ARCIPELAGO itaca
letterature, visioni ed altri percorsi
ideatore e curatore: Danilo Mandolini
*…+
Ma ei non brama che veder dai tetti
sbalzar della sua dolce Itaca il fumo,
e poi chiuder per sempre al giorno i lumi.
Omero, Odissea - Libro I
Le riproduzioni di alcune fotografie di
Michele Rogani
commentano questa seconda apparizione di ARCIPELAGO itaca.
L’ordine di presentazione degli autori di VOCI è alfabetico.
echi
Attilio Zanichelli, a cura di Danilo Mandolini 1 - 17
voci
Lucetta Frisa
Ivano Mugnaini
Adelelmo Ruggieri
Luigi Socci
Collage Guido Gozzano
ARCIPELAGO itaca informa
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Prima serie, seconda apparizione. Anno 1, 2010.
E’ nato ad Ancona, e qui risiede, nel 1981.
Da anni ha sviluppato la passione per la fotografia, probabilmente riconoscendo in questa forma di espressione artistica
- e per sua stessa ammissione - alcuni dei tratti dell’esperienza vissuta dal padre pittore.
Tra le mostre dedicate alla sua opera o che hanno ospitato le sue opere, si ricordano: Australia, dalla natura alla
metropoli - 2008; Sport che passione - 2008; Messico - 2009; Protagonista Lavoro - 2009; Un ponte tra culture - 2010.
Per ulteriori notizie: http://www.michelerogani.it
Michele Rogani
Da Un ponte tra culture
Un ponte tra culture è il nome (o il titolo) di un festival eurolatinoamericano di teatro
che si svolge da anni in diverse località della provincia di Ancona.
E’ anche il nome della cooperativa che cura l’organizzazione dell’evento.
echi
L’Iliade - Un inno alla guerra
contro la guerra (1), 2010
Attilio Zanichelli
Attilio Zanichelli è nato a Sorbolo (Parma) nel
1931. E’ scomparso nel 1994. E’ stato operaio
in fabbrica.
Ha pubblicato le raccolte di versi Giù fino al
cielo (con prefazione di Attilio Bertolucci,
Guanda, 1973) e Una cosa sublime (Einaudi,
1982). E’ inoltre apparso nell’antologia Nuovi
poeti italiani 1 (Einaudi, 1982).
Si è anche cimentato come compositore e
drammaturgo e ha curato, insieme a Renato
Zangheri, i volumi Storia del socialismo italiano
I: dalla rivoluzione francese a Andrea Costa
(Biblioteca di cultura storica, Einaudi, 1993) e
Storia del socialismo italiano: dalle prime lotte
nella valle padana ai fasci siciliani (Biblioteca di
cultura storica, Einaudi, 1997).
1
«Nelle composizioni di Zanichelli vagola un
ciclope cieco, tra continui crolli di materiali e di
terrore, con fughe e sequenze percosse su
quattro o cinque accenti grandi, capitolazioni
catastrofiche ad appassionati e straordinari
luciferi, non senza gesti di impavidità, certezze,
dismisure» (dalla premessa a Nuovi poeti
italiani 1, Einaudi, 1982)
Attilio Zanichelli: del vivere come in fuga dalla vita
Di Danilo Mandolini
2
Della poesia di Attilio Zanichelli probabilmente colpisce, in prima battuta, il respiro vasto del suo scrivere; il periodare a volte
lungo (così come quasi sempre il verso), spezzato da una punteggiatura sia rarefatta che incalzante, e a volte breve; le
esclamazioni e le interrogazioni spesso serrate; le congiunzioni reiterate; una pronuncia che occasionalmente si priva degli
articoli e che sembra anche sconfinare entro i limiti di un dire vagamente classicheggiante. Un versificare ricco e denso che,
rileggendo ripetutamente con lo scopo come di cercare una sorta di veloce assuefazione al testo, finisce col connotarsi per una
sua peculiare regolarità pur risultando, non di rado, sincopato.
Questo procedere comunque non lineare non è frutto di un esercizio puramente formale; non risulta, infatti, disgiunto dai
contenuti offerti al lettore. Si può anzi affermare che esso appare funzionale, forse appositamente messo a punto, per esaltare
al meglio l’urgenza di testimoniare le istanze proprie della poesia di Zanichelli.
La “tonalità” che sembra emergere evidente e ricorrente tra le varie toccate o sfiorate dal poeta è probabilmente quella che
si fa carico di descrivere il rapporto dell’uomo con il suo stesso vivere: questo vivere per avere la vita che si consuma e consuma
nella consapevolezza di non poter mai scorgere un approdo dal senso umanamente compiuto; questa vita “matrigna” che ci
mette al mondo senza che noi lo si chieda (Sono finito quasi / con l’assaggiare la cosa più acerba, la vita / a cui perdono
d’avermi creato); il vivere e il soffrire tra loro indissolubilmente legati, che precipitano il destino di tutti (e io sono con l’anima di
ciascuno devastante tristezza) nel “catino” di un nichilismo profondo e tale da coinvolgere le origini stesse della nostra esistenza
(Cent’anni prima di nascere, da soli / come siamo stati, ci abbandoneremo).
Il poeta e l’intera specie umana (nonché la natura che, con alcuni suoi singoli elementi eletti a simbolo, sembra condividere
la stessa sorte degli uomini) non sono semplici spettatori di questo dramma; ne sono anche, e necessariamente, attori. Attori,
però, per lo più silenti, passivi; vittime, insomma, di un vivere che è soprattutto fuga dalla vita. Fuga perenne senza neanche più
la forza di tentare di conoscere le ragioni dell’essere al mondo (vinti noi siamo da una fuga / su cui ancora ingràndina … calati
nella festa siamo noi / a sparire nel buco della storia).
Inequivocabili emblemi della condizione umana disperata e disperante raccontata da Zanichelli sono la figura dell’operaio (da
lui “incarnata”) e la fabbrica. Nelle liriche Gli occhi del tempo e Fabbrica si dà voce all’estremo grido del poeta (che quasi
diventa d’ispirazione civile), al grido che denuncia la spietatezza della sopraffazione della vita e del vivere sulle persone
soprattutto quando queste sono riunite in un contesto anche solo minimamente sociale. Questa sopraffazione si fa infatti
intollerabile nel momento in cui l’assenza di una spiegazione, di un senso umanamente compiuto come detto in precedenza,
Attilio Zanichelli: del vivere come in fuga dalla vita
riguarda proprio le dinamiche che si determinano nell’ambito dello sfruttamento dell’opera della maggior parte degli individui
da parte di pochi altri (con quale legge ha reso la povera / classe serva per sempre, chi e quale sapienza / ha fatto degli uomini
che avere debba uno / dall’altro che patisce il pane a tradimento?). Che non si tratti, qui, dello stesso grido innalzato da Marina
I. Cvetaeva nel settembre del 1922 (fabbrica! fabbrica! Poiché si chiama / fabbrica questo nero alzarsi in volo.)?
Vivere come in fuga dalla vita è, al fine e anche se definito - con decisione - inutile, comunque necessità, una volta vivi, di
proseguire verso dove non c’è nulla (non fa niente! vivia- / moci pure! giorni da galera). Qui, il sogno (Ma pare che sia /
dall’altrove dove non potrei per nulla / reperirla … è soltanto un sogno, una nuvola irreale / che solo nel sonno puoi averne
l’estesa / impalpabile forma) e la poesia - la vicinanza alla quale, la pratica e frequentazione della quale sembrano essere l’unica
vera vita vivibile (ma non è fuga / dalla vita la poesia che arde nella tua anima!) - rendono questo fuggire in qualche modo più
“logico” e praticabile. Sogno (dimensione parallela al quotidiano e quindi fonte di benefica, nonché parzialissima illusione) e, in
particolare, poesia (una lucerna / cauta che ricomparirà, con la gioia di vivere!) appaiono dunque come le sole “energie” in
grado di costruire una speranza (molte volte è citato questo sostantivo, a differenza di ciò che accade per sofferenza e dolore)
che è in ogni caso e solo, e consapevolmente, strumento essenziale a mantenere in essere la fuga; quasi ad alimentare l’istinto
che muove questo nostro, imprescindibile scappare. L’essenza della poesia, la “sostanza” di cui la poesia dovrebbe essere
composta - però, quasi non sembra definitivamente (o volutamente) circoscritta. A volte essa somiglia ad una divinità dai tratti
umani; altre volte, invece, appare come una vaga entità dai contorni sfumati. La poesia è, addirittura, cosa. Quest’ultima
esplicitazione, insieme alle altre messeci a disposizione, probabilmente ci porta diritti dentro il pensare dell’autore: la poesia,
quasi non importa ciò che essa sia o rappresenti, ha tutte le potenzialità per essere, se non addirittura è - come già Zanichelli
suggerisce, più vita reale della vita che viviamo. La poesia si palesa come l’unico “luogo” in cui è possibile - lontano dalle
moltitudini che si corrodono e che tutto corrodono - il vero incontro con il nostro piccolo, stupefacente, dolcemente debole e
disarmante, essere noi stessi (Eppure io sono come una crepa, e il mio sangue / non è atteso; la mia morte forse è soppressa).
3
Difficile è dire quanto sia rilevante rileggere Attilio Zanichelli in questo inizio di terzo millennio. Arduo è definirne i caratteri
di attualità, le specificità in qualche modo adattabili ai nostri giorni di oggi. La forza della sua voce e della sua provocazione più
profonda e vera (che tale era già negli anni in cui veniva pronunciata), quella, cioè, di vivere (di tentare di vivere) dando corpo
alla speranza per una vita migliore soprattutto attraverso la vicinanza alla poesia - nell’accezione di cui al capoverso
immediatamente precedente, è forse più potente oggi di quanto lo fosse, ormai più di trent’anni fa, quando i versi del poeta
parmigiano venivano scoperti e resi pubblici. La maggiore potenza della provocazione di cui si è appena detto probabilmente
così appare (assumendo i toni del monito; monito anche verso i tanti poeti che affollano il nostro odierno convivio) proprio
perché il mondo nel quale viviamo oggi la vita riassume in sé, più che in passato, i caratteri della folle corsa verso il profitto
sopra ogni altra cosa.
Attilio Zanichelli: del vivere come in fuga dalla vita
Breve ricordo
Ebbi occasione di conoscere Attilio Zanichelli solo nella forma epistolare. Nella forma epistolare più “classica”, direi; quella in
uso negli anni in cui, cioè, la “componente” digitale della comunicazione non si era ancora affermata.
Nel 1993 gli inviai una selezione di miei versi organizzata in pieghevole. Attilio Zanichelli mi rispose subito e cordialmente.
Soprattutto, indirizzò a me una sorta di benvenuto tra i frequentatori “ufficiali” della poesia e si preoccupò di raccomandarmi il
massimo rispetto per questa forma di espressione artistica; di alimentare sempre e rinnovare la mia passione per la poesia.
Ci scrivemmo ancora, poi – scambiandoci soprattutto versi, tra la primavera e l’autunno del ‘93. Successivamente: un periodo di
silenzio. Nel ‘95 gli inviai il mio primo libro di versi che nel frattempo avevo pubblicato. Tempestivamente, come era accaduto
nella prima occasione, mi fu recapitata una lettera proveniente dagli uffici postali di Parma. A scrivere, però – questa volta, era
la moglie del poeta. Mi disse che Attilio Zanichelli era scomparso da circa un anno; che ciò era accaduto tra infinite sofferenze e
con tanto sgomento da parte di lei che sempre lo aveva amato. La moglie di Attilio Zanichelli si premurò di affermare quanto lui
amasse la poesia e quanto forte fosse la sua passione per questa; quanto lui avesse amato la vita e quanto questo sentimento
fosse stato palpabile anche nei giorni di dolore che avevano preceduto la sua morte.
4
La scelta di testi di Attilio Zanichelli che segue è stata curata da Danilo Mandolini.
NOTA.
Il volume Giù fino al cielo è oggi introvabile. Diversi testi dapprima inseriti in Orsa minore sono stati ripresi, lievemente
modificati e poi successivamente inclusi dall’autore in Una cosa sublime. Nel caso delle liriche qui selezionate e comprese sia in
Orsa minore che in Una cosa sublime, si è sempre scelta la versione della seconda delle due opere appena citate.
Da Orsa minore – in Nuovi poeti italiani 1, Einaudi, Torino, 1982
Attilio
Zanichelli
Un fiume la vita
Non posso dire niente e nemmeno che ascolto
il bando convenuto sotto questo azzurro
giorno imbandito di ciarpame e solite creature
spargere la voce che andrà bene ogni cosa, quando
ogni cosa non potrà essere che marionetta
in ogni occasione vestita della ruggine del palco
dove si compie per l’ennesima volta il solito gioco.
Impallidisco al sempre e perché questo fuoco
non alterna la vita, ma tutto si presta come
quando per salvarsi bisogna seguir la corrente.
Un fiume è dunque la vita?
x5
Da Orsa minore – in Nuovi poeti italiani 1, Einaudi, Torino, 1982
Parole di testamento
Sono finito, eppure una cosa alta
e nobile mi richiama; sopra di più che
qualsiasi, che ascoltandola fra i forse
o meno, quasi convince. Ma pare che sia
dall’altrove dove non potrei per nulla
reperirla; e quanta ansietà sia in me
è soltanto un sogno, una nuvola irreale
che solo nel sonno puoi averne l’estesa
impalpabile forma. Sono finito quasi
con l’assaggiare la cosa più acerba, la vita
a cui perdono d’avermi creato. Sono nato in una
famiglia la cui origine miserabile
visse nella clemenza della morte,
e disperò, chiuse la bocca e piegò la schiena
per molti anni come chi solo cammina,
ma scorge visitare lo spirito dell’amore
alla terra, al cielo, alla giustizia
soffrendo di un suo splendore.
Sospiravo tacendo, parlavo a me stesso,
e, pochi minuti prima dell’ora in cui
seppellivo il mio corpo nella morte,
nella fabbrica chiusa a ogni bellezza
pensavo con gioia a una vaga speranza.
E’ tutta la mia vita questo, che alza
a servire la luce, ma come un giorno
staccherò dalle mie mani la terra
così il sogno, proteso a lungo,
andrà a morire come un raggio di sole.
Anche gli ultimi lampi, l’ora fresca
della notte partirà come sempre.
Intanto, non un solo e vago senso di noia
come la campagna cupa sotto autunno,
ma gli anni che affrettano. Passai al vento
di quel sottile essere ideale del mondo
che niente ha potuto per me, tranne i sogni.
Vagai per i fiumi con le braccia aperte.
Nell’acqua che non risponde.
Attilio
Zanichelli
x6
Da Orsa minore – in Nuovi poeti italiani 1, Einaudi, Torino, 1982
Nausea
Nausea quanto mai dura! impossibile registrare! scafo logoro e piagato contro ogni ideale! in
e dentro ogni albero relegazione! non fa niente! viviamoci pure! giorni da galera, braccia semi-morte, onde la
piaga non cicatrizzata strilla evviva la fine! io so che
duramente duratura ogni animale falsità le ali spalanca!
adoratissima è la bestia! io andrò dove non c’è nulla,
che
la geografia rapida stesura di un incontro con baratro!
sole che ai cani fa demolire la vivacità degli occhi!
in che razza di niente, Cristo, vivo per avere la vita! là
è sorta una valanga e ha smorzato il respiro! qua è
schizzata dalla faccia della terra la nausea méndica!
dov’è che vado io? in che malattia? morte spazzina,
dove? in
fede, morituri, ampia luce vedremo a fine stagione! che
sia
tutto maledetto, quando la belva balla superato l’ostacolo!
Attilio
Zanichelli
I giorni
Che tu sia legato all’urlo della sirena
poco importa, spento il coraggio
nella stanza solo sotto la sete maggiore,
i vermi sono presenti nella tua emicrania.
Qualche domenica ruba alle tue mascelle
un sorriso, e chi hai vicino è preso
nel tanfo della tua bocca. Le rondini
allontanano il cielo e quel che resta.
x7
Da Una cosa sublime, Einaudi, Torino, 1982
Diario
Sapete di cosa io vi parlo?
No, non sapete; forse di un ricordo
con la mano sotto il mento,
mano indurita di ghiaccio, rado
cade che singhiozza nel mio occhio.
Devo comunque intrattenervi,
poco visitatori qualche volta
ai detriti della mia carne, poco
chiarezza di cosa sia portare un peso
nel letto d’acqua della vita.
Mi piego come sulle scale si piega il malato
o l’ospite davanti la porta.
Dirvi il significato estremo, lo so.
Ma voi, davanti ai cancelli
serali dell’arrugginito giorno.
Attilio
Zanichelli
Poesia
Ah dolce poesia come tremano le lampade! L’ora
accoglie il sudore! Spremo il salice a gridare
che, se la luce lo scioglie, quasi è un verbo
dentro e mi parlerà. Tende all’estremità
della terra la sua angoscia, bevendo
la pioggia notturna, ora che nulla è corrente!
Il velo che la rischiara dietro ogni desiderio
non abbatto, ma cerco un istante, una lucerna
cauta che ricomparirà, con la gioia di vivere!
Eppure io sono come una crepa, e il mio sangue
non è atteso; la mia morte forse è soppressa,
i miei passi verso di te sono incerti, e ricamo
con un gesto questo tuo splendido altare!
Sicché tutto sulla mia fronte è un disegno oscuro
di ferite a cui coadiuvo con il seme che perdo,
con le mie rose eterne, con il mio credo inutile
che tu possa solo un attimo di felicità dividere
con la vita dell’uomo! E’ questo il gioco
cui attendo da sempre, la foglia che ricade
di amore sopra la tenera vita, ma non è fuga
dalla vita la poesia che arde nella tua anima!
x8
Da Una cosa sublime, Einaudi, Torino, 1982
Nostalgie
Suonavano in limpidezza dall’argine alto,
altre sulla fronte salutavano le gocce. Era
già pensoso lo squarcio fra le nubi del sole
rimasto, laggiù che da un filo bruno la torcia
d’esso lampeggiava e pace inquieta vagava.
Altri fiumi vedevo nel corso dell’acqua, acqua
degli occhi ormai sapeva sciupare il volto,
di altre parole l’animo splendeva accorto
ma fuggente, di altre corse nell’ignoto spirava
sulla bocca la voce. Avevo solo una croce
al mio desiderio che morì sottovoce. Ai ripari
adesso e presto corri ch’è cambiato il mondo.
Attilio
Zanichelli
Le foglie
Chissà perché le foglie si sono agitate, le madri
celesti della terra. Io che non acciglio loro
ancora e non ricordo cosa siano né perché si lasciano
recidere. Il vento ha brevi attacchi come un malato,
elimina la foglia fragile della bocca devastata.
Bisogna che io parli loro come a immutabili santità
misere sorelle fiatevoli del perdono.
Si sono racchiuse nelle mani in un pugno morente.
Tutta l’eternità è vuota davanti a loro.
Hanno gremito le strade quando è triste
il soggiorno e imputridiscono deferite alla marcezza.
Le calpestiamo ai bordi delle pietre, sfinite
e inutili come nella visione che travolge ogni senso
e attaccate alle suole vibrano di tremiti.
Io sono come una di queste, mi frastorna
la pungente ira della ghiaia sotto cui sono quando
scricchiola il passo malinconico che rincasa stordito
e scorge la luce della scala monotona e sorda,
e io sono con l’anima di ciascuno devastante tristezza.
x9
Da Una cosa sublime, Einaudi, Torino, 1982
Gli alberi
Se oggi non sapessi nulla, fosse rimangiato
fosse rimasto nel buco l’io disperato,
quello che credetti di sapere annegato
e me ne stessi curvo ad aspettare risposte
o sassi alle memorabili finestre
da dove guardavo e tacendo sorridevo e forse
nemmeno da tanto aspettassi di meglio
che guardare e attendere come le rose il pianto
della pioggia;
se oggi mi perdessi
nella ricerca ansiosa dove
trepidamente sentivo
che le mie mani rinchiuse
sfogliavano petali arresi al dicembre di gelo;
i miei occhi avevano lasciato
ripetere le parole esauste per strati di vuoto
spazio, nella bocca d’un sole
incerto e pendolante
ora che attendono gli alberi;
gli alberi che
sanno meglio di me ogni cosa e niente
può dare torto alla verità che vive quanto
può ignorare tutto sapendo di morire.
Attilio
Zanichelli
x10
Da Una cosa sublime, Einaudi, Torino, 1982
A Franco Fortini
La cosa chiamata poesia
Ne ha di meglio lei, lei
abbronzato nel solco prima e dopo.
Vinti noi siamo da una fuga
su cui ancora ingràndina.
La cosa più temibile perché non si vede
non è più che un segno sulla carta, l’ombra
della vita. So che passeranno molti anni
prima di trasportarla su un catafalco
ma vi arriverà, stordendo ognuno un po’
falco che già cammina a passo aperto.
L’uomo che si è offeso accusandola vicina
ora prova sollievo che si sia disprezzata.
A volte essa fu di corte. L’imbandivano
di musica e ognuno l’imparava a memoria
dicendo all’acqua e al sonno giusto amore
che rideva da fonte e spettinava il cielo.
Era dietro l’omaggio della mensa, quasi fuori
del suo rango, cui di nulla si appropria
o fra le bettole si cantava, dolce carme.
Poi veniva la notte e il suo cantore
la mandava alla luna, in qualche
caso prefigurava il lamento del cuore
a prova d’innocenza e virtù. Poi fu l’ultima
stagione, come quando viene l’inverno
e sugli alberi la corteccia s’inumidì
di fine argento in grido all’imbrunire.
Le si staccavano le rotule, ogni pezzo
stava inchiodato a sé e lontano dall’altro
e pareva la sua bocca disperata a chiamare
almeno ad unire ciò che non si potrà dividere
mai nel mondo, purché ci sia quel fulmine
che provvede a separarla dall’inutile.
Brulle ossa senza nome
calati nella festa siamo noi
a sparire nel buco della storia.
Cent’anni prima di nascere, da soli
come siamo stati, ci abbandoneremo.
Attilio
Zanichelli
x11
Da Una cosa sublime, Einaudi, Torino, 1982
Gli occhi del tempo
Che specie ritrovo in questo mio specchio, di me?
Forse il calore levato dal cuscino del letto
mi porta due segni sulla guancia mai speranza, qualche
gradino più su con altri desideri, finestre su porte
contro cui già vedi il luogo di sempre fatto
a silenzio di notte e a rumore di giorno. La luce
della grandine quando c’è dalle montagne.
Questa notte ha i catrami in cielo. L’alba
giocherà domani con i passi degli operai
Non so se sia giusto o no, i loro occhi
si scaldano alla luce dei fiammiferi. Guardi
i loro abiti dimessi di uomini giusti
per fare campare coloro che nulla faranno
sognanti dalla vita inutile fuga, chissà
che non li addormenti una piacevoli favola.
Da essi trapela la solitudine come enigma dell’anima,
dirsi le cose in fretta e asciugarsi la bocca.
Qualcosa che non ha né la mente né l’amore
in questo gioco tremendo che ispira vendetta
lo dici allo specchio. Esso vede un bisogno.
A te nulla chiede né una promessa ha luogo.
Ogni promessa mancata. Perché viso si tonda
di un’altra grazia che annega domani. Quanti
sogni sono andati perduti davanti allo specchio
che reggeva misera l’anima. Quante notti
avranno i catrami in cielo dopo il tramonto.
Attilio
Zanichelli
x12
Da Una cosa sublime, Einaudi, Torino, 1982
Fabbrica
Chi ha paura di essere chiamato al destino
di ogni giorno come io operaio alla Bormioli
Rocco e figlio che vanta al capitalismo un secolo
di lacrime? Se potessi alla durezza vivace
del tempo con sconsolata pace restituire
le mani mie chiuse di dolore, la coscienza atroce
dei miei occhi come a inebriarsi sul mare
vanificando e tutto, ridendo a lenire
la sofferenza dentro codesta carne, come povero
che cerca non da Dio una risposta ma perché
un attimo è duro a sorridere gettando
in un corpo il mio corpo a morire, la mia ansia
che vuole sorridere e invece deve piangere!
Come so di quale odio ha fatto pieno il suo ventre
la terra, con quale legge ha reso la povera
classe serva per sempre, chi e quale sapienza
ha fatto degli uomini che avere debba uno
dall’altro che patisce il pane a tradimento?
Per bontà dell’amore? Per peccato d’origine?
Ah dolce mattina io sto passeggiando dove
le pietre non hanno risposto, i paraggi
hanno scelto per me che io viva di luna e foglie
e sogni, fino a che bianco sarà ogni ritorno
in nulla come cader di neve da ramo taciturno,
ideale che sa ognuno al mondo e traduce
in silenzio ogni giorno, e non ha mai pace.
Attilio
Zanichelli
x13
Da Una cosa sublime, Einaudi, Torino, 1982
Attilio
Zanichelli
Estate
I platani sotto cui questa estate vagando
mi sono rimasti nella memoria, ricorrono ancora
nei momenti in cui posandomi presso loro, vicino
mi facevano sentire che la vita perdura pur tenendo
in serbo che la morte è presente, come quando
in un silenzio affogato nella luce del sole
di ogni mattino, che visitava i luoghi e i corpi
di nonnulla seminati nel parco e dovunque,
destavano che tutto somiglia a un tempo
e ai momenti che scelgono per noi morti, vivere
in quest’ultimo accordo. Precipitando sempre
nei tormentati anni passati, sotto la bufera
inquietante di giorni irripetibili ormai,
qui mi son visto, persuaso che la coltre
di ogni affanno persiste, alla pura e tale
dolcezza che quaggiù si vive, ma dimenticati
da tutto, nel profondo strappati, al bersaglio
d’un grido che sopraggiunge imposto dall’ordine
del momento come se non ci fosse più nulla
che orbitare nel vuoto, trasalire di un flusso
di corrente non previsto e in modo suo morire.
x14
Da Una cosa sublime, Einaudi, Torino, 1982
Come una storia
Portava un secchio d’acqua, e la stella lo guidava
raggiante, per il sentiero. Poi una volta
cominciò a cadere pagando nella fossa quel dolce
fresco. Aveva pensato a tutti quelli che caddero
e manifestarono di volersene andare bruciando sempre,
ed entrò nella fabbrica dove le ore passano meglio
e sulle porte ci sono scritte come che spazio e tempo
servono meglio il mondo (credendo che altro lavoro
perdoni).
La vita fruga meno sulle spalle, nel terreno
della coscienza perché c’è chi porta via questo sudore
lottando perché non sia intinto del sangue della terra.
E il secchio d’acqua fu lasciato laggiù
sotto la neve d’inverno e a marcire. Gli alberi
furono conquistati dalla notte che li gelava,
e assorbirono la pace delle radici profonde.
E le fosse non c’erano, alte in cui cadere con il secchio
o ai bordi lacerati sotto cui l’ansietà dell’erba sfuggita
al vento è muta, ma quell’aria tra il ferro e le mura
senza sogno di portare un secchio d’acqua questa volta
dal fiume, dove i piedi toccavano l’ultima candela
d’ogni speranza, di avere per qualche istante
goduto prima di morire in faccia il vento
che taglia in fronte. Povero sole che sei rimasto solo
a guardare i rami desolati e il vuoto
e che passi ogni giorno predando i raggi nel solco
e guardi sfiancato dalla tua forza le rondini solitarie
propagandosi in una corsa di luce più bella,
dove non vuole più l’uomo semplice costruire il bacio
della terra con il suo sudore. Povero volto
che temeva di sapere che la vita non gli fosse di fronte.
Attilio
Zanichelli
x15
Da Una cosa sublime, Einaudi, Torino, 1982
Una sera sul mare
Molto vicino al mare dove credevo
fosse la luna catturata dall’onda
e pensavo a quel beneficio che rende
calmo il guardare; molto serrato dove
come uno straniero vagante conduce
la felicità a dubitare. Non sapeva
di niente il mio mare né la sabbia
azzurrata da una macchia d’ombra.
Guardavo gli orizzonti già distesi
di pace, il sudario del mare come
l’esistenza infinitamente inutile
se non fosse per grazia di speranza.
Attilio
Zanichelli
Una cosa sublime
A una certa ora, monotona come il declino
del corpo, vive in me uno sperduto sublime
di cui non ho più sentire né voce o presenza
dolce di quando pareva cantare da un rudere. Una
rara e confusa memoria di come chi firma con una croce,
come una incauta rondine si aggrappa a fili invisibili.
Essa pur sempre parla invidiata dall’altitudine
da cui si appresta, sorridendo e talvolta
rompente come chi non ha mai peccato, orba
del vuoto come io di ciò non posso, e stento
ad afferrarla mentre essa mi sgomenta, quanto
toccarla mi svanisce. E’ certo troppo lontana.
E’ impenetrabile per noi e si chiama delizia
del giusto.
x16
Da Una cosa sublime, Einaudi, Torino, 1982
Accadde nel parco
Mi sono preso fra le mani il mio bimbo, lungo quello
spettacolo che egli vedeva, nutrito
e lo sollevai in alto come una bandiera,
e lo portai al parco, poi lo feci sedere un mattino
sulla panchina e cominciai a divorarlo, spensierato
che non accadesse nulla poiché soli eravamo.
E pensai ai suoi abiti, le sue mani
paffute e il brillare degli occhi.
Al piccolo lago attorno che guardavo
e lo alzai come una pianticella senza radici.
Per questo tempo, tutto il tempo rimasto fuori
col mio bimbo sordo e irrispettoso. Vuole andare
chissà dove. Io non volevo andare per niente.
Ancora non c’ingannammo spaventati l’uno dell’altro.
Tirammo da una parte e dall’altra le braccia
finché fu solo ai suoi occhi il mio sorriso spento,
e lo alzai in alto, come una bandiera, una pianticella
senza occhi, senza radici. Mise a tremare il suo corpo
e poco tempo dopo fummo lontani. Egli passava
la sua testa sulle foglie, rimase a lungo
coricato come l’erba falciata, un altro figlio
forse di un altro mondo con un’ala spezzata.
Attilio
Zanichelli
x17
voci
Lo scienziato e la formica Giullarata di fine millennio (1), 2010
Lucetta Frisa
18
Poetessa, traduttrice e lettrice a voce alta, è nata e risiede a Genova.
Numerosi i suoi libri di poesia: La costruzione del freddo (Ripostes,1990, nota di M. Ercolani), Modellandosi
voce (Corpo 10, 1991, nota di M. Coviello), La follia dei morti (Campanotto,1993, nota di C.A. Sitta), Notte
alta (Book, 1997, postfazione di S. Verdino), L’altra (introduzione di A. Lolini, Manni, 2001), Siamo appena
figure (GED, 2003), Se fossimo immortali (postfazione di M. Ferrari, Joker, 2006) e Ritorno alla spiaggia
(nota di G. Fantato, La Vita Felice, 2009).
Sue poesie e prose sono apparse in “Poesia”, “Pagine”, “L’Immaginazione”, “Riga”, “Nuova Prosa”, “Italian
Poetry Review”, e in diverse antologie tra cui Il pensiero dominante (a cura di F. Loi e D. Rondoni, Garzanti,
2001), Trent’anni di Novecento di A. Bertoni (Book, 2006), Voci di Liguria (a cura di R. Bertoni, Manni,
2007), Altramarea (a cura di A. Tonelli, Campanotto, 2007) e antologie in traduzione come Poems from
Liguria (a cura di R. Bertoni, Trauben, 2009).
Ha tradotto Henri Michaux, Alain Borne, James Sacré e due libri di Bernard Noël: Artaud e Paule, 2005, e
L’ombra del doppio, 2007, per le Edizioni Joker.
È redattrice de La Clessidra e collaboratrice de La mosca di Milano, e del quotidiano Avvenire che ospita i
suoi racconti per ragazzi. E’ presente in diversi siti web come http://rebstein.wordpress.com,
http://viadellebelledonne.wordpress.it e http://vicoacitillo124.it.
In coppia con Marco Ercolani ha scritto, di narrativa: Nodi del cuore (prefazione di F. Rella, Greco & Greco,
2000) Anime strane (nota di M. Dotti, ivi, 2006) e Sento le voci (postfazione di M. Barbaro, La Vita Felice,
2009).
Con lo stesso Ercolani cura la collana I libri dell’Arca per le edizioni Joker dove ha pubblicato, in prosa, Sulle
tracce dei cardellini, 2009.
Le sue poesie sono tradotte in rumeno, inglese, francese e spagnolo. Più volte finalista in premi nazionali
come Il “Montale”, il “Montano” e il “Tortona”, ha vinto il “Lerici-Pea” 2005 per l’Inedito.
Da La costruzione del freddo, Ripostes, Salerno, 1990
Lucetta
Frisa
La passione
Della passione le inclinazioni
segui quella che ti assomiglia ma che sia generosa.
Il cuore delle cose è fiamma
fiamma il tuo cuore se si spalanca
allo spazio e accende le corrispondenze
in eloquente calore.
E’ la ragione istintiva del rosso:
scavalca i punti di quiete
brucia l’osso e l’idea pulsando
nel dolore e sul foglio vivo
e li tramuta in opera.
Se il grigio ingrigisce i sensi
e assopisce il senso del tuo viaggio
ricòrdati del rosso che brucia sotto
e ha il colore del risveglio.
19
L’inadeguatezza
Dell’inadeguatezza le inclinazioni
conducono lontano dal tuo corpo,
l’alto desiderio innalza rupi
e più sali, più la strada scende.
Con la freccia spuntata miri al leone
coi piedi scalzi attraversi bufere
leggi parole che scompaiono –
sbagliano l’occhio o il libro?
L’acqua trabocca si frantuma il vaso
nulla si versa in te e non ti versi in nulla:
impara con penna e foglio la misura
tra parola e sogno e in mezzo la mano.
Insegna l’inadeguatezza a fermare qui il visibile.
*…+
La natura umana esige
una temperatura né
troppo calda né troppo
fredda dove il
conquistato tepore (e
per analogia il grigio
della malinconia) sia la
risultante naturale del
conflitto vita / morte,
inconscio / coscienza.
La stessa struttura del
poema lo suggerisce:
diviso tra il furore
morale della denuncia
e la necessità poetica
della costruzione, si
consegna serenamente
al proprio destino
mortale.
*…+
Marco Ercolani, dalla
postfazione al libro
*…+
La metafora invernale
de La costruzione del
freddo trasfigura a sua
volta la
rappresentazione di un
dolore estremo, nella
quale la realtà viene
tradotta in visibile
stupore, di fronte a
dati emozionali *…+.
Stupore modulato con
rara precisione
stilistica, in uno
sguardo
perennemente dettato
da ansia morale, a uno
stato di attesa, di
allarme e di vigilia.
*…+
Lorenzo Morandotti, in
“Margo”, n° 8, 1992
Da Modellandosi voce, Corpo 10, Milano, 1991
Lucetta
Frisa
Zoologia dell’ombra
*…+
Selvaggio, vagavi nella foresta:
trapassato dalla mia freccia
eccoti ora in cornice.
Ci scrutiamo dalle gabbie
- spazi astuti misurati limpidi nomi domestici sul dizionario.
Inappagati
come entrare l’uno nell’altro
con armi già sopraffatte?
Chiudere gli occhi
non basta più
per farti morire.
Lo sguardo smembrato
un fremito ci percorre e ci allea.
20
Senza fame, staremo accanto.
*…+
Parlare della notte
All’alba
qualcosa bisbiglia nel buio un suono incerto
non appartiene ancora alla mente alla sua aria chiara
diviso dal mistero della notte terrestre
che guarda e ascolta con altri sensi.
Là si sente il pensiero come un corpo
la parola vibra ancora muta,
se il nome va verso la luce
il silenzio e l’occhio non hanno specchio.
Parliamo del sogno e siamo stranieri
insensati per il giorno sonoro
infedeli al silenzio, al suo segreto:
sulla frontiera battuta da luce e buio
ci interroghiamo indecisi cosa essere.
E il giorno ci adesca nella sua terra visibile
che sembra limpida ora, una geometria vuota:
sarà difficile parlare della notte
con queste parole.
*…+
Il verso si libera dal
verso, si fa discorso
a volte prosa
poetica, così la
lingua insegue il
canto. Lo conduce
all’aria aperta, lo
ossigena. La voce
che modella i
modelli è
arrogante, cioè
sentimentale: come
la forma che ogni
testo indica. Ma la
lingua è invece
piena, resa rotonda
e barocca
dall’accanimento,
dalla precisione del
flusso poetico.
*…+
Michelangelo
Coviello, dalla nota
al libro
Da La follia dei morti, Campanotto, Udine, 1993
Lucetta
Frisa
Canzoni della canzone
a Gaspara Stampa
1
Antica amica mia la mia canzone
levo per te in questo vento breve
che sembra separare e in un accento
unisce attimo penna anima voce
e illumina il mio suono nel rumore.
tu l’hai lasciato nell’aria sospeso
un dono arioso dall’aria levato
che la parola cresce nel suo vuoto
incendia sangue e foglio come fuoco.
È la legge del canto. Ancora ascolto
oggi, nell’aria antica, nuove arie.
Solo scavando nel suono del tempo
con le parole gioco semino vento
l’anima ardo e che mi ascolti invento.
*…+
21
*…+
3
Attimo fermo nell’aria fuggente
- sembiante, idea, un ostinato sogno
che al buio insensato sa resistere
solo sul calmo foglio ha compimento.
Trova pace in quel bianco breve spazio
che ricompone e scompone lo strazio
e riconquista libertà errabonda
più libero e sicuro nel suo regno.
Legge del desiderio: cosa umana,
troppo umana che nella carne affonda;
se canti, la passione resta gioco
se canti, il dolore va sull’onda,
foglia più lieve su più lieve foglio
- ardendo diritta e ferma questo fuoco.
*…+
*…+
…con La follia dei
morti l’autrice
conferma in questo
canzoniere d’amore
la sua vena fra lirica
e favolosa… *…+.
*…+ La qualità più
rilevante del testo
consiste nella sua
ricca e originale
invenzione
linguistica, che non
solo non ne riduce il
margine di
comunicativa
intelligibilità, ma si
rende apprezzabile
per la costante
tensione di ricerca
*…+.
Francesco De
Nicola, in “I
Limoni”,
Caramanica, 1994
Da La follia dei morti, Campanotto, Udine, 1993
Lucetta
Frisa
Canzone dei trucchi
a Emily Dickinson
Scelgo i compagni
- il foglio bianco e la notte e poi chiudo la porta.
Conto i miei trucchi
- tavolo penna e calma e l’abito assoluto che allude a se stesso.
Solo le parole si muovono
strappano qualcosa
a qualcosa.
Qualcuno è morto
non so se fuori o nella stanza.
Scrivo
il suo urlo perfetto.
22
Dietro la stanza c’è il soffio - dicono.
Chiamerò sul mio letto soffocata
il suo ultimo senhal.
Chiudimi gli occhi – dirò come si chiude una porta.
Chiudimi col tuo soffio.
Come mio padre chiuse la porta
e mi lasciò piangere al buio.
Come mia madre la riaprì
e mi lasciò un filo di luce.
Guardai solo quel filo
respirai quel filo.
Senhal ti chiamo
con ingannevole nome
sino all’ultimo.
Riportami dove sono nata
dove mi diedero consonanti terrose e dure
come ossa impacciate
e vocali vuote aperte nella gola
e mi dissero
«Invéntati l’andatura e il volo».
Mi diedero occhi e piedi
polmoni e penna
velati di trucchi
per fingermi viva.
*…+ Preso nel
muoversi dei semi
elementari, portato
dai fogli alchemici a
scivolare nel tempo
e trasmutarsi di voci
in voce, intessuto da
echi di memoria del
vissuto *…+,
chiamato al giro del
suono e alla malizia
forte quanto
imprendibile e
mobile dei
significati, La follia
dei morti si libera in
un’andatura di cui
conosce segreto e
felicità di mostrarsi.
*…+
Alberto Cappi, in “La
Clessidra, n° 1 / 95
Da Notte alta, Book Editore, Ro ferrarese (Fe), 1997
Lucetta
Frisa
Teoria dei colori
Bianco
Arida neve che nascondi il cuore
la terra e di ogni cosa la sorgente
e discendi sprezzante dall’altezza
fredda teoria di mente in malumore.
Simuli il giorno la luce la chiarezza
il tempo escludi nel tuo bianco puro
l’altra tua parte, il tuo oscuro passato
l’inizio della febbre e il suo futuro.
Ma la tua perfezione immaginata
non dura che un respiro onnipotente,
perché ogni cosa si sporca e si tramuta
nel suo contrario e dal contrario in niente.
*…+
23
*…+
Rosso
Non posso fare una poesia col rosso
il rosso è qui e ora e non si scrive
è la poesia una creatura animale?
Il sangue vivo una figura di sale?
La memoria ha visioni da trovare
- il rosso esplode rosso sul fondale se il rosso non è mai lo stesso rosso
è la poesia che sembra rosseggiare.
Nel rosso non si specchia la poesia
che nasce per rincorrere qualcosa
nel controverso brucia l’eresìa
con altro rosso ricolora la cosa.
*…+
*…+
La poesia della
Frisa, ma la poesia
in generale, si
sforza invano di
«muovere le
parole» e di
ricostruire l’antico
sentire dell’uomo.
Come nel quadro di
Bruegel, i ciechi
trascinano gli altri
ciechi e non
ascoltano. Così si
spegne la sete della
vita.
*…+
Franco Loi, da E’
dolce la morte in
provenzale, in “Il
Sole 24 ore”, 24
agosto 1993
Da Notte alta, Book Editore, Ro ferrarese (Fe), 1997
Lucetta
Frisa
Danza intorno a una rosa:
tre coplas (alla maniera di Jorge Manrique)
Rosa aulentissima fresca
non sai d'essere una rosa
creatura
Ti senti albicocca o pesca
di un'altra più zuccherosa
natura
Allo specchio che importuna
tu rispondi con il sonno
resti chiusa
Invisibile regina
che vuol essere dal mondo
esclusa.
24
Rosa sola e relativa
assoluta sola rosa
sulla scena.
Semi morta semi viva
con la posa senza posa
fuori scena
Giù il sipario ed ogni ora
in un battere di ciglia
si fa tarda
Si cancella la signora
chi la sogna chi la veglia
chi la guarda.
Intorno nessuno danza
non ti chiama più coi nomi
di un bel fiore
C'è l'ignorare l'assenza
dimenticare illusioni
di un colore
Qualcuno fece il ritratto
al tuo corpo rapinoso
e ignoto
Questo è stato l'ultimo atto
poi il mio verso fu noioso
e vuoto.
*…+
…quanto più la
poesia appare
rarefatta tanto più
assume un corpo
fatto di ritmo,
parole – corpo,
voci, con evidente
propensione a una
teatralità del testo
ed una sua
irrinunciabile
vocazione tattile.
Scaturisce una forte
identità della
poesia fino alla sua
forma più limpida,
nell’essere canto,
dove la sicura
misura delle varie
magie in opera (dal
ritmo all’immagine)
permettono anche
di recuperare il
tempo minore
dell’io o addirittura
una personale
interpretazione di
poesia civile.
*…+
Stefano Verdino, da
Il filo della poesia,
in “Nuova
Corrente”, n° 112,
1993
Da Gioia piccola, All’antico mercato saraceno, Treviso, 1999
Lucetta
Frisa
25
Polvere
Volevo scrivere un poema sulla polvere come un'immensa spolveratura
mi avrebbe lasciato più quieta forse un po' meno ansiosa ma quando
si parte dal grande non si raggiunge nulla neppure
una sillaba bisbigliata.
Cominciamo dall'inizio: io, la casa e la polvere - tutti i giorni.
Non ho mai capito se spolverare sia evocare
condurre ieri qui davanti a me come un immutabile cristallo
togliere via i miei secoli farmi dimenticata eternamente.
Sempre ho immaginato la polvere scendere di notte
sopra il naso dei mobili su tutta la pelle della casa scendere
Ma poi lei
al buio così non si può mandarla indietro.
non scende più
Forse spolverare è un atto duplice come quando si nasce
non soffoca
e si comincia subito a svegliarsi o a dormire
resta distesa lì secondo i punti di vista.
noi e lei
Anche la gatta lecca i suoi gattini appena nati.
si resta lì insieme.
Appena nati si comincia subito a fare pulizia
di grembi precedenti gusci vuoti minuti vecchi
e non si smette più di trafficare rallentando o accelerando
lo spolverìo.
Chi usa grandi armi per combattere
chi solo penna e stracci
sognando il deserto e il monastero
in un vento senza polvere.
*…+ Struttura: fluida,
molto variata,
rapsodica – come
quella di un vaso
elastico: un vaso –
memoria dove si
intrecciano e
risuonano
ininterrottamente
voci di ogni timbro e
tonalità. Musicalità:
presente con
percussioni, a tratti
accesa. Con pause e
aritmie. *…+
Carlo Rao, da
“Pretext” a Gioia
piccola
*…+ La misura
“piccola” è la realtà
di un letto sbarrato,
di pareti che non
esistono e *…+ i pochi
metri quadrati di
quel letto sono il
confine di tutta una
casa. Ma sono ricchi
i voli che Lucetta
Frisa tende su
questo precipizio,
arretrando alle fiabe
d’occidente e
d’oriente, usandole
come unguento
alleviante. E, come
in una fanciullezza
rivisitata, sfiora le
cose dei dintorni…
*…+
Elio Grasso, per
Gioia piccola, 2000
Da L’altra, Manni, Lecce, 2001
Lucetta
Frisa
26
*…+
Dove sta il ricordo
in quale casa
in quale mattone
neurone cellula fibra
appare
appena raschio l'intonaco
ombra tagliata di striscio
e non parla italiano
nessuna lingua di padre o madre.
*…+
*…+
Scrivesse in follia i veri saggi non scrivono sono
la loro parola gli animali non scrivono
sono dentro di loro perfetti nessuno
che voglia cancellare il mondo neppure
cambiarlo o rimpiangerlo
una radiografia la sua scrittura
di nervi e sinapsi, il dono vorrebbe
-sacro- di non scrivere quello che non si può.
*…+
*…+
Le nuvole avevano colori le venivano addosso
a volte bianche a volte oro rosso lei si fermò
le bastò un brivido un colpo di vento e grazie disse a voce alta
grazie a voi nuvole entrate con prepotenza nelle mie lacrime.
Non nascerò più, pensava, ora sto nel respiro del colore
di una mente appena morta che deve assestarsi così per secoli
per secoli ragionando in lingua atona bianca.
Non scrisse più. Non seppe più scrivere.
Non ricordò neppure l’alfabeto.
Dunque, dicono di lei, che non ebbe più parole.
Solo visioni.
*…+ La Frisa ha
sviluppato *…+ un
discorso in cui si
coniugano memoria
e linguaggio in un
modo avvincente e
convincente, fondato
essenzialmente sulla
capacità di far
reagire una
fortissima istanza
metapoetica con un
sicuro senso del
ritmo, in vere e
proprie partiture
drammatiche *…+.
Un’opera, dunque,
stregonesca e
stregante, segnata
dai bagliori stilistici
dell’assoluto, questa
della Frisa, in una
lingua mutevole e
lunare,
drammaticamente
“altra”, la cui
esplicita ambizione è
far “sopravvivere in
punta di penna”,
quell’idea di sé
enigmatica e
femminile, che
ognuno si porta
dentro come una
risorsa o una
condanna *…+
Vincenzo
Guarracino, da
Poesia al femminile
in punta di penna, in
“Il Corriere della
sera”, 11 aprile
2002
Da Siamo appena figure, Biblioteca della Ciminiera, Civitanova Marche, 2003
Lucetta
Frisa
27
Teatro della luce
Sogna - lei ordina al suo corpo
che contiene ombra e luce sogna quello che non sai,
quello che sai dimenticalo.
E si gira su un fianco
le palpebre cominciano a tremare
per una folla di scene lente e bisbigli
di labbra appena mosse da un senso.
Ad ogni tremito passano i secoli.
Quanto dura l’assenza?
Ritornano pezzi di figure, forse
dita sulla fronte, freddo.
Sente gli occhi smarrirsi
nella materia del sogno: è ombra
invasa da un soffio
che va stordita verso l'altra metà della luce.
Quando fu pesce anfibio rettile uccello?
In quale pausa si annida l'estasi?
Nella materia, lampi di un altro mondo:
te ne andrai via – l’avvisano – sii pronta.
Lei torna indietro per le vie del sonno.
Dopo c'è solo un passo: poi saprà?
Veglia le sue immagini che l’ombra
le riporta dalle ombre.
Se sogna potrà leggere se stessa.
Nascono tenere le cose.
Da un grembo vanno verso
un grembo.
Luce
stretta
tra due ombre.
Libertà non c'è né elevazione;
la terra sta tra le sue sbarre.
Solo il sogno è respiro.
Si parlano parole parlate da altri
si sognano sogni di altri
i morti vegliano
i vivi per poter parlare.
Limite non c'è tra uomini e astri?
Sotto un cielo mortale
il greve pensiero ottico sembra lievitare
se si sogna.
Sfila la luce
nel suo scorrere
come il serpente la pelle.
Il sogno si è conficcato nel midollo
lei sente il calore raggiungere l’osso:
agiterà le immagini
e il flusso delle idee.
Col viso raggrinzito, gli uomini adulti
non hanno scherzi di luce sul collo.
Da Siamo appena figure, Biblioteca della Ciminiera, Civitanova Marche, 2003
Lucetta
Frisa
Si cammina o si è fermi? Si ritorna o si va?
Non se lo chiede:
sogna.
Quali cavalle la porteranno sull'orlo delle cose
a sud o a nord del giorno e della notte
rotolando liete nel nulla?
Se capire è essere
privi di vera sapienza sono viaggio e fine
e poi di colpo
un sipario?
Molte domande sospingono
la sua indivisa scrittura.
Per una parola
più flessuosa delle altre
qualcosa sembra fare cenno.
Tra la palpebra e il sonno
come un’onda frenata sta la luce
e non sta.
28
È lei che sogna
il giorno e la notte.
E giorno e notte sono
sogni
impigliati fra rétina e nuca.
La luce la legge sul fondo
mentre scrive
la affida al polso emozionato.
Sale alle labbra
cade assopita sul foglio:
è un bagliore
la poesia.
Le cose non si possono aprire né dire
limpidamente come profezia.
Materia opaca negli spazi mortali
materia sempre scossa
il sogno luceombra girovaga.
Cielo e cervello si riflettono
in fiori e figure d’altre lingue
perché il doppio di ogni mistero
è capovolgere il vuoto.
Se sogna l’argilla
sente umida luce prendere forma e fiato,
l’asciutta screpolare le sillabe
la troppo veloce farsi polvere.
Se sogna
può accogliere ogni figura
e ciò che le disfa.
Da Siamo appena figure, Biblioteca della Ciminiera, Civitanova Marche, 2003
Lucetta
Frisa
Quale altra luce uscirà da questa polvere
a seminare nelle radici secche
la divina meraviglia?
Quale altro sogno
si sognerà dopo questo?
Fiato
fiato nel vuoto
talvolta riprende da capo un racconto
che tutto vuole raccogliere e portare con sé
poi si fa frase tremante in gola
balbettìo
Lei non sa da quale punto di sé sta sognando
in quale stanza della casa
in quale tana millenaria
chissà dove ha iniziato quel sogno
che scrive mentre si cancella.
29
Da Se fossimo immortali, Joker, Novi Ligure, 2006
Lucetta
Frisa
L’affetto
fidati della traccia di lacrime
E impara a vivere
Paul Celan
*…+
Tra sillaba e sillaba metti il lungo respiro
di chi non crede all’esilio
e ti fissa con tenerezza
dietro una persiana.
Ti resta quello sguardo per millenni.
Un filo mai spezzato con la forza
tenace dell’acciaio di chi bussa
ribussa a una porta chiusa ma tu
fai cadere il seme nella terra
anche se la terra è inconsistente
fai cadere una sillaba
tra tutte le sillabe del mondo
semina il tuo vento
come sai
la tua luna invernale
nella tua prima e ultima neve.
30
Le parole non arrivano dal mare sono
nella bocca
appaiono e scompaiono dall’acqua torbida
per galleggiare come scorze.
Non hai guerre da combattere, non hai nemici
solo la morte hai se ancora ami soffrire
e ridere. Non hai che il cordone ombelicale
delle parole.
Qui non c’è molto da fare
e sempre è troppo tardi per capirlo.
Copriti col tuo abito di sillabe di poco fiato
ama il tuo desiderio più che puoi e aspetta:
e mentre aspetti chiedi anche all’aria di aspettare,
prima di scorticarti.
*…+ Ed è questo il
messaggio più alto e
originale di un libro
che parla di
antinomie ed
estremi, di impossibili
territori di mezzo e di
equilibri precari, dal
dolore che nasce dal
non raggiungere
l’unità, dal
frammentarsi – ma
anche della creatività
che nasce dal voler
sopravvivere,
adattandosi alla Vita
e al Mondo. *…+
Mauro Ferrari, da
Fammi credere di
esserci: la tragica
levità di Lucetta Frisa,
postfazione al libro
*…+ …questa una delle
virtù di Lucetta Frisa,
quel modo di far
ansimare ogni parola,
ogni verso dentro un
gioco di contrappunti
sottili e imprecisabili.
Alla ricerca di crepe
del senso più alto.
Alla ricerca di sensi
ultimi e silenziosi che
risultano poi essere
quelli delle cose più
prossime e
immediate. *…+
Dario Capello, da
Della danza
sapienzale, in “La
Clessidra”, n° 2, 2007
Da Se fossimo immortali, Joker, Novi Ligure, 2006
Lucetta
Frisa
31
Quinto autoritratto diurno
Ogni mattina ho il compito di rifare il mondo.
Ripeto ciò che gli dèi fanno con gli uomini
dopo la notte, li rigirano al rovescio
li sbattono nell’aria fredda li scrollano
dei sogni per prepararli all’altra vita.
Rifaccio il letto lentamente la lentezza
rallenta il laccio allunga l’aria della ricreazione
le nostre lenzuola sono azzurre le stiro con le mani
per una pelle giovane bisogna stare attenti
a non venarla raccontando fiabe
fino a stanotte quando torneremo
a disfare il letto la verità la sua stanchezza
a cullarci in quel mare terrestre a dirci
tutte le altre storie
fare pieghe su pieghe.
nono autoritratto notturno
L’aria del buio
ipnotizza rimorso e nostalgia
una forza tranquilla emana da un centro
fermo o che credo lo sia
forse è un pensiero vertebrale
che mi fa stare
sveglia e diritta in me.
Battito di stelle contro il cielo:
se è figura di un sogno sparito
che ha sognato se stesso
tutto riporta a un padre illusorio
e al mio respiro orfano.
Ti prego, fammi credere di esserci
- senza lacrime lo dico credere che tutto è vivo
scorre si muove domanda non dà pace
credere che anche le cose morte
di notte si vestano di un corpo.
*…+
Nella sezione,
infine, molto bella,
degli Autoritratti
diurni e notturni vi
è una sorta di
paesaggio della
passività del sentire
all’attività del
trasformare in
bellezza il
sentimento, nel
senso che ogni
istante di vita viene
vissuto come
l’ultimo nell’alto
mare della vita e
ogni giornata, un
po’ come il salto
dalla rupe di
Leucade nel dialogo
leopardiano di
Colombo e
Gutierrez.
*…+
Tiziano Salari, da Il
dilemma
dell’immortalità, in
“Lunarionuovo”, n°
23, 2007
Da Ritorno alla spiaggia, La vita felice, Milano, 2009
Lucetta
Frisa
Porta Rosa*
Velia, settembre 2007
a Vincenzo Guarracino
32
Sono venuta da morta a riprendermi la luce
sparsa fuori di me mentre ero sottoterra.
Non la depongo prima di tornare al buio
come una veste effimera ma voglio trattenerla
sulla mia pelle vuota per il dio compiacente
che mi ha lasciata andare. Io non mi attendo
segni dall’alto o dal basso. Mi è bastato
vedermi risalire sulla quadriga elegante
con i cavalli neri dal passo lento una danza
silenziosa ma senza il corteo dei parenti
in lacrime e i carri col mio corredo. Tutto questo
è dipinto per chi resta. La discesa nei muschi
della notte non fu poi così buia sapevamo
che una sorta di fuoco stava lì ad attenderci se
- come dicevano - l’oltre sarebbe stato
il rovescio di questo mondo e le apparenze
dovevano capovolgersi se sfiorate
dalle mani degli dèi.
* E’ la grande porta cittadina - ancora intatta - che sovrasta la zona archeologica di Velia (l’antica Elea)
nel Cilento dove venne fondata la celebre scuola eleatica, e vi insegnarono Parmenide e Zenone.
*…+
Ritorno alla
spiaggia è libro del
nostos, un libro
attraversato nella
lingua stessa da un
duplice movimento,
poiché c’è desiderio
e insieme dolore.
*…+
Certamente nei
versi di Frisa non c’è
il tragico, né
l’avventura, nel
senso delle grandi
imprese che hanno
segnato i nostoi
classici, bensì un
percorso nel tempo
attraverso le
“tappe” di un
dialogo pressante e
insieme pacato con
il tempo stesso,
fatto attraverso
luoghi e persone
amate.
*…+
Da Ritorno alla spiaggia, La vita felice, Milano, 2009
Lucetta
Frisa
33
Sono venuta qui trapassando le pareti
della tomba di notte non sapevo
che la voce di noi morti può piegare i muri
farci tornare indietro dove vogliamo.
Ho perduto i cavalli per strada, lasciato
la barca legata a un’onda ferma
camminato scalza sulla spiaggia di Ascèa
udito i galli cantare non so se per condurmi
qui o riportarmi alla tomba, ho visto nascere l’alba
l’impercettibile agitarsi del cielo oh finalmente
anche il cielo è tornato e anche il vento
che agita davanti agli occhi il mio velo nero vi dirò
che questa aurora provvisoria è più bella
dell’altra infera - premio inadatto a noi umani.
Io cerco la mia casa. So che è ad Elèa ma dove?
Affondata al centro della terra, schizzo di fango
nell’infinito inferno delle cose distrutte;
devo pensarla sotto i miei piedi guardare
il terreno come fosse specchio che mi rimanda
le immagini profonde fino a me fino al mio cuore
che si spacca di nostalgia?
O devo solo guardare il cielo indovinare
figure nelle nuvole alte - respirare - non desiderare altro?
*…+
Ritorno alla
spiaggia ci regala
una poesia che si
immerge nel
tempo, senza farsi
mai mero diario del
vissuto, né elegiaca
rammemorazione
dell’infanzia e di ciò
che si è perduto,
ma ricerca del
senso del vivere
dentro e attraverso
la parola poetica
stessa. L’approdo
del ritornare è
trovato da Lucetta
Frisa proprio nei
testi di questo libro,
che accolgono la
fragilità della vita e
insieme dicono
l’ansia di infinito
che eccede ogni
esistenza:
contengono e,
contemporaneamente, superano lo
scorrere del tempo,
la sua fame enorme
che tutto annulla.
*…+
Gabriela Fantato,
da La sapienza della
soglia, nota critica
al libro
Da Ritorno alla spiaggia, La vita felice, Milano, 2009
Lucetta
Frisa
Adesso in giro non vedo nessuno. Pietre
che furono umane dimore templi abitati
dagli dèi e dove i filosofi carpivano nei numeri
i loro segreti radunando mendicanti
di verità e sui gradini il grande Asclepio
curava i loro mali facendo miracoli.
L’acqua non c’è più. I pozzi secchi i porti insabbiati
molte pietre e l’erba fresca tra loro, allegra. Cielo e vento.
La mia casa era ai piedi di una strada in salita
e in cima una porta grande di pietra dove passavano
muli mercanti armi cavalli guerrieri
le donne salivano di fretta con la schiena curva come
i cani, aiutando gli uomini a reggere i carri o di notte
ingannavano le sentinelle per fuggire perdersi dall’altra parte.
Erano serve dagli occhi bassi, sacerdotesse, prostitute.
Forse le attendeva una nave.
In questa luce di mezzogiorno tutte le ombre
si coricano rasoterra e i vivi non vedono nulla.
Non è l’ora di chiedere o rispondere. Supini, si tace.
34
*…+ Il rimpianto del
nome chiamato
torna nel bellissimo
poemetto Porta
rosa che chiude il
libro, anche
formalmente molto
distante da Gioia
piccola che lo apre.
Qui, in un verso
compatto che non
conosce rotture
Lucetta Frisa delega
i propri pensieri a
un personaggio
sconosciuto, una
donna velata di
nero, sperduta tra
le rovine di Velia,
una creatura che è
uscita dalla tomba,
incerta e spaesata
ma pacata, benché
segua le tracce di
un ricordo che non
corrisponde alla
visione attuale di
silenti rovine, e non
trovi più la sua
casa. I luoghi, le
persone, i dati
sensoriali della vita
da viva, tornano
lentamente al suo
ricordo di antica
trapassata, e tra
tutti forte è quello
della madre che la
chiama per nome.
Da Ritorno alla spiaggia, La vita felice, Milano, 2009
Lucetta
Frisa
35
Io stavo sulla soglia. Le soglie uniscono e separano.
Amavo l’interno delle stanze la loro protettiva
quiete ma amavo la luce la gente le loro voci.
So che lassù Porta Rosa si tingeva di rosa
per chi saliva all’alba e di rosa al tramonto
per chi tornava da nord. Separava e univa le ore
di luce e buio insieme a noi, i vivi. Si apriva
a sinistra sullo spazio azzurro illimitato del mare
a destra su quello verde dei campi.
Ora che sono qui rifarò quella strada sterrata e poi
varcato il crinale per l’ultima volta sentirò
alle spalle il peso doloroso del paesaggio
con la mia casa morta e qualcosa
come una lama mi squarcerà corpo e spirito.
Sentirò mia madre chiamarmi per nome e sarò
indecisa se restare qui a piangere senza lacrime
o ritornare sola nel regno della morte.
La luce - questa - potrà soccorrermi? Il suo respiro
ha traversato le parole dei saggi. Sento
il suo fuoco lieve bruciare il mio velo. Io so
che darà la giusta sepoltura ai divisi, ai tormentati.
Mi affido per sempre alla sua polvere.
*…+
Qui Lucetta Frisa
definitivamente ha
abdicato alla
consegna di restare
la bambina di
“quella” madre, alla
sua voluta, edenica
e insieme dolorosa,
condizione di regina
assoluta del piccolo.
Trasferendo su una
creatura della sua
invenzione il
dolore, il senso di
mancanza, dona
alla poesia un
valore oggettivo, ci
dà testimonianza di
un’altra
elaborazione del
lutto, ci fa
ascoltare, in musica
perfetta, un
discorso severo e
forte.
*…+
Piera Mattei, in
“Pagine”, n° 59,
2009
Inediti. Volevo l’estasi
per Alejandra Pizarnik
36
Vedi, io vivo con un coltello
dentro lo stomaco.
Mi taglia a pezzi l’infanzia
mi taglia le pupille
che vedono solo notte e squarci.
Tutte le cose hanno lame spille
angoli punte spigoli
e parole spinose.
Le mie
stanno acquattate come bestie in allarme
si dolgono di solitudine
incurabili, inascoltate.
Non c’è nulla di morbido al mondo.
Nella culla
al posto dei cuscini e dei ninnoli
mi misero le scarpe slacciate
le bambole rotte il latte amaro
e il pensiero della morte.
Mi cullarono con le forbici
trapanato il sesso scorticata
la bocca perché parlassi
solo di ossa
della colonna vertebrale del mondo
albero sempre invernale.
Volevo l’estasi
il perpetuo orgasmo tra terra e parole
volevo
il corpo emotivo della bellezza.
Nell’aldilà
troverò piume e sete
sentirò volare i miei capelli
dolcemente snodati
dalle ariose dita di un dio primaverile.
Lucetta
Frisa
L’Iliade - Un inno alla guerra
contro la guerra (2), 2010
Ivano Mugnaini
Laureato in Lettere Moderne all'Università di Pisa.
E’ autore di testi di prosa e poesia e di recensioni per alcune riviste nazionali e straniere: “Poiesis”, “Poeti e
Poesia”, “Il Grandevetro”, “Italian Poetry Review”, “Gradiva”, “La Mosca”, “Polimnia”, “L’Immaginazione”,
“La Clessidra” e numerose altre. Pubblica note di lettura anche su riviste diffuse tramite Internet.
Cura il blog letterario “DEDALUS: corsi, concorsi, testi e contesti di volo letterario”,
www.ivanomugnaini.splinder.com, in cui pubblica, con un commento introduttivo, liriche e prose di alcune
delle voci più significative del panorama letterario contemporaneo.
E’ socio e collaboratore del Gruppo Internazionale di Lettura di Pisa, fondato da Renata Giambene e
attualmente diretto da Maria Paola Ciccone.
Collabora, come autore di testi, con alcune associazioni culturali tra cui “Il Teatro di Campana”.
Ha presentato suoi testi, prose e liriche all’interno di manifestazioni e rassegne artistico-letterarie
nazionali tra cui “Versinguerra” e “Bunker Poetico”, brani letterari abbinati ad opere artistiche all’interno
della Biennale d’Arte di Venezia.
E’ autore di racconti premiati o segnalati in vari concorsi letterari.
Il suo racconto dal titolo Desaparecidos è stato pubblicato da Marsilio Editore.
Ha pubblicato la raccolta di racconti La casa gialla (1997) e i romanzi Limbo minore (2000) e Il miele dei
servi (2007).
Dirige la collana di narrativa di Puntoacapo editrice.
37
E’ autore di liriche e raccolte di poesie premiate o segnalate in concorsi letterari nazionali.
Ha pubblicato la silloge dal titolo Controtempo (1997) e la raccolta Inadeguato all’eterno (2008).
Tra i critici e gli autori che si sono occupati della sua attività letteraria o hanno scritto note o commenti sui
suoi lavori, ricordiamo: Vincenzo Consolo, Gina Lagorio, Elio Pecora, Ferdinando Camon, Paolo Maurensig,
Giorgio Saviane, Michele Dell'Aquila, Andrea Camilleri e Raffaele Nigro.
Da Limbo minore, Manni, Lecce, 2000
Ivano
Mugnaini
CAPITOLO 1
38
Le giornate calde regalano una pace strana, irreale, ai prati della collina. In piedi di fronte
alla siepe di questo giardino stordente di ombre e profumi, recido, con gesto pigro, i
ramoscelli secchi. Ogni tanto taglio via di netto anche qualche fronda verde e turgida.
Nessuno mi controlla.
Al di là della siepe il finito. Il finito in cui non è possibile naufragare. Stradine
polverose che girano attorno al paese di case grigie, anonime, dimesse. Ferita aperta a
stento in un corpo di roccia anemica. Bocca dischiusa in una minuscola, insulsa, eterna
domanda soffocata dall’aria inerte.
Alle mie spalle la villa. La villa del conte. A quest’ora dorme sereno nella sua stanza.
Attorno a lui dorme la famiglia, dormono gli ospiti, i servitori, i cani, i cavalli. Dormono
placidi, nulla cambierà. I pilastri di calce liscia e compatta del casale continueranno a
premere sulle membra ossute della vallata sottostante, che oscillerà e dondolerà,
insensibilmente, urlando secolari silenzi e allargando ulteriormente le crepe riarse
scavate dal tempo.
All’interno della villa, dall’alto dei soffitti ornati di candidi stucchi rigati soltanto da
strie giallognole, i putti alati osservano, gettando sguardi leggiadri al di là dei loro glutei
sodi, gli unici esseri viventi che vegliano, oltre a me, in quest’assurda controra. Due
comari panciute dai seni flaccidi che trascinano, strisciando su pantofole di stoffa, pentole
incrostate, catini d’acqua livida e secchielli azzurri che odorano di varechina.
Io sono il servo. Io non ho un nome.
Il sole cala, si addolcisce, si immerge nell’oro dei riflessi. La vita riaffiora. Le voci tornano a
rincorrersi, a cercarsi, a corteggiarsi, a sbranarsi.
*…+ …un mosaico
rutilante di
immagini, colori
suoni, persone, cioè
maschere,
riferimenti letterari.
Fin dall’inizio,
mimetizzata ma
evidente, la
citazione,
all’inverso, de
L’infinito di
Leopardi: “al di là
della siepe il finito”.
Quindi un mondo
circoscritto e
affollato, ossessivo.
Una serie di
configurazioni
dell’io, un io
acuminato dalla sua
collocazione
negativa,
marginalizzata. Un
punto di vista e di
ascolto esacerbati,
taglienti.
Rinaldo Caddeo,
corrispondenza
privata
Da Limbo minore, Manni, Lecce, 2000
Ivano
Mugnaini
39
“Luciana!”- urla il conte Emilio rivolto alla cameriera. E tutti sanno che quel nome
sbraitato a gola spalancata in realtà contiene un tranquillo, inequivocabile: “Che belle
tette che hai ragazzona! Tu sì hai sangue caldo e carne viva, non quella mummia di mia
moglie che era già defunta e imbalsamata quando l’ho sposata. Una di queste sere...”
“Francesco, guarda! Guarda qui! Guarda che bello! Guarda, Francesco!” - ronza il
nipotino del conte mostrando uno dei suoi giocattoli nuovi ad un ragazzino che abita giù,
in una delle case grigie e dimesse sottostanti. E ognuno sa che quel nome ripetuto con
cantilenante insistenza nasconde un chiaro e lampante: “ Io ti faccio venire qui a giocare
con me, ogni tanto, ma io un giorno sarò ricco e laureato ed avrò una villa come questa, e
tu farai l’operaio o il muratore e abiterai nella tua scatoletta di cemento...”
“Prendine ancora, cara! Ancora uno, Camillina! Su, non farti pregare cara!” miagola la moglie del conte rivolta alla propria cognata. Ed è più che evidente che quel
nome sussurrato con grazia ineffabile, al punto che il tè alla rosa deposto nelle tazzine di
porcellana non si increspa neppure di una lillipuziana ondettina, tra le pieghe più intime
cela le spine acuminate di un: “ Se potessi te lo farei trangugiare avvelenato il teino con il
biscottino, brutta befana ipocrita e parassita...”
“Come si comporta lo studente, Giulia?” - chiede Ennio, figlio della signora Camilla,
alla ragazza che tre volte a settimana viene a dare ripetizioni di inglese al piccolo
collezionista di giocattoli, futuro possidente. E non c’è un solo essere umano, stolti
compresi, che non colga nelle tremanti modulazioni l’eco di un: “Un giorno io ti sposerò.
Scapperò da questa gabbia e ti porterò via con me. Via. In qualunque altro posto...”
Io non ho un nome. Mi muovo quando sento: “L’erba del giardino è troppo alta. Va
tagliata, Mauro”, oppure: “La contessa vuole fare degli acquisti. Devi accompagnarla in
città, Mauro”, e il vento breve di quel nome racchiude un nitido, diafano: “L’erba del
giardino è alta” , “La contessa deve andare in città”, ed una pausa, prima del vuoto degli
occhi, prima dell’ombra gelida del sorriso.
Io sono un rebus privo di chiave. Una freddura cifrata in cui non sempre a numero
uguale corrisponde lettera uguale. O forse sono solo un ombrello di tela scura. Uno di
*…+
Mugnaini affronta
un romanzo forte e
delicato: in una
valle atemporale si
tende il saettante
rapporto tra figlio
illegittimo e padre padrone.
Duecentoquindici
pagine di dramma,
di teatro della ferita
che si sfogliano in
mirabile scrittura.
Alberto Cappi, in
“La voce di
Mantova”, 18
gennaio 2001
*…+ …emerge dalle
pagine il senso di
una sofferenza
autentica, vera, che
è antiretorica e non
trova consolazione
*…+ …questa
sofferenza, così
compatta e
coerente, trova
espressioni così
convincenti da
risultare quasi
purificante, agendo
cioé sull’interiorità
del lettore come
stimolo alla
riflessione (anche)
etica... *…+
Luigi Guicciardi,
corrispondenza
privata
Da Limbo minore, Manni, Lecce, 2000
Ivano
Mugnaini
40
Uno quelli che si finisce sempre per dimenticare, con intimo sollievo, dentro il vaso di
terracotta di un bar o di una casa qualsiasi, dando poi, ipocritamente, la colpa alla
memoria. Non me ne dispiace, però. C’è spazio e tempo anche per un ombrello in questo
mondo. Sì, c’è spazio e c’è tempo. Anche, ovviamente, nel senso meteorologico del
termine.
E’ difficile dire ciò che provo nelle giornate di pioggia. E’ più facile descrivere ciò che
faccio. Quando l’erba e le siepi sono troppo bagnate, e la signora, per paura di sgonfiare
la recente permanente, decide di rimanere a casa a leggere i saggi consigli dei rotocalchi
di moda, io lascio che la cappa opaca di umidità penetri in me iniettando nelle vene il
veleno di un’insensata allegria. Striscio, in punta di piedi, verso la mia stanza. Chiudo la
tapparella fino all’ultima stecca. Il gesto è preciso, solenne, carico della sacralità dei riti
pagani. Mi siedo sul letto, riempio i polmoni d’aria, e mi godo, immobile, l’abbraccio di
velluto del nero cloroformio che mi si avvinghia addosso. Con fluida, inebriata frenesia,
mi spoglio completamente. L’ultimo indumento che mi tolgo è un calzino, quasi sempre di
un colore lievemente sbagliato. Nel buio non si vede. Vola via leggero, verso altri lidi.
Le lenzuola fredde sulla pelle sono polpastrelli raggrinziti di anziane, generose
prostitute. Inchiodato nel centro del letto, con l’orlo della coperta che sfiora la fronte,
prendo coscienza della mia nudità. Sul rosso vivo del tetto, calano, metodici, rivoli di
liquido trasparente. Mi giro di lato con deliberata lentezza. Ho tutto il tempo che voglio.
Piego le ginocchia e le faccio scivolare palmo a palmo fino a raggiungere il petto. Le
terminazioni nervose si allentano e i muscoli si sciolgono. Ma sento ancora il battito del
cuore. Separo le gambe. Le vene non si toccano più, il contatto è interrotto. Vengo a patti
con le ossa e col respiro. Placidamente, disperatamente dilatate, le pupille vagano come
relitti in un oceano privo di coordinate. Un’ultima serie di flash indistinti. Prodotto
spontaneo di energie autonome, zavorra di infimo valore e brevissima durata. Il nulla.
Sono pronto. Sono buio e silenzio. Massa indistinta carica di magneti e dotata di
accumulatori.
Sotto miriadi di gocce, là fuori, crepita la ghiaia candida del viale. Evapora la polvere
stantia che soffoca l’erba e si tramuta in fluidi rapidi. Gli alberi si scuotono, si piegano, si
*…+
E’ un romanzo di
contrasti violenti,
domati e mai
repressi da una
scrittura
imperativa, decisa,
che non lascia
spazio a incertezze
riguardo gli esiti
narrativi e che
riesce a realizzare,
da una trama
semplice e senza
particolari intrecci
d’azione, una storia
con un forte
movimento interno.
La direzione di
questo movimento
non è mai
unidiretta, è
lineare, circolare, a
spirale e produce
un apparente
congelamento della
dimensione
temporale, che è
invece la vera
protagonista del
testo, attraverso
l’incarnazione
umana nei
personaggi.
*…+
Da Limbo minore, Manni, Lecce, 2000
Ivano
Mugnaini
41
Gli alberi si scuotono, si piegano, si contorcono. Nel portico, al riparo dalla pioggia,
respiro di narici dilatate. La scarica magnetica dell’incontro di sguardi e di mani. L’eterno,
beffardo elettroshock che scuote i polsi grinzosi del tempo, della morte e…
Meglio cercare altri suoni, altri profumi. La cucina è proprio sotto di me. Dalle
fessure della porta penetra, inarrestabile, odore di minestrone. Sale dalle scale ed entra
senza chiedere permesso. La cucina è la meta prediletta delle mie scorribande. E’ il luogo
più misterioso che esista, più segreto di uno studio, più intimo di un’alcova. E’ il regno
delle donne, la vera fucina della vita. E’ lì che impastano la farina del destino, ridendo,
piangendo, aggiustandosi ogni tanto i seni nei vestiti troppo stretti, e asciugandosi la
fronte con una mano bianca e leggera. E’ l’unico tempio in cui non ammettono intrusioni.
Sghignazzano, sotto sotto, se un piede virile varca di sorpresa la soglia delle loro camere,
ma diventano iene se un bipede di sesso maschile osa intrufolarsi nello spazio riservato
alle cerimonie logo-gastronomiche.
La cucina della villa è riservata alle serve, alle sguattere e alle cameriere. Vecchie e
giovani, grasse e magre, silenziose e loquaci, sono loro che custodiscono i segreti di
questo gigante di pietra antica sdraiato sui prati della collina. Lo nutrono, lo imboccano,
gli fanno da balia e da puttana, e lo fanno parlare. Solo loro sanno ciò che succede nelle
stanze dell’enorme casermone, solo loro sanno ciò che è accaduto, ciò che si dice e ciò
che non si dice, ciò che è falso e ciò che è vero. Anzi, una cosa diventa vera solo quando è
stata detta. Quando diventa parola e rotola voluttuosa sulle lingue irrorate di vermouth e
tra i denti che esalano effluvi di aglio e cipolla. E la parola diventa vera solo dove può
toccarsi il sedere, allargare la scollatura, sudare, gesticolare e imprecare senza temere
rimbrotti e ramanzine: in cucina.
La cucina è sotto di me. Le narici diventano voragini, le orecchie si tendono, si inarcano, si
fanno incandescenti. Il sangue si scioglie in disgustate ebbrezze.
Nell’immenso pentolone si insinua un mestolo di legno. Rimbalza rumorosamente
sui bordi, si apre un varco nel fluido denso, raggiunge il centro, vi si sofferma un istante e
risale in superficie. Si immerge di nuovo. Torna ad allargarsi in cerchi concentrici,
poderosi, instancabili. Due braccia robuste menano la danza. Sopra di esse, proteso in
*…+ si avverte una
lunga dimestichezza
dell’autore con la
poesia, non tanto
per la ricchezza di
immagini e
metafore talvolta
così belle da
sfiorare l’estetismo,
ma per il passo
ritmato della
narrazione, cadenze
precise, martellanti
che costituiscono il
corpo sonoro del
romanzo e ne sono
una delle migliori
caratteristiche. *…+
Mariella De Santis,
in “Punto di vista”,
n° 24, aprile giugno 2000
*…+ è un libro
tenuto insieme da
voci, odori, parole
che danno a loro
volta vita ai
personaggi dipinti a
tutto tondo, mai in
modo banale, a
furia di minuti e
curati particolari
che, come in un
puzzle,
costruiscono, alla
fine, immagini
precise. *…+
Lisa Mugnai, in
“Vibrisse”, 14
agosto 2002
Da Limbo minore, Manni, Lecce, 2000
Ivano
Mugnaini
42
Sopra di esse, proteso in avanti e investito dal vapore bollente, il busto di una donna.
Serro con maggior forza le pupille. Immagino un vestito scuro, ruvido, abbottonato fino al
collo, intriso di odore aspro di faina. Sorrido. Il buio mi risponde esplodendo in scintille
fosforescenti.
Non ci sono dubbi, è proprio lei, è Flavia. Il suo corpo trasuda odori penetranti,
aggressivi, prepotenti, più forti di qualsiasi aroma, balsamo o profumo. Più forti di
qualsiasi cosa. Più forti di lei, soprattutto. Non c’è bagno di acqua gelida e spugna
scagliosa come porcospino che riesca a spegnerlo. Non c’è brivido di ginocchia nude
piegate sul marmo, né lacrime azzurre e limpide di santo che possano estinguerlo. Anzi. A
volte sono proprio gli occhi scuri e profondi della statua lignea del patrono a tingerle di
rosso le guance e a farle pizzicare la carne delle braccia come se la sfiorassero lame
affilate. Allora è costretta ad abbassare la testa prendendo atto della sconfitta e di ciò che
essa comporta: la resa, ineluttabile, alla tirannia di quel fremito. Resa dignitosa e non
priva di rigurgiti di testarda resistenza, tuttavia.
Ogni suo pensiero peccaminoso è accompagnato da un fulmineo e rabbioso segno
di croce, anche in pubblico, anche in presenza di occhi indiscreti. Ed ogni centimetro del
corpo è meticolosamente coperto dalla stoffa grezza degli abiti che cuce con le sue mani.
Solamente in cucina si scopre le braccia, impugna mestoli e scolapasta, e ride forte,
guardando in faccia le compagne, quando il magma in fiamme del sangue le inonda il
viso.
Davanti alle pentole in ebollizione, di fronte alle pile di piatti sporchi, è lei la
sacerdotessa. Ha ereditato questo ruolo dalle vecchie e lo custodisce gelosamente. E’ lei
la vestale delle storie d’amore, dei racconti sussurrati di sospiri e carezze, di promesse e
di inganni. E’ lei che dirige il coro di osanna rivolti all’eterno mistero beatifico e doloroso,
puro come agnello e torbido come serpente. Detta lei i ritmi, modula i toni, e snocciola le
perline del rosario dell’amore. O, più esattamente, delle voci sull’amore: del si dice, del si
bisbiglia, del si sussurra... Alle sue labbra sono appesi ex-voto limati e lustrati di storie,
ognuno dei quali rappresenta le vicende, gli accadimenti, gli incontri e gli addii. La
bigiotteria da poco, pacchiana e appariscente, di ottone e perline, sulla quale si riflette la
*…+ Limbo minore è
anche la storia del
non detto, della
realtà taciuta, di un
amore padre-figlio
che non viene
svelato e che vola
via con la morte.
Eppure questa calda
atmosfera toscana,
questi ritmi fuori
dal tempo lasciano
spazio allo scrittore
di intervenire e
sottolineare la
contemporaneità
con la vita di oggi,
attraverso
riferimenti espliciti
a cose e uomini
attuali. *…+
Gianluca
Bocchinfuso, in “Il
filorosso”, n° 34,
giugno 2004
Da Limbo minore, Manni, Lecce, 2000
Ivano
Mugnaini
43
La bigiotteria da poco, pacchiana e appariscente, di ottone e perline, sulla quale si riflette
la felicità e l’infelicità degli uomini.
E quando Flavia parla d’amore provoca una comica, divertita eccitazione, persino
nelle compagne più pudiche. Da quassù lo sento bene il tintinnio lieve delle dita di Teresa
sulle stoviglie di ceramica. Il suono è chiaro, distinto. La sento poggiare i piatti gli uni sugli
altri con angelica delicatezza, dopo aver asciugato con cura anche l’ultima, microscopica
gocciolina. Non c’è segno di rossore sul suo viso, neppure una stria rosata nell’angolo più
nascosto delle guance. Ne sono certo. La sua pelle contiene una peculiare membrana
emorepellente di colore grigio-sabbia. Il sangue è costretto a ripiegare, a fuggire lontano,
rifugiandosi all’interno di munitissimi confini. La guerriglia però, si sa, cresce sulle ceneri
ancora tiepide della disfatta. Si nutre di rocce, di boschi, di anfratti, di grovigli di rami
contorti e radici. Si coagula improvvisa in qualche punto indefinito e colpisce inesorabile.
La sua forza è la pazienza. Sa aspettare, sa attendere il luogo e l’attimo propizio.
In questo momento le stille di sangue di Teresa sono drappelli di Viet Cong che
avanzano a raggiera, a passo di danza, fendendo l’intrico di foglie che fa da schermo al
sole. Proprio lei, ora, con punturine rapide e acuminate di frasi poco più che bisbigliate,
sta pungolando Flavia. Sì, la monachella, proprio lei, vuole di più, vuole una storia più
vivace, più stimolante.
I suoni calano d’un tratto d’intensità assieme al tono delle voci. Rumore di tacchi
nel corridoio. Passi metodici, ritmati. Scarpe da uomo. Persino la goccia del lavandino
concede una tregua. Con cigolio breve si apre la porta della cucina. Brusio prolungato di
sollievo. Riprende lo sciabordio, torna il chiacchiericcio usato. E’ solo Enrico, non ci sono
dubbi. Enrico, il maggiordomo. Schiena diritta, rettilinea, a prova di filo a piombo. Passo
piano, ammortizzato, posato al suolo con la grazia ineffabile con cui appoggia il
cucchiaino sul vassoio dopo aver mescolato il caffè del conte. Non un solo capello della
sua impeccabile chioma si muove di un millimetro mentre cammina, né un solo pelo della
sua soffice barba rossiccia. Al di sotto di essa il boccolo chiaro e vaporoso della voce. Si
insinua acuta nella schiuma che ricopre i piatti, nelle calze di lana raggomitolate sui
collant, tra le costole che si allungano e si contraggono come mantici sopra mucchi di
*…+ …un libro
incentrato sulla
memoria, per un
verso difettosa e
per l’altro
ridondante, che
cerca di evitare la
deriva, nella
speranza di
riprodurre un
tempo dell’oggi.
*…+ Senza tregua il
fondo della
memoria si affida
alla solitudine
esistenziale: uno
scandaglio
psicologico che
rende le pagine
oltremodo
succulente, tra
l’insignificante
scivolo lasciato
dalle impronte di
una “cattiveria” e lo
scavo disincantato
di chi ri/conosce
una paternità
negata, per
accettare una realtà
priva di macigni.
*…+
Antonio Spagnuolo,
in “Cartaepenna”,
settembre 2003
Da Limbo minore, Manni, Lecce, 2000
Ivano
Mugnaini
44
Si insinua acuta nella schiuma che ricopre i piatti, nelle calze di lana raggomitolate sui
collant, tra le costole che si allungano e si contraggono come mantici sopra mucchi di
cenci da risciacquare. Il solito attimo di leggero, micidiale imbarazzo. La voce emessa
dalle labbra ricoperte dal fitto tappeto di curatissimi peli è di gran lunga la più femminile
tra tutte quelle che rimbalzano, in questo istante, sui granitici muri della cucina.
“The time is out of joint”. C’è qualcosa di scassato in questo trabiccolo che ruota nel
nulla e verso il nulla, viene fatto di pensare ogni volta che le onde sonore di quella voce,
della voce di quell’uomo, cominciano ad assestare colpetti insistenti sui padiglioni
auricolari. Ed invece, imprevedibilmente, proprio loro, le donne, di solito così
glacialmente spietate in materia di virilità, in questo caso chiudono un occhio, anzi tutti e
due. Loro, che ammettono e perdonano tutto o quasi, ma che non transigono, forse in
risposta ad un impulso genetico, quando si tratta della differenziazione che garantisce la
conservazione della specie e di tutte le attività ad essa accessorie e collaterali, nel caso
specifico del buon Enrico si rivelano capaci di magnanimità. Forse perché Enrico è un
essere lineare, limpido e geometrico come la sua schiena. Non ha zone d’ombra, amletici
contorcimenti o nodi da sciogliere. E’ una di loro. Una di loro a cui è capitato di nascere
con una zavorra di peli e appendici di carne disposte male e nei punti sbagliati. Una delle
figure di quei quadri strani, con un corpo minuscolo, due gambine filiformi e una testa
gigantesca con tre enormi pupille purpuree spalancate che la tagliano orizzontalmente
come ferite.
[…]
Enrico chiede qualcosa. Uno straccio soffice per spolverare un tavolo di mogano.
Finge altezzoso disprezzo, simula distratta concitazione. Vorrebbe dare ad intendere che è
dovuto scendere laggiù per forza, che non ha potuto farne a meno e che ha ben altro di
cui occuparsi. In realtà si è inventato una scusa. Si è aggrappato ad un banale pretesto
pur di entrare lì, nel vapore denso della cucina-bunker, lo scrigno in cui è racchiuso il
gioiello arcano della femminilità, un po’ perla d’avorio un po’ dado da brodo alle erbe
aromatiche. Si guarda intorno ancora un po’ con sguardo avido. Respira profondamente
la pasta appena spianata, il pomodoro fresco, il sedano triturato fitto fitto. Ma non ha più
scuse, non ha più appigli. […]
*…+ …piace, di
Limbo minore,
questo procedere
per visioni (mi viene
di chiamarle
“visioni della
mente”); questo
muoversi come di
singole
“allucinazioni” che
appaiono
aggrappate, quasi
uncinate, alla trama
della storia
raccontata. Né la
trama, né la
sequenza delle
visioni, però,
sembrano avere un
ruolo dominante.
Esse si completano
a vicenda dando al
libro le sembianze
di un vecchio
maniero da
perlustrare con cura
e attenzione… *…+
Danilo Mandolini,
corrispondenza
privata
Desaparecidos, in Parole di carta, Marsilio, Venezia, 2006
Ivano
Mugnaini
45
Desaparecidos. Scomparsi. E’ così che li chiamano. Anzi, è così che li chiamiamo
anche noi. La violenza del potere inizia dalle parole. Le addenta, le riduce in brandelli, le
avvelena, e ce le dà in pasto. E noi lecchiamo la ciotola, quieti e diligenti. Buttiamo giù
tutto, boccone dopo boccone, e non ci accorgiamo che il loro trucco, la trappola
arrugginita di sempre, si cela proprio nella parte più morbida e tiepida del pastone: la
speranza. Sì, l’astuzia più raffinata e collaudata del potere consiste proprio nella capacità
di far sì che ogni giorno siano le nostre narici ad annusare frenetiche l’aria alla ricerca
della carne flaccida e narcotizzante dell’illusione. Al di là di un certo limite, un passo oltre
il confine estremo dell’assurdità umana, l’ossigeno vitale della speranza si disperde e si
confonde con i vapori annichilenti dell’abisso della colpa.
Carlos non è scomparso. E’ morto. Sì, mio fratello è stato torturato e assassinato. E’
tutto molto semplice. Lo bisbiglia l’aria ogni mattina quando apro le finestre, lo sussurra
la polvere delle strade, lo urla il buio della notte. Carlos è stato ucciso due anni fa.
Eliminato. Un pensiero pericoloso annegato nel sangue. Annegato ma non dissolto. Il suo
ricordo si siede ogni giorno davanti a me, e mi scruta, per ore. Io non so guardarlo in
faccia, non sono capace di fissarlo negli occhi. Preferisco uccidere il tempo osservando le
mie mani, bianche, pulite, senza neppure un minuscolo callo... rimirando le facce
eternamente sorridenti dentro lo scatolone grigio eternamente acceso... oppure
pensando che lui sia ancora vivo, e che non sia accaduto niente.
Anche il mondo, là fuori, la pensa così. Le massaie vestite di nero continuano a
riempirsi le braccia di buste di nylon colme di pane, latte, sale e detersivi, e i bambini
sghignazzano come sempre prendendo a calci un pallone che tra pochi anni sarà nero di
barba appena spuntata e bianco della prima sigaretta, noia rotonda piena di rabbia
compressa e cuoio duro e screpolato di disoccupazione.
*…+ Ivano Mugnaini
sa coltivare come
pochi la difficile
arte del racconto
breve: l’unica che, a
mio modo di
vedere, dia con
immediatezza la
misura esatta delle
capacità espressive
e dello stile di un
narratore. *…+
Francesco Marotta,
in “La poesia e lo
spirito”, 12
settembre 2008
*…+ I racconti di
Ivano Mugnaini
hanno un comune
denominatore nella
notevole versatilità
e capacità di variare
argomenti,
ambientazioni,
personaggi, toni e
registri stilistici.
Mugnaini mostra di
avere una spiccata
propensione per
l’umorismo, nel
quale però fa
capolino il
pirandelliano
sentimento del
contrario che
spesso tinge la
narrazione di
assurdo o grottesco
*…+
Desaparecidos, in Parole di carta, Marsilio, Venezia, 2006
Ivano
Mugnaini
46
E io? Io guardo la vita dalla finestra, mi perdo nelle rughe e nelle smorfie dei visi, e
seguo il ritmo cadenzato dei passi accompagnandolo con le note languide del tango che
mi risuona senza tregua nella testa. E’ la colonna sonora preferita della mia malinconia.
Un disco rigato che non so e non voglio spegnere.
La mia musica non si stacca da me neppure quando scendo per strada e percorro
vie di clacson e grida, per poi dissolvere l’eco dei miei passi nel ritmo del nulla, dentro
vicoli lividi di silenzio.
Un sorriso distende impercettibilmente gli angoli delle labbra. Non potete leggere i
miei pensieri, rifletto. Lo ripeto incessantemente a me stesso sia quando fendo la calca
distratta, sia quando incrocio un viandante solitario che mi sfreccia accanto un istante e
sparisce, inglobato da altre strade.
Non potete leggere i miei pensieri. Già. Sai che disgrazia. Mi sento avvilito, offeso.
Non sanno che si perdono. Rinunciano a cuor leggero al balbettio di parole sconnesse che
martellano nella testa come macchine per cucire impazzite, quando passo davanti ad un
drappello di soldati che sta coscienziosamente fracassando le braccia e le costole
all’uomo inerme segnalato dal delatore di turno, nascosto come un topo dietro le
persiane. Rinunciano alla trama fitta fitta di fatalistiche preghierine con cui ricopro
accuratamente il suolo rugoso di imprecazioni e bestemmie, quando attraverso un posto
di blocco e vedo fronti “sospette” incollate alla calce di un muro, e file di corpi, colpevoli
di indossare camicie del colore sbagliato, che vengono ripetutamente spintonati e
rivoltati come calzini.
Rinunciano alle nenie da bambini che canticchio, biascicandole tra le labbra assieme
ad un ebete sorriso dolciastro, ogni volta che l’aria si spalanca come una ferita e le
orecchie esplodono, colpite dal sibilo secco di fucilate inequivocabili che rimbalzano sui
muri di anonimi palazzotti.
Davanti a me, al di là delle finestre dell’appartamento di fronte, solo una vecchietta
rinsecchita che gira all’interno del lindo salottino come un criceto in gabbia. Assesta in
continuazione con uno straccio bianco colpetti sdegnati ad ogni granello di polvere che
osa posarsi sul tavolinetto o sulle credenzine ricoperte da centrini ricamati. La testa
*…+ Altri racconti,
invece, tendono
decisamente al
dramma, ma
l’elemento tragico
vi appare frenato, o
meglio presentato
come una
componente spesso
ineluttabile
dell’esistenza, con
l’assenza quindi di
tinte forti, anzi con
una straordinaria
naturalezza per la
quale il tragico
emerge da sé dai
fatti stessi,…
*…+ In altri racconti
assistiamo a
un’equilibrata
mescolanza di
tragico e di comico,
che appaiono
inscindibili come le
due facce di una
stessa medaglia...
*…+
Desaparecidos, in Parole di carta, Marsilio, Venezia, 2006
Ivano
Mugnaini
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La testa canuta risponde agli scoppi ritmati delle pallottole piegandosi in avanti, di scatto,
come una bambola di pezza colpita alla nuca da una ragazzina viziata. Appena il silenzio
riemerge dalla sua tana sotterranea riallargando le esili braccia sulle strade e sulle case,
l’anziana donna si placa e riprende la sua immutabile danza tra i mobili. Negli occhi
acquosi infossati tra le rughe non un’ombra di impazienza, di irritazione, di fastidio.
Niente di niente. Solo un sogghigno rannicchiato nei bordi biancastri della bocca.
L’impronta atavica di rassegnazione, il marchio secolare che il destino imprime sulle spalle
ricurve dei capi di bestiame domati e raccolti.
A volte mi capita di pensare che l’appartamento di fronte al mio in realtà non esista.
Le lucidatissime finestre in realtà sono specchi. E la vecchina dai capelli bianchi è una mia
immagine riflessa: una strana foto di cui è venuto fuori solo una specie di negativo, una
minuscola macchia di luce, una figurina opalescente che si muove senza sosta sullo
sfondo nero. Sì, sono io. Il sogghigno è il mio, e il marchio me lo sento sulle spalle, ogni
santo giorno, come un timbro rotondo da rinnovare in continuazione, senza
minimamente modificarlo.
Mercoledì mattina. E’ giorno di libera uscita. Bisogna provvedere
all’approvvigionamento settimanale di viveri. Esco di casa, attraverso il portico, aggiro
l’eterna pozzanghera centrale dal lato nord-ovest, metto il piede sulla pietra smossa del
selciato stando bene attento a trasferire tutto il peso del corpo sull’altra gamba, e saluto
Jorge. L’enorme soriano, randagio con fissa dimora residente da tempo immemorabile
nell’angolo meno illuminato del cortile, alza la testa per un istante al mio passaggio, apre
un quarto della pupilla, e ricambia il mio sguardo d’intesa.
Il marciapiede che porta ai grandi magazzini ha un debole per me. Depongo su di lui
le suole delle scarpe con tale garbata lievità che quasi non se ne accorge; anzi, spesso è
lui a invitarmi ad osare di più, e a chiedermi scusa per la sua ruvidezza. Anche la folla che
scorre ai miei fianchi non si accorge della mia presenza. Mi insinuo tra gambe e braccia
mulinanti come l’alito di noia di una brezza istantanea si incunea tra le fauci spalancate di
una sconfinata afa estiva.
La fila di fronte alle casse si muove, come sempre, con la goffaggine e la lentezza di
*…+ Il campionario
di umanità che
popola i racconti è
assai vasto e
Mugnaini sa
presentarlo in
modo sereno e nel
complesso
distaccato,
mostrando
un’accettazione
sofferta della realtà
senza la pretesa di
una denuncia netta
o di offrire ricette
per improbabili
cambiamenti. Del
resto anche i
presunti vincitori
della vita non
sempre si rivelano
tali, la sorpresa o il
capovolgimento
della situazione è
sempre in
agguato… *…+
Desaparecidos, in Parole di carta, Marsilio, Venezia, 2006
Ivano
Mugnaini
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La fila di fronte alle casse si muove, come sempre, con la goffaggine e la lentezza di un
pachiderma paralitico. Sopporto sorridendo. Chino le spalle per far risaltare di meno la
differenza di altezza tra me e la donnetta che ho davanti, schiacciata ulteriormente al
suolo da grappoli di borse e sporte di vimini. Faccio mezzo passo indietro. Una gonna
svolazzante ne approfitta e si inserisce tra me e l’esile massaia che mi precede. La giovane
proprietaria della gonna mi dribbla con estrema disinvoltura. Le pieghine della maglietta
fucsia sono dritte, statiche, perfettamente lineari, così come assolutamente immobili e
quiete sono le estremità delle pieghina rosa che ricopre i bianchissimi denti. Sorrido,
almeno io. Sorrido di nuovo. Lo sguardo è quello di un San Sebastiano che accoglie
sereno un’ennesima freccina sul petto già irto di dardi sanguinolenti. Solo le lentiggini del
viso si riscaldano, si animano, e mi ronzano sulla pelle come sciami di rosse zanzare.
Incuriosito dai vivacissimi insetti, il doloretto assopito in qualche grotta buia dello
stomaco si risveglia, spalanca entrambi gli occhi, e viene fuori all’aperto. E’ un inquilino
abusivo, ma non ho voglia di denunciare la sua presenza a qualche medico privo di
fantasia. Mi ci sono quasi affezionato ormai.
Taglio il traguardo e pago, beato. Ripercorro il mio amico marciapiede, raggiungo il
portico, e cerco con lo sguardo Jorge. Strano, a quest’ora di solito si dedica alla toletta
quotidiana. Lisciatura del pelo. E invece oggi dorme. Mi avvicino a lui e lo sollevo
leggermente. Oscilla tra le dita lieve e dinoccolato come un pupazzo con la molla rotta.
Il signore dell’ombra, custode della grande pozzanghera e padrone del versante del
mio cuore esposto ai raggi della luna, se n’è andato.
Senza strepito e senza agitazione, in silenzio, senza disturbare i passanti. Si è
sdraiato comodo sul suo fianco preferito, ha respirato per l’ultima volta gli odori del
vicolo, ha sbadigliato a lungo in faccia alla morte, e si è addormentato, guardandola fissa,
ad occhi aperti, senza sfida e senza rabbia, senza panico e senza orrore. Senza sconfitta.
In questo momento, mentre tengo sollevata la sua testa ciondolante con l’indice e il
medio, sta guardando anche me. Mi sussurra qualcosa ora, lui che non ha mai voluto
dirmi niente, se non di cercare di essere il più leggero possibile quando calpesto l’erba,
l’asfalto e il cemento.
*…+ Mugnaini si è
saputo creare una
marca stilistica
personale
fortemente
espressiva, lontana
dal linguaggio
quotidiano, da cui si
vuole spesso
distaccare, senza
però indulgere in
tentazioni troppo
scopertamente
letterarie…*…+ per
questo si può
parlare della ricerca
di un linguaggio
medio, comico nel
senso medievale
del termine,
sorvegliato e nello
stesso tempo
mosso, brioso,
soggetto a pause e
accelerazioni ben
alternate. *…+
Desaparecidos, in Parole di carta, Marsilio, Venezia, 2006
Ivano
Mugnaini
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Guardo la mia faccia riflessa nelle sue pupille chiare e spalancate. Guardo la mia
faccia e la vedo, come non facevo da troppo tempo.
Ho gli stessi lineamenti di Carlos. La stessa espressione, la stessa bocca, gli stessi
occhi di mio fratello. Quando eravamo ragazzi c’era sempre qualcuno che ci chiedeva se
eravamo gemelli. E noi giù a ridere. A volte ci scambiavamo perfino le ragazzine...
Chissà se riesco a fregare anche la vecchia megera che sta con Carlos adesso.
Domattina mi metto la camicia del colore giusto e la vado a cercare.
*…+
Lo stile personale di
Mugnaini è inoltre
caratterizzato
dall’uso di immagini
e metafore inusuali,
non di rado forti,
che riescono a
rendere con
efficacia e
precisione un fatto,
una situazione, uno
stato d’animo, e
non appesantiscono
la narrazione come
inutile orpello, ma
le conferiscono,
appunto, vivacità e
dinamismo… *…+
Gianni Caccia, in “La
Clessidra, n° 1,
aprile, 2001
Inediti. Nomi concreti e nomi astratti
Ivano
Mugnaini
50
La professoressa Annarita Canipaletti, solerte, infervorata, sicura di sé e della logica
stringente della propria materia, insegnò a Sergio Venanzi e all'intera 2a D della Scuola
Media "Vincenzo Gioberti" a suddividere le parole in due categorie: nomi concreti e nomi
astratti. "Se ci si riferisce a qualcosa che risulta percepibile tramite i cinque sensi, e il
vocabolo che lo esprime è dotato di plurale, abbiamo un nome concreto; in caso
contrario avremo un nome astratto". Sergio ebbe problemi: quella distinzione per lui era
ambigua e sfuggente. La nebbia è percepibile? E il cielo? E la gente ha un plurale? Si
intestardì, comprese che in quella difficoltà c'era sostanza, forse addirittura la chiave per
la lettura e l'analisi della grammatica del mondo.
Finì per fissarsi, divenne maniaco di quell'attività tassonomica. I suoi compagni
giocavano con le playstation e lui passava il tempo a guardare la vita che gli passava di
fronte provando a dividere tutto in nomi astratti e nomi concreti.
"Paura" è un nome astratto - diceva a se stesso - "violenza" è un nome astratto, ma
il sangue sulla faccia del mio amico Livio, preso a pugni da un branco di infami per
rubargli il cellulare, è concreto. E' vero, "i sangui" non esistono, c'è solo il singolare del
termine sangue, ciascuno ha un suo sangue individuale.
"Barbone" è astratto; nessuno pare percepirlo, forse per evitarne l'odore e il
pensiero. Barbone è schifo, e schifo è nome astratto. Quindi non c'è orrore se una
mattina trovo sul marciapiede davanti al mio palazzo un barbone pestato e bruciato dai
teppisti per passare il tempo. L'orrore è astratto, non ha plurale; quindi non esiste, si può
accettare, forse.
"Solitudine" è un nome astratto, si diceva ancora Sergio, rinfrancato dalla certezza
di aver colto nel segno. Non c'è il plurale di solitudine, sarebbe comico oltre che
contraddittorio. Un attimo dopo cambiò espressione: non era del tutto convinto che la
Inediti. Nomi concreti e nomi astratti
51
Un attimo dopo cambiò espressione: non era del tutto convinto che la solitudine non
fosse percepibile con i cinque sensi. Di certo qualcosa di concreto gli accadeva dentro
ogni giorno, anche nelle aule e nei corridoi affollati, come se la mente e lo stomaco gli si
strappassero e un senso di ribrezzo gli riempisse la gola come miele marcio.
Giulia era concreta. Sergio avrebbe voluto sfiorarla con le dita e sentire il profumo
dei suoi capelli. Il profumo era un nome astratto, ma per quel nulla Sergio avrebbe dato
tutto ciò che aveva, compreso il diario su cui aveva stilato, accanto alle cose fatte e non
fatte, alle lezioni studiate e non studiate, la lista concreta dei suoi sogni.
Giulia era bella, attraente, già formata e procace. Fu preda di uno dei bulletti della
5a F. La prese con sé e le fece provare il gusto di sentirsi grande, il sesso e il fumo. Un
nome astratto che la rese persa, verde come l'erba ma senza sole.
"Rabbia" è un nome astratto. Non sai da dove nasce né dove siano i suoi confini.
Una mattina Sergio si rese conto che tutto il suo mondo, la compilazione infinitamente
paziente del bianco e del nero, del vero e del falso, del piacere stillato goccia a goccia da
mattinate lunghe come una lezione di matematica con il rischio costante di essere
chiamato alla lavagna, non tornava. Non c'era più modo di trovare un punto di appoggio,
una sensazione solida e carezzevole che gli desse la forza di alzarsi dal letto. Di alzarsi
come un essere vivente concreto, dotato di una pluralità di sensazioni e desideri e
speranze e prospettive, non come un automa destinato a ripetere azioni e gesti di plastica
e metallo.
"Scuola" è un nome astratto o concreto? Certo, ci sono le pareti e i banchi e le
lavagne e i vetri e i cessi e le finestre e le ringhiere, ma, a ben pensare, è più un concetto
che un'entità, provò a riflettere Sergio. La scuola è ciò che ci insegnano, è il modo in cui lo
fanno, è un'idea, un insieme di regole e concetti, una tradizione che prosegue da secoli,
identica a se stessa anche se i tempi cambiano e cambiano i vestiti, gli zaini, i mezzi di
trasporto, i capelli e le idee sopra e dentro la testa. Esistono le scuole, edifici diversi,
palazzi moderni o che cadono a pezzi, ma in fondo l'attività è identica ovunque, eterna,
invariabile.
C'era un solo modo per sciogliere il nodo dei nodi dando un'etichetta definitiva alla
Ivano
Mugnaini
Inediti. Nomi concreti e nomi astratti
C'era un solo modo per sciogliere il nodo dei nodi dando un'etichetta definitiva alla
fonte di ogni dubbio, al luogo esatto in cui era nata la passione per la suddivisione del
mondo in categorie contrapposte. Se si brucia un nome astratto non succede niente: la
noia, la tensione, l'oppressione, se ne infischiano delle fiamme; restano intatte,
inalterate. Se la scuola è un concreto astratto, resisterà, si disse Sergio mentre acquistava
al distributore due taniche di benzina. In caso contrario, diventerà cenere. Ma, nel
profondo, sarà felice, lei, la scuola, e con lei la professoressa Annarita Canipaletti, il suo
simbolo: resterà cenere, ma sarà trionfante. Io avrò risolto l'equazione e imparato la
lezione, finalmente. Avrò sciolto l'enigma, e svolto il compito per cui io, allievo, nome
concreto, forse, sono chiamato ad esistere.
Sergio avrebbe davvero voluto effettuare l'esperimento sulla decrepita Scuola
Gioberti. Ma il riso e la pigrizia, nomi sicuramente astratti, e di certo possenti, lo
fermarono. Usò la benzina per farne dono al suo amico Carlo, diciottenne, in possesso di
una patente di guida quasi concreta. Insieme fecero un giro follemente astratto sulle
colline finché ci fu carburante. Da lassù tutto, perfino la scuola, aveva una dimensione
diversa, come l'aria, quella luce che entrava dal parabrezza fin dentro le braccia e il cuore,
come quella sensazione di non aver compreso nessuna distinzione, in fondo, nessuna
categoria. Ma tanto era sabato, e con una spinta concreta e con l'aiuto di qualche
generosa discesa, potevano raggiungere l'unico distributore aperto in quelle viuzze di
campagna, e, mettendo insieme anche le monete da dieci centesimi, potevano riempire il
serbatoio quel tanto che bastava per arrivare, forse, al più astratto e al più concreto dei
nomi: il mare.
52
Ivano
Mugnaini
Lo scienziato e la formica Giullarata di fine millennio (2), 2010
Adelelmo Ruggieri
Adelelmo Ruggieri (1954) vive e lavora a Fermo.
Per peQuod ha pubblicato le raccolte di versi La città lontana (2003), Vieni presto domani (2006) e
Semprevivi (2009).
Con Massimo Gezzi ha scritto il racconto-saggio Porta Marina. Viaggio a due nelle Marche dei poeti
(peQuod, 2008).
Di lui ha scritto Biancamaria Frabotta in Almanacco dello Specchio (Mondadori, 2007): «La poesia di
Ruggieri, volutamente defilato dalle principali tendenze riconosciute, proviene da quelle speciali nature
doppie che Levi chiamava “centauri”, divise fra scienza e letteratura, con sicuro vantaggio non so se della
prima, ma certamente della seconda attività. Ruggieri è un ingegnere, di colte letture filosofiche, di
contemplazioni campestri o marine, di meditazioni niente affatto trascurabili.».
53
Da La città lontana, peQuod, Ancona, 2003
Adelelmo
Ruggieri
Origine di una strada:
Venerdì di Pasqua
il gradino
Per lunghi anni mia madre
ebbe la vista acutissima e la mano ferma
Seduta sul tavolo con una punta di carta
toglieva le schegge dagli occhi dei fabbri
Io bambino le giravo intorno
Allora lei diceva: siediti sul gradino
Sono appena tornati i ragazzi dal ballo
Stanno in cerchio come sempre
e non è per niente, quello loro
un parlare, come dire, gentile
La gentilezza arriva alla fine
all’alba, in quel saluto pasquale
molto speciale, per tutta la famiglia
per tua madre, mi raccomando
e io sedevo sul gradino
e restavo a guardare
PS, Lapedona, gennaio 2003
54
Cantilena
La mia casa da piccolo
aveva tre stanze
una grande terrazza
che dava sui monti
due ripide scale
Dal passato noi veniamo
Nel passato cascheremo
Sono tornato a Santa Maria di Manu
Piove, guardo le pietre
Guardo la calce che lega i mattoni
E’ così piccola questa chiesa
su questa spianata della collina
che appena dopo scende
La misuro: cinque passi per nove
e un viale alberato di trentuno
come Piranesi all’Aventino
inquadra la porta
*…+ La voce di cui
parlo è quella del
libro di versi che
avete in mano e che
presto incontrerete,
scritto da un amico,
Adelelmo Ruggieri,
col quale ho
condiviso un pezzo
di strada, che ha un
tono già sicuro, ed
una voce nuda,
priva di
travestimenti
intellettualistici.
Non è timida come
lui, ma piena di
pudore, e avanza
per sottrazioni.
Sommessa, mai
gridata, non vuole
essere nient’altro
che se stessa.
Ricorda e narra il
tempo di un
romanzo privato,
famigliare e
provinciale,
ripercorre le
stagioni e i passaggi
nel “minuto
animale”, quello
dell’assoluto
quotidiano, quando
la vita accade,…
Da La città lontana, peQuod, Ancona, 2003
Adelelmo
Ruggieri
29 maggio
15 ottobre
io non so descrivere questo risalire
del passato nel tempo di ora
Pomeriggi lontani ritornano
e quell’aria sottile
sul tuo corpo disteso
in un campo di maggio
tra i tulipani
E non è ricordare
E’ di più
Avete mai visto bene la casa di chi non c’è più?
Una casa che amavate, s’intende, e stipata di cose
Di quell’accumularsi invano delle cose nel tempo?
Avete mai provato a riflettere sulla polvere
Che devasta, già da ora
Quelle cose tanto amate da rappresentarci?
Ma chi ci ama altre cose intorno a sé raccoglie
Una somma innumerevole di cose opponiamo
A non sappiamo cosa
Santa Caterina, 1959
55
Un piccolo passaggio divideva
le due stanze.
In quel punto malsicuro sbarcava
la ripida scala. Aveva cinque anni
il bambino, non si rendeva conto
quando s’arrampicava a notte fonda
tra di loro che uno stava col sonno
suo leggero a controllare vigile.
Di domenica, le nove passate,
molte volte, preso d’affetto il padre
aspettava che il figlio si destasse
per fingere lui d’essere destato.
…procede per
frammenti e
malinconica
pendolareggia tra
passato e presente,
nella classica
ciclicità di ogni
vita,… *…]
La voce ondivaga di
questo libro
riferisce, descrive,
rivisita i luoghi e le
persone delle
geografie più
intime, anche le più
lontane, i vivi e i
morti, i padri e i
passi perduti, tra il
dentro e il fuori
bilancia il proprio
punto di
osservazione nel
diario dei giorni. La
visione si focalizza
sempre nel
rapimento dello
sguardo… *…+
Angelo Ferracuti,
dal risvolto del libro
Da Vieni presto domani, peQuod, Ancona, 2006
Adelelmo
Ruggieri
Orientamento
La posizione del morto
Ho dormito sempre da questa parte qui
Solo qui la riconosco, in questa stanza
alta sulla via, e sin dall’alba rumorosa
di camion con le merci. In nessun altro
posto riconosco la parte che è di sollievo
al mio sonno; nel letto di ora perfino
Tanto delicata che dimentichi
di stare con il volto vòlto al cielo
da sotto una spinta ti tiene a galla
le membra lambite da piccole onde
quel guardare di piatto l’orizzonte…
La posizione del morto è felice
Dietro la collina il sole che scende
E’ un giorno verso sera che si spegne
io non so mai da molti anni come faccio
a sollevarmi, quando mi desto. Qui no
il tuo respiro d’allora m’orienta ancora
Aurora di Salvano
56
madre del mattino, di questo pianto
misura del tempo che resta
quando scendo la strada che si spiana
e tutto è tanto terso da lasciare trasalire
fino a Miramare dove ritraggo il sole
tra le palme degli chalet. A che vale
proseguire? Ritorno e già l’aria s’è tinta
di celeste chiaro tutta e pigola un uccelletto
screziato di bianco nella lacuna dell’asfalto
grigio, poi torna fra i rami ancora freddi
dell’albero davanti, balzella un po’
*…+ …in poesia il
suo principio è la
decrescita. Un
principio osservato
con scrupolo e
sobrietà: le poesie
che scrive all’inizio
sono lunghe
descrizioni, lunghi
racconti di semplici
situazioni che lui si
trova a vivere:
prendere il caffè al
bar, fare quattro
passi dopo cena,
andare al mercato,
tornare a casa dopo
aver accompagnato
il figlio a scuola.
Pian piano le parole
vanno via dai suoi
fogli… *…+
Franco Arminio, da
Il poeta nascosto, in
“Stilos”, gennaio
2007
Da Vieni presto domani, peQuod, Ancona, 2006
Adelelmo
Ruggieri
Di nuovo qui
a Santa Maria di Manù
il cielo terso
la signora della casa affianco
che raccoglie pomodori
per il sugo rosso
Che c’è di speciale in questo posto?
La misura
57
Oggi è talmente celeste questo cielo
di fine marzo che sono sceso in garage
per portare in anticipo sopra la tenda
del mio giardino e adesso quelle righe
lo coprono questo cielo fuori stagione
Cammino sotto di loro, le guardo
Un poco mi distolgono occultando
tutta quella bellezza precoce in alto
Quanto dura, nei fatti
questo mattino presto
d’estate? Io che lavoro
al calcolatore elettronico
Tu nella stanza tua
figlio mio quindicenne
che ti muovi ogni tanto
nel tuo giovane sogno
*…+ … quello di
Ruggieri è un lirismo
improntato alla
fenomenologia e
depurato da
qualsiasi tentazione
solipsistica, dove
l’io, benché spesso
separato dal mondo,
riconosce una sorta
di segreta armonia
in virtù della quale
gli uomini
interagiscono con
l’ambiente e con i
luoghi… *…+
Massimo Gezzi, in
“Poesia”, maggio
2008
Vieni presto
domani è la cronaca
di una continua
ricomposizione tra
tempi, modi e
luoghi in cui l’io si è
distanziato
invocando però
l’altro, non
potendolo
espungere né
cristallizzarlo per
sempre da ciò che è
stata la propria
esistenza. Così si
riparte da gesti
tanto semplici
quanto personali…
Domenico Cipriano,
in www.
rivistasinestesie.it
Da Vieni presto domani, peQuod, Ancona, 2006
Adelelmo
Ruggieri
58
Ieri, al mercato del sabato
ho visto una donna con un cappello
in quel giorno assolato di novembre e perfetto
a forma di riccio
solamente che gli aculei erano morbidi
filamenti sintetici brevi
L’ho guardata negli occhi per dirle
Che accidente porti sulla testa?
e lei m’ha risposto
sorridendo nei miei
Due ragazzi cinesi
appoggiati a una ringhiera
vendevano frivolezze
In una gabbietta a forma di pagoda
ci stava un animaletto di plastica
dalle penne malamente colorate
Una molla teneva in alto la gabbietta
e ritrovando la sua lunghezza la molla
cantava l’animaletto
Di notte
il silenzio non è mai tale il buio
non è mai tale e nel mio caseggiato
che non è di città né di campagna
s’avverte di più l’approssimazione
del buio detto nero del silenzio
che vorremmo assoluto della notte
Ogni tanto non sai quanto lontano
un cane guaisce ma non è ripreso
il canto degli uccelli del mattino
Non si sente l’approssimarsi vero
del giorno che appena nato iniziano
subito i rumori, e tu t’addormenti
Questi nostri anni
sembrano caratterizzati
da una sorta di
progressiva e
esponenziale riduzione
della qualità alla
quantità, o potremmo
dire dell’
’ontologico
all’
’economico. Tutto
deve essere
quantificato,
monetizzato, reificato.
Avete mai sentito un
personaggio pubblico,
di ogni parte, mettere
in dubbio che il tèlos
della vita sociale sia la
crescita, e quello
individuale il successo?
Due sole figure ci
possono salvare da
questa folle corsa a
schiantarsi sul nulla: il
prete, che ci ricorda che
dobbiamo morire, e il
poeta, che si fa
sorprendere a ogni
istante dall’
’esistenza in
sé delle cose. Adelelmo
Ruggieri è un poeta
cosciente di questa
vitale funzione della
poesia, e aspira
dunque,
programmaticamente,
a decrescere. L’–atto
violento, coraggioso,
sovversivo, di cui credo
ci sia al momento
urgenza come di una
boccata d’
’aria nella
calca soffocante della
contemporaneità.
Livio Borriello, da
L’irresistibile decrescita
di Adelelmo Ruggieri, in
“Semaforo blu”, 23
novembre 2006
Da Vieni presto domani, peQuod, Ancona, 2006
Adelelmo
Ruggieri
Raggi
Quanti anni sono trascorsi, tutti quelli
che dovevano, non uno di più né mezzo
di meno, con i mesi in fila a far da esattori
Anche l’ultima rata è pagata… stanotte
una bufera di vento ha scatenato l’azzurro
di questa mattinata, sul tettuccio della
Multipla di Clara un grappolo di raggi
si riflette, attraversa le rose, entra nella casa.
Sillabario notturno
Stanotte mi tocca tornare da te
Parlarti. Prendere sulle mie spalle
gli anni che ci toccano, coccolarli
come fu con mio figlio da piccolo
59
Come può fare, ripetevo sempre
a iniziare a parlare? Chiaramente
dire da solo di sé? Ripetendo
dicevi, non farla lunga stavolta
Spengo la luce, sillabo nel buio
questi versi. Sono le tre di notte
Solo quel che basta cercherò da ora
Chiudo gli occhi. Vieni presto domani
Nella poesia di
Ruggieri la dialettica
tra lo scendere e il
salire, la dinamica
degli opposti, è
centrale, tanto che si
potrebbe dire che il
suo verso è prodotto
dal rilascio di una
forza *…+, oppure,
riprendendo i versi di
una delle sue
“camminate
campestri *…+, che è
un movimento di
risalita che dà una
sorta di finitezza, di
precaria durata ad
una bellezza fragile e
sempre sul punto di
svanire.*…+
Di questi piccoli
prodigi è fatta la
poesia di Ruggieri:
deviazioni, quasi
impercettibili scarti,
minimi e grandi
avvenimenti,
tenerezze, distanze
che improvvisamente
si colmano, e una
grazia che fa
dimenticare il lavoro
duro di cesello, la
tradizione che ha alle
spalle e potremmo
quasi dire che fa
dimenticare di essere
scritta: sembra lì, che
accade nelle cose.
Franca Mancinelli, in
www.lagru.org
Da PORTA MARINA – Viaggio a due nelle Marche dei poeti, peQuod, Ancona, 2008
Adelelmo
Ruggieri
60
[…]
Rapidamente i pescherecci stanno uscendo dalla marina di San Giorgio. E’ un venerdì sera di ottobre. A
prua stanno stesi i panni ad asciugare. Un pescatore sta raccogliendo i suoi quattro panni stesi… è una
scena enorme… Si sentono le voci sul peschereccio che si allontana. Eccone un altro. Si chiama Nuvola.
Che nome magnifico per un peschereccio in mezzo al mare. Ora ne stanno uscendo altri due. Passa un
elicottero. E’ sicuramente uno di qui che ha un mare di soldi e quando torna a casa ci avverte tutti quanti.
Un gabbiano insegue Nuvola. Eccone un altro, si chiama Maristella. Prendo a camminare per andarmene
via. Ecco i gabbiani in cima alle vongolare. Sul Nautilus in prima fila, uno di loro guarda dritto davanti.
Sembra una piccola scultura di Del Zozzo. Il sole è calato. All’inizio del molo la recinzione è divelta. Si può
andare di là. Appena dopo c’è la foce dell’Ete Vivo. Se chiudi le mani a canocchiale tutto è come una foto
del 1960. Il proprietario di C’est la vie sta pittando la sua barca. Intanto sente una canzone alla radio. Io
invece da che sono venuto non ho mai smesso di ascoltare dentro di me due versi di Remo Pagnanelli:
“L’anno ha pochi giorni perfetti. / Non ci lascia mai incolumi la divinità felpata”.
[…]
[…]
Ho trovato la foce del Tronto. La nebbia non rende esattamente percepibile la vastità dello spazio,
tuttavia, lambendo le acque, ne accentua il carattere.
Mi metto a parlare con un pescatore. E’ del ‘41. “L’altro giorno” mi dice “il fronte del fiume era di
almeno cinquanta metri”. Dal molo partono i bilancioni. I pesci in certi periodi precisi vanno a radunarsi
proprio lì, al confine fra la terra e il mare e il fiume e gli scogli, sotto i bilancioni.
“Era un fiume da favola il Tronto, non voglio fare il campanilista ma era un fiume da favola, e la casa mia
eccola lì, l’abbiamo rifatta, venne disastrata dalla guerra”. “Disastrata?”. “Sì. Il 14 ottobre del ‘43. Il famoso
bombardamento del Tronto”.
Lo guardo… poi mi dico di tacere. “Sì. Entrarono dal mare e distrussero tutto quello che poterono…
quando mia madre che mi copriva si alzò mi vide in un mare di sangue… ma non era il mio sangue… allora
urla a mio padre: ci hanno ammazzato i bambini…”.
[…]
Da Semprevivi, peQuod, Ancona, 2009
Adelelmo
Ruggieri
Fiaccola
Ora non accendo più la piccola luce
che tanto t’aiutava a prendere sonno
Non era per paura, piuttosto una fiaccola
sul tuo corpo riposato dal buio, ardente
Ti osservo di passaggio, la porta aperta
le coperte a posto, l’imposta socchiusa
Fra poche ore la luce calma dell’alba
ti farà da sveglia, delicatamente
Tu pensa a un albero
pensati in un albero
Noi stiamo in un albero ma quando i rami
stanno troppo vicini non va
Devono stare i rami in una certa tale maniera
di modo che le fronde non si toccano
ma io non ho la forza per capire tutto questo
61
Ero quieto, sottile, il treno correva
pinnacoli d’estate presero a smascherare
lo spasimo che sarebbe venuto poi
Poi, invecchiando, ho preso
ad ammirare gli alberi
a guardare le spirali tra le chiome
di modo che le fronde non si toccano
e ciascuna foglia sta entro la sua vita
e quando cade la foglia non cade la fronda
l’albero non cade
Quando restò solo
per diverso tempo
accostava sempre
il suo viso
al vetro della stanza
Preparava così
la sua pena
alla sottigliezza
del ricordo
Semprevivi è il libro
nel quale viene
raggiunta
un’equidistanza tra
il livello figurale e
quello fonico della
memoria. (…)
L’incisività del
lessico e
l’autonomia
paratattica delle
singole frasi
fornisce ai testi un
senso di dolorosa
definitività. La
stessa autonomia è
riscontrabile
nell’andamento
delle strofe, rivolte
a concludere
singolarmente il
discorso,
moltiplicando così i
piani semantici.
*…+
L’istanza
comunitaria del
ricordo non è mai
stata così
impellente.
Tuttavia, proprio i
versi di Semprevivi
segnalano un
distacco dalla
poetica della
rieducazione
sentimentale
condotta attraverso
la fonicità della
memoria.
Da Semprevivi, peQuod, Ancona, 2009
Adelelmo
Ruggieri
62
PERCY E MARIA
Erano riquadrate di bianco
le finestre della stanza
Ogni giorno andavo sotto gli olmi
ad ascoltare le cornacchie
cra-cra cra-cra-cra
Guardavo i rododendri
Raggiungevo la gora. Inciampavo
orbo come sono, ma non mi dispiaceva
e quando leggevo non mi rincresceva
tenere gli occhi incollati alle pagine
le capivo di più le parole
mi segnarono di più
Vedo Maria sulla riva
ha paura, sta scrivendo
Dice di quando sono andato via
stamattina, era talmente colmo di sole
che bisognava uscire. Dice di me
nella tempesta. Di me in mezzo
ai flutti. Del cuscino di alghe dove
il mio volto riposerà
LA SCOMPARSA DEGLI OGGETTI
Un altro atto iniziò così
un sudore freddo
circospetto
Le ombre di prima in quelle di ora
e queste qui di adesso vai a sapere
dove andranno… sì, qui ci sono
più finestre che a casa, sicuro
e si vede il mare che laggiù
non vedevo, questo non è
poca cosa, ma la mattina presto
i corrieri non spengono mai, mai
i motori… io cerco
di finire questo libro a cui
tenevo molto e che ora non poco
mi secca; ha perso lo stato febbrile
dell’insonne, il non trascorrere delle ore
Di là il rubinetto che dà forma, perdendo
goccia dopo goccia, al tempo
Si avverte
un’estraneità verso
se stessi che
mediante
l’accoglienza poetica
permette ancora di
lenire il caos
emotivo, ma sempre
con maggiore
disincanto. *…+
Ciò che rende
unitario il suo lavoro,
è l’assetto dei suoi
temi privilegiati:
l’unità inscindibile di
nascita e morte,
l’annullamento del
dolore attraverso
l’accettazione della
temporalità, la
capacità di ricreare
poeticamente il
ricordo in forma
comunitaria e
fruibile a tutti, anche
negli episodi più
personali. Nel
designare una rete di
rapporti affettivi
elementari. La
memoria di un
piccolo mondo può
trasformarsi nella
memoria dell’intero
mondo.
Stelvio Di Spigno, da
Una solitudine
colloquiale: su
Semprevivi di
Adelelmo Ruggieri,
in
www.librischeiwiller.
it
Da Semprevivi, peQuod, Ancona, 2009
Adelelmo
Ruggieri
63
La mitezza
Ieri è accaduta una cosa stupefacente
Pioveva a dirotto, non avevo benzina
Mi sono fermato al distributore lungo l’Ete
Ci lavorano due benzinai, stavano lì
a ripararsi, parlavano mitemente
C’era in quella loro mitezza sotto la pioggia
battente la compiutezza del pomeriggio
Loro, naturalmente, stavano lì soltanto
ad aspettare che spiovesse, ma in quell’
aspettare, in quel parlare fitto come
la pioggia, e mite, c’era l’affiatamento
di quando piove a dirotto e l’aria poi si pulisce
e il cielo diventa più celeste di prima, celeste
più che mai
Cammino
Le prime luci dopo l’aurora
pennelli piatti di tasso
dipingono di rosa
il fianco a meridione
della città
Dura molto poco
Questo rosa d’inverno
ma c’è un tratto di strada
al ritorno
il rosa è già finito
che il sole è di un poco salito
e i raggi dilagano radenti
la strada di casa
*…+
Il movimento che
unifica i vari pezzi di
questa bella
raccolta di
Adelelmo Ruggieri è
quello della pietas,
sgombra però di
ogni residuo
doloristico o di
cupo sofferentismo,
intrisa piuttosto di
una laica, cordiale,
appassionata
coscienza del
mondo e della sua
bellezza.
*…+
Un’attenzione alla
Simone Weil quella
di Ruggieri,
l’attenzione che
redime il mondo
perché sa dissipare
la caligine di
finzione che lo
ricopre,
restituendolo a se
stesso, al suo corpo
visibile, agli oggetti
che ne certificano
l’esistenza, che ne
decidono senso e
significato.
Linnio Accorroni, in
La poesia e lo
spirito, giugno 2010
Da Semprevivi, peQuod, Ancona, 2009
Adelelmo
Ruggieri
SEMPREVIVI
I
E’ un pezzo che ci vado pensando
a qual è stato il sentimento dominante
e non so nominarlo
Certi pomeriggi, tuttavia
che ho da fare poco, alle quattro
pressappoco, quella tale cosa
che giudico essere un sentimento
io l’avverto, oppure il sabato mattina
quando sono di turno per i fiori
ai morti di casa, e se l’aria è quella tale
aria, e il colore del cielo quel tale
colore, e se ho riposato abbastanza
la notte prima, se accadono tutte
queste circostanze insieme insomma
allora quella tale cosa che giudico essere
un sentimento l’avverto
e mi viene più naturale
lavare il pavimento sotto le lapidi
64
II
Una parete di volti, di nomi, di date
è un camposanto
Per ogni volto quattro borchie brunite
condivise con il volto di sopra
con il volto di sotto
Per ogni volto una croce un lume i fiori
E’ così, eppure, oggi, qui, dove siedo
su questo gradino d’ingresso
il colmo quieto del colle
di Capodarco mi distrae, mi riposa
Mi duole assai un braccio
Cominciò a questa maniera mio padre
il suo calvario di chili perduti uno dopo l’altro
Verso la fine sembravano legnetti disgiunti le sue ossa
Altra cosa, ben altra, ricordarlo
magro da giovane, nella foto
coi bordi lavorati a sinusoide
La parola di
Ruggieri è scandita
in termini
essenziali, quasi
guadagnata o
sottratta al bianco
della pagina,
l’ordito metricosintattico è di
nobile semplicità,
chiuso in strofe di
endecasillabi
prolungati dalla
dizione a viva voce,
laddove l’impronta
lirica, anzi
totalmente lirica, si
impedisce il canto
dispiegato e
semmai privilegia
garbata e
delicatamente
fraterna.
*…+
Da Semprevivi, peQuod, Ancona, 2009
Adelelmo
Ruggieri
III
Abbiamo scelto il peggiore dei posti
per i nostri fornetti, esposti come sono
al sole d’estate, io dico che non ce ne è
un altro di posto dove batte tanto sole
C’è talmente tanto sole che i fiori d’estate
durano un giorno, neanche, e l’acqua
è già lurida, e questa cosa non è ripagata
dalla maggiore mitezza dell’inverno qui
Una donna gentile aveva i suoi fornetti
vicino a questi nostri, ogni giorno veniva
a cambiare l’acqua d’estate. Non tollero
l’odore di marcio, fu così che mi disse
65
Ora non viene più, qualcuno per suo conto
porta semprevivi, non vogliono acqua
i semprevivi, ma non è la stessa cosa
lo si dica apertamente, dei fiori freschi
*…+
C’è sempre un “tu”,
reale o virtuale,
nell’orizzonte di
Ruggieri, cui
consegnare il tesoro
di alcuni istanti
presi dalla
centrifuga spaziotempo: sono
immagini in
equilibrio, talvolta
di vero e proprio
incanto dentro il
paesaggio, ma sono
anche immagini del
vivere ordinario,
frammenti di
residua sensatezza
o di gioia inopinata
dentro l’universo
più anonimo e
feriale. *…+
Massimo Raffaeli,
da Ruggieri, la
pagina bianca e le
fragole, in “Alias”,
marzo 2010
Inediti. Qualcuno mi ha detto l’altro ieri di te
IL PUGILE VIAGGIATORE
GRIDO
Nulla ricorda di più del primo KO
Ha sessant’anni, l’espressione mite
Degli antichi combattimenti
le mani nervose, scottate
Non voglio diventare vecchia
gli ripeteva sempre la moglie
Non dirlo, tu non devi dire mai
questo amore mio, la sgridava lui
Ogni tanto, adesso che lei non c’è
si mette in viaggio per l’Italia
dove capita capita, basta che sia
un rifugio tranquillo, fuori mano
È una giornata di fine agosto
il primo temporale dopo ferragosto
non è giunto ancora
l’aria non è cambiata ancora
Fra poco ti volterai verso di me
Griderà nel tuo sguardo
dove corre ogni cosa
che non ha colore
ELEGIA
66
Le tende alle finestre
Le sere sul terrazzo
I bambini che corrono
meravigliosi fuori
La verità che si rallegra
di se stessa
Adelelmo
Ruggieri
Inediti. Qualcuno mi ha detto l’altro ieri di te
ELEGIA
PROFONDITA’ DEL SONNO
Qualcuno mi ha detto
l’altro ieri
di te
Mi ha fatto bene parlarti ieri notte
Ascoltavo le tue ragioni
Mi apparivano ragionevoli
Non c’era in loro
qualcosa di storto
che offendeva l’ascolto
Ho preso allora a ricordare
quando fermi nella stanza
ci raggiungeva sui vetri
il blu della sera
Poi mi sono sprofondato
con il mio mezzo secolo e passa
di vita, con i miei novanta chili e passa
di peso in un sogno profondo
FOLIAGE
67
Domenica chiudono lo chalet
dove mangiammo l’ultima volta
che arrivasti, è arrivato l’autunno
Faccia presto per favore si chiude
mi ha detto spazientito il cameriere
Il mare intanto minacciosamente
prendeva a ruggire, grigio l’azzurro
divenne, poi presero, venivano
da chissà dove, a cadere le foglie
Dalla vetrata le vedevo arrivare
severe cadere
Adelelmo
Ruggieri
Inediti. Qualcuno mi ha detto l’altro ieri di te
Adelelmo
Ruggieri
LA FEDERA
Non un filo di luce nella stanza
piuttosto un tessuto
invisibile di cose
rimaste qui
loro malgrado
senza effetto
muto
68
L’Iliade - Un inno alla guerra
contro la guerra (3), 2010
Luigi Socci
Luigi Socci è nato ad Ancona, dove risiede, nel 1966. E’ scrittore di poesie “part-time” e performer
testimoniale.
La sua prima raccolta di versi, Il rovescio del dolore, è apparsa in POESIA CONTEMPORANEA - Ottavo
quaderno italiano (a cura di Franco Buffoni, Marcos y Marcos, 2004) e con introduzione di Aldo Nove.
Per le Edizioni d’if di Napoli è uscito, nel 2009, Freddo da palco, suo secondo lavoro in poesia.
E’ presente in diverse antologie e riviste ed è stato tradotto in russo, inglese, spagnolo e serbocroato.
E’ direttore artistico del festival di poesia “La punta della lingua”.
69
Di lui ha scritto Aldo Nove: «E la poesia di Luigi Socci è dunque quella, posso ora ribadire, di un vero walter
chiari (lo scrivo con la minuscola, per ingrandirne la potenza poetica, simbolica: quasi una categoria oltre il
caso umano individuale, lo svaporarsi della persona nella memoria televisiva, collettiva) del verso. “Un
signore”, appunto (Socci), che con estrema perizia, ed umiltà, rivolta le cose e ne lascia trasparire il gioco
in filigrana in cui la tragedia trapassa nel comico, in un movimento di continua oscillazione, senza
risoluzione (scrive Luigi, del resto, con estrema lucidità: “Chino nel mio cunicolo. / Munito di binocolo. /
Non cerco l’ironia, trovo il ridicolo)».
Da Il rovescio del dolore
In POESIA CONTEMPORANEA – Ottavo quaderno italiano, Marcos y Marcos, Milano, 2004
Luigi Socci
Immobiliario
Le reliquie venerabili di un pollo
incollate da giorni al proprio piatto.
Dentro la lampadina il ghirigoro
che produce la luce è mezzo rotto.
Ronzano mosche di questi tempi
fuori dalla stagione delle mosche
in orbite piene di contrattempi.
Dalle patate i getti
si diramano in cerca
degli umori dell’aria.
Oggi non so le cose importanti
ma tutte le altre a memoria.
70
Le mani avanti
Leggere attentamente
il foglio illustrativo trova impiego
negli stati morbosi
di dolori inodori e indolori.
Poesia medicinale e malattia
diluita nell’acqua o presa pura
solo se necessario il cavo orale
dopo l’uso gettare.
*…+ Così come Gadda
trova attraverso il
dolore la verità del
suo essere – ne ha
cognizione – e al
contempo scopre la
natura di questo suo
dolore (in una sorta
di algolagnico circolo
ermeneutico,
grammaticalizzato
dall’ambivalenza del
genitivo), Socci
sperimenta e
avverte – attraverso
la limatura severa e
crudele del suo
interminabile
addestramento
poetico – il rovescio
di quel dolore: la
tramatura sottile che
sta al verso del
panno colorito di
una pelle di continuo
urticata dall’esistere;
e, al contempo,
rovescia sul lettore il
referto clinico di
quel dolore:
lancinante nella sua
intollerabile
sincerità il punctum
della “bic”
cancellatrice che si
vorrebbe
“lamarasoio” per
esplicitare ancor più
la propria natura di
kafkiano èrpice
(auto) punitivo.
Da Il rovescio del dolore
In POESIA CONTEMPORANEA – Ottavo quaderno italiano, Marcos y Marcos, Milano, 2004
Luigi Socci
Certi rovesci
Il vento aspira l’aria, non la soffia,
e lascia i corpi sparsi sottovuoto.
La foglia rimbalza in cima all’albero
la primavera retrocede a gambero.
La pagina si sbianca
l’inchiostro è risalito nella penna
(bel risparmio)
Il fumo scende nella sigaretta
tornata intatta
come mamma l’ha fatta.
Fumo di meno ed ho il pacchetto pieno.
(Tutta salute)
E il morso che rinsalda ogni boccone
la merda a riavvitarsi su nel culo
71
Dora è aroD, Maria airaM,
Paola sarebbe aloaP sottosopra.
Ma Anna all’incontrario è sempre Anna.
Rovescio del dolore, il suo discuore.
Allegri! Oggi si muore.
*…+ Come sintetizza
De Signoribus: “in
questa grazia
stretta / ogni cosa
nell’altra s’affaccia
/ e ciascuna,
voltando le spalle, /
è perfetta”.
Perfetta è la
sofferenza del
Socci: come l’opera
di attento
giardinaggio che ha
abolito l’infinito.
Andrea Cortellessa,
da Ogni oltraggio è
morte, in “La
scrittura”, autunno
1998
E’ d’obbligo (direi
automatico, per chi
mastica un po’ della
grande poesia
italiana dello scorso
secolo), leggendo
Socci, il riferimento
a Giorgio Caproni.
E’ un riferimento
puramente formale.
Deriva da alcune
analogie
immediate.
Da Il rovescio del dolore
In POESIA CONTEMPORANEA – Ottavo quaderno italiano, Marcos y Marcos, Milano, 2004
Luigi Socci
Insabbiamenti
Qual è il senso di marcia del deserto?
Certe sabbiosità di certe coste
danno una sensazione
come di asciugamento.
Si aprono, saltuariamente, in una
parentesi di pietra.
E’ il caso del Conero
trauma dell’Adriatico.
Le spiagge con la sabbia
danno più ampie possibilità
di movimento. Forse
troppe.
72
Ricordi per esempio quei bambini
scambiare il bagnasciuga
per pista di rincorse?
Te li ricordi che fastidio i frisbi?
Ricordi quei mocciosi
(ai quali auguravamo molta morte)
spruzzarci d’acqua gelida
sulle bollenti pance?
Li ricordi tra sabbie
e le altre polveri,
sotterrati paletta
e secchiello, a scavarsi
la buca con le mani?
A Portonovo tanto accanimento
al moto non sarebbe stato
possibile. (mai)
Altro problema:
quel senso di sporco alle caviglie
e l’annosa questione del leggere
al mare, e dello scrivere.
Io, nelle terze di copertina
in mancanza di foglio
e di meglio.
Nei libri ricurvi di sole
s’insinua anche la sabbia
l’arsura segnalibro.
Al ritorno li devi scuotere,
sgrullare, sgrullare,
in certi il deserto è in loro
e te lo porti in casa.
A quando la fine di
questo processo di
deversificazione?
Sarà reversibile?
dì
L’epigramma nella
miglior tradizione
novecentesca del
“quadretto” perfetto
vociano all’interno
del quale, nel
dosaggio degli artifizi
retorici,
nell’amalgama finale
di un’ineccepibile, per
grazia quasi
metafisica, quartina o
d’altra forma
riconoscibile, si
costruisce
un’immagine che è
simbolo e riflessione,
allegoria privata ma
non tanto, non
troppo…
E come Caproni,
l’equilibrio composto
(ipercomposto) delle
rime, la sua
apparente, ma
cesellatissima,
“facilità” espressiva
scardina le categorie
ormai insostenibili di
“alto” e “basso” per
proporre piuttosto un
quotidiano sublime,
quasi sublime, in
realtà tutt’altro che
sublime, ricco della
sua contradditorietà,
sull’orlo
heideggeriano
dell’abisso dove
l’essere non è ancora
parola (Parola) ma
esperienza, con tutte
le incertezze del caso,
nel caso.
Da Il rovescio del dolore
In POESIA CONTEMPORANEA – Ottavo quaderno italiano, Marcos y Marcos, Milano, 2004
Luigi Socci
28 agosto 94 *
Nerastro miramare
funereo zittarsi di triglie
bare a vela.
Onde con l’ombra al collo,
il loro andar di sale
ingozza il porto.
Bisogna parlare dei morti
(assenze che di noi fanno polpetta)
perché c’è nella poesia
tanto così di morto per ciascuno.
Cozze col cuore a pezzi
tette a lutto.
Il sole simultaneo
traduce sassi in terra
(grossi, di Portonovo; grassa di Tavernelle)
Curioso capolino
di vermi o cicche spente?
Dentro le sabbiature
lenta lebbra dei vivi.
73
Un morto vive altrove.
* Una delle più assolate domeniche di questa estate.
Al mare si stava benissimo.
Ci muore Franco Scataglini.
*…+ Un continuo
logorio, gnosologia
del dettaglio
quotidiano. Il
tessuto, la trama
dei versi di Luigi
Socci mischiano
perciò Gianni
Rodari (la
filastrocca) a Kafka
(l’incomprensibilità
di tutto ciò che
esula
dall’immediato) a
Camus
(l’alienazione e la
scelta, eroica e
pacata,
dell’assurdo, del
ridicolo) in punta di
millennio, con una
velenosa gentilezza.
*…+
Aldo Nove, dalla
prefazione a Il
rovescio del dolore
Da Il rovescio del dolore
In POESIA CONTEMPORANEA – Ottavo quaderno italiano, Marcos y Marcos, Milano, 2004
Luigi Socci
A babbo morto
Le porte si aprono verso l’interno.
Attenzione.
Non è di due, di quattro o quarantuno,
di circolare destra o di sinistra
ma d’autobus che ferma al capolinea
che si parla
di zero sbarrato.
Qui mi sono portato
essendo il conducente
nessuno mi ha parlato
in quanto solo.
Arriva il sale
e non arriva il mare.
Oggi il mare è brizzolato
come tu non lo sei mai stato,
tu coi capelli spessi, infissi al cranio,
altro che pippo baudo. (altro che me)
74
Non ho il tuo naso e te ne sono grato.
Era più scarno, quasi affusolato
quando nell’obitorio ci sembrasti strano:
con spigoli, sconnesso,
come se fossi stato dal di dentro
manomesso.
…per intanto essendosi reso disponibile
il corpo del Socci, in concomitanza
con la di lui latitanza…
Ma loro spergiuravano che no. che no.
Il mare tace come gli compete
specie senza domande
il mare ha
(non dice a
non dice ba)
l’ultima parola ma produce
onde solo di sale
senza una goccia d’acqua.
Attenzione.
Le porte si aprono verso l’inferno
e stringersi
che davanti c’è posto
e non sostare.
Di sicuro è un inferno d’assenza
di vini, lonze e salamini,
non caldo ma di roba riscaldata.
Sciapo.
A babbo morto te lo posso dire:
le palle di neve di sale
che ammucchiavi su tutte le cibarie
non erano poi male.
Ci sono porte che
si chiudono da sé
così come fa Yale.
*…+
Dentro questi versi
raffreddati dal
gioco c’è un
bisogno antico e
ineludibile, ed è
esattamente quella
la malattia: il
bisogno che si
attacca perché se ci
si tocca si rimane
“incollati” all’altro
nel bisogno
reciproco. La non
frequentabilità di
questo bisogno è
l’anima, la
caratteristica
fondante, della
poesia di Socci: il
suo trasformare
tutto – anche la
poesia – in
teatro.*…+
Giorgio Manacorda,
in Samiszdat,
antologia allegata
all’annuario 2005 di
Castelvecchi
Da Il rovescio del dolore
In POESIA CONTEMPORANEA – Ottavo quaderno italiano, Marcos y Marcos, Milano, 2004
Luigi Socci
0,2
0,9
Per scriverci in corsivo
finita la matita
la morte entra nel vivo
si tempera le dita.
Una volta fuori
la porta si sbarrava alle spalle.
Nello sparire lasciava il posto
solo a mattoni rotti
e nessunissima maniglia.
1
Qualcuno è appena uscito
con passi senza piedi
qualcuno è appena sceso
dagli spini agli spiedi.
75
C’è nessuno, è permesso?
Era scusate aperto ancora scusa.
In nessuno c’è casa.
Ripasso.
Il mondo visto dallo
spioncino. E’ un
gioco di specchi
convessi, di lenti
deformanti. Un
universo livido e
grottesco. Ridicolo
e inquietante. Un
mondo guardato da
un oblò senza
oceano né mare,
ma affacciato sulla
tromba delle scale
di un condominio
qualsiasi, in una
città qualsiasi.
Un’umanità che
vista da questa
“lente
rimpicciolente” *…+
appare caricaturale,
storpia,
istintivamente
infida.
*…+
Da Il rovescio del dolore
In POESIA CONTEMPORANEA – Ottavo quaderno italiano, Marcos y Marcos, Milano, 2004
Luigi Socci
Di proprio pugno
Mi scrivo una tua lettera
finché dura la mano
finché mi regge il pugno, finché stringe,
finché so l’italiano.
Come consolazione o per rivalsa
mi scrivo una tua lettera
falsa.
Mi scrivo di mio pugno
(la grafia non è mia)
senza fare la brutta
copia, senza bisogno
di sprecare saliva
per chiudere o affrancare.
Mi scrivo una tua lettera.
Poi te la faccio firmare.
76
La lana in casa
sotto ai divani
segno che senza
calori umani
la polvere si annoda su se stessa.
Pieno che colma il vuoto
tappo che attappa un buco
lana nell’ombelico
foglia come di fico
e i grappoli di lana dei maglioni
frutto
d’attrito.
Srotolando gomitoli
si sperde ogni mio filo in doppi sensi
(dentro cuscini insonni
di lana a grumi densi).
*…+ E’ una poesia
che scava in
minimali miserie
quotidiane, che va a
segno nel momento
stesso in cui sembra
perdere di
credibilità, perché è
in quello svelare
l’assurdo,
strappando persino
un acido sorriso,
che si palesa senso,
si sostanzia dove
mai avremmo
immaginato. *…+
Cristina Babino, da
Piccole apocalissi
quotidiane. Sulla
poesia di Luigi
Socci, gennaio 2007
Da Freddo da palco, Edizioni d’if, Napoli, 2009
Luigi Socci
Roma
Tra una bocciofila
e un luna park rionale
in un quartiere di case basse
di innocui e minimali
cactus senza puntali
e gentili richieste di non parcheggio.
Via NICOLO (senza accento
per errore epigrafico)
PICCININI, famoso condottiero
e altre vie intitolate a illustrissimi
esistiti cartografi davvero.
Dove, attraverso i buchi
nella rete, come da uno spiraglio
di sipario che limita i confini,
tocca anche a noi la nostra
visione su un dettaglio
del povero teatro dei cortili.
77
Dove azzurrati al posto di imbiancati,
celestinati per tenere a bada
i parassiti e gli altri pestilenti
perniciosi animali,
crescono i delicati stenti
degli ulivi condominiali.
Tocca anche a noi la nostra
parte che impara l’arte
dello spasso da parte a parte.
Tocca anche a noi poveri
rimatori guardoni diplomati
poeti laureati
mai bocciati.
*…+ Articolato in
quattro brevi
partiture, Freddo da
palco si presenta
nella sua natura
sostanziale di mise
en abyme
desacralizzante della
realtà e dell’arte,
della scrittura e della
finzione. A chi ancora
oggi insiste su una
netta separazione tra
compiutezza dell’arte
e le eteronomie o le
implicazioni, Socci
sembra ribattere con
l’adozione
dell’understatement
di una lingua dimessa
e non dismessa… *…+
…procedendo
prosodicamente per
versi brevi e
ipometri, sostenuti
da rime semplici,
spesso baciate, o
alternate, marcate
da una forte
periodicità data da
recursività sonore,
riprese allitteranti,
enjambements
sconvolgenti (…) e da
una ritmica
dinoccolata, unita a
una scorrevolezza e
facilità / felicità
versificatorie, con
distici che si fissano
nella memoria di chi
legge, e ballando
drammaticamente…
Da Freddo da palco, Edizioni d’if, Napoli, 2009
Luigi Socci
Berniniane
*…+
Davanti al quirinale un sant’Andrea
propulso da una nuvola a reazione
ascende a un paradiso a cassettoni.
Riuniti in comitato d’accoglienza,
di presenza discreta
ma di aspetto sbagliato,
angeli e santi di serie zeta.
Storti, contorti, in bilico sui bordi,
col peso dello stomaco sui corpi,
slogati comprimari, marmi ignari
delle più elementari
regole della carne.
Freddo da palco
78
*…+
E questi sono i resti
dei trucchi del mestiere
Parrucche occhi retrattili
baffi posticci grassi
che si fingono magri falsi passi
piccole bocche che a grande richiesta
sanno come sguaiarsi.
*…+ Articolato in
quattro brevi
partiture, Freddo da
palco precipita
si presentail
Socci
nella sua natura
lettore nello
sostanziale di mise
sconcerto
en abyme
quotidiano,
desacralizzante in
della
quella
che
realtà“tragedia
e dell’arte,
non
ha
la
forza
di
della scrittura e della
esplodere”,
in
finzione. A chi ancora
quella
finzione
della
oggi insiste
su una
realtà
che è la scena
netta separazione
tra
compiutezza
teatrale, indell’arte
cui la
e le eteronomie
realtà può o le
implicazioni,
Socci
irrompere con
sembra
ribattere
con
effetti detonanti,
l’adozione
devastanti,
sulla
dell’understatement
finzione. *…+
di una lingua dimessa
Manuel Cohen, in
e non dismessa… *…+
“Marche Cultura”,
…procedendo
marzo 2010
prosodicamente per
*…+ versi
Quest’italietta
brevi e
borghese,
che Socci
ipometri, sostenuti
si
diverte
a
da rime semplici,
dipingere
con tratti
spesso baciate,
o
minimali,
armato
alternate,emarcate
di rime
sprezzanti,
da una
forte
periodicità
buttate
quadata
e là,daci
recursività
sembrasonore,
di
riprese allitteranti,
riconoscerla
bene.
enjambements
La rima non è infatti
sconvolgenti
(…) e da
mai il rispettoso
una
ritmica
omaggio a una
dinoccolata, unita a
tradizione lirica, ma
una scorrevolezza e
funziona a mo’ di
facilità / felicità
battuta, anche
versificatorie, con
forzandola
volte…
distici che siafissano
nella memoria di chi
legge, e ballando
drammaticamente…
Da Freddo da palco, Edizioni d’if, Napoli, 2009
Luigi Socci
*…+
Ricadi e cadi ancora
esperta in ricaduta
acerba come un frutto
che ogni giorno matura
che rimuore sei giorni
su sette per contratto.
Si può perdere il senso andando a tempo
può spezzarsi l’incanto
se vibra senza suono da una tasca
qualcosa di non spento.
Giornaliera ricorre ogni sera
la tua pena seriale serena
ei dintorni dell’ora di cena.
Sarò il tuo specchio per guardarti dentro
culturista dell’occhio
agonista del muscolo
che goccia a goccia tira indietro il pianto.
Non ho (perché non c’è) nessun riparo
dal refrigerio che soffia dal sipario
perché il freddo da palco esiste
e in questo consiste.
79
Finiscono le prove
iniziano gli indizi.
Piuttosto che crepe
meglio dire interstizi.
*…+
Per Socci si direbbe
che nulla è serio,
tutto va
desacralizzato, gli
ori del barocco
romano fatti
cadere, la santità di
Teresa d’Avila
sputtanata, la
sacralità dell’arte
nelle chiese
capitoline viene
svilita dalle visite
turistiche che
illuminano le opere
a suon di gettoni.
Tutta la realtà
offerta al poeta si
riduce a quella di
cortili rionali,
bocciofile e luoghi
abitabili che “tocca”
mettere in versi,
nella maniera meno
lirica possibile…*…+
Fabrizio Bajec, in
www.attimpuri.it,
febbraio 2010
Da Freddo da palco, Edizioni d’if, Napoli, 2009
Luigi Socci
Ultima prima al “Na Dubrovka”
Il teatro russo degli anni ottanta
mi stanca.
Il teatro russo degli anni novanta
invece incanta.
Ma il teatro russo degli anni zero
è vero.
La realtà si realizza il passo è corto
tra la vita e il teatro prende corpo.
La scena dilagava in sala e a casa
veniva a chiamarci per la catarsi
per renderci partecipi (spettatori carnefici)
dell’irripetibile evento.
Imparavo a memoria la mia vita
come una vittima di talento.
Quella sera era meglio se non ero
in abito nero per l’occasione
come a una prima i capelli in un velo
la vita ristretta da un cinturone.
80
Io quella sera
proprio io non c’ero
e se c’ero dormivo e morivo
già cascavo dal sonno e mi gasavano
(posto 12 fila C)
la testa mi andava giù.
Epidemie di tosse
rumore di giunture che disturba
la già pessima acustica, asfissiando
è difficile farsi sentire.
L’emissione vocale del morire
non arriva alle ultime file.
Nel personaggio a cui davo la vita
mi identificavo alla perfezione:
il mio cadavere in carne e ossa
in attesa di identificazione.
Centinaia di comparse disperse
rivolevano i soldi del biglietto
perché il passo che separa la vita
ora era fatto.
Una cappa di fumo scendeva dal soffitto
come un effetto speciale reale
la mano si poteva allungare
per vedere se tutto accade.
Mi confondo nei ruoli.
Mi confondono i ruoli.
Mi credo e mi capisco.
Dico l’ultima poi mi finiscono.
*…+ …in tutte queste
liriche, per
parafrasare
Manganelli, l’angoscia
scherza spesso con il
gioco. La menzognera
artificiosità della
finzionalità (nella
lingua, nell’arte, nel
suo luogo d’elezione
che è il teatro – ecco il
lemma decisivo di
questa raccolta, vero
e proprio wortmotiv
che ricorre
incessantemente) è
messa a nudo
dall’emergere di una
realtà che si fa via via
sempre più dolorosa e
tragica, senza
redenzione né
salvezza. *…+
Linnio Accorroni, in
“La poesia e lo
spirito”, settembre
2009
*…+ …Luigi Socci, in
Freddo da palco,
preferisce l’ironia
disperante di chi
constata come la
paura, l’orrore
facciano parte della
nostra realtà, siano la
nostra realtà. (…) Il
Freddo da palco di
Socci è la paura che ci
resti solo da vivere
l’apparenza della
finzione.
Sergio Rotino, in “il
Domani”, dicembre
2010
Inediti. Da Ma chi ti credi di non essere ?
Prevenzioni del tempo
Cammini contromano per le strade
come su un nastro trasportatore
cammina un camminatore
cammini da una parte
totalmente sbagliata del marciapiede
un passo insieme all’altro e non t’importa
di camminare come ci si siede.
Ogni tuo buco ha un nome
ogni capello bianco la sua data
le rughe una per una una ragione
che non è la durata.
81
Dicono che non c’è
più religione, insistono
col fatto che non c’è
mezza stagione
che non ci sono più
le morte
stagioni di una volta, la presente
viva e sepolta non è imminente.
Il primo che si alza e dice che adesso si fa
come dico io
e si alzano tutti
e si fa come dicono tutti.
Qualche piovasco
qualche modesto
rovescio temporalesco
qualche mediocre perturbazione
poco mossi sia gli uni
che gli altri mari, il gelo
non ha alcuna intenzione.
Ci sono quelli che
si chiedono ostinati se non è
un tuono questo clangore
di lamiere allora che cos’è
e c’è chi fa fantocci
fantocci compatti di lane di pioppi
pallide imitazioni di pupazzi.
Precipitate dai piani alti
da tovaglie sbattute incivilmente
le briciole di pane
troppo veloci per sembrare neve
sono quello che sono
non quello che si deve.
Al riparo dai falsi freddi
dietro scafandri di piuma d’oca
simuli basse temperature
l’autunno l’inverno eccetera
la primavera l’estate
secondo una logica.
Luigi Socci
Inediti. Da Ma chi ti credi di non essere ?
Superstite di un’epoca
di ferrea disciplina semaforica
il sole passa come una cometa
e rischiara
e rioscura
gettato nella mischia di una nuova
era di rotatorie
molto meno sicura.
Senti come una testa nella testa
una testa più piccola all’interno
di una testa custodia.
Da ieri è primavera e si direbbe
una svolta epocale.
Una delle due teste ti fa male.
Non sai quale.
82
Luigi Socci
Inediti. Da Ma chi ti credi di non essere ?
Consigli di lettura
Leggi con gli occhi in orbita
filamentosi, acquosi.
Leggi perché sei quello che sa farlo
(chi scrive è l’altro), leggi
perché non è il momento
di saper far di conto.
Leggi le scritte piccole, le clausole
capestro- vessatorie
ad alta voce a chiare
lettere minatorie.
Leggi
senza usare il leggio
dal libro della memoria
come faccio io.
Leggi le barre dei codici a barre.
Leggi arrotandoti tutte le erre.
Leggi, resta sul testo non ti astrarre.
83
Leggi perché se leggi non ti accorgi
ai lati della vista
della perdita d’occhio che non scorgi.
Leggi prima che con un tratto
di penna si scancelli tutto
quello che ti si legge in faccia
perché ce l’hai scritto.
Fra le righe nel vuoto
leggi e rileggi lo spazio bianco
tra un verso e quello dopo.
Pratichi la lettura silenziosa
per non mettere bocca nella cosa
per non prendere parte come scusa
eviti la lettura rumorosa.
Leggi le guide della Lonely Planet
fino ai glossari per non partire,
leggi la vasta gamma delle contro
indicazioni invece di guarire,
leggi due righe prima di dormire
e i necrologi al posto di morire.
Leggi del manganello Tonfa
(che porta il nome del suo rumore)
in dotazione al nucleo antisommossa
speciale della celere di Roma
che può colpire due persone insieme
come una cosa sola.
Leggi e sputi la pelle
allucinogena del rospo in gola.
Luigi Socci
Inediti. Da Ma chi ti credi di non essere ?
Luigi Socci
I have a dream.
You have a dream?
He, She, It has a dream.
We have some dreams.
You have a lot of dreams.
They have parecchi dreams.
Io ho un sogno
così almeno mi pare quando dormo
è che quando mi sveglio
me lo scordo
84
Ma il sogno non è ordigno
e non sa ticchettare.
Sogno (e son desto) il sogno
che mi viene a svegliare.
Lo scienziato e la formica Giullarata di fine millennio (3), 2010
Collage Guido Gozzano
Il gioco del silenzio
85
Non so se veramente fu vissuto
quel giorno della prima primavera.
Ricordo - o sogno? - un prato di velluto,
ricordo - o sogno? - un cielo che s'annera,
e il tuo sgomento e i lampi e la bufera
livida sul paese sconosciuto...
Poi la cascina rustica sul colle
e la corsa e le grida e la massaia
e il rifugio notturno e l'ora folle
e te giuliva come una crestaia,
e l'aurora ed i canti in mezzo all'aia
e il ritorno in un velo di corolle...
- Parla! - Salivi per la bella strada
primaverile, tra pescheti rosa,
mandorli bianchi, molli di rugiada...
- Parla! - Tacevi, rigida pensosa
della cosa carpita, della cosa
che accade e non si sa mai come accada...
- Parla! - seguivo l'odorosa traccia
della tua gonna... Tutto rivedo
quel tuo sottile corpo di cinedo,
quella tua muta corrugata faccia
che par sogni l'inganno od il congedo
e che piacere a me par che le spiaccia...
E ancor mi negasti la tua voce
in treno. Supplicai, chino rimasi
su te, nel rombo ritmico e veloce...
Ti scossi, ti parlai con rudi frasi,
ti feci male, ti percossi quasi,
e ancora mi negasti la tua voce.
Giocosa amica, il Tempo vola, invola
ogni promessa. Dissipò coi baci
le tue parole tenere fugaci...
Non quel silenzio. Nel ricordo, sola
restò la bocca che non diè parola,
la bocca che tacendo disse: Taci!...
ARCIPELAGO itaca informa
NOI REBELDIA 2010
La rivista elettronica http://www.retididedalus.it (del sindacato scrittori italiani) ha lanciato un esperimento progettuale di
scrittura (lingua italiana) poetica collettiva, e SINE NOMINE.
Il progetto si chiama “Noi Rebeldìa 2010”, ed è aperto a tutti quanti interessati all’uso del linguaggio poetico.
Il progetto “Noi Rebeldìa 2010” comprende il programma teorico (sinteticamente espresso), le regole di partecipazione e
l’incipit originario “we are winning wing”.
I tre documenti (programma teorico, regole di partecipazione e incipit) sono pubblici e scaricabili dal sito
http://www.retididedalus.it. I partecipanti che, presa visione, volessero condividere la progettualità sperimentale poetica SINE
NOMINE, nel rispetto delle indicazioni date, possono spedire il loro contributo alla e mail ivi esplicitamente dichiarata.
Via via, seguendo le scelte decise e dichiarate nel documento delle modalità partecipative, è prevista la pubblicazione dei
risultati acquisiti con la dicitura “Noi Rebeldìa 2010.1” o “Noi Rebeldìa 2010.2”.
http://www.retididedalus.it ha già messo in rete il primo risultato di “Noi Rebeldìa 2010.1” “Noi Rebeldìa 2010.1”.
La notizia del progetto “Noi Rebeldìa 2010” è accolta e pubblicata (finora) pure da http://www.retroguardia.it,
http://www.lapoesiaelospirito.it;
http://mazaracult.blogspot.com;
http://www.mazaraonline.it;
http://marsala.it;
http://www.marsalace.it; http://lellovoce.altervista.org.
86
ARCIPELAGO itaca informa
E’ DINO CAMPANA?
Riportiamo di seguito un brevissimo brano tratto da una ricerca curata da Davide Argnani. Questa ricerca porta a nostra conoscenza il fatto
che una foto da sempre attribuita a Dino Campana riproduce - in realtà - Filippo Tramonti, compagno di Liceo del poeta. L’immagine in
questione era parte del “collage” dedicato a Dino Campana ed inserito nella prima apparizione di ARCIPELAGO itaca.
Si ringrazia Davide Argnani per la segnalazione.
[…] Grazie a contatti culturali che da un po’ di tempo intrattengo con Paolo Pianigiani di Empoli, poeta, pittore e artista di valore, studioso
e ricercatore sull’opera e la vita di Dino Campana, e dopo l’avventura delle dimenticanze intriganti dei Canti Orfici a opera di Papini-Soffici,
poi ritrovati anni fa abbandonati sul fondo di una vecchia cassa appartenuta all’illustre critico e pittore toscano, ora, grazie alla paziente
ricerca di Stefano Drei, negli archivi del Liceo faentino, dove Dino Campana studiò a cavallo degli anni tra ’800-‘900, si scopre che una delle
foto classiche attribuita al poeta che ispirò gran parte della poesia nuova del Novecento è un falso. Paolo Pianigiani ha fatto questi
accertamenti grazie al contributo del Prof. Stefano Drei, docente e ricercatore presso il Liceo Torricelli di Faenza. […]
87
Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga
fertile in avventure e in esperienze.
Costantino Kavafis, Itaca
In copertina: Sit, di Pietro Spica. Serigrafia, cm 24 x 17. Riproduzione fotografica. Per ulteriori notizie sull’autore:
www.pietrospica.it.
La piccola immagine in basso a destra nella seconda di copertina e in alto a sinistra nella terza di copertina raffigura la
sagoma dell’isola di Itaca.
Zanichelli
Frisa
Rogani
Mugnaini Mandolini
Socci
Gozzano
Ruggieri
ARCIPELAGO itaca: Danilo Mandolini – Via Mons. D. Brizi, 4 – 60027 Osimo (AN).
www.arcipelagoitaca.it
[email protected]; [email protected]