Palazzo Leoni, dal 1876 proprietà del Collegio di Spagna e dal 2011 sede della Biblioteca Guglielmi dell’Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione Emilia Romagna, costituisce un capitolo affascinante nella storia della città. Una pagina dimenticata, si potrebbe dire, ma oggi restituita finalmente a Bologna. Le ricerche promosse in occasione dell’apertura al pubblico del palazzo, progettato intorno al 1550 da Antonio Morandi detto il Terribilia e decorato al piano nobile da due fregi raffiguranti il II e il IV libro dell’Eneide, hanno rivelato che già a metà ‘500 l’edificio era un luogo di incontro degli studiosi: nelle stesse sale dove oggi si trova la Biblioteca IBC, i Leoni, dottori dello Studio e presidenti dell’Accademia degli Ardenti dall’anno della sua fondazione (1555), avevano organizzato una ricchissima biblioteca, frequentata dagli amici eruditi e dall’intellighenzia locale. In casa di Vincenzo, primo presidente dell’istituzione (che aveva sede in via Galliera), gli accademici si riunivano per confrontarsi su questioni dotte, e spesso molto intriganti. Infatti, quell’isolato dove per più di un secolo si era giocata molta parte del sapere cittadino (dalla Domus Magna Bentivolorum alla Domus Cardinalis di palazzo Poggi), era un “quartiere della cultura”, sì, ma anche un “quartiere degli enigmi”: poco distante, infatti, nell’attuale via Goito, nel palazzo di Achille Bocchi si riuniva l’Accademia Hermathena, uno dei vertici della speculazione filosofica bolognese che produsse le Simboliche Questioni, date alle stampe nel 1555. Qui si parlava di Ermete Trismegisto e dell’antica sapienza egizia; e mentre in piazza si bruciavano le streghe, la filosofia ermetica penetrava con i suoi arcani nei circoli più esclusivi. In realtà, la sapienza ermetico-pitagorica, nota a Ulisse Aldrovandi, faceva parte del bagaglio degli studi classici, e all’epoca le simbologie antiche venivano utilizzate come allegorie di un percorso “morale”, di intonazione neoplatonica e cristiana. Palazzo Leoni faceva parte di quel circuito di cultura. Pochi anni fa, infatti, a seguito di restauri, è tornata alla luce nel salone di rappresentanza una decorazione a medaglioni con figurazioni simboliche ispirate agli “emblemi”, e commentate da fascette con enigmatiche iscrizioni latine. Modello per questo ciclo pittorico, coperto per anni, forse per secoli, sotto l’intonaco, sono i Geroglifici di Pierio Valeriano, il libro di sapienza egizia caro a Marsilio Ficino, dato alle stampe nel XVI secolo e ritrovato effettivamente tra i titoli dell’inventario della biblioteca della famiglia Leoni. Valeriano, pseudonimo di Giovanni Pietro Bolzani Dalle Fosse, docente di eloquenza al Collegio Romano e presente a Bologna nel 1527, era persuaso che i geroglifici costituissero una lingua sapienziale riservata ai sapienti, e un veicolo della saggezza antica. La famigliarità con questo tipo di cultura ci rivela l’elevato livello dell’intellettualità dei Leoni, i quali avevano dimostrato la propria elevata statura di umanisti nei due coltissimi fregi dell’Eneide, affidati a metà ‘500 a Nicolò dell’Abate e ai suoi collaboratori. Di qualche decennio più tardo appare il ciclo enigmatico, forse commissionato da Girolamo Leoni. Gli stessi simboli, utilizzati da Ulisse Aldrovandi a metà del XVI secolo per la decorazione della sua perduta villa di Savena, si ritrovano nelle pitture murali della biblioteca del convento benedettino di San Giovanni Evangelista a Parma. In questo luogo appartato, situato vicino all’abside della Cattedrale, si oltrepassa la soglia e ci si squaderna dinanzi una fantasmagoria di immagini enigmatiche e di creature favolose, rappresentanti di una fauna e di una flora in costante equilibrio tra reale ed immaginario, il tutto accompagnato, secondo le movenze di un dialogo tacito ma estremamente vivace e effervescente, da una pletora di iscrizioni latine, greche, ebraiche e addirittura siriache! I monaci che frequentavano questo spazio videro nascere affreschi tanto straordinari nell’arco di tre soli anni, dal 1573 al 1575. L’autore del programma testuale e figurativo fu l’abate Stefano Cattaneo da Novara. Come testimonia il nome, era originario di questa città piemontese, ma la famiglia era giunta da Catania. Versatissimo nelle lingue antiche, tanto da padroneggiare i quattro idiomi che arricchiscono la volta della sala, affidò l’esecuzione della pittura a due pittori bolognesi, semisconosciuti: Giovanni Antonio Paganino ed Ercole Pio. Questa biblioteca, che tra l’altro ospita sulla parete di destra la prima rappresentazione della famosa battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571), propone allo spettatore/lettore un gigantesco “affresco sapienziale” che sposa le massime vetero- e neotestamentarie sulla moderazione e l’aurea mediocritas con la risorsa iconica che rompe la linearità della pagina scritta, nell’ideale rincorsa di una figura, di un simbolo verso il suo vicino. La riflessione così si allarga e si moltiplica di nuove e spesso inusitate risonanze. È importante ricordare che all’incirca dalla metà del Cinquecento sino alle soglie del Settecento si susseguì, a ritmo notevole, la pubblicazione di repertori di emblematica: questi manuali nascevano come opere di compilazione, di registrazione di un qualcosa che già esisteva, ma nel contempo costituivano fonte di ispirazione per nuove opere figurative. Determinati simboli sono rintracciabili, secondo declinazioni semantiche differenti, a Parma e a Bologna, ma anche a Ferrara, alla Palazzina di Marfisa d’Este; oppure legano Parma, Ferrara e Guastalla, il Palazzo Ducale, oppure Guastalla, Bologna e San Martino in Rio, la Rocca estense: tutto questo a significare una trama di relazioni fittissime tra i molteplici centri della cultura rinascimentale padana. Queste “capitali” di corti ducali e marchionali, come quelle degli Este e dei Farnese, furono abbellite da artisti che seppero celebrare l’identità e i fasti delle dinastie regnanti di fronte agli ospiti eccelsi che periodicamente venivano in visita.