultima opera di Riccardo Zandonai, Giulietta e Romeo, torna al teatro Costanzi alla
distanza di solo un paio d’anni, carica di onori e di allori.
Al suo apparire ha suscitato una larga eco di lodi, di critiche e discussioni; ma, da Roma,
via subito a Verona dove il maestro aveva fatto vivere per la massima parte dell’opera i suoi
eroi e dove egli stesso era rimasto qualche tempo lavorando a Giulietta e Romeo, ospite di un
maestro veronese; poi via ancora in un lungo giro attraverso l’Italia ed all’Estero,
raccogliendo ovunque vittorie su vittorie. L’ultima è quella di Genova dove Riccardo
Zandonai, che vi dirige, rimarrà per altre sei repliche oltre quelle fissate dal contratto.
In tutto, più di venti teatri hanno ospitato Giulietta e Romeo, perciò è facile credere che la
prima di ieri sera era attesissima: pubblico numeroso più del consueto ed una cronaca che si
può riassumere in tre chiamate calorose alla fine di ogni atto ed un applauso più insistente
con richieste di bis dopo l’intermezzo del terz’atto, che il maestro Vitale ha diretto con
particolare ardore. A lui, del resto, va dato il maggior merito per la buona esecuzione con cui
il Teatro Costanzi ci ha ripresentata Giulietta e Romeo.
Giulietta, Stefania Dandolo e Romeo, Augusto Cingolani, hanno gareggiato in bravura: la
loro arte ci è piaciuta senza restrizioni, ci è parsa salda, basata su di una squisita sensibilità e
dotata di mezzi vocali tali da poter affrontare tranquillamente le molte note arrampicate con
cui Zandonai ha fiorito le parti; anche il gioco scenico di questi due artisti, particolarmente
della Stefania Dandolo, è vario ed efficace.
Il baritono Emilio Gherardini, nella parte di Teobaldo [sic], ha avuto campo di mettere in
evidenza le sue molte buone doti vocali ma non è parso altrettanto disinvolto e sicuro
scenicamente.
Gli altri, tutti ottimamente, dall’inarrivabile Nardi alla Porter, Uxa, De Petris, Zotti e
Mellini.
Le nuove scene di Augusto Carelli inquadrano molto bene la musica di Zandonai;
dall’Albergo del Cavallo Nero si gode una veduta così esatta di Mantova che se non
mancasse il Tiro al Piccione e la casetta delle Guardie del Dazio parrebbe proprio di starci
ora.
L’orchestra, sotto la guida precisa del maestro Vitale, impeccabile; molto bene anche i
cori, istruiti dal maestro Consoli.
All’intero spettacolo ha assistito il Principe Umberto a cui, prima del secondo atto, s’è
fatta una festosa dimostrazione.
211
r[oberto] f[orges] d[avanzati], “Giulietta e Romeo” al Costanzi, «L’Idea nazionale»,
18.1.1924 - p. 3, col. 2-3
3.1.5/70
Sala elegantissima; puntualità regale nel Principe Umberto, che dovrebbe esser d’esempio
agli ostinati ritardatari o frettolosi disturbatori del primo e dell’ultimo atto; applausi spontanei
ad una esecuzione consolante, guidata con impareggiabile robustezza di comando dal maestro
Vitale.
Appena apparsa sul verone nella scena felicemente architettata dal pittore Carelli, se non
tutta felicemente tradotta sul palcoscenico dove ci si sottomette a tante tirannie, Giulietta ha
gettato le sue note dolci e squillanti, e il pubblico ha avuto la lieta promessa di un canto
rotondo, sincero, generoso, giovanile. E la promessa è stata mantenuta, ché la Dandolo ha
saputo vincere la stessa formosità della sua persona ed esprimere una Giulietta canora,
sorridente, amorosa, niente affatto preoccupata dei culmini vocali che il lirismo retorico di
Zandonai tocca fin dal principio per non abbandonare mai più. Accanto a lei il tenore
Gingolani [sic] è stato un Romeo gentilmente angosciato di dover sottoporre la sua semplice
passione alla torbida sanguinaria vicenda di Verona. La voce di questo giovine cantante,
quando non sia obbligata ad esasperazioni di sonoro declamato come ricorrono nell’opera del
maestro trentino, ha robustezze generose e dolcezze morbide ed espressive. La violenza
inesorabile di Tebaldo, che s’apre in una fugace parentesi di affettuosità solo nel dialogo con
Giulietta al secondo atto, ha avuto bella rotondità e calore timbrato di accento per virtù del
baritono Gherardini. Nel primo quadro del terzo atto, dove la drammaticità è sensibile se pure
ottenuta con mezzi esteriori, il canto fine e risonante di commozione del tenore Nardi, un
artista minore che potrebbe sempre esser di esempio a tanti maggiori, è piaciuto assai. E sulla
scena bene inquadrata del pittore Carelli, se i trapassi di luce fossero stati più accuratamente
misurati e meglio fossero stati ordinati i movimenti delle masse, l’effetto sul pubblico sarebbe
stato ancora più vivo. Ma l’applauso risonò scrosciante subito dopo la catapultica cavalcata
di Romeo attaccata con foga vigorosissima dal maestro Vitale. E alla fine dell’opera, sulla
morte frigidamente melodrammatica dei due amanti, insieme con la luce e i canti dell’alba
caddero gli applausi del pubblico.
Così è stato battezzato il quinto spettacolo di questa stagione, che ha offerto finora una
scelta felicemente eclettica ed esecuzioni nobili e felici ad un pubblico che si pigia sempre
nelle sale cinematografiche con una frequentazione che ha il costo dell’assurdità e non sa
riempire i vuoti d’una sala come il Costanzi. Ma queste son melanconie di cui non è il
momento di discorrere qui, tanto più che vien la voglia di proporre il rimedio paradossale di
una inimmaginabile punizione: quella di serrare i battenti del teatro, lirico e drammatico che
sia, e soddisfare il gusto di tutti col solo cinematografo.
Intanto qual valore ha avuto questo ritorno di Giulietta e Romeo a distanza di due anni sul
palcoscenico dove fu rappresentata la prima volta? L’opera, che ha girato in Italia e pel
mondo, si è avvicinata agli ascoltatori, non più preoccupati di pronunciare un giudizio, e per
giunta il primo giudizio, con una nuova e libera e immediata virtù di commozione? Gli
applausi di ieri sera sono stati, senza dubbio alcuno, di cordiale accoglienza, di piacevole
comunione, di consenso pronto. Zandonai è un operista, e forse questa Giulietta e Romeo è
tutta quanta abilità di operista, nella successione episodica, nella coloritura melodica, nella
teatralità sonora. È tutta fatta per il pubblico, anche se non sempre le intenzioni, del librettista
specialmente, abbiano raggiunto l’efficacia cui miravano. E il pubblico non può che
applaudirla; nella ricerca affannosa di voci nuove ed ancora inespresse, nell’attesa paziente
dei nuovi operisti della generazione postpucciniana, riascoltarla.
Quanto a farle un posto nel cuore; quanto a domandarle l’istante di comunione intima o di
anche spettacolosa esaltazione lirica, questo non pare che sia, nemmeno in un ritorno felice di
una felice esecuzione. Ma una digressione critica ed estetica oggi non occorre. Basta
concludere che Giulietta e Romeo è uno spettacolo di pieno godimento, degno di quella che
3.1.5/71
oggi può essere la scena lirica, e che questo ritorno sulle scene del Costanzi è, a voler esser
sereni anche per un giudizio severo di schietta espressione artistica, assai più giustificato che
non l’inesplicabile esilio che alla Scala è stato inflitto ad un operista come Zandonai.
212
Le repliche di “Giulietta e Romeo” al Costanzi, «Il Giornale d’Italia», 22.1.1924 - p. 3, col. 6
La seconda della Giulietta e Romeo datasi sabato sera dinanzi ad una sala affollatissima ed
elegante, ha rinnovato il grande successo della première. Tutta l’opera fu seguita con vivo
interesse e, a scena aperta e a fine d’ogni atto, gli applausi, le acclamazioni furono schiette e
insistenti. Calda di passione e vibrante di drammaticità fu giudicata la interpretazione, di cui
spetta il merito all’illustre maestro Edoardo Vitale e col quale concorsero al successo la
Dandolo, il Cingolani, il Gherardini e il Nardi, oltre il coro. La Dandolo cantò con una voce
così appassionata e dolente e con un fascino di così commossa femminilità che il suo canto si
scioglieva con dolcezza poetica.
Nell’ultimo atto la sua voce fu tutta pervasa di una musicalità accorata, onde il pubblico
volle festeggiare la giovane e valorosa artista con acclamazioni fervide.
Dopo l’intermezzo la dimostrazione assunse tale imponenza che del geniale squarcio
sinfonico-corale si voleva la replica, che non venne concessa. Della Giulietta si avrà la terza
replica in 10^ di abbonamento, domani sera alle ore 21.
Telegramma di Riccardo Zandonai al maestro Edoardo Vitale
Da Genova – dove Riccardo Zandonai dirige al Carlo Felice la Giulietta e Romeo, che in
quel teatro era domenica alla decima replica – avendo avuto notizia del grande successo di
Roma, ha inviato all’illustre maestro Edoardo Vitale il seguente telegramma:
«Maestro Vitale - Teatro Costanzi - Roma.
«Apprendo il magnifico esito di Giulietta e Romeo al “Costanzi”. Felicissimo invioti
l’espressione della mia più viva profonda gratitudine per la tua sapiente e fraterna
collaborazione e un affettuoso abbraccio
RICCARDO ZANDONAI».
213
G[iuseppe] G[abriele] G[ianolio], Giulietta e Romeo di R. Zandonai al Costanzi, «Musica»
XVIII/4, 24.1.1924 - p. 2, col. 3-4 / p. 3, col. 1 (con una foto di E. Vitale)
L’italianità di Riccardo Zandonai non potrebbe rifulgere più pura ed assoluta di quanto
balzi vivida e possente dalle appassionate pagine dei suoi ultimi drammi musicali.
Come nella Francesca da Rimini, così in questa sua Giulietta egli quasi più che operista
appare veramente l’evocatore impetuoso e cosciente dell’anima antica italiana travagliata
dalle lotte gagliarde e dalle passioni sanguigne, martoriata dai supplizi che ogni sorta
d’ingiustizie civili e spirituali le precipitavano addosso, tentando, ma invano, di soffocarne
l’anelito potente ed eterno.
Noi, figli lontani nei secoli di quei padri gagliardi, ne risentiamo nelle vene ancora l’ansito
impetuoso, come l’inestinguibile forza vitale che d’ogni passione, d’ogni dolore foggiava un
motivo di bellezza maschia e di gioia trionfante.
3.1.5/72
È per questo che lo sforzo artistico di un musicista così completo e sincero com’è lo
Zandonai ci riempie l’animo, direi quasi, di orgogliosa soddisfazione. Quando un autore dà
segni così chiari di profonda conoscenza dell’anima di sua gente da evocarne ed illustrarne i
fasti passati, da farne materia nobile della sua arte, dà insomma prove così assolute della sua
preparazione spirituale da costituirsi cantore delle inobliabili gesta italiche, trascende in un
certo senso i limiti precisi segnati dal pentagramma e mostra di quanta maggior potenza
disponga il musicista moderno quando allarghi il più possibile i suoi orizzonti sulla vita che
lo circonda.
Tanto si è scritto sulla «Giulietta e Romeo» al tempo del suo sorgere all’orizzonte musicale
italiano, che ci sembra assolutamente fuori posto riaprire la discussione sui pregi e sui difetti
di quest’opera. Essa deve anzitutto, e quasi esclusivamente, giudicarsi al lume delle brevi
considerazioni che abbiamo premesse, e nel suo complesso. Abbracciamo con un solo
sguardo tutta la vicenda musicale, che si svolge attraverso ai tre atti: ne coglieremo allora
tutta l’innegabile forza evocativa ed emotiva, ne apprezzeremo la linea decisa e netta, lo
sviluppo razionale e sollecito, la concitazione costante che sospinge incessantemente e senza
esitazioni l’autore per la via segnatagli dai nostri grandi e ch’egli di buon grado
generosamente percorre, senza lasciarsi allettare da un ibrido e inverecondo manierismo
internazionale di gran moda.
Dato questo doveroso sguardo generale e riconosciuta la forte costituzione organica
dell’opera, cui perciò è assicurata una felice vitalità, si potrebbe scendere all’esame dei
particolari tecnici copiosi, sempre interessanti e vivaci, spesso originali.
Ma a noi piace infinitamente di più, quando ne valga la pena, anziché spulciare
inverecondamente l’opera di un autore, cercare invece dalla sua opera di risalire alla sua
anima, e penetrarvi, e comprenderla, e metterci all’unissono con quella.
Ebbene, ora ne vale grandemente la pena.
Lasciamo la parte tecnica ad altri, che potranno così agevolmente far pompa della propria
competenza a chi li sente e a chi non li sente, e restiamo paghi di restringerci cordialmente ad
intimo colloquio spirituale con Zandonai, con questo generoso figlio d’Italia, e di ringraziarlo
per le forti e belle emozioni che la sua musica forte, suasiva, prepotente ci ha procurate.
L’esecuzione, curata come al solito nei suoi minimi particolari con ogni scrupolo
dall’Impresa, non poteva essere che soddisfacente al più alto grado. Il M.° Vitale, ormai
avvezzo a legger le proprie lodi su tutte le colonne di giornali e riviste, sembrò ancor più del
solito geloso della sua fama, a buon diritto acquistata attraverso innumeri vittoriose battaglie.
Egli fu eccezionalmente vigoroso e impetuoso. L’orchestra e il palcoscenico erano suoi
schiavi: egli li trascinava attraverso il turbine della musica e dei suoni con folle energia: la
famosa cavalcata ebbe ritmi, pulsazioni, disperazioni appassionanti. Il primo duetto d’amore,
la contesa del primo atto, l’episodio della fiaccola, quello del cantastorie e tutti gli altri
numerosi momenti culminanti dell’opera trovarono nella sua maestria perspicace un
efficacissimo risalto.
Stefania Dandolo fu una desiderabile Giulietta per languidezza e passione come per
bellezza di canto e di persona. Ella persuase il pubblico, e lo fece partecipe dei sentimenti da
lei così veracemente espressi.
Il tenore Cingolani ottenne ottimi suffragi nella tragica parte di Romeo. La sua voce piena
e squillante dava un bel risalto alla scena sempre intelligente, spesso ammirabile, come per
esempio quand’egli ode la canzone del cantastorie da cui apprende la morte di Giulietta. Egli
dimostra di aver perfettamente e con amore grande studiata la sua parte ed incarnato il suo
personaggio.
3.1.5/73
Il baritono Gherardini sostenne con valore e splendore di mezzi vocali e padronanza
assoluta di scena la selvaggia parte di Tebaldo. Con disinvoltura si produsse la Porter nella
parte della nutrice [sic]; una delle ancelle era Clelia Zotti, che, confinata in una particina di
poca importanza, seppe tuttavia dimostrare che cosa potrà rendere la sua bella, calda,
simpatica voce in una parte veramente degna di lei. La signora Mugnaini, sua maestra, ne può
andar fiera.
Il tenore Nardi, cantastorie, si dimostrò altissimo, commovente artista, cantante superbo.
I cori, egregiamente preparati dal M.° Consoli, cantarono con fusione, efficacia ed
intonazione perfetta.
Le scene decorosamente allestite dal pittore Augusto Carelli.
Il pubblico, tra cui emergeva S.A.R. il Principe Ereditario, gustò con visibile piacere
l’esecuzione dell’opera, così ben preparata e presentata secondo le gloriose tradizioni del
Costanzi.
214
C. P., “Giulietta e Romeo” di Zandonai al Teatro dell’Opera, «Il Piccolo», 7.1.1936 - p. 2,
col. 2-3-4 (con una foto di M. Carbone e una di A. Minghetti)
Il ritorno agli onori della ribalta, dopo un decennio d’assenza, della Giulietta e Romeo
offre una cospicua e concreta occasione per specchiarci un poco, noi uomini novecento, nel
nostro languido e dorato decadentismo; di saggiare la resistenza di quel periodo di transizione
che, uscendo dagli schemi del vecchio dramma e della vecchia letteratura, tentava, sotto
brillanti auspici, vie nuove:
arma la prora e salpa verso il mondo.
Un mondo che rifiutava le regole per tendere all’estasi; e chiamava come testimoni (o
martiri come li chiamavano i greci) del nuovo estatico sensualismo, Alessandria e Bisanzio, e
la mistica medioevale e l’arte fiorita prima di Raffaello; dissolti in un mare di sensazioni
nuove, intrise di simboli e di cultura.
L’esponente massimo di questo periodo è Gabriele d’Annunzio: il suo riflesso pittorico
Aristide Sartorio. In questo clima e in questa atmosfera nacquero la Francesca da Rimini e la
Giulietta e Romeo di Zandonai. Tuttavia quest’ultimo, musicista innanzi che letterato o
pittore, se risentì e respirò come è naturale l’aria del tempo e fu attratto anch’egli dalla
simpatia degli amori celebri, ebbe il merito di non lasciarsi per nulla opprimere dalle lusinghe
bizantine; e di pensare e costruire musicalmente i libretti che gli venivano sottoposti.
Esempi di ciò ve ne sono a fascio nella Francesca; e ritornano in più d’un luogo della
Giulietta, fino alla divisione ritmica delle scene, alla necessità di scandire l’azione come un
solfeggio di battute. Osservate con qual coerenza nell’atto primo si va dalla zuffa alla ronda,
e dalla ronda al duetto d’amore, e dal duetto alle maschere, per ritornare al duetto. Il cambio
di scena è affidato alla bacchetta del direttore più che al gesto del buttafuori e nasce da una
necessità musicale anziché determinarla.
Così il finale dell’atto secondo, legato e concluso come un giro di vite, è un mirabile
esempio di combinazione musicale: quello di far nascere la cadenza del banditore
dall’atmosfera torbida del delitto recente.
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Lo stesso procedimento ritroviamo nella prima scena dell’atto secondo8, dove questo senso
della cadenza appare con vera genialità nel ritmo pari della cavalcata, superbo colpo di teatro
all’apice della tempesta psicologica di Romeo.
Su questo schema ritmico veramente eccellente la musica corre come un fiume sinuoso,
con una bella continuità di respiro.
Un suggestivo spettacolo pieno di richiami di un’atmosfera surreale, anche se nel letto di
questo fiume non c’è esuberante ricchezza di sabbie aurifere. I nuclei inventivi, sfioccati con
sapienza dall’uno all’altro passaggio, non sono infatti frequenti; se ne potrebbe estrarre uno
schema caratteristico, dosato tuttavia e adoperato con intelligente, finissima abilità.
L’edizione che ha dato di Giulietta e Romeo il Teatro Reale dell’Opera ha suscitato i più
vivi applausi del numerosissimo pubblico, e una scrosciante ovazione ha salutato la fine della
mirabile cavalcata, chiamando più di una volta alla ribalta l’autore dell’opera.
Applauso ad ogni calar di sipario ed a scena aperta hanno avuto gli interpreti, da Maria
Carbone che è stata una Giulietta dolce e aggraziata, ad Angelo Minghetti, che pur non
disponendo di eccezionali mezzi vocali ha saputo rendere con viva drammaticità la parte di
Romeo, a Carmelo Maugeri, applaudito dopo il duetto dell’atto secondo, a Maria Huder nella
parte di Isabella, fante di Giulietta, ad Alessio De Paolis, che ha cantato con molta grazia ed
intelligenza il racconto della morte di Giulietta, a tutti gli altri minori interpreti dell’opera.
Belle e suggestive le scene di Benois e lodevole la regìa di Govoni, anch’egli apparso al
proscenio in una delle numerose chiamate.
Il maestro Serafin ha trasmesso all’orchestra e agli interpreti tutta la ricchezza della sua
passione e del suo sentimento.
Il successo personale di Zandonai è stato pienissimo, completo.
[...]
215
Alberto Gasco, “Giulietta e Romeo” di Riccardo Zandonai, «La Tribuna», 8.1.1936 - p. 3,
col. 1-2-3-4-5-6-7 (con la riproduzione di un bozzetto: scena del primo atto)
Dodici anni sono stati necessari a Giulietta ed al suo fido Romeo per ritrovare la via del
massimo teatro romano, che pareva dovesse essere per loro un nido durevole. Dodici anni! E
pensare che per due stagioni gli amanti veronesi, richiamati a nuova vita da Riccardo
Zandonai, avevano eccitato l’acuto interesse e dilettato il pubblico della Capitale, sicché,
partendo per la conquista delle piazze teatrali più accreditate, gli abitatori dell’Urbe
millenaria li avevano salutati con il grido: «Tornate presto!».
Il grido era rimasto inascoltato. Ma gli anni fuggono ed ora, dopo di avere peregrinato per
lidi più o meno infiorati, la coppia illustre ha fatto ritorno a noi. Accogliamo cordialmente gli
esuli e notiamo anzitutto che essi godono di un’ottima salute. Durante la loro assenza il
Costanzi si è tramutato nel Teatro Reale dell’Opera: il nido è diventato sontuoso e pieno di
comodità; il pubblico si è raffinato e scaltrito. Giulietta e Romeo potranno passare molti bei
giorni qui, dove i loro amici hanno già avuto per loro, nel passato, tante premure. E Giulietta,
ascoltatissima, potrà dire al suo innamorato: Voi siete bello e tutto mio! [sic] e Romeo
compirà cavalcate emozionanti e fragorose: per lui non vale il vecchio proverbio: «Uomo a
cavallo sepoltura aperta!». A giudicare dagli applausi di iersera, si preparano per loro giorni
di delizia. Convegni notturni con qualche bacio furtivo, tra una zuffa e l’altra dei Capuleti e
8
[sic]: ma terzo.
3.1.5/75
dei Montecchi, contendenti inviperiti. Purtroppo i teneri amanti saranno poi sfrattati senza
riguardi dal Teatro Reale per la così detta “rotazione degli spettacoli”. Anche la produzione
che più soddisfa il pubblico non può avere qui che tre o quattro repliche. Si dice che questo
sistema, che importa un ingiusto e grave danno per le produzioni nuove e per quelle
raramente allestite, sia molto patrocinato da Arturo Toscanini. Dinnanzi a tanto nome
conviene inchinarsi. Abbiamo torto noi, che la pensiamo diversamente. Non se ne parli più.
La Giulietta ha dunque avuto prelibate accoglienze al Teatro Reale e ne siamo
arcicontenti. L’opera ha i suoi difetti ma è generosa e vitale. Troppo fuoco (sebbene
d’inverno un eccesso di calore non dispiaccia...); qualche pesantezza nel secondo atto,
dominato dall’odioso Tebaldo che non dà tregua finché Romeo non lo ammazza. In
compenso una pluralità di seducenti effetti nel quadro iniziale e non poche geniali trovate
nella prima parte del terzo che ci fa assistere alla fiera brulicante di uomini festosi, al
lancinante episodio del cantastorie che narra della morte di Giulietta e alla disperatissima
cavalcata di Romeo sotto l’uragano. Aggiungiamo che i tre cori: Diavolo che ho dintorno,
Bocoleto de rosa e Alba di Dio – così diversi di carattere – sono tre gemme e mostrano come
Riccardo Zandonai sappia passare con magistrale disinvoltura da una bieca taverna,
ricettacolo di uomini rissosi e di donne di malaffare, ai colonnati di un tempio, là dove deve
compiersi il destino di amore e di morte dei due veronesi celebrati da Guglielmo
Shakespeare.
Il nostro giudizio sull’opera permane quindi immutato. È un giudizio di esplicita simpatia.
Questa produzione, in parte guerresca e sanguigna, in parte trepidamente sentimentale, ha una
sua fisionomia particolare. Prevale l’acredine, ma ci sono abbandoni melodici anche più
frequenti che nella Francesca da Rimini, il dramma musicale con quale lo Zandonai ha
compiuto la conquista del mondo. Il duetto d’amore che chiude il primo atto della Giulietta è
di una bellezza tale da incatenare qualsiasi pubblico. E con catene di rose e gelsomini. Da
lodarsi, a lode suprema dello Zandonai, che quando egli scriveva la Giulietta e Romeo – cioè
nel 1922 – ardeva più che mai la lotta bestiale contro la melodia (senza la quale nessuna
opera italiana potrà mai avere vita). E quindi lo scrivere allora un duetto come quello della
Giulietta poteva dirsi un vero atto di ribellione e di sfida.
La fortuna sorregge i ribelli bene armati. Zandonai oggi può sorridere. E anche meglio
sorriderà nell’avvenire se andando a caccia – egli è un cacciatore di prima forza – continuerà
a scovare più che starne e lepri, melodie di pura marca italiana, atte a formare la gioia del
pubblico dei teatri nonché quella dei critici che veramente amano l’opera nostra.
I vari punti di contatto tra la Giulietta e la Francesca, notati anni or sono con riprovazione,
non hanno questa volta determinati allarmi. Anzi, si è notata con piacere qualche affinità tra
le due gentildonne, ugualmente degne di omaggio. Esse parlano un linguaggio consimile,
pieno di vocaboli gentili, hanno nelle vene molta nobiltà e soprattutto molta italianità. È
giusto che nei nostri teatri esse siano amate in pari misura. Del resto, si tratta di affinità
puramente stilistiche: Giulietta non imita il frasario amoroso di Francesca, essa dice cose
sostanzialmente nuove. E questo è l’importante.
***
Riccardo Zandonai era venuto dalla sua villa pesarese per assistere alla riapparizione di
Giulietta e di Romeo sulla scena del più illustre teatro dell’Urbe. Egli è stato evocato alla
ribalta con affabile insistenza e ha dovuto presentarsi molte volte. In complesso l’opera ha
avuto oltre venti chiamate e non pochi applausi a scena aperta. Il successo ha culminato al
terzo atto con l’episodio del cantastorie e la famosa Cavalcata. Il lamento melodiosissimo
Done piansì... ha determinato un imponente scroscio di applausi e la partenza di Romeo tra le
folgori ha eccitato l’entusiasmo degli spettatori. Si è chiesto fra grida e frenetici battimani il
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bis del pezzo, ma l’aspirazione dei plaudenti non è stata appagata... per non stancare il
cavallo di Romeo. Lo scalpitante brano, ormai popolare ovunque, ha avuto accoglienze
spettacolose, oltre ogni previsione.
Tra gl’interpreti ha primeggiato la signorina Maria Carbone, smilza ed agile, che per
l’occasione era diventata bionda come una spiga di grano a San Giovanni. Il pubblico l’ha
encomiata per la sua voce limpida, estesa, intonatissima non meno che per la sua passionalità
veritiera. Questa Giulietta, vigorosamente espressiva, si è rivelata anche una attrice
d’intelligenza alacre nella chiusa drammaticissima dell’atto secondo. Il tenore Angelo
Minghetti – chiamato a sostituire improvvisamente Galliano Masini indisposto – si è
impegnato a fondo negli ultimi due atti dell’opera e ha superato il fiero cimento. Nel primo
quadro ci è parso che fosse un po’ preoccupato di salire al verone di Giulietta e più ancora di
scenderne. Evidentemente egli affronta contro voglia talune acrobazie ed ama cantare con
tranquillità. Fortissimo Tebaldo il baritono Carmelo Maugeri che già creò la parte quando
l’opera di Zandonai fu battezzata al Costanzi e che poi l’ha sostenuta in molti teatri con
immancabile fortuna. Anche iersera egli ha dato prove valide della sua resistenza di cantante
e del suo spiccato talento scenico. Egli ha raffigurato un Tebaldo implacabile, ben degno di
morire infilato dalla spada di Romeo.
Cantastorie stupendo Alessio De Paolis – noto come artista pensoso e commosso – ha
ricevuto dall’uditorio un veemente applauso. Maria Huder ha reso con eleganza e bello stile
la parte di Isabella; irreprensibili gl’interpreti minori tra i quali ricordiamo Matilde Arbuffo,
Angela Rositani, Maria Grimaldi, lo Zagonara, il Dominici, il Bianchi, il Conti, ecc., elementi
di non dubbio valore, giustamente cari al pubblico romano. Buona la regìa del Govoni.
Notevoli gli scenari del primo e del terzo atto, ideati dal Benois.
L’orchestra, che nella Giulietta è straricca, ha sempre avuto la necessaria energia e, dove
occorreva, una delicata fosforescenza. Essa ha seguìto con devozione i cenni di Tullio
Serafin, condottiero senza incertezze e senza paura. Il Serafin ha diviso con lo Zandonai le
più clamorose ovazioni dell’assemblea giudicante. Esatti e ardenti i cori, diretti dal Conca.
Capuleti e Montecchi si sono fieramente azzuffati cantando a squarciagola. Le spade
d’acciaio hanno orridamente lampeggiato sotto la luna, nelle vie di Verona. Ma tutti sono
usciti illesi dal tumulto perché, senza dubbio, protetti da qualche santo potentissimo. Meglio
così. Non è bene far spreco di sangue...
216
Vice, “Giulietta e Romeo” di Zandonai, «Il Tevere», 7.1.1936 - p. 3, col. 5
Giulietta e Romeo, scritta a distanza di otto anni da quella Francesca da Rimini che
costituì la rivelazione del talento melodrammatico di Riccardo Zandonai ed una delle più forti
affermazioni nel campo del teatro lirico contemporaneo, non raggiunge certo, per forza
espressiva del complesso, la sua maggiore e fino ad oggi insuperata sorella.
Giulietta e Romeo può invece considerarsi uno dei molti aspetti della Musa zandonaiana,
diverso, almeno per quanto riguarda la fonte prima di ispirazione, da quello delle opere
precedenti e da quello delle opere che seguiranno nel tempo. Dalla semplice intimità del
Grillo del Focolare, al sensuale verismo di Conchita, al dramma storico di Melenis, alla
tragedia di Francesca, al trasparente romanticismo della Via della Finestra, alla leggenda
nordica dei Cavalieri di Ekebù, al misticismo di Giuliano, alla grassa risata della Farsa
amorosa: quante diverse vie, quanti campi opposti tentati per l’affermazione della propria
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arte. Giulietta e Romeo ha anch’essa un suo aspetto particolare e inconfondibile.
Dimostrazione evidente della varietà, che è poi vastità, dell’ingegno di Riccardo Zandonai.
Nell’opera del quale, se un minimo comun denominatore può riscontrarsi, esso è dato dalla
costante preoccupazione di eleggere per i suoi personaggi un canto melodico lungo e
spianato, per la sua orchestra degli impasti timbrici costantemente nuovi e rinnovantisi nel
giro dell’azione, per i suoi procedimenti armonici una singolare eleganza. Elementi tutti che,
usati con singolare sensibilità di artista e con una perfetta conoscenza del teatro, conducono
spesso ad una rievocazione ambientale oltremodo plastica e felice e ad un cospicuo rilievo
differenziale dei vari personaggi dell’azione.
Riccardo Zandonai sente e realizza l’opera in musica con lo stesso spirito dei veristi, dei
quali però è lungi dal possedere la ricchezza melodica, pur distinguendosi da essi per un certo
perfezionamento tecnico elaborativo strumentale di cui il verismo musicale riesce ad
avvantaggiarsi proprio nel declinare della sua gloriosa parabola. In virtù di questo
perfezionamento tecnico egli ha potuto costruire ed inserire nelle sue opere brani sinfonici
che spiccano per la loro individuale struttura e che rivelano la sua inclinazione per l’arte
sinfonica, nella quale però finora non è riuscito ad eccellere come nell’arte melodrammatica.
Infatti nell’opera Giulietta e Romeo la “scena del duello” al 1. atto, la “danza del torchio”
al 2. atto, la “cavalcata” al 3. atto risultano di effetto immediato sull’animo del pubblico.
Non così il potente duetto d’amore (e sono queste le parti meno riuscite dell’opera) del
primo atto – troppo contrastante con il carattere idilliaco del dolce furtivo colloquio notturno
– e quello del secondo atto, impulsivo e snervante. Delicata ed ispirata invece la malinconica
canzone del cantastorie, suggestivo il finale del 1. atto, commovente quello del 3. atto.
La rappresentazione si è svolta dinanzi ad un pubblico numeroso ed elegante, fra cui
abbiamo notato la presenza di S.A.R. la Principessa Maria di Savoia, ed il successo è stato
vivo e schietto alla fine di ogni atto per l’intensità degli applausi tributati a tutto il complesso
artistico ed al maestro Zandonai, ripetutamente chiamato sul palcoscenico.
Il merito precipuo però spetta senza dubbio al maestro Tullio Serafin che ha interpretato lo
spartito con molto sentimento e con fine sensibilità seguito prontamente dall’orchestra la cui
compattezza e potenza sonora si è rivelata soprattutto nella esecuzione della “cavalcata”.
Non sempre all’altezza del compito sono risultati i protagonisti dell’opera: Maria Carbone,
che possiede una voce di notevole potenza, non ha trasfuso nella parte di Giulietta quel senso
di poesia e di delicatezza che rispondono allo spirito del personaggio, né Angelo Minghetti ha
dato efficace risalto e potenza espressiva alla figura di Romeo. Carmelo Maugeri invece ha
interpretato la parte di Tebaldo con vivace animazione e con maggiore sicurezza nel 2. atto,
mentre Alessio De Paolis nel ruolo del Cantastorie si è fatto ammirare per la chiara dizione,
la limpidezza e la calda espressione della voce.
Al successo hanno contribuito pure il coro ottimamente istruito dal maestro Conca,
l’allestimento scenico dell’Ansaldo, la geniale regìa di Marcello Govoni, i pittoreschi costumi
del Caramba e le scene (specie quella suggestiva del 3. atto) dipinte dal prof. Benois.
217
Vice, “Giulietta e Romeo” di Zandonai al Teatro dell’Opera, «Il Giornale d’Italia», 8.1.1936
- p. 3, col. 6-7
Cinque opere su otto rappresentazioni serali. Questo bruciar le tappe, a passo di carica, se
ci dà la misura della perfetta organizzazione tecnica del Teatro Reale, è anche la
dimostrazione e la conseguenza ineluttabile del numero sempre crescente di opere incluse nei
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cartelloni, in omaggio ad un sistema di marca americana ormai propagatosi come un mal
contagioso in quasi tutti i grandi enti lirici.
Ma noi siamo certi che verrà il giorno in cui il pubblico sarà disintossicato anche da questa
caleidoscopica febbre così dannosa all’arte lirica, la quale ha ben altre e più profonde
tradizioni. Pensate alla sorte di un’opera nuova che capiti fra le ruote dentate di siffatto
vorticoso ingranaggio: cattiva o buona, capolavoro o no, fiasco o trionfo, essa deve cedere il
posto ad un’altra produzione. Sotto a chi tocca. La ruota d’Issione seguita a girare vertiginosa
e addio divini delirii, incendi delle anime nel tempo in cui le opere giungevano alla ventesima
replica e, perché conosciute, venivano amate!
Come ci piacerebbe vederla amata questa Giulietta e Romeo riapparsa iersera a Roma dopo
tanti anni di assenza e dopo significative vittorie altrove; ma amata d’un amore fatto di
affettuosa consuetudine!
Iersera si sentiva dire: «Quella danza del torchio è una meraviglia! E che accecante
splendore quella impetuosa cavalcata!» E sapete perché? Perché questi due frammenti sono
stati eseguiti nelle sale da concerto e il pubblico aveva avuto modo di innamorarsene. Non
tutti, mio Dio, possono prendere una cotta per le Melisende lontane, ovvero sia per sentito
dire. Provatevi ad ascoltare Giulietta più d’una sera: e poi vedremo se, al di là degli elementi
decorativi e ambientali dell’opera d’arte, oltre le stornellate e canzoni da festino e
popolaresche, i coretti interni, i lontani rintocchi di campane e gli stamburamenti di scolte,
c’è o no la vera sostanza drammatica: la polpa musicale che vi sazia o la bevanda generosa
che vi inebria.
Per fortuna, le audizioni radiofoniche hanno contribuito ad accostare il pubblico a questa
non indegna sorella di Francesca. Per i maniaci dei confronti, per i feticci [!] del capolavoro
unico, per gli idolatri del solo idolo, non c’è che Francesca; per noi, più eclettici, c’è anche
Giulietta. Differenze è naturale ed è bene che ci siano: Francesca, intanto, si avvantaggia
della portentosa trama letteraria di Gabriele d’Annunzio; è più aristocratica; è più suggestiva
per quella vertiginosa atmosfera di peccato in cui respirano gl’infelici due cognati; è più
tragica, perché la divina tragedia è già nella Divina Commedia.
Gli amori di Giulietta e Romeo sono invece profondamente casti, anche se la fanciulla
veronese getta scale di seta all’amato perché salga sul verone come rosaio a primavera, e vi si
trattenga quasi tutta la notte.
Ma la differenza sostanziale sta nel fatto che con Giulietta e Romeo Riccardo Zandonai ha
voluto fare un vero e proprio melodramma tipo ottocento con tutti i correttivi della tragedia
moderna. Questo coraggioso proposito ci fu confessato un giorno dallo stesso illustre Autore,
prima ancora che un altro grande maestro agitasse, con ardente fiamma, la fiaccola della
redenzione del genuino melodramma.
Riccardo Zandonai, bisogna ricordarlo, scriveva Giulietta quando la xenofilia era di gran
moda e rifare il melodramma era considerato come una vergogna e un’insania. Tant’è vero
che Giulietta vide la luce in un clima di avversione da parte della critica, sebbene questa
fosse in perfetto disaccordo col pubblico che aveva, in virtù del suo innocente buon senso,
salvato l’opera d’arte.
Giulietta va dunque guardata dallo stesso punto di vista in cui s’è messo l’Autore e che,
d’altronde, appar manifesto attraverso tutte le pagine della partitura.
Qui il discorso melodico, tagliato secondo i canoni del melodramma dell’ottocento,
galleggia ancora sull’oceano del sinfonismo-colore così caro allo Zandonai, che, intorno al
‘20, iniziava il processo di chiarificazione, più largamente tentato nei Cavalieri di Ekebù e
risolto più tardi nella Farsa Amorosa.
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Con Giulietta, tuttavia, siamo ben lontani dalle rossigne colorazioni di Conchita,
considerate come un’arditezza di avanguardia nell’epoca in cui non era conosciuta né la
scuola russa né quella francese moderna, e il musicista riteneva suo impegnativo “dovere”
quello di poter mostrare che in Italia si sapeva stare all’altezza dell’evoluzione musicale di
allora, tutta sprazzi di tinte e spruzzi di materia infocata.
L’estetica odierna è fortunatamente ben diversa; e Giulietta rappresenta, come s’è detto,
un’anticipata tappa verso la necessità di sacrificare, o quasi, l’orchestra a vantaggio del
palcoscenico: la qual cosa è di per se stessa un ritorno al teatro ottocentesco.
È già un gran titolo di gloria per il musicista trentino quello di aver dato all’arte lirica
internazionale una Giulietta, che si rappresenta ormai in ogni teatro, mentre altre numerose
sorelle o non vedono più la luce o debbono attendere qualche pio anniversario.
La chiaroveggente fatica di Riccardo Zandonai è stata anche questa volta coronata a Roma
da un successo vibrante, cordiale, entusiastico, che, dopo la Cavalcata, ha raggiunto
proporzioni trionfali.
A questo successo certo non è stato estraneo il magnifico ed accurato allestimento che ne
ha fatto il Teatro Reale. Tullio Serafin ha tenuto in pugno lo spettacolo con infiammato
spirito di poeta fondendo orchestra e voci in una sola forma di bellezza. E mentre, per virtù
sua, i cantanti – singoli e cosi – hanno sempre trovato nella massa strumentale un sostegno
efficace, l’orchestra stessa ha dato bronzei lampeggiamenti o perlacee iridescenze là dove la
Decima Musa di Riccardo Zandonai – che ha nome Colore – ispira episodi di primissimo
piano, come gli schiamazzi rissosi del primo atto, la stupenda ronda notturna, la descrizione
del giuoco del Torchio e la più volte citata pagina nella quale è, con formidabile tensione
sonora, descritta la cavalcata di Romeo e del famiglio nel clamore dell’uragano.
Diciamo subito che il grande Direttore d’orchestra ha avuto due efficacissimi collaboratori:
il maestro Conca per i cori (che hanno una parte importantissima ed hanno cantato alla
perfezione) e Marcello Govoni per la regìa, che ci è sembrata ottima fra le molte belle alle
quali il colto talento di questo artista ci ha da un pezzo abituati.
Maria Carbone ha una voce che, specie ai nostri giorni, sembra un miracolo di freschezza e
d’intonazione. E tanto è il calore sensuale che arde nelle sue note che la castità di Giulietta
potrebbe essere posta in discussione non soltanto dal tendenzioso cugino Tebaldo ma da noi
ascoltatori. Maria Carbone ha fatto di Giulietta una creatura viva e vibrante, anche in virtù
delle sue risorse sceniche che sono eccellenti. Quanto ad innocenza d’amor platonico anche
Angelo Minghetti ha fatto di tutto per farcelo credere; ma della sua voce calda ha finito per
servirsene con scaltrezza tutte le volte che ha potuto. Ed eccoci al tendenzioso cugino
Tebaldo di cui abbiamo fatto cenno. Specie nel drammatico duetto con Giulietta, il torvo
personaggio di Tebaldo, così potentemente scolpito da Zandonai, rivive intiero e ferrigno,
brutale e beffardo, attraverso la veemente interpretazione di quel perspicace artista che è
Carmelo Maugeri.
Importanza di primissimo piano acquista la figura del Cantore nella prima parte
dell’ultimo atto, allorché costui modula sul suo liuto l’ultima canzone creata dai rapsodi di
Verona: quella in morte di colei che era stata cantata da ogni canzone «e de Verona era il più
bel fioreto». Allorché egli intona la seconda volta, nell’ombra, l’accorata trenodia, la
commozione ci prende alla gola, tanta è la bellezza della musica, arcaicamente popolare, e
tale è l’arte con cui Alessio De Paolis, il vero trionfatore della serata, ha saputo renderla.
Fermarci a parlare di tutti gli interpreti non è facile impresa: diremo soltanto che Maria
Huder, con quella sua bella voce armoniosa e preziosa, è stata superiore a ogni elogio; e le
sono state degnissime compagne per interpretazione scenica e vocale Angela Rositani,
3.1.5/80
Matilde Arbuffo e Maria Grimaldi. Ottimi come sempre Dominici e Zagonara, assai bene
assecondati dal Bergamini, dal Conti, dal Bianchi, dal Marucci, dal Simoni [sic].
Le scene erano di Benois ed è facile immaginare con quanta perizia sono state potenziate
dall’arte magistrale di Pericle Ansaldo.
Allo spettacolo assisteva Maria di Savoia.
218
Alb[erto] Ghisl[anzoni], “Giulietta e Romeo” di Zandonai al Teatro Reale dell’Opera,
«Ottobre», 8.1.1936 - p. 3, col. 3-4
In un’intervista che ebbe a Roma con un redattore de «L’Idea nazionale», il 12 febbraio
1922, Riccardo Zandonai disse tra l’altro:
«Giulietta e Romeo vuol essere un ritorno al nostro melodramma, un ritorno alle fonti, nel
quale ho desiderato di portare la sensibilità che, essendo più moderna, è oggi più nostra. Il
nuovo lavoro è più semplice e limpido delle mie precedenti opere, le quali sono più
complicate e torturate. ma questo avvenne perché, dieci anni fa, noi italiani eravamo
considerati quasi degli ignoranti in fatto di musica. Ed io ho voluto fare una specie di
schieramento di forze, per dimostrare che musica difficile sapevamo farla anche noi. Ma oggi
le cose sono cambiate e non occorre fare nessuna dimostrazione in questo senso».
Dal 1922 ad oggi molta acqua è passata sotto i ponti della musica, gli indirizzi estetici e
tecnici sono parecchio mutati, quindi quest’opera appare oggi sotto la sua luce vera e si può
catalogare con facilità. Essa rientra nel genere allora dominante in Italia del cosiddetto
verismo, il genere caro ai Puccini, Mascagni, Giordano, Cilea, [ed] è soffusa di una spiccata,
fluida melodiosità vocale che non sempre riesce peraltro a concretarsi in vera e propria alata
melodia. L’orchestra non ha una vita polifonica indipendente, ma accentua e contribuisce a
mantenere l’atmosfera generale, ora languida, ora truculenta.
Il libretto musicato da Zandonai è di Arturo Rossato e rivela una buona e fine colorita
proprietà poetica e teatrale, per quanto si diluisca talora in episodi o in verbose chiacchierate
che divagano e raffreddano la forza tragica nel momento in cui il massimo sintetismo, la
rapidità, la stringatezza s’imporrebbero: tale è il caso del coro all’inizio dell’ultimo atto e del
lungo declamato di Romeo dinanzi al presunto cadavere di Giulietta. Ma in compenso ci sono
pagine efficaci e ispirate come quasi tutto il 2. atto, e gli episodi del cantastorie e della
Cavalcata in mezzo alla tempesta nel 3.
L’esecuzione di ieri sera al Teatro Reale ha segnato un vero trionfo per l’autore, invitato
espressamente a Roma, e per il maestro Tullio Serafin, concertatore e direttore.
Le chiamate più vibranti ed entusiastiche che si sono susseguite ad ogni fine di atto sono
state dirette ad essi. Serafin ha avuto poi con l’orchestra una scrosciante ovazione dopo
l’intermezzo orchestrale descrivente la cavalcata, eseguito con effettistica magistrale.
Maria Carbone è stata una brava Giulietta per voce e per scena, il tenore Minghetti ha
avuto momenti di grande efficacia per quanto la sua voce non sia sempre riuscita a prevalere
sul denso e stracarico tessuto orchestrale.
Il baritono Maugeri ha realizzato con vigore la violenta e faziosa figura di Tebaldo.
Eccellentissimo cantatore è stato il tenore Alessio De Paolis, che con le sapienti inflessioni
della voce, con la scandita dizione e con l’azione scenica ha dato all’uditorio vibrazioni di
vera commozione artistica.
Buone le altre parti: Maria Under [sic], il Bergamini, il Dominici, lo Zagonara, ecc.
I cori ultrasonori nelle baruffe del 1. e del 2. atto.
3.1.5/81
Efficace la regìa di Marcello Govoni. Le luci durante il 1. atto non hanno avuto la
intelligente graduazione (tra oscurità iniziale, riflessi rossastri dall’osteria, chiarore lunare e
infine sorgere del giorno) che avrebbe potuto far raggiungere effetti assai, assai suggestivi.
Così pure ci è apparsa illogica, delle scene di Benois, quella del I atto. Ma, a parte questi
personali rilievi, è stato quello di ieri sera uno spettacolo degno del Teatro Reale e
dell’illustre Autore della passionalissima opera.
219
L[uigi] C[olacicchi], “Giulietta e Romeo” di Zandonai al Teatro Reale dell’Opera, «Il
Popolo di Roma», 7.1.1936 - p. 3, col. 6-7
Anche Giulietta e Romeo, come Francesca da Rimini, è un’opera in cui confluiscono le
stanche correnti d’una musicalità ormai esaurita. Il verismo e il wagnerismo vi si sorreggono
vicendevolmente come possono, senza mancare peraltro di creare qua e là qualche zona di
raggiunta intensità drammatica. Nel primo e secondo atto s’incontrano di queste oasi nelle
quali una simile ambigua musicalità fa corpo col dramma, riesce a rappresentare un
personaggio, meglio una situazione, un momento. Sono alcuni di tali momenti scenici – e
tanto per esemplificare potremmo citare il quadro della ronda notturna – le pagine più
consistenti, più realizzate di Giulietta. Momenti, del resto, che ne richiamano altri analoghi di
Francesca.
Generalmente si tratta di scene vuote, dove è già avvenuto qualcosa di pauroso o qualcosa
sta per avvenire. Scene solitarie, ferme, rarefatte. Le case, le torri, i portici, le mura sembra
che confidino la loro anima terrorizzata, che espandano la loro pena. Zandonai dimostra qui
di possedere il senso del tempo, dell’ora. La sua orchestra è sensibile a queste scene, è
descrittiva, espressiva. Talvolta una voce vaga, indifferente, un canto oscillante a mezz’aria,
di solito d’intonazione popolaresca, di carattere stradaiolo aggiunge sapore e colore
all’atmosfera ambientale. Vale a dire – e in linea generale – la musica dal palcoscenico s’è
rifugiata in orchestra, nel golfo mistico.
Giacché sul palcoscenico i personaggi, sì, cantano; sono veri personaggi melodici, dopo
tutto. Ma di quale melodia? Una melodia che non ha più le grossolanità veristiche, lo
riconosciamo, ma nemmeno lo slancio, la forza, il tumulto verista, il coraggio di dire pane al
pane e vino al vino. E anche quel poco di pane e di vino che offre nei momenti di maggior
tensione drammatica sono di grano e di uva veristi seppure preparati alla Wagner. Accenti già
sentiti, espressioni già acquisite dalla storia del melodramma. All’infuori di simili punti di
densità melodica il canto fluisce indeterminato e generico dalle labbra dei personaggi, non ne
racchiude effettivamente il sentimento, lo spirito. «È un canto – come fu detto da Guido Gatti
– assai raramente incisivo o, almeno, di tale bellezza sonora da attrarre la nostra ammirazione
per sé stessa, senza considerarlo come espressione di uno stato d’animo».
D’altra parte si deve pur riconoscere che in fondo dopo il verismo l’opera s’è distaccata
dalla realtà delle persone sceniche. In tutta l’opera, e segnatamente nell’opera romantica,
quando un dramma riesce a formarsi e a consolidarsi è dalle persone sceniche che sgorga e si
sviluppa. Il dramma, cioè, nasce dal di dentro delle persone sceniche e investe l’intera opera.
La realtà dei personaggi, la loro vita è sempre presente nella musica. L’ambiente, le
situazioni, lo stesso colore si determinano col loro canto, con l’urto o con la fusione dei loro
sentimenti. L’atmosfera è in funzione dei personaggi, non viceversa. Al contrario dopo
Wagner e le troppo sbrigative interpretazioni della sua estetica che esercitarono un’influenza
enorme anche se tardiva sui compositori italiani moderni l’opera si svincolò dalla verità dei
3.1.5/82
personaggi. Essa si diede alla creazione a priori di climi drammatici vaghi – generati in
orchestra – da cui foggiare – sul palcoscenico – i caratteri del dramma. Non l’abito per la
persona, in definitiva, sibbene la persona adattata all’abito.
Riccardo Zandonai, con tutti i suoi meriti musicali che del resto gli sono generalmente
riconosciuti e non chiedono dunque di essere ancora riesaminati, è il musicista più
rappresentativo di questo periodo d’incertezza e di transizione, nel quale egli, come s’è detto,
riassume in sé i residui d’una musicalità veristico-wagneriana: e Giulietta e Romeo e
Francesca da Rimini ne costituiscono i documenti più importanti, Giulietta e Romeo che non
è forse un’opera brutta, un’opera che, come suol dirsi, lasci male: ma non lascia nulla.
La recita di ieri sera al Teatro dell’Opera, dopo le numerose esecuzioni concertistiche dei
pezzi più famosi del lavoro quali ad esempio la cavalcata di Romeo, ci ha confermato in
queste idee, che lo stesso rispetto che abbiamo per il nome del musicista ci impone di non
lasciare nella penna o soltanto di mascherare con forme eufemistiche.
Lo spettacolo nelle mani di Tullio Serafin, direttore, ebbe buoni momenti canori e
orchestrali. Ma forse poteva essere più vivo, più aderente, sopratutto dal lato vocale. Serafin
condusse vigorosamente le falangi strumentali così nutrite e talora pletoriche e raggiunse
alcuni delicati effetti nel riprodurre le pagine descrittive di maggiore levatura. Maria Carbone
interpretò egregiamente il personaggio di Giulietta, ricca com’è di bella, insinuante voce e
dotata di rimarchevole intuito scenico. Il tenore Angelo Minghetti, Romeo, sebbene appena
rimessosi da una grave indisposizione, seppe misurarsi coraggiosamente con la difficile parte
affidatagli. Nel ruolo di Tebaldo Capuleto cantò Carmelo Maugeri e parve impetuoso, fin
troppo arroventato. In Isabella, invece, Maria Huder fu squisita, dal canto denso e sicuro.
Le altre parti principali affidate ad Alessio De Paolis, cantastorie, che rese benissimo la
canzone dell’ultimo atto, Ernesto Dominici, un Bernabò accurato e preciso, furono
soddisfacenti, insieme ai ruoli minori in cui si fecero onore Matilde Arbuffo, Angela
Rositani, Maria Grimaldi, Lamberto Bergamini, Gino Conti, Adelio Zagonara, Mario Bianchi
e Adrasto Simonti. Il coro del maestro Conca, le scene di Nicola Benois e la regìa di Marcello
Govoni, nonché l’allestimento scenico di Pericle Ansaldo portarono infine il loro valido
contributo alla riuscita dello spettacolo.
Il quale, presenziato dalla principessa Maria di Savoia e da un folto pubblico, fu accolto
con ripetute chiamate alla fine di ciascun atto. Alla fine dell’interludio orchestrale fra il primo
e il secondo quadro dell’ultimo atto – la ben nota Cavalcata –, l’uditorio ha lungamente
applaudito Serafin e Zandonai evocato alla ribalta.
220
m[atteo] i[ncagliati], “Giulietta e Romeo” di Zandonai, «Il Messaggero», 7.1.1936 - p. 3, col.
6-7
È avvenuto iersera, per la prima della Giulietta e Romeo di Riccardo Zandonai, un fatto
inconsueto nella cronistoria di quest’opera: questo, che l’entusiasmo prodotto dalla ormai
popolarissima Cavalcata si è scatenato con la stessa tumultuante irruenza con cui procede
dalla prima all’ultima nota il brano sinfonico-corale, e con tale e tanta unanimità, che il
maestro Serafin ha dovuto attendere un bel po’ per l’attacco al quadro finale, prima per
rispondere e ringraziare alle acclamazioni fragorose a lui rivolte, e poi per consentire
all’illustre autore di apparire alla ribalta per ben tre volte, chiamato a gran voce. Fu questo un
momento dello spettacolo di così schietto ed entusiastico fervore che Zandonai non
dimenticherà, per quanto assuefatto ai successi.
3.1.5/83
Certo il maestro Serafin trasfuse tutta la sua anima d’artista e di musicista perché la
Giulietta, ritornando sulle nostre massime scene dove, nell’allora Costanzi, tredici anni
addietro ebbe il suo battesimo e dove pure fece poi nuova apparizione a dimostrazione della
sua vitalità e della sua vigoria intrinseca, rivelasse la fresca giovinezza, la giovane vita cioè
non turbata da nessuna foschia che spesso s’insinua nell’opera d’arte teatrale a oscurarne
l’intima essenza di cui la nutrì l’autore. Perché tutto ciò ch’è poesia soave, psicologia di
anime, e tutto ch’è spirito d’ambiente colto e delineato attraverso l’odio che avvampa e
precipita spesso nella morte i Capuleti e i Montecchi, il dramma nei suoi vari e così
contrastanti aspetti è balzato vivo e potente ed espressivo, rischiarato da fasci di luce, dove
sinistri e paurosi e dove venati da pallide, tenere tinte. In questo contrasto di luce è tutta la
genialità della partitura, dalla quale il maestro Serafin colse e tradusse con fantastico ardore
ogni espressione, tragica se la ferocia delle genti divampa, lirica se l’amore ripara tra gli
spiragli della nuda, popolaresca leggenda.
V’è dunque nella Giulietta tutta in blocco, come in Francesca, la personalità dell’operista,
il quale, venuto dopo la cosiddetta “giovane scuola”, alla tradizione verdiana intesa con
spirito subiettivo e singolare volle legare il proprio destino, seguendo altre vie, mirando ad
altre mète, senza ripetere né rimanere offuscato – il che significava diventare mancipio e
prigioniero – degli ideali, pur così di notevole significazione rispetto alla storia del
melodramma. E per ciò appunto non si sa se in Giulietta più colpisce l’atmosfera fosca e
drammatica o la melodiosità della parte romantica.
La coralità dell’opera ha un suo segno inconfondibile; e così nel primo atto come durante
la Cavalcata la massa, istruita dal maestro Conca, cantò con vivace espressione e impetuoso
slancio, perfettamente aderendo alla salda struttura di pagine ideate da Zandonai attraversi la
concitata fantasia. Questo occorreva notare, perché il coro di quest’opera non interviene,
come spesso accade, per cantare solamente ma per partecipare direttamente alla vicenda,
assumendo così un aspetto non accademico.
Di Giulietta, Maria Carbone rese l’intimo affanno con un canto di bel respiro e dalle note
di calda risonanza. Nella parte di Romeo il tenore Angelo Minghetti, per quanto ancora
sofferente di una recente malattia, cantò l’invocazione a Giulietta al finale del secondo atto
con slancio e con vivezza espressiva, e tutto il duetto nell’ultimo quadro con soavità
d’accenti, in modo da fondere la sua con l’armoniosa voce della Carboni [sic]. Un Tebaldo
dalla irrompente passione fu il baritono Carmelo Maugeri che così in questa parte come in
quella di Gianciotto nella Francesca è interprete di spiccata marca zandonaiana, ché la sua
voce facile e agile, tutt’animazione musicale, e la sua spiccata sensibilità son le doti che
rendono giustamente apprezzato il valoroso artista.
Quanto alle parti secondarie, Maria Huder cantò con freschezza e dolcezza di voce, ben
timbrata; il tenore Alessio De Paolis diede alla romanza del Cantatore un così fluido e
accorato languore espressivo da ricevere un lungo applauso; e poi Adelio Zagonara, un’altra
vivace e ben accentata voce tenorile; il basso Dominici, Lamberto Bergamini, Gino Conti,
Angela Rositani, Mario Bianchi, Matilde Arbuffo, Maria Grimaldi, tutti concorsero al
successo dello spettacolo. Per la messinscena Marcello Govoni e per l’allestimento scenico
Pericle Ansaldo assolsero il loro compito con la consueta perizia.
Il maestro Zandonai, dopo ogni atto – a parte la dimostrazione tributatagli dopo la
Cavalcata, di cui si è fatto cenno – fu evocato alla ribalta tra prolungate, entusiastiche
acclamazioni, e così intense che assunsero alla fine dell’opera tono di ovazione. È inutile
aggiungere che alle chiamate parteciparono, festeggiatissimi, il maestro Serafin e gli
interpreti principali.
3.1.5/84
221
m[ario] l[abroca], “Giulietta e Romeo” di Riccardo Zandonai, «Il Lavoro fascista», 8.1.1936
- p. 3, col. 3-4
Dopo il trionfo della Francesca da Rimini Zandonai non se la sentì di abbandonare le torri
merlate, le lotte delle fazioni, i castelli ermetici; tutto quel contorno che ha incorniciati
celeberrimi amori egli voleva vederlo ancora in piedi sulle tavole del palcoscenico, a fare da
sfondo musicale ad un soprano e ad un tenore lanciati a cantare il loro amore infrenabile.
Perciò dopo la parentesi serena e quasi idilliaca della Via della finestra ecco due altri
celeberrimi amanti Giulietta e Romeo offrire il destro a Zandonai per la composizione di una
nuova opera. Opera che è apparsa tredici anni or sono9 e che, dopo un battesimo felice, ha
percorso il mondo lirico con frequenza e sempre con felice successo.
Nell’opera di Zandonai Giulietta e Romeo rappresenta una nuova concessione a quel
cantare aperto ed a quella melodia continua che nel Giuliano predominerà in modo quasi
assoluto: maniera questa che, provvidenzialmente, nella più recente opera di Zandonai ha
ceduto il posto a quel più chiaro definirsi delle forme musicali che permette all’elemento
drammatico di apparire più efficace ed espressivo.
Tra la Francesca e la Farsa amorosa che malgrado la grande differenza d’età sono unite
idealmente più di quanto non si pensi, la Giulietta e Romeo sta come opera che segna l’inizio
di una maniera di espressione che impronterà di sé anche i Cavalieri di Ekebù e il Giuliano.
Abbiamo detto che è la maniera della melodia continua, dei duetti che invece di circoscriversi
in una forma chiusa si aprono come pianure senza orizzonti, di un cantando che essendo
scarso di recitazione finisce con l’apparire privo di rilievo. Ma bisogna dire che nella
Giulietta sono anche chiaramente visibili alcune zone ben delimitate le quali anche se si
riferiscono ad episodi di contorno dimostrano il permanere di certe forme di espressione che
nell’opera più recente, come abbiamo detto, si affermano validamente.
Non è il caso di ripetere l’analisi dell’opera visto che essa ha conquistato un prezioso posto
nel repertorio lirico italiano e straniero: diremo soltanto dell’esecuzione che ha valso a
mettere in luce le caratteristiche dell’opera e specialmente quella esuberanza lirica della quale
abbiamo detto. Il maestro Serafin ha mantenuto lo spettacolo in un’atmosfera vibrante dove
però le sonorità sono state contenute nei giusti limiti sì da non spezzare l’equilibrio tra
palcoscenico e orchestra. Maria Carbone è stata una Giulietta piena di slancio e di impeto
drammatico: artista dotata di un prezioso temperamento, essa ha saputo dare al personaggio
non solo una voce bella ed efficace ma anche un giuoco scenico quanto mai significativo.
Angelo Minghetti è stato un Romeo appassionato e ricco di espressione confermando quelle
doti di artista che tutti gli conoscono; Carmelo Maugeri ha dato alla figura di Tebaldo tutta la
foga e l’impeto dei quali egli è capace dandoci in tal modo una nuova misura della sua grande
versatilità. Bene la Huder e De Paolis e Bergamini, Conti, Dominici, Zagonara e la Arbuffo,
la Grimaldi, la Rositani, Bianchi, Simonti. Ottimo il coro istruito da Conca ed ottima la regìa
di Govoni. Come al solito l’allestimento scenico di Ansaldo è stato all’altezza della
situazione.
Il successo è stato calorosissimo: una ventina di chiamate hanno salutato gli interpreti e
l’autore. Una grande, interminabile acclamazione si è avuta dopo la Cavalcata.
9
In realtà quattordici.
3.1.5/85
222
Reprise triomphale de “Giulietta e Romeo” au Royal, «L’Italie», 8.1.1936 - p. 3, col. 5
Le retour du chef-d’œuvre de Riccardo Zandonai sur les scènes de l’Opéra Royal, treize
ans10 après la première représentation, a été salué par un accueil triomphal. Parce que tout ce
qui est poésie douce et tendre, psychologie d’âmes, représentation de milieu, le trame en
somme dans ses épisodes variés, a jailli vif ed impétueux des pages de l’admirable partition,
de laquelle le maestro Tullio Serafin a fait ressortir, avec une ardeur presque violente, toute
expression tragique et lyrique.
Mme Maria Carbone a prêté au chagrin de “Giulietta” la tonalité de son beau chant et des
accents de haute humanité.
Le ténor Angelo Minghetti, dans le rôle le “Romeo” a chanté avec un élan passionné.
Le baryton Carmelo Maugeri a rendu admirablement la foudroyante passion de “Tebaldo”.
Mme Maria Huber [sic] a chanté avec une belle fraîcheur et beaucoup de douceur.
Le ténor Alessio De Paolis a donné à la célèbre romance de “Cantatore” une expression
coulante et douloureuse.
Tous les autres, le basse Dominici, le ténor Zagonara, Mmes Rositani, Arbuffo et
Grimaldi, Mm. Bergamini, Conti et Bianchi ont été à la hauteur de leurs grands partenaires.
Les chœurs sous l’habile conduite du maestro Conca ont rempli leur tâche à la perfection.
La mise en scène de M. Marcello Govoni et les décors de M. Pericle Ansaldo ont
dignement complété ce très beau spectacle.
Le maestro Riccardo Zandonai a été l’objet d’une véritable ovation à la fin de chacun des
trois actes et, notamment, après l’exécution de la Cavalcata.
Naturellement, le maestro Serafin et les interprètes se sont partagé tous les honneurs.
[...]
223
L[udovico] F[erdinando] Lunghi, “Giulietta e Romeo” di Riccardo Zandonai, «La voce
d’Italia», 23.3.1941 - p. 7, col. 2-3
Gli anni sono passati, le polemiche e le passioni si sono acquetate, e Giulietta e Romeo,
resistendo agli uni e alle altre, appare oggi nella reale luce del suo definitivo valore. L’opera è
viva e vitale. Non solo, ma appare strettamente legata alla grande nostra tradizione con
riflessi verdiani nella concezione e nel taglio che le dànno potenza e la pongono fra le opere
più significative e compiute di quest’ultimo periodo non sempre felicissimo del nostro teatro
lirico.
A darle questa forza, questa saldezza e questa accesa espressività concorrono anche taluni
elementi prettamente peculiari di Riccardo Zandonai. Una cruda ma evidentissima
caratterizzazione dei personaggi, una ammirevole dovizia di contrasti, un appassionato
pudore di accenti, e su tutto, inconfondibile, un’atmosfera che nasce dai personaggi, dai loro
sentimenti, dal conflitto di essi, e che resta sospesa e palpabile, quasi a creare loro intorno
l’aria vitale che respirano e di cui vivono.
Una atmosfera estatica, trepida di poesia, riflesso dell’anima, sottile spasimo dei sensi. Gli
esempi in Zandonai si moltiplicano. In questa «Giulietta» basti citare per tutti il finale
dell’atto primo in cui l’alito profumato del giorno nascente sembra venato dall’eco degli
10
Cfr. nota 110.
3.1.5/86
innamorati accenti che rivivono nelle voci indistinte del risveglio mattutino e vi cadono come
gocce di rugiada. E, per contrasto, il livido e tragico cielo tempestoso del primo quadro
dell’atto terzo su cui geme con la sua mirabile struggente tenuità la trenodia del “Cantatore”.
E qui, fino a tutta la “cavalcata”, il dramma dell’uomo ha veramente le sue profonde
risonanze nel dramma della natura.
Un primo atto veramente bello, un secondo in cui soccorre un vivo ed innato senso del
teatro, un terzo che ha nel primo quadro forse la cosa più bella, più sincera, più vera che sia
stata mai scritta da Zandonai: uno strumentale vario, ricco, ispirato anche e magistralmente
condotto, aderente espressione di una varietà armonica tipicamente personale, dànno a
quest’opera un valore essenziale e il diritto ad avere fortuna almeno pari a quella di
Francesca.
Non sempre ci si ricorda di quello che Zandonai rappresenti nel nostro teatro lirico. Ma
tant’è: ci pensano le sue opere a ricordarcelo ogni tanto: e questa Giulietta certo più e meglio
di ogni altra che non sia Francesca, cui del resto, a mio parere, non è seconda.
Il pubblico del Reale ha ieri sera ascoltato l’opera nella stessa edizione che sarà presentata
a Berlino in occasione delle prossime recite del Teatro Reale nella capitale germanica.
E fin da ieri sera questa edizione è apparsa nei particolari e nell’insieme già portata a
punto.
Qualche attenuazione di violenti contrasti, una più giusta velatura ai cori interni, qualche
tocco al movimento delle masse, qualche ritocco ai trucchi e alle luci la farà perfetta. Piccoli
particolari che appaiono già avviati alla loro giusta soluzione.
Ha concertato e diretto l’opera il maestro Vincenzo Bellezza cui va una particolare lode.
La complessa e ricca partitura è apparsa nel suo pieno valore di precisione, di equilibrio, di
accesa e poetica espressione. Il M.o Bellezza può segnare questa sua interpretazione fra le
migliori delle non poche che in questi ultimi tempi ci ha offerto. Il successo dell’opera è
anche ed in gran parte suo successo e l’applauso vibrante che lo ha salutato dopo la ormai
celebre “Cavalcata” è stato il segno più tangibile di un successo che l’ha seguito durante tutto
lo spettacolo.
“Giulietta” era Magda Olivero. Essa è qualche cosa di più di una cantante. Il personaggio
in lei è vita: la finzione realtà: ogni moto dell’animo, musica. La sua interpretazione di ieri
sera va al di là dell’impressione del momento e resta impressa e commovente nell’animo
dell’ascoltatore.
Al suo fianco Alessandro Ziliani ha vissuto il personaggio di “Romeo” con bella evidenza
e nell’ultimo atto con grande potenza espressiva sia vocale che scenica. Sì che mi pare che
questa parte particolarmente gli si addica e con particolare evidenza e con acceso calore
artistico la renda.
Luigi Borgonovo, baritono, nuovo per il Reale, si è affermato nella parte di “Tebaldo” non
soltanto cantante di ricchi e felici mezzi vocali ma attore di composta e pur grande efficacia.
Maria Huder (Isabella) riconferma con questa prova le sue non comuni qualità di cantante
e di interprete; e Francesco Albanese, con una delicata espressività, il pregio di una voce di
dolce timbro e bella estensione. Tutte le altre parti, numerosissime, erano affidate a quegli
ottimi elementi del Reale che altre numerose volte ho avuto occasione di segnalare e di
lodare, e che anche ieri sera sono stati degni di viva lode.
I bei cori diretti dal maestro Conca, il palcoscenico guidato dal maestro Ricci, la magnifica
orchestra si sono fusi in una pregevole e calda unità.
Guido Salvini ci ha offerto una regìa ammirevole per equilibrio, verità di espressione e tale
da far altamente onore al nostro Teatro anche in Germania ove, come ho già detto, lo
spettacolo sarà portato.
3.1.5/87
Per l’occasione le scene ed i figurini sono stati espressamente fatti ex-novo. E sono di un
gusto, di una bellezza veramente eccezionali. Efisio Oppo ha creato e bozzetti e figurini. Gli
uni sono stati egregiamente realizzati dal Polidori; gli altri, di rara purezza, ci riportano,
finalmente e grazie a Dio, alla autentica Verona dei Capuleti e dei Montecchi.
L’opera ha riportato un grande successo.
Registro a malincuore, perché fatti il più delle volte senza il minimo senso di opportunità e
di intelligenza, gli applausi a scena aperta. E di gran cuore quelli a fine di ogni atto, unanimi,
ammirati,, meritatissimi, rivolti al maestro Bellezza, alla Olivero, a Ziliani, a Borgonovo, a
tutti gli altri bravi interpreti; e le molte chiamate al direttore che, come ho già detto, ha avuto
un personale e vibrante successo dopo la “Cavalcata”; agli artisti, al regista Salvini
particolarmente festeggiato.
Riccardo Zandonai, che aveva assistito alle prove fino a quella generale, non era in teatro.
Era tornato al suo lavoro.
224
Vice, “Giulietta e Romeo” di Riccardo Zandonai ha ottenuto un vivo successo, «Il
Messaggero», 23.3.1941 - p. 3, col. 5-6
Venti anni circa non sono trascorsi invano per Giulietta e Romeo: sono serviti se non altro
a smussare gli angoli acuti di certa critica che per molto tempo non volle perdonare a
quest’opera d’averla clamorosamente smentita nelle previsioni. Pochi infatti ci videro chiaro
nel lontano 1922 quando lo spartito zandonaiano apparve la prima volta sulle scene
dell’allora Teatro Costanzi: non si volle riconoscere il significato drammatico di un’opera che
nel periodo delle infatuazioni avveniristiche tendeva semplicemente a riaffermare la
costruttiva necessità spirituale di conservare i valori tradizionali del teatro lirico italiano.
Giulietta e Romeo è dunque anzitutto un’opera italianissima: lo è per virtù di canto, per taglio
scenico, per l’appassionante esaltazione dell’ambiente paesano. A Riccardo Zandonai non si
possono negare i tre fondamentali attributi del suo talento e che si riassumono nella sintetica
e dinamica capacità di espressione, nella esplicita intuizione drammatica, nel sorprendente
fiuto teatrale. Oggi che i molti esperimenti sollecitati da un troppo diffuso e irrazionale gusto
per le mode esotiche e gl’infingimenti intellettualistici giacciono inerti ricoperti da un funereo
drappo fallimentare, la sana giovinezza, l’eterno fascino del nostro teatro splende gagliardo
nell’aria sgombra dai miasmi della petulante polemica salottiera.
Non era difficile cogliere ieri nella sala del Reale una atmosfera di compiacimento e di
soddisfazione: il pubblico attento si è accostato alla musa zandonaiana con fiducioso amore.
Un calore inconsueto di applausi ha sottolineato più volte i punti salienti dell’opera che si è
avvalsa, diciamolo subito, di una esecuzione veramente squisita, precisa e fusa in ogni
particolare. Le grandi linee di Giulietta e Romeo sono ancor oggi quelle che suggestionano
l’animo dello spettatore, l’ampio afflato melodico dello spartito non stenta a trovare pronte
reazioni e nella concitata progressione drammatica, senza arresti, pentimenti o equivoci può
forse passare inosservato il segreto fascino di tante piccole preziose cose: e noi rimandiamo
l’osservazione dell’ascoltatore a quel coretto femminile con il quale si conchiude il primo
atto, alle squallide note di quell’organetto peripatetico che nel momento più crudo della
tragedia sembra indicare l’indifferente procedere della vita in ogni tempo e luogo. Si osservi
inoltre il pregio della pittura ambientale: il rude coro paesano nel tempestoso vespero di
Mantova, spensierato e molesto, non poteva meglio condurre per contrasti l’animo
dell’ascoltatore al dramma finale dei due amanti. Di queste illuminate pagine l’opera è ricca a
3.1.5/88
dovizia: la irrefrenabile simpatia dei personaggi, il taglio esplicito ed intelligente del libretto
completano le molte attrattive del geniale spartito.
Abbiamo accennato poc’anzi ai pregi dell’esecuzione, diremo ora che essa è apparsa una
delle migliori uscite dalla fucina del Reale: il merito va anzitutto alla bacchetta di Vincenzo
Bellezza, alla sua amorevole cura ed alla sua appassionata fatica. La condotta orchestrale
della complessa partitura è stata di una chiarezza e di una incisività oltremodo felice: dosati
ed equilibrati gli spessori sonori, il ritmo rilevato nel suo giusto stacco. Altrettanta cura è
stata posta dal maestro Bellezza nel valorizzare il dinamicissimo andamento musicale del
palcoscenico. Dopo la irruente Cavalcata, resa con viva, appropriata animazione, il pubblico
ha premiato l’illustre direttore con un triplice, fragoroso applauso. Nelle vesti di “Giulietta”
abbiamo avuto il destro di ammirare il suggestivo fascino canoro e scenico di Magda Olivero:
è il suo uno dei più vividi talenti della nostra arte lirica. Forse mai come ieri sera il delicato
personaggio zandonaiano è sembrato palpitare di autentica vita interiore. Magda Olivero
mette il suo gran cuore traboccante d’affetto al servizio di un sottile acume istrionico: dizione
e fraseggio, emissioni ed accenti, perfetti nel rigore musicale, scaturiscono dall’attiva
partecipazione dell’interprete al dramma. Il soave canto «sono la vostra sposa» dell’atto
secondo è stato detto da questa magnifica artista con il pianto alla gola ed una amorosa
dedizione: ne siamo rimasti ammirati e commossi.
Anche Alessandro Ziliani ci è sembrato un Romeo efficace, raffigurato con nobiltà
d’intenti. Il gradevole timbro della sua voce non ha stentato ad espandersi, nei punti richiesti,
con generoso impeto. Completava degnamente il terzetto degli interpreti principali il baritono
Luigi Borgonovo, che ha dato rilievo e dignità alla difficile parte di “Tebaldo”. Un
“cantastorie” dalla voce fresca e ben modulata è apparso Francesco Albanese. I personaggi
minori come pure il coro hanno recato un preciso contributo allo spettacolo. Belle le scene di
C. E. Oppo intese con moderno spirito, di una pittura fantasiosa e drammatica; la regìa di
Guido Salvini ha composto quadri di un’armonica eleganza, dando giusto rilievo ai molteplici
e complessi avvenimenti scenici. Questa edizione di Giulietta e Romeo rappresenterà
prossimamente all’Opera di Stato di Berlino la produzione teatrale contemporanea italiana: il
successo di iersera è stato dunque un lietissimo auspicio.
225
Francesco Scardaoni, “Giulietta e Romeo” di Zandonai, «La Tribuna», 25.3.1941 - p. 3, col.
3-4-5 (con una foto della scena finale dell’opera, ideata da C. E. Oppo)
Fu detto che la Francesca da Rimini di Zandonai si reggeva essenzialmente pel famoso
tema della “viola pomposa” che tutta l’opera avvince e domina col suo profumo violento. Il
giudizio era un po’ temerario, giacché la Francesca ha una consistenza sua drammaticomusicale e ricchezza di espressioni e di movimenti indipendentemente dal tema in questione.
Quest’ultimo però, destando in modo particolarissimo l’interesse dell’ascoltatore, ha senza
dubbio il risultato di rischiarare e di rendere più facilmente accessibile il contenuto
dell’opera. In Giulietta e Romeo il dramma musicale raggiunge una espressione alquanto più
profonda e una forma più perfetta che nella Francesca, ma manca il valore corrispondente a
quello del tema della “viola pomposa”. L’opera s’appoggia dunque esclusivamente alle
risorse della sua espressività musicale e a un certo colore dominante determinato a meraviglia
dall’elemento sinfonico.
La straordinaria sensibilità drammatica dell’autore trova una realizzazione perfetta e
sempre immediata nel contesto dei valori sonori. Si potrebbe anzi dire che tutto ciò determina
3.1.5/89
in lui una specie di emozione costante che l’induce quasi a trascurare il materiale tematico,
che fiorisce qua e là piuttosto copiosamente e che egli lascia disperdere con un gesto da gran
signore. Il potenziamento dell’espressione lirica e poetica lo interessa in più larga misura. Su
questo fenomeno egli insiste più particolarmente. A volte si eccita verso forme di delirante
esaltazione. Ci sembra che perda allora un certo controllo strumentale. L’orchestra cioè non
esprime più il sentimento dei personaggi, ma quello dell’autore. Raggiunge allora delle
sonorità fragorose che concentrando il dramma nel “golfo mistico” lo sopprimono sulla
scena. La strumentazione si svolge ampia e nutrita, piena di un respiro profondo e di una
travolgente potenza; ma con i suoi guizzi metallici schiaccia alcune fra le più belle note del
soprano e del tenore. Se tuttavia l’equilibrio si manifesta instabile nel risultato degli effetti
sonori, esso è perfetto nell’espressione del dramma. Sotto questo ultimo punto di vista la
musica di Giulietta e Romeo può sembrare un grande affresco dalle tinte torve e violente nel
quale la tragica vicenda dei due giovinetti innamorati rivive potentemente in un tumulto di
rievocazioni affascinanti, fra sogni e sospiri, odi implacabili, spade sguainate e urti violenti,
su uno sfondo di torri merlate e di architetture severe.
Per questa ragione certo alla mirabile esecuzione che di Giulietta e Romeo è stata data al
Teatro Reale hanno contribuito essenzialmente le nuove scene e i nuovi costumi di Cipriano
Oppo. Il quale, nella realizzazione del dramma, procedendo su un cammino parallelo a quello
del musicista ha sviluppato nelle sue linee e nei suoi colori l’elemento più intimo di questo
remoto episodio della storia veronese. Non soltanto dunque egli ha creato con la sua fantasia
luoghi, aspetti e forme di un affascinante effetto, ma ha dato una vera e propria espressione
architettonica all’idea centrale del dramma musicale.
Di conseguenza Guido Salvini nel regolare la regìa dell’opera ha avuto un’eccellente base,
su cui i movimenti delle masse e delle persone hanno potuto determinarsi col più compiuto
risultato. E molto di più egli avrebbe ottenuto se la sensibilità degli attori cantanti fosse stata
in questo senso più viva e meglio si fosse adeguata al suo stile che è un po’ quello di far
vivere con dettaglio l’effetto dell’insieme. Comunque sulla scena il dramma si è realizzato in
tutta la sua potenza e in tutta la sua tensione.
Vincenzo Bellezza – che, dopo una non breve assenza, il pubblico ha riveduto con la più
grande gioia sul podio del “Reale” – ha fatto vivere l’opera di Zandonai nel suo più profondo
spirito lirico-sinfonico. Con la sua bella battuta ampia e decisa egli ha squadrato fortemente
tempi e ritmi e a tutte le multicolori sonorità ha dato nitidezza e rilievo. Nella cavalcata di
Romeo, condotta con una potente espressione sentimentale attraverso le sue abbaglianti
forme descrittive, egli ha raggiunto effetti di un particolare vigore e ha suscitato l’entusiasmo
delirante degli ascoltatori.
La partitura di quest’opera, così appassionata e dallo stile così nobile, la quale
opportunamente figurerà nel programma della prossima breve stagione italiana a Berlino,
difficilmente potrebbe trovare un interprete più esatto e un esecutore più vivo.
La voce di Magda Olivero è di quelle che sgorgano dal profondo dell’anima. Il fenomeno
fisico che la produce si identifica perciò esattamente con un fatto spirituale. La bellezza del
suo suono, la mollezza dolce delle sue flessioni che rende così chiare e vive tutte le note di
passaggio, si identificano con la passione e coi vari momenti d’una sensibilità accorata e
commossa. Nella parte di Giulietta, considerata sotto il suo punto di vista drammatico e
patetico nonché sotto quello vocale e musicale, questa eletta cantante è stata dunque di una
grande classe. Attraverso la sua arte, la storia d’amore e di annientamento della dolorosa
fanciulla sono risultati d’una logicità assoluta e il personaggio ha potuto concretarsi nella sua
vera forma vivente.
3.1.5/90
Nella parte di Romeo si è fatto molto ammirare Alessandro Ziliani per robustezza di voce,
accento drammatico e una certa piacevole eleganza nel giuoco scenico. Luigi Borgonovo ha
creato saldamente il personaggio di Tebaldo dandogli una giusta misura di durezza e una
gagliarda espressione vocale. Francesco Albanese, nella parte del Cantatore, ha potuto
esporre le note più belle del suo timbro eccellente. Ottimamente tutti gli altri artisti nei
numerosi personaggi secondari.
Il successo è stato schietto ed entusiastico. Oltre molti applausi a scena aperta, fra cui –
ahimè! – alcuni assai fuori di luogo, ci sono state calorosissime ovazioni ad ogni fine di atto
al direttore agli interpreti e al regista.
226
a. righ., Al Reale dell’Opera “Giulietta e Romeo” di R. Zandonai, «Il Tevere», 24-25.3.1941
- p. 3, col. 4
Non è esatto affermare che le opere del tutto mancate non giovino al teatro. A qualcosa
servono; in senso negativo, ma servono. Non foss’altro, per ragioni di relatività e di contrasto,
mettono in sempre maggior luce le buone opere, quelle dettate dal cuore e dall’intelligenza
dei compositori che hanno qualcosa da esprimere e da rivelare a mezzo delle note. Vedete
l’esempio di Giulietta e Romeo di Riccardo Zandonai: c’è sembrata ancor più fresca, viva e
moderna, malgrado i suoi vent’anni di vita, proprio perché in quest’ultimo ventennio abbiamo
assistito ai più svariati inutili tentativi del nuovo ad ogni costo, anche al costo – inavveduto e
cretino – di mettersi al seguito delle più sballate correnti internazionali che sono state di
infausta, effimera moda negli intellettualistici e ambigui cenacoli parigini. Sterili tentativi,
morti in sul nascere, cui converrebbe non la ribalta di un teatro ma il ben tappato boccale
pieno di alcoole addetto a preservare le mostruosità fetali.
Quanta vita, prepotente e giovane, e quanta modernità, invece, in questa italianissima
Giulietta, che non ha sdegnato le forme classiche del melodramma, che si è ricollegata
all’opera verdiana come a una delle più pure fonti del genio musicale italiano!
Nessuna meraviglia. Quando, come Riccardo Zandonai, si hanno molte cose da dire che
bollono nel sangue, quando come il maestro trentino si possiede una tecnica orchestrale che
non ha niente da invidiare a quella dei più celebri distillatori stranieri di cruciverba musicali;
e sentimento e tecnica idealmente si associano al senso e alle esigenze del Teatro, ci si può
formalmente ricollegare a qualsiasi modello: si farà sempre opere vibrante di vita. Di vita in
Giulietta ce n’è perfino troppa in qualche punto: è un’opera gravata di ipertensione. È vero
che siamo di fronte ad un atroce conflitto di fazioni di un’epoca in cui si dava mano alla
spada con la stessa indifferenza con la quale oggi si trae dal taschino la penna stilografica; ma
anche le espressioni amorose come quelle del grande duetto del verone risentono troppo
dell’ambiente arroventato e i due celebri innamorati sono costretti a gareggiare di sonorità
rutilanti invece di raccogliersi in più sommesse espansioni canore, come la prudenza e la
soave dolcezza dell’ora notturna consiglierebbero.
In Giulietta i diritti del canto sono salvaguardati a pieno: ed è un canto sempre aderente ai
personaggi. L’orchestra rugge e mormora – ma sono più i momenti in cui rugge – con voci
sempre nuove e rinnovantesi per geniale virtù di impasti e di trovate armoniche, ed il suo
linguaggio è sempre tale da dare una fisionomia propria e inconfondibile ai vari momenti
dell’azione.
Quando poi l’ispirazione batte l’ala negli alti accenti vien fuori quel primo quadro del
terzo atto, con l’accorata melodia del cantastorie, al quale quadro non si regala niente
3.1.5/91
chiamandolo geniale. E vicino a questo episodio potremmo aggiungere vari altri colti lungo i
tre atti per concludere con un giudizio di schietta ammirazione.
La realizzazione apprestata dal Teatro Reale merita grande favore nel suo complesso. Noi
che abbiamo sempre avuto una spiccata predilezione per i cantanti e per le bellissime voci e
proprio per questo pecchiamo di incontentabilità, abbiamo riscontrato una certa asprezza
nelle voci dei tre artisti principali, asprezza che può essere a posto in “Tebaldo”, ma non in
“Giulietta” e in “Romeo” dai quali in più d’un momento avremmo desiderato maggiore,
sommessa dolcezza di accenti e di modulazioni. Ma, ripetiamo, è l’incontentabilità che ci
detta queste riserve, oltre le quali abbiamo senz’altro ammirato il drammatico temperamento
della signora Magda Olivero e l’accentuazione espressiva, nei momenti di maggior forza, del
tenore Alessandro Ziliani. Quanto al baritono Luigi Borgonuovo [sic], il meglio delle sue
possibilità canore sta nelle note acute, robuste e di bel metallo. Aggiungiamo che i tre artisti
hanno trovato scenicamente una perfetta e continua efficacia. Molto è piaciuto il tenore
Francesco Albanese. I quattordici artisti delle parti minori dovranno accontentarsi del “bravo”
collettivo, ma pienamente e da tutti meritato.
Di importanza essenziale per l’eccellente risalto dell’opera la concertazione e la direzione
del maestro Vincenzo Bellezza, al quale l’imponente ovazione scattata sull’accordo
conclusivo della cavalcata ha detto meglio di come potremmo dirlo noi quanto il difficile e
scaltrito pubblico del Reale apprezzi ed ammiri la sua bacchetta. È stato il momento del
maggiore entusiasmo per il calore degli applausi e per la spontanea partecipazione di tutta la
sala. Ciò dimostra la sensibilità di un uditorio che inoltre ha reagito di fronte alla
intempestività di solitari battimani piovuti a sproposito dall’alto.
Riconosciamo l’utilità dei vostri interventi, o signori altolocati volontari dell’entusiasmo;
ma disciplina ci vuole, e intelligenza.
Pronto e sicuro il coro istruito dall’ottimo maestro Conca; ma certi effetti interni li
vorremmo più distanti.
Assai pregevole la regia di Guido Salvini: giustamente apprezzata la bella armoniosa
fedeltà delle scene ideate da E. C. Oppo e realizzate da E. Polidori, nonché dei figurini
anch’essi disegnati dall’Oppo con artistica aderenza.
Successo vivissimo per unanimità di giudizi espressi negli intervalli e per le numerose
chiamate a fine d’atto.
227
Bac., Dagli amanti di Verona agli epitalami di Catullo, «Il Piccolo», 24.3.1941 - p. 5, col. 12
In due giorni consecutivi, sabato e domenica, due avvenimenti musicali registra la cronaca
romana: il ritorno di Giulietta e Romeo del maestro Zandonai all’Opera e l’Epitalamio
catulliano di Ildebrando Pizzetti all’Adriano.
La tragedia degli amanti di Verona è, giova ricommentarlo, un saggio delle sette opere che
nel prossimo aprile saranno date dal nostro Teatro Reale a Berlino in cambio delle
memorabili rappresentazioni della Staatsoper berlinese a Roma. Delle sette opere fanno parte,
per quel che si sa, il Ballo in maschera, la Norma e il Falstaff, dirette dal Serafin, la
Fanciulla del West e l’Italiana in Algeri dirette dal De Fabritiis, l’Elisir d’amore e la
Giulietta e Romeo dirette dal Bellezza.
3.1.5/92
La rappresentazione di sabato, quantunque lo spartito di Riccardo Zandonai fosse fissato
nel passato anno per il cartello della presente stagione, fu dunque una prova di collaudo che
ottenne il plauso sia per la musica sia per gli esecutori e l’allestimento scenico.
La musica per non pochi era nuova, tanto di rado fu data l’opera che pure fu rappresentata
per la prima volta nel 1922, quasi venti anni addietro. La danza del torchio e la cavalcata di
Romeo che vengono inseriti di frequente nei programmi dei concerti sinfonici crescevano il
desiderio di udire intera la tragedia musicale, ma per varie ragioni soltanto quest’anno il voto
fu appagato con ogni cura. Qui il pubblico ritrova l’operista di spontanea vena italiana,
limpida fresca copiosa così nelle espressioni dolci e insinuanti come nelle aspre e violente.
Italiano non è forse questo soggetto oggi universale e monumento della grande arte innalzato
alla nostra letteratura popolare che ha tentato otto maestri, due soli dei quali stranieri?
Il maestro Vincenzo Bellezza nel dirigere lo spartito, che meno si discosta dalle altezze
scespiriane, pose più che scrupolo, passione. Per merito suo le non poche gemme della
tragedia acquistarono nuovo splendore. Magda Olivero e Alessandro Ziliani, i due
protagonisti, Luigi Borgonuovo [sic] (Tebaldo Capuleto), Francesco Albanese (un ottimo
cantatore), Maria Huder (la fante Isabella), le altre parti secondarie e i cori del Conca
mostrarono preparazione accurata e matura.
Entro le nuove scene di Cipriano Efisio Oppo operò l’ingegnosa regìa di Guido Salvini. La
danza del torchio e la cappella dei Capuleti pure per l’occhio sono due quadri stupendi.
[...]
228
Vivo successo di “Giulietta e Romeo” al Reale dell’Opera, «L’Italia», 25.3.1941 - p. 3, col. 6
Giulietta e Romeo, che fu rappresentata per la prima volta al Costanzi nel 1922, è stata
accolta sabato sera con evidente compiacimento del pubblico del Reale che attendeva con
impazienza l’importante ripresa.
L’esecuzione perfetta dell’opera in misura degna alla riuscita dello spettacolo, curato con
diligente passione dal maestro Vincenzo Bellezza.
Applausi calorosissimi hanno salutato i punti salienti della bella ed ispirata partitura,
tagliata secondo il modello classico del teatro lirico italiano, in piena infatuazione di
modernità avveniristica.
Il maestro Bellezza ha dato risalto a tutte le bellezze patetiche, drammatiche e coloristiche
dell’opera che ha trovato in Magda Olivero (Giulietta) in Alessandro Ziliani (Romeo) in
Luigi Borgonovo (Tebaldo) e in Francesco Albanese (il Cantastorie) un complesso
d’interpreti eccellente non solo per mezzi vocali ma anche per talento ed efficacia di azione
scenica.
Anche i personaggi minori ed i cori sono da lodare per il valido contributo recato al
successo. Belle le scene, modernissime e fantasiose, di C. E. Oppo.
[...]
229
l[udovico] f[erdinando] l[unghi], “Giulietta e Romeo” all’Opera, «Il Giornale d’Italia»,
23.12.1947 - p. 2, col. 1
3.1.5/93
Non si comprende certo partito preso contro quest’opera e in genere, ora che è morto,
contro Zandonai e la facile accusa di retorica, quando tante altre opere che fanno affollare i
teatri non sono certo digiune di questa benedetta retorica: con l’aggravante che il più delle
volte non hanno certo al loro attivo una partitura d’orchestra come questa della «Giulietta».
Si può non amare il melodramma: e questo è un altro discorso; ma se lo si ama, in questo
dello Zandonai ci sono tali elementi quali l’atmosfera, la caratterizzazione dei personaggi, il
senso musicale del teatro, il senso del poetico, e certa non celata derivazione dalla tradizione
verdiana, che si resta perplessi di fronte a tanti giudizi sommari o negativi. Vorrei
modestamente dire che «Giulietta e Romeo» è una bell’opera e viva: e a ricordarci che viva
c’è il personaggio musicale, per non parlar d’altro, di “Tebaldo” che è proprio una della più
evidenti creature e delle più persuasive ragioni di vita di quello che noi chiamiamo il
melodramma. E vorrei anche modestamente consigliare il pubblico di ascoltarla, quest’opera,
ché finirà per amarla. Il maestro Vincenzo Bellezza ce ne offre una edizione quanto mai
pregevole ed appassionata, equilibrata e salda, commossa e viva; a lui, che dopo la
“cavalcata” ha riscosso una meritata ovazione, si deve se l’ottima orchestra ha reso la
complessa e ricca partitura con tanta pienezza di espressione e se il palcoscenico s’è tenuto su
un tono elevato e musicalmente accurato.
Elisabetta Barbato ha voce di vibrante espressione, di commosso accento e temperamento
di interprete sicura [e] comunicativa: vorremmo consigliarla, all’ultimo atto, di non attendere
così apertamente l’entrata del direttore; è artista che crediamo non abbia bisogno di ciò. Il
giovane tenore Alsinio [sic] Misciano ha voce che se non domina sempre le sonorità
orchestrali ha in compenso timbro caldo e simpatico: una voce che esprime, che è bene
impiegata, che “canta”, e questa è una grande cosa. Misciano ha anche compostezza e
intelligenza scenica e vorremmo tanto che perseverasse e non si perdesse subito nel mestiere
come oggi purtroppo accade. Il baritono Inghilleri conosce le sue possibilità vocali e direi che
le impiega con grande accortezza e le mette al servizio di una rara perizia scenica. Ottimi la
Huder (Isabella) e il Caruso (il Cantatore). Buoni i cori del m. Consoli e un poco confusa, per
la eccessiva ricerca di particolari anche superflui, la regìa che il Barlacchi ha realizzato con
palese impegno.
L’opera si è chiusa tra il più vivo successo e sotto una inutile ed infantile pioggia di
coriandoli che volevan essere petali di rose. Molti applausi, molte chiamate al direttore e agli
interpreti tutti.
230
Sergio Dalma, “Giulietta e Romeo” di Zandonai, «La Repubblica d’Italia», 23.12.1947 - p. 2,
col. 2-3
Il basamento letterario della «Francesca» di Zandonai porta scolpito un nome:
D’Annunzio. Dietro «Giulietta e Romeo» c’è la fiacca imitazione dell’Abruzzese; c’è che, se
per esempio s’ha da nominar la fiaccola o la torcia, bisogna dire il torchio. Altrimenti, addio
poesia. Gonfio come un otre ripieno d’aria dannunziana, il libretto di Rossato buon’anima
vuol parere grandioso ed estroso, come se bastasse gonfiar le gote per parere un Ercole.
L’immenso William dai Campi Elisi sogghigna, specie quando vede – lui, maestro di connubî
– fornicare il realismo col più gratuito estetismo stile liberty. E si ribella a far da prònubo.
Riccardo Zandonai, il maggior musicista uscito dalla scuola di Mascagni, l’ispirato
creatore delle più indovinate atmosfere musicali che siano apparse in quest’ultimo
cinquantennio (e di ciò fanno fede le pagine maliose di «Francesca» o di «Giuliano») è stato
3.1.5/94
trascinato in questo brulicame d’ibridismo spurio: e dàlli, nella famosa (e applaudita)
Cavalcata, a far cantare nella notte tempestosa «Giulietta mia!» da un fantastico coro (oh,
sublime mormorio vocale nella tempesta del «Rigoletto»!!) dopo averci fatto assistere a più
che veristiche scene; ed ecco accompagnar con l’orchestra – di cui il musicista aveva una
magistrale padronanza – la pioggia di petali di rose caduta dal soffitto del palcoscenico sui
corpi esanimi degli amanti.
Nelle poche righe assegnateci non è possibile procedere ad altre documentazioni
probatorie. Quello che abbiam scelto, a caso, tra i molti esempi servirà a fare intendere il
nostro pensiero. Il quale è molto, ma molto lontano dalla benché minima irriverenza verso
l’adorato e veramente compianto Maestro trentino, che attende, come Mascagni, un’autentica
commemorazione. Secondo noi, Zandonai, con buona pace dei vivi, va ricordato in due sere:
con «Francesca» e con «Farsa amorosa». Sono questi i due volti essenziali del geniale
compositore.
Della «Giulietta» Vincenzo Bellezza ha fatto il suo “livre de chevet”. Ne conosce tanto le
turgide e ipertese arterie quanto il celeste aerato respiro, le nuvolaglie basse e le alte schiarite.
Ne ha fatto quindi una ricreazione consapevole e devota. A suoi collaboratori ha avuto
Consoli per i cori, che si son fatti onore, e Berlacchi [sic] per la regìa dalla quale non si
possono pretendere miracoli, per quello che s’è detto circa il bolso libretto. Elisabetta Barbato
ha prestato alla Capuleto la sua voce tragica, cupa, densa, fatale. Chi comporrà per questa
cantatrice un’Erinni o una Medèa, oppure la più inesorabile Sibilla della Sistina? Alvinio
Misciano farà molta strada se della sua voce gradevole si servirà come d’un elemento
prezioso per un essenziale convincente gioco drammatico.
Inghilleri è stato all’altezza della sua reputazione. Il tenore Caruso continua a far sperare
assai bene di sé. Un elogio “à forfait” per l’infinita schiera dei personaggi, se così si possono
chiamare dei manichini decorativi.
231
Renzo Rossellini, “Giulietta e Romeo” al Teatro dell’Opera, «Il Messaggero», 21.12.1947 p. 3, col. 2-3
Il teatro di Riccardo Zandonai è romantico e si riallaccia alla migliore tradizione del
melodramma italiano. Se ha qualche affinità, dal punto di vista vocale, con i modi della
cosiddetta “giovane scuola” e ne ha risentito alcune delle migliori influenze, per individuarne
i caratteri generali ed i sentimenti bisogna risalire direttamente a Verdi. Mai come oggi
questa parentela è apparsa tanto stretta: ascoltando il secondo atto di Giulietta e Romeo, nel
declamato che infervora i personaggi, nella condotta rigorosamente melodica della partitura,
la discendenza verdiana è evidente. Gran titolo d’onore per un musicista e specialmente per
un musicista di teatro.
Giulietta e Romeo è un’opera viva: alcune delle sue pagine sono indimenticabili per
l’originalità della concezione e per il potere evocativo che emanano. E l’interesse non langue
mai, tanto brillante è l’estro con cui l’autore ha saputo tagliare le scene e dare vigore e varietà
ai molti avvenimenti che si susseguono nella vicenda. Forse ancor più dello stesso amore
leggendario dei due protagonisti Zandonai ha sentito il colore, la luce e la poesia di un tipico
paesaggio italiano. Le albe di Verona, le notti di Mantova sono state evocate e descritte da lui
con mirabile fantasia.
Noi ci auguriamo che il pubblico, come fu nel felice passato del teatro musicale italiano,
testimoni la sua simpatia per quest’opera accorrendo numeroso alle sue repliche. Sarà un
3.1.5/95
omaggio reso, nel modo più degno, alla memoria di un nostro grande Maestro purtroppo
immaturamente scomparso, e nello stesso tempo un intelligente modo di favorire l’auspicato
rinnovamento del repertorio lirico.
Elisabetta Barbato ha dato un bellissimo risalto alla difficile parte di Giulietta: essa è stata,
sia dal lato vocale che da quello scenico, sensibile ed appassionata ed ha ottenuto un successo
personale molto lusinghiero. Il giovane tenore Alvinio Misciano si è fatto spesso apprezzare
per il canto misurato e la buona dizione. Bene Giovanni Inghilleri, il quale ha caratterizzato
con giusto impeto la figura di Tebaldo. Vincenzo Bellezza, un devoto di questa partitura ed
un vecchio amico di Riccardo Zandonai, ha concertato e diretto lo spettacolo con entusiasmo
evidente e vivo amore. È stato lungamente acclamato dopo la famosa “cavalcata”. Il coro,
istruito da Achille Consoli, si è fatto onore, mentre la regìa di Barlacchi, invece, ci è sembrata
incerta e confusionaria.
[...]
232
M. C. C., Giulietta e Romeo, «Espresso», 22.12.1947 - p. 3, col. 8-9
Fra tanti santi innalzati ove tutto è gloria e pace non uno ve n’è cui possa rivolgersi il
martire critico con la sua anima tormentata dal dualismo che dentro lo rode: i rigorosi
presupposti estetici che gli fanno intravedere l’epicedio del teatro lirico e la passione e la fede
che, malgrado tutto, lo attanagliano a questo teatro. A volte gli sembra che quell’omuncolo
che disperatamente si dibatte sul podio debba improvvisamente arrestare ogni fragore
orchestrale e, nella sorpresa del silenzio pieno di presentimento e di sgomento, debba volgersi
al pubblico e gridare un jeratico: «Signori, si chiude!».
Più inquietante del consueto abbiamo avvertito l’altra sera all’Opera il nostro interno
tormentoso dibattito mentre si svolgeva la rappresentazione della «Giulietta e Romeo» di
Zandonai, per la quale avremmo desiderato non un successo da capolavoro, che tale nessuno
mai ebbe la bonomia di conclamare, ma un bel successo da opera di “repertorio”, come le
spetterebbe d’essere classificata, mentre ben l’ottanta per cento del pubblico presente vedeva
quest’opera per la prima volta!
Ma arrivati alla fine dello spettacolo, col cadere di certi coriandoleschi petali bianchi sui
corpi “finalmente” inanimati di Giulietta e Romeo, ci siamo sentiti maggiormente depressi,
perché non avremmo voluto credere che il Teatro dell’Opera, oltre tutto, potesse prestarsi da
palestra di esercitazione alla candida fantasia di un regista di teatrino da educandato.
Dunque la colpa non è proprio tutta del pubblico che noi riscontriamo distratto, apatico,
conformista.
Già che il Teatro, e non sappiamo precisamente “chi” per esso, ha avuto la lodevole
intenzione di allestire questa vitale opera di Zandonai (alla quale tuttavia occorrono
ragionevoli tagli), sarebbe stato assai opportuno che avesse volto le sue cure a un’esecuzione
il più possibile efficiente, con un largo numero di prove, che erano indispensabili. Il maestro
Vincenzo Bellezza, che fortemente ama quest’opera, era sul podio convinto e appassionato. I
cantanti, spesso traditi dall’impeto della natura melodica che Zandonai ha dato al suo lavoro,
si sono lasciati trascinare a ricalcare eccessivamente le loro parti.
Ecco gli interpreti principali applauditi più volte alla ribalta: Elisabetta Barbato, Alvino
[sic] Misciano, Giovanni Inghilleri, Mario [sic] Caruso e poi Maria Huder, Gabriella Muzzi,
Fernando Delle Fornaci, Mazziotti, Conti, Platania, Russo, Stocco Titta, Marcangeli, Cadoni,
Sticchi, Giusti e Morucci [sic].
3.1.5/96
233
G[uido] Pannain, “Giulietta e Romeo” all’Opera, «Il Tempo», 21.12.1947 - p. 2, col. 1
La musica della Giulietta e Romeo di Zandonai è, in fondo, quella della Francesca da
Rimini disciolta in un lavacro di retorica. Sul fondo intorbidito ne galleggiano pallide tracce.
È un brancolare alla ricerca di qualche cosa che non viene; lo stento e il sollecitato artificio; il
vuoto che mette corpo dilatandosi in una tensione d’irraggiungibile canto. Destare dal sonno
riparatore della dimenticanza un’opera come questa significa non rendere buon servizio alla
memoria del povero Zandonai, naturalmente né meno alla causa dell’arte, tanto meno a quella
della cassetta.
Il maestro Vincenzo Bellezza, i cui meriti di concertatore e animatore sono noti e
apprezzati, ha messo in opera tutta la sua scaltrita esperienza per trarre in porto nave sì
difficile a pilotare. Elisabetta Barbato (Giulietta) ha buoni slanci canori né manca di vibrante
fervore, ma è soggetta a diseguaglianze e squilibri. Da avvolgenti sontuosità vocali s’abbassa
d’improvviso a ottusità velate; ha difettosa la pronuncia (avessi capito una sola parola!) e le è
inibito di cogliere l’interiorità del personaggio.
Il tenore Alvinio Misciano (Romeo), che ora comincia a tentare la prova della scena, ha
promettenti attitudini vocali; gli occorre ancora molto studio, soprattutto per addestrare la sua
voce all’eguaglianza dei trapassi. Giovanni Inghileri [sic], che fu tra i primi a sostenere la
parte di Tebaldo, si mantiene tuttora saldo contro il rigore degli anni. Buon cantastorie il
bravo Mariano Caruso, diligenti i cori.
Regìa affrettata e convenzionale. Attenti alle scene in cui, snudato il brando, schiere di
armati vengono a tenzone! Il ridicolo è a un passo.
234
[Ettore] Montanaro, “Giulietta e Romeo” di Zandonai, «Il Popolo», 21.12.1947 - p. 2, col. 23
Continuando nel rinnovamento del suo cartellone, il Teatro dell’Opera ha rappresentato
«Giulietta e Romeo» di Zandonai, a cui il pubblico ha rivolto festose accoglienze.
In tutta la partitura la mano del geniale compositore trentino opera sicura e felice,
realizzando situazioni di particolare bellezza, anche se il tormentato dramma d’amore dei due
infelici amanti veronesi non salga con la musica fino alla consorella «Francesca da Rimini»,
che di Zandonai rimane la fatica più genuina e commossa. C’è nella «Giulietta e Romeo» un
cupo e agitato conflitto che stagna il contenuto musicale e rende l’atmosfera sonora – in
taluni punti – vuota di ogni palpito.
Ogni tanto però una mano lieve passa sulla musica come un dolce ravviamento, portandosi
dietro folate di un vento fresco che rasserena l’orizzonte e rende gl’ispirati melismi limpidi e
pieni di sincera tenerezza.
Vincenzo Bellezza ha manovrato orchestra e palcoscenico, rivelando sufficiente
conoscenza della densa partitura.
Elisabetta Barbato e Alvinio Misciano incarnavano i due protagonisti. Giovani a cui non
possono negarsi notevoli qualità. Ma se questi benedetti giovani, che noi seguiamo con
fiducia e dai quali molto attende il teatro, pensassero più seriamente che prima di arrivare ad
un grande teatro necessita mettere perfettamente a posto la voce e penetrare profondamente lo
3.1.5/97
spirito del personaggio che raffigurano (e alludo in generale) in maniera da acquistare una
individualità sempre riscaldata da un soffio di umanità, e non sembrare marionette
manovrate, il teatro melodrammatico italiano nel suo complesso non accuserebbe segni di
disorientamento.
Una particolare lode al tenore Mariano Caruso, “il cantatore”, alla Maria Huder e al
baritono Giovanni Inghilleri.
Bene ma senza particolare rilievo il coro. A posto la numerosa schiera dei comprimari.
Il Teatro dell’Opera ha fatto tutto quello che poteva per l’allestimento.
235
a. bon., “Giulietta e Romeo” all’Opera, «La Voce repubblicana», 21.12.1947 - p. 3, col. 5-6
«Giulietta e Romeo», nel libretto del Rossato, è una via di mezzo fra la novella del Da
Porto e la tragedia di Shakespeare; fra la semplicità di anime degli eroi narrati dai cantastorie
e la complessità dei personaggi shakespeariani. La musica di Zandonai si fa sentire già tutta
nel lungo duetto di Giulietta e Romeo al primo atto, il quale duetto sembra prendere impulso
da una cellula di quattro note (che salgono e si posano e sempre ritornano fra coretti, tocchi di
campane, dolci note della celesta) senza per altro raggiungere piena individualità. Zandonai
tenta, per lo meno tre volte, di comporre in forma chiusa, ma non potendo essere originale
ricade nel declamato-arioso. Di quest’opera sono molto noti due episodi sinfonici. Il primo,
quello della Danza del torchio, di forma libera, è di efficacia teatrale, ma risente della
maniera straussiana, anche per le affinità di colore con la danza di Salomè. L’altro episodio
della Cavalcata rientra nella forma classica A-B, con un primo tema di estremo vigore ritmico
e un secondo tema cantabile. I timpani fanno da base per tutto il pezzo, scandendo il ritmo
della cavalcata. Siamo di fronte ad uno strumentale pieno, per non dire pletorico ed
eccessivo, tanto più che non si descrive una battaglia di eserciti ma un amante sia pur
disperato che cavalca nella notte sia pure in tempesta. Zandonai è un ultra-romantico: egli
calca troppo sui sentimenti e li esaspera, ma li esaspera più esteriormente che interiormente.
Comunque sia, l’effetto teatrale non manca. Diciamo pure che l’orchestra suona bene.
L’impressione complessiva dell’opera è di un prevalere del periferico, con crescita e fiorita di
germogli. Ma le foglie nuove e verdi non sono l’albero.
Quant’è all’esecuzione, si è visto subito che il maestro Bellezza era padrone della partitura
e infatti il successo ha coronato la sua devozione all’autore. Giulietta era la Barbato, una
Giulietta dalla voce piena che sentiva fervere in sé fortemente il sentimento dell’amore,
mentre Romeo, il Misciano (giovane recluta dell’opera che fa sorgere speranze),
nell’intreccio dell’azione, fra le tendenze drammatiche ed idilliache non si è smarrito, ma
anzi ha dato al personaggio assai vita e calore. Bene gli altri: lo Inghilleri, la Huder, il Caruso
e le parti minori. Da elogiare il coro. Purtroppo non possiamo dire altrettanto della messa in
scena.
236
P., Giulietta e Romeo, «Momento sera», 23.12.1947 - p. 2, col. 1
Nonostante la dimostrata buona volontà degli interpreti, da Elisabetta Barbato (una
Giulietta sinceramente espressiva ma forse troppo rigida negli atteggiamenti) al giovane
tenore Alvino [sic] Misciano (un Romeo vocalmente promettente ma impacciato nell’azione),
3.1.5/98
da Giovanni Inghilleri (un Capuleto vibrante di odio nella voce e nel gesto) a Mariano Caruso
(un Cantatore suadente) e a tutte le altre parti di contorno, l’opera zandonaiana non ha
convinto. E le ragioni sono molte: non ultima quella di aver scelto per ricordare Riccardo
Zandonai l’opera meno riuscita del compositore trentino. Se aggiungiamo a questa ragione di
carattere estetico-musicale le molte altre, non meno importanti, di carattere rappresentativo, è
facilmente spiegabile il mancato successo da parte del pubblico per quest’opera che la
direzione dell’Opera ha voluto programmare.
Il sig. Bellezza ha reso un cattivo servizio alla memoria del suo compositore amico. Della
regìa meglio non parlarne.
237
N[ino] P[iccinelli], Gli amanti di Verona hanno narrato ancora il loro tragico amore,
«Momento sera», 2.2.1952 - p. 5, col. 1-2-3-4 (con grande caricatura di Zandonai, già apparsa
in piccolo su altri giornali)
Riascoltando Giulietta e Romeo ieri sera ci siamo ancora una volta convinti che con la
morte di Riccardo Zandonai è scomparso il compositore melodrammatico più rappresentativo
dei post-veristi che sia riuscito a interessare in qualche modo la massa del popolo.
L’entusiasmo con cui il pubblico ha accolto quest’opera la quale – per la omogeneità dello
stile, la coerente caratteristica ambientale e l’altezza dell’ispirazione – non può certo
competere con Francesca da Rimini va a dimostrare che nella musica del compositore
trentino vi è qualche elemento estrinseco al fattore strettamente inventivo essenziale alla
valutazione dell’opera d’arte, che nelle sue mani diventa fattore di successo.
Questo elemento è costituito dal senso della teatralità. In ciò egli dimostra di aver ereditato
quella qualità che è il vanto della nostra tradizione operistica. Infatti quando la vena inventiva
si diluisce in una dialettica generica e convenzionale, mentre la situazione scenica
richiederebbe un più intenso slancio lirico (come per es. i duetti d’amore fra i due amanti
protagonisti, specie l’ultimo, ove la deficienza inventiva è troppo palese) egli ricorre a dei
veri e propri diversivi teatrali come la canzone del cantastorie, la sortita del banditore,
l’intervento improvviso del coro in lontananza, o un’improvvisa tensione strumentale come
l’interludio tra il 1. e il 2. quadro del 3. atto, a tutto vantaggio dell’effetto drammatico.
In altri termini la colorazione ambientale, nei momenti più determinanti dell’azione,
costituisce per Zandonai una valvola di sicurezza, e bisogna riconoscere che sa adoperarla
con senso di opportunità e di misura.
L’esecuzione di ieri sera è apparsa a noi quasi come una esecuzione... capitale. [Non]
vogliamo con ciò dire che l’edizione non sia stata curata con quella profondità di pensiero
che richiedeva la complessa partitura: ciononostante il maestro Ottavio Ziino ha condotto
ugualmente lo spettacolo in porto giovandosi della sua esperienza professionale. Mercedes
Fortunati nelle vesti di Giulietta ci è sembrata piuttosto fredda.
Il tenore Franco Corelli (Romeo) avrebbe potuto trarre dal suo bel timbro di voce robusto e
pieghevole effetti di maggior rilievo espressivo. Questo giovane cantante, che per la prima
volta si è presentato sulle scene di un teatro d’ordine dopo l’ottima prova data, nelle vesti di
Don José, al teatro Sperimentale di Spoleto, è dotato di mezzi vocali indiscutibilmente
notevoli; è necessario però ch’egli li sappia calibrare con l’aiuto dell’intelligenza musicale.
Infine Don José non potrà mai essere un buon Romeo, o viceversa. Da ambedue i
protagonisti poi – a parte l’atteggiamento scultoreo e poetico della morte – ci si doveva
attendere una mimica più convincente e appassionata.
3.1.5/99
Sempre buon attore-cantante Afro Poli. Ottime Amalia [sic] Micheluzzi e Loretta Di Lelio.
Enzo Guagni ha impersonato la parte del cantastorie con un languore poetico penetrante e
commosso. Tutti bene gli altri agonisti: Mazziotti, Delle Fornaci, la Landi e la De Roberti.
Un elogio speciale al coro del maestro Conca.
238
F[erdinando] L[udovico] Lunghi, “Giulietta e Romeo” all’Opera, «Il Giornale d’Italia»,
2.2.1952 - p. 3, col. 6-7
Tra Francesca e Giulietta, tra Dante e Shakespeare un musicista non ha grande spazio per
respirare. Sembra che la poesia e la leggenda abbiano ormai fissati nei secoli i cari volti delle
due eroine e che qualunque altro accostamento debba essere superfluo se non inutile. Ma un
musicista come Riccardo Zandonai, piccolo uomo di alto intelletto e cuore commosso e
delicato pittore di atmosfera, ha saputo dare alla musica una funzione che non fosse superflua
e tanto meno inutile. Una musica che non vuole sopravanzare la poesia ma che la dilata
invece in più ampie ed ineffabili risonanze; che si accosta al dramma e lo commenta e lo
racconta quasi fosse lo “storico” di quelle immortali storie d’amore.
Soltanto in «Francesca» l’atmosfera si concreta subito in un incontro tra i due amanti che è
anche un incontro tra musica e poesia; in «Giulietta» il vero, lo struggente incontro non
avviene che al terzo atto, alla canzone del cantore.
Da ciò ed a parte il fatto che «Francesca» può essere effettivamente opera più felicemente
compiuta di «Giulietta», nasce quella difficoltà a riconoscere subito a questa seconda opera i
tanti valori che pure la tengono salda per ben due atti e prima di quel vitale momento così
rivelatore: valori pittorici di ambiente e di situazioni così musicalmente definiti e valori di
sottili disegni dei personaggi: segni ben precisi ed evidenti espressi in timbri, in ritmi e con
una coloristica strumentale che rivelano una mano sapiente e sempre commossa; valori che
hanno bene una loro forza ed una loro vitalità se ancor oggi tengono salda un’opera che ogni
dieci battute avrebbe potuto, in mano d’altri, perdere la sua essenziale ragione d’essere.
Del resto, nel faticoso destino di Riccardo Zandonai anche un raffronto, una discussione,
starei per dire una negazione, hanno pure il loro valore: testimoniano della consistenza di un
musicista che nelle sue opere ha sempre posto a cuore aperto e con acuto intelletto di
musicista una particolare e poetica ragion d’essere e di esistere. Ragione che in «Giulietta» è
pure presente anche se tardi si rivela e che pone però fin dal principio un non facile problema
di interpretazione, risolto nella edizione di ieri sera dal maestro Ottavio Ziino con un felice
incontro tra severità e commossa ed operante fede nell’opera diretta.
Interpreti Mercedes Fortunati (Giulietta) la cui voce calda ed espressiva illuminava anche
quei momenti in cui era pure sensibile una certa non piena conoscenza della parte e Franco
Corelli (Romeo), un giovane tenore che si impone all’attenzione per la potenza della sua voce
che potrà molto migliorare di accenti e di espressione fin da questo suo primo debutto. Molto
bravi anche un’altra giovane, Mafalda Micheluzzi (Isabella) ed Enzo Guagni (il Cantore); ed
a proposito dei giovani non possiamo non lodare la Sovrintendenza dell’Opera per il benefico
coraggio con cui immette nuove e fresche energie nell’esausto teatro lirico.
Afro Poli, artista serio e di valore, non ci è sembrato tuttavia adeguato vocalmente nella
parte di “Tebaldo”. Tutti gli altri numerosissimi interpreti erano stati scelti con cura; ottimi i
cori diretti dal maestro Conca, animata la regìa di Bruno Nofri, tanto da conferire allo
spettacolo un tono di accuratezza e dignità.
3.1.5/100
Vivissimo è stato il successo ed insistenti applausi hanno salutato il maestro Ziino, fatto
segno ad una lunga ovazione dopo la “Cavalcata”, e gli interpreti tutti.
239
R. F., Giulietta e Romeo di Riccardo Zandonai, «Il Popolo di Roma», 1.2.1952 - p. 3, col. 9
La musa di Riccardo Zandonai fu particolarmente attratta da due fra le più celebri coppie
d’amanti quali furono Paolo e Francesca e Giulietta e Romeo. La Francesca da Rimini è
considerata una delle migliori tragedie musicali dell’ultimo cinquantennio e di Zandonai
l’opera somma, mentre il dramma dei Montecchi e dei Capuleti non si può catalogare tra le
opere di maggior fortuna. Dell’intera partitura, come spesso accade, è notoriamente assai
celebre soltanto un brano sinfonico, l’intermezzo tra il primo e il secondo quadro del terzo
atto: la cavalcata di Romeo da Mantova a Verona. La parte vocale poi, in maggior parte sui
binari wagneriani, non vanta una benché minima rappresentanza nella “rubrica” delle
romanze celebri. Riccardo Zandonai, pur essendosi formato alla scuola di Mascagni, non usa
che raramente il lirismo dell’autore dell’Amico Fritz. Egli fu un moderno di raro talento che
maggiormente brillò nell’attuazione di un compromesso tra vecchio e nuovo. E immatura fu
la sua scomparsa nel giugno del ‘44.
Nel suo narrare la più romantica passione di tutti i tempi, l’amore contrastato, beffardo e
tragico di Giulietta Capuleto e Romeo Montecchio, non troverete la soave romanza o
l’appassionato duetto – mezzi assai confacenti a simili protagonisti – e con i quali mezzi
avrebbero certamente illuminato un pentagramma con un’emozione immensa e per questo
eternamente trasmissibile a tutte le sensibilità un Mascagni o un Puccini. Zandonai in
compenso, padronissimo della tecnica e del rendimento di singoli strumenti, è un architetto
dell’orchestra nella quale costruisce geometricamente e cerebralmente un’atmosfera di sogno,
costante di fatalità e d’arcano. Amore e odio sono di scena ma non avvampano mai in un
crescendo di rilievo, fino alla morte dei protagonisti che avviene musicalmente distaccata,
pallida e malinconica come l’agonia di una rosa in un bicchiere. Come mai Verdi, che tanto
venerava Shakespeare e da lui tanto attinse, non fu tratto dal potente dramma degli amanti di
Verona? Senza voler diminuire né tanto meno disconoscere l’alto valore artistico dell’opera
zandonaiana, vien fatto di pensare come l’autore più adatto a rendere musicalmente, in modo
superiore – meno elaborato ma più vivo – la già vivida prosa del drammaturgo inglese non
avrebbe potuto essere che un Verdi.
Una parte veramente attiva e mestamente accorata ci è parsa, al primo quadro del terzo
atto, la canzone del cantastorie che narra la morte del più bel fiore di Verona, Giulietta. Nella
realizzazione di questo stesso quadro il mago delle luci Salani, con la collaborazione tecnica
del Cruciani, si è sbizzarrito a ricreare con impeccabile realismo tutte le fasi
pretemporalesche, con svariate pattuglie di minacciose nubi, nastri incandescenti e sicuro
gioco di riflessi sinistri dal grigio cupo al rossastro.
Ottavio Ziino ha lodevolmente guidato palcoscenico e orchestra e quest’ultima, spesso, in
azzardate ascensioni sonore come nel duello tra la gente dei Capuleti e quella dei Montecchi.
Particolarmente nella Cavalcata Ziino ha condotto con foga, stringato ritmo e palpitante
anelito l’intera orchestra in un galoppo serrato e affannoso che ha fatto meritare a tutti gli
strumentisti, eroicamente giunti al traguardo, scrosciantissimi applausi.
Giulietta era impersonata con bella linea vocale e scenica dalla signora Fortunati e Romeo
di bell’aspetto e ben promettente vocalità dal giovane Franco Corelli. Il Capuleto Tebaldo era
Afro Poli, bravo il Cantatore Enzo Guagni e bene tutti gli altri, innumerevoli tra famigli,
3.1.5/101
maschere e fanti. Per il coro di Conca il consueto plauso. Regìa di Nofri; bozzetti e costumi
di Efisio Oppo.
L’affollamento della sala è stato di una media del 60 per cento, e gli applausi non sono
mancati ad ogni fine atto.
240
Enrico Fondi, “Giulietta e Romeo” di Zandonai, «Il Paese», 1.2.1952 - p. 3, col. 6-7-8
Una innegabile dote del geniale musicista trentino, spentosi a Pesaro fra gli orrori degli
eventi bellici nel giugno del 1944, è la tentata fusione delle due tendenze in lui vive, la
sinfonistica e la teatrale. La prima lo portava a svolgere intenzioni descrittive di ambienti
paesistici e atmosfere di umane situazioni, la seconda a dare opportuno rilievo sonoro, con
tematica delineatrice, ai personaggi e alle scene corali: seppe, e questo fu il suo merito
precipuo, conciliare spesso quelle due tendenze con un avveduto controllo, senza cedere
all’uno o all’altro fattore in conflitto.
Più che nell’Alfano, sulla cui Sakùntala c’indugiammo tempo addietro, nello Zandonai
riconosciamo l’ultimo pregevole rappresentante dell’opera storico-verista; a questo giudizio
c’induce il lavoro secondo noi meglio realizzato dal suo talento, la Francesca da Rimini, che
vanta in quantità maggiore gli stessi elementi da notarsi in Giulietta e Romeo: non molta
ricchezza di fantasia né peculiare originalità d’idee quanto vigore coloristico e incisività
psicologico-musicale delle creature evocate. A tal risultato servì mirabilmente l’equilibrio
risultante nel suo spirito fra la purezza lirica delle parti vocali – marcate dal carattere
schiettamente italiano del suo temperamento, l’aderenza espressiva alle parole e la
costruzione di arie che, pur non fraseggiando in forme chiuse, manifestano sempre una
emotività concreta – e la tecnica assai superiore a quella dei suoi colleghi e contemporanei,
tecnica di strumentista e d’armonista seguente vie nuove.
Ripetiamo, egli possedeva in luminoso rilievo il segreto del teatro e sapeva difilato
procedere alla composizione drammatica degli atti, dosandoli scaltramente di assoli, duetti,
cori e interludi. C’è un interludio in Giulietta e Romeo a torto celebrato, che comincia con un
temporale e poi si sviluppa in una cavalcata monotona e monoritmica (di Romeo, da Mantova
a Verona, dove sa che si è spenta la sua Giulietta) più fragorosamente battuta dal timpano e
dalla piena orchestra che risultante da trovate melodiche; ma ci son garbatissimi accenni
preludianti e canzoni (bellamente ispirata quella del Cantastorie al terzo atto, sulla fine della
tragica innamorata), coretti festosi e potenti tratti come il cantabile di Tebaldo, la sua
provocazione e la fine per mano di Romeo.
Dopo trent’anni ieri, nello stesso teatro dove aveva suscitato un entusiastico successo,
Giulietta e Romeo si ripresentò con gli scenari dell’Oppo molto indovinati e con gli opportuni
giuochi di luce dovuti al Salani. Concertatore e direttore, con equilibrato slancio (smodato
però nella ricordata “cavalcata”) e artistico senso, Ottavio Ziino, ben coadiuvato dal Conca,
l’insostituibile istruttore del coro.
La Fortunati fu un’interprete vocalmente apprezzabile di Giulietta, come il Corelli –
giovane tenore di bella estensione e robusta ugola, che dovrebbe sottoporre a una più
raffinata e linda emissione – fu un applaudito Romeo: entrambi però rivelarono un certo
impaccio nell’azione. Afro Poli non ci parve, specie per lo scarso volume della voce, un
riuscito Tebaldo; ottimo il Guagni (Cantastorie) e brava la Micheluzzi (Isabella).
3.1.5/102
241
R[enzo] R[ossellini], “Giulietta e Romeo”, «Il Messaggero», 1.2.1952 - p. 4, col. 6-711
Il teatro di Riccardo Zandonai è romantico e si riallaccia alla bella tradizione del
melodramma italiano. Se ha qualche affinità, dal punto di vista vocale, con i modi della
cosiddetta “giovane scuola” e ne ha risentito alcune delle migliori influenze, per individuarne
i caratteri generali ed i sentimenti bisogna risalire direttamente a Verdi. Mai come oggi
questa parentela è apparsa tanto stretta: ascoltando il secondo atto della Giulietta e Romeo,
nel declamato che infervora i personaggi, nella condotta rigorosamente melodica della
partitura, la discendenza verdiana è evidente. Gran titolo d’onore per un musicista e
specialmente per un musicista di teatro.
Giulietta e Romeo è un’opera viva: alcune delle sue pagine sono indimenticabili per
l’originalità della concezione e per il potere evocativo che emanano. L’interesse non langue
mai, tanto brillante è l’estro con cui l’autore ha saputo tagliare le scene e dare vigore e varietà
ai molti avvenimenti che si susseguono nel libretto. Forse ancor più dello stesso leggendario
amore dei due protagonisti Zandonai ha sentito il colore, la luce e la poesia di un tipico
paesaggio italiano. Le albe di Verona, le notti di Mantova sono state evocate e descritte da lui
con mirabile fantasia. C’è da augurarsi che il pubblico, come fu nel felice passato del teatro
musicale italiano, testimoni la sua simpatia verso quest’opera non mancando di assistere alle
repliche. Sarà un omaggio reso alla memoria del geniale musicista e nello stesso tempo un
modo intelligente di favorire l’auspicato rinnovamento del repertorio lirico.
La esecuzione del bello spartito di Zandonai è stata molto diligente e gli interpreti,
impegnati a volte in parti superiori ai loro mezzi, si sono battuti a fondo per la riuscita dello
spettacolo. Il giovane tenore Franco Corelli, rivelatosi recentemente al Centro Sperimentale
di Spoleto, si è fatto apprezzare per alcune emissioni di bello smalto e di felice accento. Il
soprano Mercedes Fortunati è stata una tenera Giulietta; il baritono Afro Poli, buon attore, ha
dato alla figura di Tebaldo un efficace rilievo scenico. Generosa di suoni ed a grandi linee la
concertazione del maestro Ottavio Ziino, il quale è stato particolarmente applaudito dopo la
“cavalcata”.
242
Vice, Giulietta e Romeo, «L’Unità», 1.2.1952 - p. 3, col. 7
In un quadro abbastanza corrente della musica contemporanea in Italia, Riccardo Zandonai
è posto tra quella schiera di musicisti (della quale fecero parte anche Mascagni, Leoncavallo,
Puccini, Franchetti, Wolff-Ferrari [sic] ed altri) che all’inizio del ‘900 aderì all’opera
tradizionale con una accettazione abbastanza generica del Verismo per quanto riguarda i fatti
teatrali e con l’uso di alcune “modernità” non inquietanti nelle parti musicali. Ora questa
«Giulietta e Romeo», scritta nel 1922, è una sufficiente dimostrazione dello stile di Zandonai,
alla cui base non manca un influsso wagneriano rarefatto: vena melodica scorrevole ed
incastrata in una persistente declamazione melodiosa, orchestra continuamente rafforzata che
sostiene il canto con i fortissimi dei corni e dei tromboni, ed una serie di altri espedienti
descrittivi e decorativi, i quali peraltro mettono in evidenza il “pezzo” brillante che ad un
certo momento viene fuori – come la cavalcata di Romeo – e che non manca di avere il suo
risultato sul pubblico.
11
Si tratta di un articolo riciclato da quello, pressoché identico, già apparso sul «Messaggero» il 21.12.1947 - cfr. n. 231.
3.1.5/103
Nella edizione di ieri sera, oltre il solito amore per il “concretismo” della regìa del Teatro
dell’Opera, dobbiamo notare le qualità vocali e di recitazione di Mercedes Fortunati che ha
avuto compagno Franco Corelli, dalla voce in qualche momento incerta ma convincente. Con
loro: Mafalda Micheluzzi, Afro Poli ed Enzo Guagni. Ottima la direzione di Ottavio Ziino.
243
G[uido] Pan[nain], “Giulietta e Romeo” al Teatro dell’Opera, «Il Tempo», 1.2.1952 - p. 3,
col. 3
Tra nemici e amici non si può dire in verità che Zandonai abbia avuto molta fortuna. Da
una parte si trovò contro un’accolita di raffinatissimi imbecilli che guardavano con i
paraocchi di un fatuo estetismo, dall’altra s’ebbe l’incenso di ammiratori inconsiderati che,
nelle sue opere, non seppero distinguere il vero dal falso e fecero di ogni erba fascio. Così
furono messe insieme, allo stesso livello, nell’esaltazione o nel dispregio, opere come la
Francesca da Rimini e Giulietta e Romeo, cioè l’efficacia espressiva e la turgidezza
ampollosa. Non c’è che una sola figura viva nella Giulietta e Romeo ed è il Cantastorie, e
appare di scorcio, mentre i personaggi principali sono fantocci rimpinzati di retorica.
Abbiamo salutato con piacere il ritorno alla scena di Mercedes Fortunati che ammirammo
anni orsono nella parte di Francesca. Ora ella riappare in un’opera nella quale c’è poco da
mettere in rilievo, tanto la linea del canto è sforzata e stenta nella vana ricerca di espressione.
Ma della Fortunati abbiamo potuto ravvisare i toni caldi e ricchi e il temperamento
drammatico che altra volta ci colpirono. Il giovane tenore Franco Corelli, che viene dal
Teatro Sperimentale di Spoleto, ha sostenuto la parte di Romeo con balda sicurezza. Anche
egli alle prese con una parte ingrata, ha dato prova di qualità ragguardevoli per la forbita
uguaglianza, il tono amabile, il vigore dello slancio.
Nella folta schiera di personaggi e comparse che si affollano sulla scena si sono fatti
particolarmente notare il baritono Afro Poli (Tebaldo), di provata scaltrezza scenica, il tenore
Enzo Guagni, azzeccatissimo cantastorie, Mafalda Micheluzzi che ha avuto simpatico spicco
nella parte d’Isabella. Il tutto sotto la direzione del maestro Ottavio Ziino che si è buttato a
corpo morto nella reboante partitura dello Zandonai, realizzando immancabili effetti di
strepito particolarmente dall’infernale scalpitare dello squadrone di cavalleria che, a quel che
si sente, pare debba accompagnare il fatale galoppo di Romeo.
244
E[ttore] Mont[anaro], “Giulietta e Romeo” di Zandonai, «Il Popolo», 1.2.1952 - p. 3, col. 9
Il pubblico attendeva ansioso la “Cavalcata”, ieri sera, per entusiasmarsi al travolgente
onomatopeismo di questa pagina, divenuta ormai famosa, della «Giulietta e Romeo». È senza
dubbio uno squarcio di impeto caldo, ed anche – a mio avviso – di gusto non sempre alla pari
col resto della musica. Una specie di pugno in un occhio, fra le delicate e distese languide
cantabilità che infiorano la saporosa partitura di Riccardo Zandonai, dove gli echi della
«Francesca» si riflettono in forma viva.
L’odierna edizione, che il Teatro dell’Opera ha curato con particolare interesse, ha adunato
due giovani cantanti nelle parti degli infelici amanti: lei, Mercedes Fortunato [sic] (Giulietta),
elegante e flessibile, dalla voce trepida; lui, Franco Corelli (Romeo), magro e consunto
d’amore, canta e si muove ancora un pochino timoroso. Sono giovani ma mostrano di volersi
3.1.5/104
affermare, e non bisogna andare tanto per il sottile; vanno anzi incoraggiati. Il complesso
solistico si completava con Afro Poli, Mafalda Micheluzzi, Enzo Cuagni [sic]. Il coro,
preparato come al solito con vivezza da Giuseppe Conca, ha risposto in pieno. Ha diretto con
evidente amore il maestro Ottavio Ziino, giovane preparato e ardente. Tanto ardente da
spingere – in taluni momenti – le fiamme dell’entusiasmo oltre la cappa del camino sonoro.
Meglio così che ammannire infusi di camomilla. Regìa adeguata e fluida. Scene di ottimo
effetto. Allestimento curato. Esito cordiale e vivo.
3.1.5/105