ARCIPELAGO itaca letterature, visioni ed altri percorsi ideatore e curatore: Danilo Mandolini *…+ Ma ei non brama che veder dai tetti sbalzar della sua dolce Itaca il fumo, e poi chiuder per sempre al giorno i lumi. Omero, Odissea - Libro I Le riproduzioni di alcune fotografie di Michele Rogani commentano questa seconda apparizione di ARCIPELAGO itaca. L’ordine di presentazione degli autori di VOCI è alfabetico. echi Attilio Zanichelli, a cura di Danilo Mandolini 1 - 17 voci Lucetta Frisa Ivano Mugnaini Adelelmo Ruggieri Luigi Socci Collage Guido Gozzano ARCIPELAGO itaca informa 18 - 36 37 - 52 53 - 68 69 - 84 85 86 - 87 Prima serie, seconda apparizione. Anno 1, 2010. E’ nato ad Ancona, e qui risiede, nel 1981. Da anni ha sviluppato la passione per la fotografia, probabilmente riconoscendo in questa forma di espressione artistica - e per sua stessa ammissione - alcuni dei tratti dell’esperienza vissuta dal padre pittore. Tra le mostre dedicate alla sua opera o che hanno ospitato le sue opere, si ricordano: Australia, dalla natura alla metropoli - 2008; Sport che passione - 2008; Messico - 2009; Protagonista Lavoro - 2009; Un ponte tra culture - 2010. Per ulteriori notizie: http://www.michelerogani.it Michele Rogani Da Un ponte tra culture Un ponte tra culture è il nome (o il titolo) di un festival eurolatinoamericano di teatro che si svolge da anni in diverse località della provincia di Ancona. E’ anche il nome della cooperativa che cura l’organizzazione dell’evento. echi L’Iliade - Un inno alla guerra contro la guerra (1), 2010 Attilio Zanichelli Attilio Zanichelli è nato a Sorbolo (Parma) nel 1931. E’ scomparso nel 1994. E’ stato operaio in fabbrica. Ha pubblicato le raccolte di versi Giù fino al cielo (con prefazione di Attilio Bertolucci, Guanda, 1973) e Una cosa sublime (Einaudi, 1982). E’ inoltre apparso nell’antologia Nuovi poeti italiani 1 (Einaudi, 1982). Si è anche cimentato come compositore e drammaturgo e ha curato, insieme a Renato Zangheri, i volumi Storia del socialismo italiano I: dalla rivoluzione francese a Andrea Costa (Biblioteca di cultura storica, Einaudi, 1993) e Storia del socialismo italiano: dalle prime lotte nella valle padana ai fasci siciliani (Biblioteca di cultura storica, Einaudi, 1997). 1 «Nelle composizioni di Zanichelli vagola un ciclope cieco, tra continui crolli di materiali e di terrore, con fughe e sequenze percosse su quattro o cinque accenti grandi, capitolazioni catastrofiche ad appassionati e straordinari luciferi, non senza gesti di impavidità, certezze, dismisure» (dalla premessa a Nuovi poeti italiani 1, Einaudi, 1982) Attilio Zanichelli: del vivere come in fuga dalla vita Di Danilo Mandolini 2 Della poesia di Attilio Zanichelli probabilmente colpisce, in prima battuta, il respiro vasto del suo scrivere; il periodare a volte lungo (così come quasi sempre il verso), spezzato da una punteggiatura sia rarefatta che incalzante, e a volte breve; le esclamazioni e le interrogazioni spesso serrate; le congiunzioni reiterate; una pronuncia che occasionalmente si priva degli articoli e che sembra anche sconfinare entro i limiti di un dire vagamente classicheggiante. Un versificare ricco e denso che, rileggendo ripetutamente con lo scopo come di cercare una sorta di veloce assuefazione al testo, finisce col connotarsi per una sua peculiare regolarità pur risultando, non di rado, sincopato. Questo procedere comunque non lineare non è frutto di un esercizio puramente formale; non risulta, infatti, disgiunto dai contenuti offerti al lettore. Si può anzi affermare che esso appare funzionale, forse appositamente messo a punto, per esaltare al meglio l’urgenza di testimoniare le istanze proprie della poesia di Zanichelli. La “tonalità” che sembra emergere evidente e ricorrente tra le varie toccate o sfiorate dal poeta è probabilmente quella che si fa carico di descrivere il rapporto dell’uomo con il suo stesso vivere: questo vivere per avere la vita che si consuma e consuma nella consapevolezza di non poter mai scorgere un approdo dal senso umanamente compiuto; questa vita “matrigna” che ci mette al mondo senza che noi lo si chieda (Sono finito quasi / con l’assaggiare la cosa più acerba, la vita / a cui perdono d’avermi creato); il vivere e il soffrire tra loro indissolubilmente legati, che precipitano il destino di tutti (e io sono con l’anima di ciascuno devastante tristezza) nel “catino” di un nichilismo profondo e tale da coinvolgere le origini stesse della nostra esistenza (Cent’anni prima di nascere, da soli / come siamo stati, ci abbandoneremo). Il poeta e l’intera specie umana (nonché la natura che, con alcuni suoi singoli elementi eletti a simbolo, sembra condividere la stessa sorte degli uomini) non sono semplici spettatori di questo dramma; ne sono anche, e necessariamente, attori. Attori, però, per lo più silenti, passivi; vittime, insomma, di un vivere che è soprattutto fuga dalla vita. Fuga perenne senza neanche più la forza di tentare di conoscere le ragioni dell’essere al mondo (vinti noi siamo da una fuga / su cui ancora ingràndina … calati nella festa siamo noi / a sparire nel buco della storia). Inequivocabili emblemi della condizione umana disperata e disperante raccontata da Zanichelli sono la figura dell’operaio (da lui “incarnata”) e la fabbrica. Nelle liriche Gli occhi del tempo e Fabbrica si dà voce all’estremo grido del poeta (che quasi diventa d’ispirazione civile), al grido che denuncia la spietatezza della sopraffazione della vita e del vivere sulle persone soprattutto quando queste sono riunite in un contesto anche solo minimamente sociale. Questa sopraffazione si fa infatti intollerabile nel momento in cui l’assenza di una spiegazione, di un senso umanamente compiuto come detto in precedenza, Attilio Zanichelli: del vivere come in fuga dalla vita riguarda proprio le dinamiche che si determinano nell’ambito dello sfruttamento dell’opera della maggior parte degli individui da parte di pochi altri (con quale legge ha reso la povera / classe serva per sempre, chi e quale sapienza / ha fatto degli uomini che avere debba uno / dall’altro che patisce il pane a tradimento?). Che non si tratti, qui, dello stesso grido innalzato da Marina I. Cvetaeva nel settembre del 1922 (fabbrica! fabbrica! Poiché si chiama / fabbrica questo nero alzarsi in volo.)? Vivere come in fuga dalla vita è, al fine e anche se definito - con decisione - inutile, comunque necessità, una volta vivi, di proseguire verso dove non c’è nulla (non fa niente! vivia- / moci pure! giorni da galera). Qui, il sogno (Ma pare che sia / dall’altrove dove non potrei per nulla / reperirla … è soltanto un sogno, una nuvola irreale / che solo nel sonno puoi averne l’estesa / impalpabile forma) e la poesia - la vicinanza alla quale, la pratica e frequentazione della quale sembrano essere l’unica vera vita vivibile (ma non è fuga / dalla vita la poesia che arde nella tua anima!) - rendono questo fuggire in qualche modo più “logico” e praticabile. Sogno (dimensione parallela al quotidiano e quindi fonte di benefica, nonché parzialissima illusione) e, in particolare, poesia (una lucerna / cauta che ricomparirà, con la gioia di vivere!) appaiono dunque come le sole “energie” in grado di costruire una speranza (molte volte è citato questo sostantivo, a differenza di ciò che accade per sofferenza e dolore) che è in ogni caso e solo, e consapevolmente, strumento essenziale a mantenere in essere la fuga; quasi ad alimentare l’istinto che muove questo nostro, imprescindibile scappare. L’essenza della poesia, la “sostanza” di cui la poesia dovrebbe essere composta - però, quasi non sembra definitivamente (o volutamente) circoscritta. A volte essa somiglia ad una divinità dai tratti umani; altre volte, invece, appare come una vaga entità dai contorni sfumati. La poesia è, addirittura, cosa. Quest’ultima esplicitazione, insieme alle altre messeci a disposizione, probabilmente ci porta diritti dentro il pensare dell’autore: la poesia, quasi non importa ciò che essa sia o rappresenti, ha tutte le potenzialità per essere, se non addirittura è - come già Zanichelli suggerisce, più vita reale della vita che viviamo. La poesia si palesa come l’unico “luogo” in cui è possibile - lontano dalle moltitudini che si corrodono e che tutto corrodono - il vero incontro con il nostro piccolo, stupefacente, dolcemente debole e disarmante, essere noi stessi (Eppure io sono come una crepa, e il mio sangue / non è atteso; la mia morte forse è soppressa). 3 Difficile è dire quanto sia rilevante rileggere Attilio Zanichelli in questo inizio di terzo millennio. Arduo è definirne i caratteri di attualità, le specificità in qualche modo adattabili ai nostri giorni di oggi. La forza della sua voce e della sua provocazione più profonda e vera (che tale era già negli anni in cui veniva pronunciata), quella, cioè, di vivere (di tentare di vivere) dando corpo alla speranza per una vita migliore soprattutto attraverso la vicinanza alla poesia - nell’accezione di cui al capoverso immediatamente precedente, è forse più potente oggi di quanto lo fosse, ormai più di trent’anni fa, quando i versi del poeta parmigiano venivano scoperti e resi pubblici. La maggiore potenza della provocazione di cui si è appena detto probabilmente così appare (assumendo i toni del monito; monito anche verso i tanti poeti che affollano il nostro odierno convivio) proprio perché il mondo nel quale viviamo oggi la vita riassume in sé, più che in passato, i caratteri della folle corsa verso il profitto sopra ogni altra cosa. Attilio Zanichelli: del vivere come in fuga dalla vita Breve ricordo Ebbi occasione di conoscere Attilio Zanichelli solo nella forma epistolare. Nella forma epistolare più “classica”, direi; quella in uso negli anni in cui, cioè, la “componente” digitale della comunicazione non si era ancora affermata. Nel 1993 gli inviai una selezione di miei versi organizzata in pieghevole. Attilio Zanichelli mi rispose subito e cordialmente. Soprattutto, indirizzò a me una sorta di benvenuto tra i frequentatori “ufficiali” della poesia e si preoccupò di raccomandarmi il massimo rispetto per questa forma di espressione artistica; di alimentare sempre e rinnovare la mia passione per la poesia. Ci scrivemmo ancora, poi – scambiandoci soprattutto versi, tra la primavera e l’autunno del ‘93. Successivamente: un periodo di silenzio. Nel ‘95 gli inviai il mio primo libro di versi che nel frattempo avevo pubblicato. Tempestivamente, come era accaduto nella prima occasione, mi fu recapitata una lettera proveniente dagli uffici postali di Parma. A scrivere, però – questa volta, era la moglie del poeta. Mi disse che Attilio Zanichelli era scomparso da circa un anno; che ciò era accaduto tra infinite sofferenze e con tanto sgomento da parte di lei che sempre lo aveva amato. La moglie di Attilio Zanichelli si premurò di affermare quanto lui amasse la poesia e quanto forte fosse la sua passione per questa; quanto lui avesse amato la vita e quanto questo sentimento fosse stato palpabile anche nei giorni di dolore che avevano preceduto la sua morte. 4 La scelta di testi di Attilio Zanichelli che segue è stata curata da Danilo Mandolini. NOTA. Il volume Giù fino al cielo è oggi introvabile. Diversi testi dapprima inseriti in Orsa minore sono stati ripresi, lievemente modificati e poi successivamente inclusi dall’autore in Una cosa sublime. Nel caso delle liriche qui selezionate e comprese sia in Orsa minore che in Una cosa sublime, si è sempre scelta la versione della seconda delle due opere appena citate. Da Orsa minore – in Nuovi poeti italiani 1, Einaudi, Torino, 1982 Attilio Zanichelli Un fiume la vita Non posso dire niente e nemmeno che ascolto il bando convenuto sotto questo azzurro giorno imbandito di ciarpame e solite creature spargere la voce che andrà bene ogni cosa, quando ogni cosa non potrà essere che marionetta in ogni occasione vestita della ruggine del palco dove si compie per l’ennesima volta il solito gioco. Impallidisco al sempre e perché questo fuoco non alterna la vita, ma tutto si presta come quando per salvarsi bisogna seguir la corrente. Un fiume è dunque la vita? x5 Da Orsa minore – in Nuovi poeti italiani 1, Einaudi, Torino, 1982 Parole di testamento Sono finito, eppure una cosa alta e nobile mi richiama; sopra di più che qualsiasi, che ascoltandola fra i forse o meno, quasi convince. Ma pare che sia dall’altrove dove non potrei per nulla reperirla; e quanta ansietà sia in me è soltanto un sogno, una nuvola irreale che solo nel sonno puoi averne l’estesa impalpabile forma. Sono finito quasi con l’assaggiare la cosa più acerba, la vita a cui perdono d’avermi creato. Sono nato in una famiglia la cui origine miserabile visse nella clemenza della morte, e disperò, chiuse la bocca e piegò la schiena per molti anni come chi solo cammina, ma scorge visitare lo spirito dell’amore alla terra, al cielo, alla giustizia soffrendo di un suo splendore. Sospiravo tacendo, parlavo a me stesso, e, pochi minuti prima dell’ora in cui seppellivo il mio corpo nella morte, nella fabbrica chiusa a ogni bellezza pensavo con gioia a una vaga speranza. E’ tutta la mia vita questo, che alza a servire la luce, ma come un giorno staccherò dalle mie mani la terra così il sogno, proteso a lungo, andrà a morire come un raggio di sole. Anche gli ultimi lampi, l’ora fresca della notte partirà come sempre. Intanto, non un solo e vago senso di noia come la campagna cupa sotto autunno, ma gli anni che affrettano. Passai al vento di quel sottile essere ideale del mondo che niente ha potuto per me, tranne i sogni. Vagai per i fiumi con le braccia aperte. Nell’acqua che non risponde. Attilio Zanichelli x6 Da Orsa minore – in Nuovi poeti italiani 1, Einaudi, Torino, 1982 Nausea Nausea quanto mai dura! impossibile registrare! scafo logoro e piagato contro ogni ideale! in e dentro ogni albero relegazione! non fa niente! viviamoci pure! giorni da galera, braccia semi-morte, onde la piaga non cicatrizzata strilla evviva la fine! io so che duramente duratura ogni animale falsità le ali spalanca! adoratissima è la bestia! io andrò dove non c’è nulla, che la geografia rapida stesura di un incontro con baratro! sole che ai cani fa demolire la vivacità degli occhi! in che razza di niente, Cristo, vivo per avere la vita! là è sorta una valanga e ha smorzato il respiro! qua è schizzata dalla faccia della terra la nausea méndica! dov’è che vado io? in che malattia? morte spazzina, dove? in fede, morituri, ampia luce vedremo a fine stagione! che sia tutto maledetto, quando la belva balla superato l’ostacolo! Attilio Zanichelli I giorni Che tu sia legato all’urlo della sirena poco importa, spento il coraggio nella stanza solo sotto la sete maggiore, i vermi sono presenti nella tua emicrania. Qualche domenica ruba alle tue mascelle un sorriso, e chi hai vicino è preso nel tanfo della tua bocca. Le rondini allontanano il cielo e quel che resta. x7 Da Una cosa sublime, Einaudi, Torino, 1982 Diario Sapete di cosa io vi parlo? No, non sapete; forse di un ricordo con la mano sotto il mento, mano indurita di ghiaccio, rado cade che singhiozza nel mio occhio. Devo comunque intrattenervi, poco visitatori qualche volta ai detriti della mia carne, poco chiarezza di cosa sia portare un peso nel letto d’acqua della vita. Mi piego come sulle scale si piega il malato o l’ospite davanti la porta. Dirvi il significato estremo, lo so. Ma voi, davanti ai cancelli serali dell’arrugginito giorno. Attilio Zanichelli Poesia Ah dolce poesia come tremano le lampade! L’ora accoglie il sudore! Spremo il salice a gridare che, se la luce lo scioglie, quasi è un verbo dentro e mi parlerà. Tende all’estremità della terra la sua angoscia, bevendo la pioggia notturna, ora che nulla è corrente! Il velo che la rischiara dietro ogni desiderio non abbatto, ma cerco un istante, una lucerna cauta che ricomparirà, con la gioia di vivere! Eppure io sono come una crepa, e il mio sangue non è atteso; la mia morte forse è soppressa, i miei passi verso di te sono incerti, e ricamo con un gesto questo tuo splendido altare! Sicché tutto sulla mia fronte è un disegno oscuro di ferite a cui coadiuvo con il seme che perdo, con le mie rose eterne, con il mio credo inutile che tu possa solo un attimo di felicità dividere con la vita dell’uomo! E’ questo il gioco cui attendo da sempre, la foglia che ricade di amore sopra la tenera vita, ma non è fuga dalla vita la poesia che arde nella tua anima! x8 Da Una cosa sublime, Einaudi, Torino, 1982 Nostalgie Suonavano in limpidezza dall’argine alto, altre sulla fronte salutavano le gocce. Era già pensoso lo squarcio fra le nubi del sole rimasto, laggiù che da un filo bruno la torcia d’esso lampeggiava e pace inquieta vagava. Altri fiumi vedevo nel corso dell’acqua, acqua degli occhi ormai sapeva sciupare il volto, di altre parole l’animo splendeva accorto ma fuggente, di altre corse nell’ignoto spirava sulla bocca la voce. Avevo solo una croce al mio desiderio che morì sottovoce. Ai ripari adesso e presto corri ch’è cambiato il mondo. Attilio Zanichelli Le foglie Chissà perché le foglie si sono agitate, le madri celesti della terra. Io che non acciglio loro ancora e non ricordo cosa siano né perché si lasciano recidere. Il vento ha brevi attacchi come un malato, elimina la foglia fragile della bocca devastata. Bisogna che io parli loro come a immutabili santità misere sorelle fiatevoli del perdono. Si sono racchiuse nelle mani in un pugno morente. Tutta l’eternità è vuota davanti a loro. Hanno gremito le strade quando è triste il soggiorno e imputridiscono deferite alla marcezza. Le calpestiamo ai bordi delle pietre, sfinite e inutili come nella visione che travolge ogni senso e attaccate alle suole vibrano di tremiti. Io sono come una di queste, mi frastorna la pungente ira della ghiaia sotto cui sono quando scricchiola il passo malinconico che rincasa stordito e scorge la luce della scala monotona e sorda, e io sono con l’anima di ciascuno devastante tristezza. x9 Da Una cosa sublime, Einaudi, Torino, 1982 Gli alberi Se oggi non sapessi nulla, fosse rimangiato fosse rimasto nel buco l’io disperato, quello che credetti di sapere annegato e me ne stessi curvo ad aspettare risposte o sassi alle memorabili finestre da dove guardavo e tacendo sorridevo e forse nemmeno da tanto aspettassi di meglio che guardare e attendere come le rose il pianto della pioggia; se oggi mi perdessi nella ricerca ansiosa dove trepidamente sentivo che le mie mani rinchiuse sfogliavano petali arresi al dicembre di gelo; i miei occhi avevano lasciato ripetere le parole esauste per strati di vuoto spazio, nella bocca d’un sole incerto e pendolante ora che attendono gli alberi; gli alberi che sanno meglio di me ogni cosa e niente può dare torto alla verità che vive quanto può ignorare tutto sapendo di morire. Attilio Zanichelli x10 Da Una cosa sublime, Einaudi, Torino, 1982 A Franco Fortini La cosa chiamata poesia Ne ha di meglio lei, lei abbronzato nel solco prima e dopo. Vinti noi siamo da una fuga su cui ancora ingràndina. La cosa più temibile perché non si vede non è più che un segno sulla carta, l’ombra della vita. So che passeranno molti anni prima di trasportarla su un catafalco ma vi arriverà, stordendo ognuno un po’ falco che già cammina a passo aperto. L’uomo che si è offeso accusandola vicina ora prova sollievo che si sia disprezzata. A volte essa fu di corte. L’imbandivano di musica e ognuno l’imparava a memoria dicendo all’acqua e al sonno giusto amore che rideva da fonte e spettinava il cielo. Era dietro l’omaggio della mensa, quasi fuori del suo rango, cui di nulla si appropria o fra le bettole si cantava, dolce carme. Poi veniva la notte e il suo cantore la mandava alla luna, in qualche caso prefigurava il lamento del cuore a prova d’innocenza e virtù. Poi fu l’ultima stagione, come quando viene l’inverno e sugli alberi la corteccia s’inumidì di fine argento in grido all’imbrunire. Le si staccavano le rotule, ogni pezzo stava inchiodato a sé e lontano dall’altro e pareva la sua bocca disperata a chiamare almeno ad unire ciò che non si potrà dividere mai nel mondo, purché ci sia quel fulmine che provvede a separarla dall’inutile. Brulle ossa senza nome calati nella festa siamo noi a sparire nel buco della storia. Cent’anni prima di nascere, da soli come siamo stati, ci abbandoneremo. Attilio Zanichelli x11 Da Una cosa sublime, Einaudi, Torino, 1982 Gli occhi del tempo Che specie ritrovo in questo mio specchio, di me? Forse il calore levato dal cuscino del letto mi porta due segni sulla guancia mai speranza, qualche gradino più su con altri desideri, finestre su porte contro cui già vedi il luogo di sempre fatto a silenzio di notte e a rumore di giorno. La luce della grandine quando c’è dalle montagne. Questa notte ha i catrami in cielo. L’alba giocherà domani con i passi degli operai Non so se sia giusto o no, i loro occhi si scaldano alla luce dei fiammiferi. Guardi i loro abiti dimessi di uomini giusti per fare campare coloro che nulla faranno sognanti dalla vita inutile fuga, chissà che non li addormenti una piacevoli favola. Da essi trapela la solitudine come enigma dell’anima, dirsi le cose in fretta e asciugarsi la bocca. Qualcosa che non ha né la mente né l’amore in questo gioco tremendo che ispira vendetta lo dici allo specchio. Esso vede un bisogno. A te nulla chiede né una promessa ha luogo. Ogni promessa mancata. Perché viso si tonda di un’altra grazia che annega domani. Quanti sogni sono andati perduti davanti allo specchio che reggeva misera l’anima. Quante notti avranno i catrami in cielo dopo il tramonto. Attilio Zanichelli x12 Da Una cosa sublime, Einaudi, Torino, 1982 Fabbrica Chi ha paura di essere chiamato al destino di ogni giorno come io operaio alla Bormioli Rocco e figlio che vanta al capitalismo un secolo di lacrime? Se potessi alla durezza vivace del tempo con sconsolata pace restituire le mani mie chiuse di dolore, la coscienza atroce dei miei occhi come a inebriarsi sul mare vanificando e tutto, ridendo a lenire la sofferenza dentro codesta carne, come povero che cerca non da Dio una risposta ma perché un attimo è duro a sorridere gettando in un corpo il mio corpo a morire, la mia ansia che vuole sorridere e invece deve piangere! Come so di quale odio ha fatto pieno il suo ventre la terra, con quale legge ha reso la povera classe serva per sempre, chi e quale sapienza ha fatto degli uomini che avere debba uno dall’altro che patisce il pane a tradimento? Per bontà dell’amore? Per peccato d’origine? Ah dolce mattina io sto passeggiando dove le pietre non hanno risposto, i paraggi hanno scelto per me che io viva di luna e foglie e sogni, fino a che bianco sarà ogni ritorno in nulla come cader di neve da ramo taciturno, ideale che sa ognuno al mondo e traduce in silenzio ogni giorno, e non ha mai pace. Attilio Zanichelli x13 Da Una cosa sublime, Einaudi, Torino, 1982 Attilio Zanichelli Estate I platani sotto cui questa estate vagando mi sono rimasti nella memoria, ricorrono ancora nei momenti in cui posandomi presso loro, vicino mi facevano sentire che la vita perdura pur tenendo in serbo che la morte è presente, come quando in un silenzio affogato nella luce del sole di ogni mattino, che visitava i luoghi e i corpi di nonnulla seminati nel parco e dovunque, destavano che tutto somiglia a un tempo e ai momenti che scelgono per noi morti, vivere in quest’ultimo accordo. Precipitando sempre nei tormentati anni passati, sotto la bufera inquietante di giorni irripetibili ormai, qui mi son visto, persuaso che la coltre di ogni affanno persiste, alla pura e tale dolcezza che quaggiù si vive, ma dimenticati da tutto, nel profondo strappati, al bersaglio d’un grido che sopraggiunge imposto dall’ordine del momento come se non ci fosse più nulla che orbitare nel vuoto, trasalire di un flusso di corrente non previsto e in modo suo morire. x14 Da Una cosa sublime, Einaudi, Torino, 1982 Come una storia Portava un secchio d’acqua, e la stella lo guidava raggiante, per il sentiero. Poi una volta cominciò a cadere pagando nella fossa quel dolce fresco. Aveva pensato a tutti quelli che caddero e manifestarono di volersene andare bruciando sempre, ed entrò nella fabbrica dove le ore passano meglio e sulle porte ci sono scritte come che spazio e tempo servono meglio il mondo (credendo che altro lavoro perdoni). La vita fruga meno sulle spalle, nel terreno della coscienza perché c’è chi porta via questo sudore lottando perché non sia intinto del sangue della terra. E il secchio d’acqua fu lasciato laggiù sotto la neve d’inverno e a marcire. Gli alberi furono conquistati dalla notte che li gelava, e assorbirono la pace delle radici profonde. E le fosse non c’erano, alte in cui cadere con il secchio o ai bordi lacerati sotto cui l’ansietà dell’erba sfuggita al vento è muta, ma quell’aria tra il ferro e le mura senza sogno di portare un secchio d’acqua questa volta dal fiume, dove i piedi toccavano l’ultima candela d’ogni speranza, di avere per qualche istante goduto prima di morire in faccia il vento che taglia in fronte. Povero sole che sei rimasto solo a guardare i rami desolati e il vuoto e che passi ogni giorno predando i raggi nel solco e guardi sfiancato dalla tua forza le rondini solitarie propagandosi in una corsa di luce più bella, dove non vuole più l’uomo semplice costruire il bacio della terra con il suo sudore. Povero volto che temeva di sapere che la vita non gli fosse di fronte. Attilio Zanichelli x15 Da Una cosa sublime, Einaudi, Torino, 1982 Una sera sul mare Molto vicino al mare dove credevo fosse la luna catturata dall’onda e pensavo a quel beneficio che rende calmo il guardare; molto serrato dove come uno straniero vagante conduce la felicità a dubitare. Non sapeva di niente il mio mare né la sabbia azzurrata da una macchia d’ombra. Guardavo gli orizzonti già distesi di pace, il sudario del mare come l’esistenza infinitamente inutile se non fosse per grazia di speranza. Attilio Zanichelli Una cosa sublime A una certa ora, monotona come il declino del corpo, vive in me uno sperduto sublime di cui non ho più sentire né voce o presenza dolce di quando pareva cantare da un rudere. Una rara e confusa memoria di come chi firma con una croce, come una incauta rondine si aggrappa a fili invisibili. Essa pur sempre parla invidiata dall’altitudine da cui si appresta, sorridendo e talvolta rompente come chi non ha mai peccato, orba del vuoto come io di ciò non posso, e stento ad afferrarla mentre essa mi sgomenta, quanto toccarla mi svanisce. E’ certo troppo lontana. E’ impenetrabile per noi e si chiama delizia del giusto. x16 Da Una cosa sublime, Einaudi, Torino, 1982 Accadde nel parco Mi sono preso fra le mani il mio bimbo, lungo quello spettacolo che egli vedeva, nutrito e lo sollevai in alto come una bandiera, e lo portai al parco, poi lo feci sedere un mattino sulla panchina e cominciai a divorarlo, spensierato che non accadesse nulla poiché soli eravamo. E pensai ai suoi abiti, le sue mani paffute e il brillare degli occhi. Al piccolo lago attorno che guardavo e lo alzai come una pianticella senza radici. Per questo tempo, tutto il tempo rimasto fuori col mio bimbo sordo e irrispettoso. Vuole andare chissà dove. Io non volevo andare per niente. Ancora non c’ingannammo spaventati l’uno dell’altro. Tirammo da una parte e dall’altra le braccia finché fu solo ai suoi occhi il mio sorriso spento, e lo alzai in alto, come una bandiera, una pianticella senza occhi, senza radici. Mise a tremare il suo corpo e poco tempo dopo fummo lontani. Egli passava la sua testa sulle foglie, rimase a lungo coricato come l’erba falciata, un altro figlio forse di un altro mondo con un’ala spezzata. Attilio Zanichelli x17 voci Lo scienziato e la formica Giullarata di fine millennio (1), 2010 Lucetta Frisa 18 Poetessa, traduttrice e lettrice a voce alta, è nata e risiede a Genova. Numerosi i suoi libri di poesia: La costruzione del freddo (Ripostes,1990, nota di M. Ercolani), Modellandosi voce (Corpo 10, 1991, nota di M. Coviello), La follia dei morti (Campanotto,1993, nota di C.A. Sitta), Notte alta (Book, 1997, postfazione di S. Verdino), L’altra (introduzione di A. Lolini, Manni, 2001), Siamo appena figure (GED, 2003), Se fossimo immortali (postfazione di M. Ferrari, Joker, 2006) e Ritorno alla spiaggia (nota di G. Fantato, La Vita Felice, 2009). Sue poesie e prose sono apparse in “Poesia”, “Pagine”, “L’Immaginazione”, “Riga”, “Nuova Prosa”, “Italian Poetry Review”, e in diverse antologie tra cui Il pensiero dominante (a cura di F. Loi e D. Rondoni, Garzanti, 2001), Trent’anni di Novecento di A. Bertoni (Book, 2006), Voci di Liguria (a cura di R. Bertoni, Manni, 2007), Altramarea (a cura di A. Tonelli, Campanotto, 2007) e antologie in traduzione come Poems from Liguria (a cura di R. Bertoni, Trauben, 2009). Ha tradotto Henri Michaux, Alain Borne, James Sacré e due libri di Bernard Noël: Artaud e Paule, 2005, e L’ombra del doppio, 2007, per le Edizioni Joker. È redattrice de La Clessidra e collaboratrice de La mosca di Milano, e del quotidiano Avvenire che ospita i suoi racconti per ragazzi. E’ presente in diversi siti web come http://rebstein.wordpress.com, http://viadellebelledonne.wordpress.it e http://vicoacitillo124.it. In coppia con Marco Ercolani ha scritto, di narrativa: Nodi del cuore (prefazione di F. Rella, Greco & Greco, 2000) Anime strane (nota di M. Dotti, ivi, 2006) e Sento le voci (postfazione di M. Barbaro, La Vita Felice, 2009). Con lo stesso Ercolani cura la collana I libri dell’Arca per le edizioni Joker dove ha pubblicato, in prosa, Sulle tracce dei cardellini, 2009. Le sue poesie sono tradotte in rumeno, inglese, francese e spagnolo. Più volte finalista in premi nazionali come Il “Montale”, il “Montano” e il “Tortona”, ha vinto il “Lerici-Pea” 2005 per l’Inedito. Da La costruzione del freddo, Ripostes, Salerno, 1990 Lucetta Frisa La passione Della passione le inclinazioni segui quella che ti assomiglia ma che sia generosa. Il cuore delle cose è fiamma fiamma il tuo cuore se si spalanca allo spazio e accende le corrispondenze in eloquente calore. E’ la ragione istintiva del rosso: scavalca i punti di quiete brucia l’osso e l’idea pulsando nel dolore e sul foglio vivo e li tramuta in opera. Se il grigio ingrigisce i sensi e assopisce il senso del tuo viaggio ricòrdati del rosso che brucia sotto e ha il colore del risveglio. 19 L’inadeguatezza Dell’inadeguatezza le inclinazioni conducono lontano dal tuo corpo, l’alto desiderio innalza rupi e più sali, più la strada scende. Con la freccia spuntata miri al leone coi piedi scalzi attraversi bufere leggi parole che scompaiono – sbagliano l’occhio o il libro? L’acqua trabocca si frantuma il vaso nulla si versa in te e non ti versi in nulla: impara con penna e foglio la misura tra parola e sogno e in mezzo la mano. Insegna l’inadeguatezza a fermare qui il visibile. *…+ La natura umana esige una temperatura né troppo calda né troppo fredda dove il conquistato tepore (e per analogia il grigio della malinconia) sia la risultante naturale del conflitto vita / morte, inconscio / coscienza. La stessa struttura del poema lo suggerisce: diviso tra il furore morale della denuncia e la necessità poetica della costruzione, si consegna serenamente al proprio destino mortale. *…+ Marco Ercolani, dalla postfazione al libro *…+ La metafora invernale de La costruzione del freddo trasfigura a sua volta la rappresentazione di un dolore estremo, nella quale la realtà viene tradotta in visibile stupore, di fronte a dati emozionali *…+. Stupore modulato con rara precisione stilistica, in uno sguardo perennemente dettato da ansia morale, a uno stato di attesa, di allarme e di vigilia. *…+ Lorenzo Morandotti, in “Margo”, n° 8, 1992 Da Modellandosi voce, Corpo 10, Milano, 1991 Lucetta Frisa Zoologia dell’ombra *…+ Selvaggio, vagavi nella foresta: trapassato dalla mia freccia eccoti ora in cornice. Ci scrutiamo dalle gabbie - spazi astuti misurati limpidi nomi domestici sul dizionario. Inappagati come entrare l’uno nell’altro con armi già sopraffatte? Chiudere gli occhi non basta più per farti morire. Lo sguardo smembrato un fremito ci percorre e ci allea. 20 Senza fame, staremo accanto. *…+ Parlare della notte All’alba qualcosa bisbiglia nel buio un suono incerto non appartiene ancora alla mente alla sua aria chiara diviso dal mistero della notte terrestre che guarda e ascolta con altri sensi. Là si sente il pensiero come un corpo la parola vibra ancora muta, se il nome va verso la luce il silenzio e l’occhio non hanno specchio. Parliamo del sogno e siamo stranieri insensati per il giorno sonoro infedeli al silenzio, al suo segreto: sulla frontiera battuta da luce e buio ci interroghiamo indecisi cosa essere. E il giorno ci adesca nella sua terra visibile che sembra limpida ora, una geometria vuota: sarà difficile parlare della notte con queste parole. *…+ Il verso si libera dal verso, si fa discorso a volte prosa poetica, così la lingua insegue il canto. Lo conduce all’aria aperta, lo ossigena. La voce che modella i modelli è arrogante, cioè sentimentale: come la forma che ogni testo indica. Ma la lingua è invece piena, resa rotonda e barocca dall’accanimento, dalla precisione del flusso poetico. *…+ Michelangelo Coviello, dalla nota al libro Da La follia dei morti, Campanotto, Udine, 1993 Lucetta Frisa Canzoni della canzone a Gaspara Stampa 1 Antica amica mia la mia canzone levo per te in questo vento breve che sembra separare e in un accento unisce attimo penna anima voce e illumina il mio suono nel rumore. tu l’hai lasciato nell’aria sospeso un dono arioso dall’aria levato che la parola cresce nel suo vuoto incendia sangue e foglio come fuoco. È la legge del canto. Ancora ascolto oggi, nell’aria antica, nuove arie. Solo scavando nel suono del tempo con le parole gioco semino vento l’anima ardo e che mi ascolti invento. *…+ 21 *…+ 3 Attimo fermo nell’aria fuggente - sembiante, idea, un ostinato sogno che al buio insensato sa resistere solo sul calmo foglio ha compimento. Trova pace in quel bianco breve spazio che ricompone e scompone lo strazio e riconquista libertà errabonda più libero e sicuro nel suo regno. Legge del desiderio: cosa umana, troppo umana che nella carne affonda; se canti, la passione resta gioco se canti, il dolore va sull’onda, foglia più lieve su più lieve foglio - ardendo diritta e ferma questo fuoco. *…+ *…+ …con La follia dei morti l’autrice conferma in questo canzoniere d’amore la sua vena fra lirica e favolosa… *…+. *…+ La qualità più rilevante del testo consiste nella sua ricca e originale invenzione linguistica, che non solo non ne riduce il margine di comunicativa intelligibilità, ma si rende apprezzabile per la costante tensione di ricerca *…+. Francesco De Nicola, in “I Limoni”, Caramanica, 1994 Da La follia dei morti, Campanotto, Udine, 1993 Lucetta Frisa Canzone dei trucchi a Emily Dickinson Scelgo i compagni - il foglio bianco e la notte e poi chiudo la porta. Conto i miei trucchi - tavolo penna e calma e l’abito assoluto che allude a se stesso. Solo le parole si muovono strappano qualcosa a qualcosa. Qualcuno è morto non so se fuori o nella stanza. Scrivo il suo urlo perfetto. 22 Dietro la stanza c’è il soffio - dicono. Chiamerò sul mio letto soffocata il suo ultimo senhal. Chiudimi gli occhi – dirò come si chiude una porta. Chiudimi col tuo soffio. Come mio padre chiuse la porta e mi lasciò piangere al buio. Come mia madre la riaprì e mi lasciò un filo di luce. Guardai solo quel filo respirai quel filo. Senhal ti chiamo con ingannevole nome sino all’ultimo. Riportami dove sono nata dove mi diedero consonanti terrose e dure come ossa impacciate e vocali vuote aperte nella gola e mi dissero «Invéntati l’andatura e il volo». Mi diedero occhi e piedi polmoni e penna velati di trucchi per fingermi viva. *…+ Preso nel muoversi dei semi elementari, portato dai fogli alchemici a scivolare nel tempo e trasmutarsi di voci in voce, intessuto da echi di memoria del vissuto *…+, chiamato al giro del suono e alla malizia forte quanto imprendibile e mobile dei significati, La follia dei morti si libera in un’andatura di cui conosce segreto e felicità di mostrarsi. *…+ Alberto Cappi, in “La Clessidra, n° 1 / 95 Da Notte alta, Book Editore, Ro ferrarese (Fe), 1997 Lucetta Frisa Teoria dei colori Bianco Arida neve che nascondi il cuore la terra e di ogni cosa la sorgente e discendi sprezzante dall’altezza fredda teoria di mente in malumore. Simuli il giorno la luce la chiarezza il tempo escludi nel tuo bianco puro l’altra tua parte, il tuo oscuro passato l’inizio della febbre e il suo futuro. Ma la tua perfezione immaginata non dura che un respiro onnipotente, perché ogni cosa si sporca e si tramuta nel suo contrario e dal contrario in niente. *…+ 23 *…+ Rosso Non posso fare una poesia col rosso il rosso è qui e ora e non si scrive è la poesia una creatura animale? Il sangue vivo una figura di sale? La memoria ha visioni da trovare - il rosso esplode rosso sul fondale se il rosso non è mai lo stesso rosso è la poesia che sembra rosseggiare. Nel rosso non si specchia la poesia che nasce per rincorrere qualcosa nel controverso brucia l’eresìa con altro rosso ricolora la cosa. *…+ *…+ La poesia della Frisa, ma la poesia in generale, si sforza invano di «muovere le parole» e di ricostruire l’antico sentire dell’uomo. Come nel quadro di Bruegel, i ciechi trascinano gli altri ciechi e non ascoltano. Così si spegne la sete della vita. *…+ Franco Loi, da E’ dolce la morte in provenzale, in “Il Sole 24 ore”, 24 agosto 1993 Da Notte alta, Book Editore, Ro ferrarese (Fe), 1997 Lucetta Frisa Danza intorno a una rosa: tre coplas (alla maniera di Jorge Manrique) Rosa aulentissima fresca non sai d'essere una rosa creatura Ti senti albicocca o pesca di un'altra più zuccherosa natura Allo specchio che importuna tu rispondi con il sonno resti chiusa Invisibile regina che vuol essere dal mondo esclusa. 24 Rosa sola e relativa assoluta sola rosa sulla scena. Semi morta semi viva con la posa senza posa fuori scena Giù il sipario ed ogni ora in un battere di ciglia si fa tarda Si cancella la signora chi la sogna chi la veglia chi la guarda. Intorno nessuno danza non ti chiama più coi nomi di un bel fiore C'è l'ignorare l'assenza dimenticare illusioni di un colore Qualcuno fece il ritratto al tuo corpo rapinoso e ignoto Questo è stato l'ultimo atto poi il mio verso fu noioso e vuoto. *…+ …quanto più la poesia appare rarefatta tanto più assume un corpo fatto di ritmo, parole – corpo, voci, con evidente propensione a una teatralità del testo ed una sua irrinunciabile vocazione tattile. Scaturisce una forte identità della poesia fino alla sua forma più limpida, nell’essere canto, dove la sicura misura delle varie magie in opera (dal ritmo all’immagine) permettono anche di recuperare il tempo minore dell’io o addirittura una personale interpretazione di poesia civile. *…+ Stefano Verdino, da Il filo della poesia, in “Nuova Corrente”, n° 112, 1993 Da Gioia piccola, All’antico mercato saraceno, Treviso, 1999 Lucetta Frisa 25 Polvere Volevo scrivere un poema sulla polvere come un'immensa spolveratura mi avrebbe lasciato più quieta forse un po' meno ansiosa ma quando si parte dal grande non si raggiunge nulla neppure una sillaba bisbigliata. Cominciamo dall'inizio: io, la casa e la polvere - tutti i giorni. Non ho mai capito se spolverare sia evocare condurre ieri qui davanti a me come un immutabile cristallo togliere via i miei secoli farmi dimenticata eternamente. Sempre ho immaginato la polvere scendere di notte sopra il naso dei mobili su tutta la pelle della casa scendere Ma poi lei al buio così non si può mandarla indietro. non scende più Forse spolverare è un atto duplice come quando si nasce non soffoca e si comincia subito a svegliarsi o a dormire resta distesa lì secondo i punti di vista. noi e lei Anche la gatta lecca i suoi gattini appena nati. si resta lì insieme. Appena nati si comincia subito a fare pulizia di grembi precedenti gusci vuoti minuti vecchi e non si smette più di trafficare rallentando o accelerando lo spolverìo. Chi usa grandi armi per combattere chi solo penna e stracci sognando il deserto e il monastero in un vento senza polvere. *…+ Struttura: fluida, molto variata, rapsodica – come quella di un vaso elastico: un vaso – memoria dove si intrecciano e risuonano ininterrottamente voci di ogni timbro e tonalità. Musicalità: presente con percussioni, a tratti accesa. Con pause e aritmie. *…+ Carlo Rao, da “Pretext” a Gioia piccola *…+ La misura “piccola” è la realtà di un letto sbarrato, di pareti che non esistono e *…+ i pochi metri quadrati di quel letto sono il confine di tutta una casa. Ma sono ricchi i voli che Lucetta Frisa tende su questo precipizio, arretrando alle fiabe d’occidente e d’oriente, usandole come unguento alleviante. E, come in una fanciullezza rivisitata, sfiora le cose dei dintorni… *…+ Elio Grasso, per Gioia piccola, 2000 Da L’altra, Manni, Lecce, 2001 Lucetta Frisa 26 *…+ Dove sta il ricordo in quale casa in quale mattone neurone cellula fibra appare appena raschio l'intonaco ombra tagliata di striscio e non parla italiano nessuna lingua di padre o madre. *…+ *…+ Scrivesse in follia i veri saggi non scrivono sono la loro parola gli animali non scrivono sono dentro di loro perfetti nessuno che voglia cancellare il mondo neppure cambiarlo o rimpiangerlo una radiografia la sua scrittura di nervi e sinapsi, il dono vorrebbe -sacro- di non scrivere quello che non si può. *…+ *…+ Le nuvole avevano colori le venivano addosso a volte bianche a volte oro rosso lei si fermò le bastò un brivido un colpo di vento e grazie disse a voce alta grazie a voi nuvole entrate con prepotenza nelle mie lacrime. Non nascerò più, pensava, ora sto nel respiro del colore di una mente appena morta che deve assestarsi così per secoli per secoli ragionando in lingua atona bianca. Non scrisse più. Non seppe più scrivere. Non ricordò neppure l’alfabeto. Dunque, dicono di lei, che non ebbe più parole. Solo visioni. *…+ La Frisa ha sviluppato *…+ un discorso in cui si coniugano memoria e linguaggio in un modo avvincente e convincente, fondato essenzialmente sulla capacità di far reagire una fortissima istanza metapoetica con un sicuro senso del ritmo, in vere e proprie partiture drammatiche *…+. Un’opera, dunque, stregonesca e stregante, segnata dai bagliori stilistici dell’assoluto, questa della Frisa, in una lingua mutevole e lunare, drammaticamente “altra”, la cui esplicita ambizione è far “sopravvivere in punta di penna”, quell’idea di sé enigmatica e femminile, che ognuno si porta dentro come una risorsa o una condanna *…+ Vincenzo Guarracino, da Poesia al femminile in punta di penna, in “Il Corriere della sera”, 11 aprile 2002 Da Siamo appena figure, Biblioteca della Ciminiera, Civitanova Marche, 2003 Lucetta Frisa 27 Teatro della luce Sogna - lei ordina al suo corpo che contiene ombra e luce sogna quello che non sai, quello che sai dimenticalo. E si gira su un fianco le palpebre cominciano a tremare per una folla di scene lente e bisbigli di labbra appena mosse da un senso. Ad ogni tremito passano i secoli. Quanto dura l’assenza? Ritornano pezzi di figure, forse dita sulla fronte, freddo. Sente gli occhi smarrirsi nella materia del sogno: è ombra invasa da un soffio che va stordita verso l'altra metà della luce. Quando fu pesce anfibio rettile uccello? In quale pausa si annida l'estasi? Nella materia, lampi di un altro mondo: te ne andrai via – l’avvisano – sii pronta. Lei torna indietro per le vie del sonno. Dopo c'è solo un passo: poi saprà? Veglia le sue immagini che l’ombra le riporta dalle ombre. Se sogna potrà leggere se stessa. Nascono tenere le cose. Da un grembo vanno verso un grembo. Luce stretta tra due ombre. Libertà non c'è né elevazione; la terra sta tra le sue sbarre. Solo il sogno è respiro. Si parlano parole parlate da altri si sognano sogni di altri i morti vegliano i vivi per poter parlare. Limite non c'è tra uomini e astri? Sotto un cielo mortale il greve pensiero ottico sembra lievitare se si sogna. Sfila la luce nel suo scorrere come il serpente la pelle. Il sogno si è conficcato nel midollo lei sente il calore raggiungere l’osso: agiterà le immagini e il flusso delle idee. Col viso raggrinzito, gli uomini adulti non hanno scherzi di luce sul collo. Da Siamo appena figure, Biblioteca della Ciminiera, Civitanova Marche, 2003 Lucetta Frisa Si cammina o si è fermi? Si ritorna o si va? Non se lo chiede: sogna. Quali cavalle la porteranno sull'orlo delle cose a sud o a nord del giorno e della notte rotolando liete nel nulla? Se capire è essere privi di vera sapienza sono viaggio e fine e poi di colpo un sipario? Molte domande sospingono la sua indivisa scrittura. Per una parola più flessuosa delle altre qualcosa sembra fare cenno. Tra la palpebra e il sonno come un’onda frenata sta la luce e non sta. 28 È lei che sogna il giorno e la notte. E giorno e notte sono sogni impigliati fra rétina e nuca. La luce la legge sul fondo mentre scrive la affida al polso emozionato. Sale alle labbra cade assopita sul foglio: è un bagliore la poesia. Le cose non si possono aprire né dire limpidamente come profezia. Materia opaca negli spazi mortali materia sempre scossa il sogno luceombra girovaga. Cielo e cervello si riflettono in fiori e figure d’altre lingue perché il doppio di ogni mistero è capovolgere il vuoto. Se sogna l’argilla sente umida luce prendere forma e fiato, l’asciutta screpolare le sillabe la troppo veloce farsi polvere. Se sogna può accogliere ogni figura e ciò che le disfa. Da Siamo appena figure, Biblioteca della Ciminiera, Civitanova Marche, 2003 Lucetta Frisa Quale altra luce uscirà da questa polvere a seminare nelle radici secche la divina meraviglia? Quale altro sogno si sognerà dopo questo? Fiato fiato nel vuoto talvolta riprende da capo un racconto che tutto vuole raccogliere e portare con sé poi si fa frase tremante in gola balbettìo Lei non sa da quale punto di sé sta sognando in quale stanza della casa in quale tana millenaria chissà dove ha iniziato quel sogno che scrive mentre si cancella. 29 Da Se fossimo immortali, Joker, Novi Ligure, 2006 Lucetta Frisa L’affetto fidati della traccia di lacrime E impara a vivere Paul Celan *…+ Tra sillaba e sillaba metti il lungo respiro di chi non crede all’esilio e ti fissa con tenerezza dietro una persiana. Ti resta quello sguardo per millenni. Un filo mai spezzato con la forza tenace dell’acciaio di chi bussa ribussa a una porta chiusa ma tu fai cadere il seme nella terra anche se la terra è inconsistente fai cadere una sillaba tra tutte le sillabe del mondo semina il tuo vento come sai la tua luna invernale nella tua prima e ultima neve. 30 Le parole non arrivano dal mare sono nella bocca appaiono e scompaiono dall’acqua torbida per galleggiare come scorze. Non hai guerre da combattere, non hai nemici solo la morte hai se ancora ami soffrire e ridere. Non hai che il cordone ombelicale delle parole. Qui non c’è molto da fare e sempre è troppo tardi per capirlo. Copriti col tuo abito di sillabe di poco fiato ama il tuo desiderio più che puoi e aspetta: e mentre aspetti chiedi anche all’aria di aspettare, prima di scorticarti. *…+ Ed è questo il messaggio più alto e originale di un libro che parla di antinomie ed estremi, di impossibili territori di mezzo e di equilibri precari, dal dolore che nasce dal non raggiungere l’unità, dal frammentarsi – ma anche della creatività che nasce dal voler sopravvivere, adattandosi alla Vita e al Mondo. *…+ Mauro Ferrari, da Fammi credere di esserci: la tragica levità di Lucetta Frisa, postfazione al libro *…+ …questa una delle virtù di Lucetta Frisa, quel modo di far ansimare ogni parola, ogni verso dentro un gioco di contrappunti sottili e imprecisabili. Alla ricerca di crepe del senso più alto. Alla ricerca di sensi ultimi e silenziosi che risultano poi essere quelli delle cose più prossime e immediate. *…+ Dario Capello, da Della danza sapienzale, in “La Clessidra”, n° 2, 2007 Da Se fossimo immortali, Joker, Novi Ligure, 2006 Lucetta Frisa 31 Quinto autoritratto diurno Ogni mattina ho il compito di rifare il mondo. Ripeto ciò che gli dèi fanno con gli uomini dopo la notte, li rigirano al rovescio li sbattono nell’aria fredda li scrollano dei sogni per prepararli all’altra vita. Rifaccio il letto lentamente la lentezza rallenta il laccio allunga l’aria della ricreazione le nostre lenzuola sono azzurre le stiro con le mani per una pelle giovane bisogna stare attenti a non venarla raccontando fiabe fino a stanotte quando torneremo a disfare il letto la verità la sua stanchezza a cullarci in quel mare terrestre a dirci tutte le altre storie fare pieghe su pieghe. nono autoritratto notturno L’aria del buio ipnotizza rimorso e nostalgia una forza tranquilla emana da un centro fermo o che credo lo sia forse è un pensiero vertebrale che mi fa stare sveglia e diritta in me. Battito di stelle contro il cielo: se è figura di un sogno sparito che ha sognato se stesso tutto riporta a un padre illusorio e al mio respiro orfano. Ti prego, fammi credere di esserci - senza lacrime lo dico credere che tutto è vivo scorre si muove domanda non dà pace credere che anche le cose morte di notte si vestano di un corpo. *…+ Nella sezione, infine, molto bella, degli Autoritratti diurni e notturni vi è una sorta di paesaggio della passività del sentire all’attività del trasformare in bellezza il sentimento, nel senso che ogni istante di vita viene vissuto come l’ultimo nell’alto mare della vita e ogni giornata, un po’ come il salto dalla rupe di Leucade nel dialogo leopardiano di Colombo e Gutierrez. *…+ Tiziano Salari, da Il dilemma dell’immortalità, in “Lunarionuovo”, n° 23, 2007 Da Ritorno alla spiaggia, La vita felice, Milano, 2009 Lucetta Frisa Porta Rosa* Velia, settembre 2007 a Vincenzo Guarracino 32 Sono venuta da morta a riprendermi la luce sparsa fuori di me mentre ero sottoterra. Non la depongo prima di tornare al buio come una veste effimera ma voglio trattenerla sulla mia pelle vuota per il dio compiacente che mi ha lasciata andare. Io non mi attendo segni dall’alto o dal basso. Mi è bastato vedermi risalire sulla quadriga elegante con i cavalli neri dal passo lento una danza silenziosa ma senza il corteo dei parenti in lacrime e i carri col mio corredo. Tutto questo è dipinto per chi resta. La discesa nei muschi della notte non fu poi così buia sapevamo che una sorta di fuoco stava lì ad attenderci se - come dicevano - l’oltre sarebbe stato il rovescio di questo mondo e le apparenze dovevano capovolgersi se sfiorate dalle mani degli dèi. * E’ la grande porta cittadina - ancora intatta - che sovrasta la zona archeologica di Velia (l’antica Elea) nel Cilento dove venne fondata la celebre scuola eleatica, e vi insegnarono Parmenide e Zenone. *…+ Ritorno alla spiaggia è libro del nostos, un libro attraversato nella lingua stessa da un duplice movimento, poiché c’è desiderio e insieme dolore. *…+ Certamente nei versi di Frisa non c’è il tragico, né l’avventura, nel senso delle grandi imprese che hanno segnato i nostoi classici, bensì un percorso nel tempo attraverso le “tappe” di un dialogo pressante e insieme pacato con il tempo stesso, fatto attraverso luoghi e persone amate. *…+ Da Ritorno alla spiaggia, La vita felice, Milano, 2009 Lucetta Frisa 33 Sono venuta qui trapassando le pareti della tomba di notte non sapevo che la voce di noi morti può piegare i muri farci tornare indietro dove vogliamo. Ho perduto i cavalli per strada, lasciato la barca legata a un’onda ferma camminato scalza sulla spiaggia di Ascèa udito i galli cantare non so se per condurmi qui o riportarmi alla tomba, ho visto nascere l’alba l’impercettibile agitarsi del cielo oh finalmente anche il cielo è tornato e anche il vento che agita davanti agli occhi il mio velo nero vi dirò che questa aurora provvisoria è più bella dell’altra infera - premio inadatto a noi umani. Io cerco la mia casa. So che è ad Elèa ma dove? Affondata al centro della terra, schizzo di fango nell’infinito inferno delle cose distrutte; devo pensarla sotto i miei piedi guardare il terreno come fosse specchio che mi rimanda le immagini profonde fino a me fino al mio cuore che si spacca di nostalgia? O devo solo guardare il cielo indovinare figure nelle nuvole alte - respirare - non desiderare altro? *…+ Ritorno alla spiaggia ci regala una poesia che si immerge nel tempo, senza farsi mai mero diario del vissuto, né elegiaca rammemorazione dell’infanzia e di ciò che si è perduto, ma ricerca del senso del vivere dentro e attraverso la parola poetica stessa. L’approdo del ritornare è trovato da Lucetta Frisa proprio nei testi di questo libro, che accolgono la fragilità della vita e insieme dicono l’ansia di infinito che eccede ogni esistenza: contengono e, contemporaneamente, superano lo scorrere del tempo, la sua fame enorme che tutto annulla. *…+ Gabriela Fantato, da La sapienza della soglia, nota critica al libro Da Ritorno alla spiaggia, La vita felice, Milano, 2009 Lucetta Frisa Adesso in giro non vedo nessuno. Pietre che furono umane dimore templi abitati dagli dèi e dove i filosofi carpivano nei numeri i loro segreti radunando mendicanti di verità e sui gradini il grande Asclepio curava i loro mali facendo miracoli. L’acqua non c’è più. I pozzi secchi i porti insabbiati molte pietre e l’erba fresca tra loro, allegra. Cielo e vento. La mia casa era ai piedi di una strada in salita e in cima una porta grande di pietra dove passavano muli mercanti armi cavalli guerrieri le donne salivano di fretta con la schiena curva come i cani, aiutando gli uomini a reggere i carri o di notte ingannavano le sentinelle per fuggire perdersi dall’altra parte. Erano serve dagli occhi bassi, sacerdotesse, prostitute. Forse le attendeva una nave. In questa luce di mezzogiorno tutte le ombre si coricano rasoterra e i vivi non vedono nulla. Non è l’ora di chiedere o rispondere. Supini, si tace. 34 *…+ Il rimpianto del nome chiamato torna nel bellissimo poemetto Porta rosa che chiude il libro, anche formalmente molto distante da Gioia piccola che lo apre. Qui, in un verso compatto che non conosce rotture Lucetta Frisa delega i propri pensieri a un personaggio sconosciuto, una donna velata di nero, sperduta tra le rovine di Velia, una creatura che è uscita dalla tomba, incerta e spaesata ma pacata, benché segua le tracce di un ricordo che non corrisponde alla visione attuale di silenti rovine, e non trovi più la sua casa. I luoghi, le persone, i dati sensoriali della vita da viva, tornano lentamente al suo ricordo di antica trapassata, e tra tutti forte è quello della madre che la chiama per nome. Da Ritorno alla spiaggia, La vita felice, Milano, 2009 Lucetta Frisa 35 Io stavo sulla soglia. Le soglie uniscono e separano. Amavo l’interno delle stanze la loro protettiva quiete ma amavo la luce la gente le loro voci. So che lassù Porta Rosa si tingeva di rosa per chi saliva all’alba e di rosa al tramonto per chi tornava da nord. Separava e univa le ore di luce e buio insieme a noi, i vivi. Si apriva a sinistra sullo spazio azzurro illimitato del mare a destra su quello verde dei campi. Ora che sono qui rifarò quella strada sterrata e poi varcato il crinale per l’ultima volta sentirò alle spalle il peso doloroso del paesaggio con la mia casa morta e qualcosa come una lama mi squarcerà corpo e spirito. Sentirò mia madre chiamarmi per nome e sarò indecisa se restare qui a piangere senza lacrime o ritornare sola nel regno della morte. La luce - questa - potrà soccorrermi? Il suo respiro ha traversato le parole dei saggi. Sento il suo fuoco lieve bruciare il mio velo. Io so che darà la giusta sepoltura ai divisi, ai tormentati. Mi affido per sempre alla sua polvere. *…+ Qui Lucetta Frisa definitivamente ha abdicato alla consegna di restare la bambina di “quella” madre, alla sua voluta, edenica e insieme dolorosa, condizione di regina assoluta del piccolo. Trasferendo su una creatura della sua invenzione il dolore, il senso di mancanza, dona alla poesia un valore oggettivo, ci dà testimonianza di un’altra elaborazione del lutto, ci fa ascoltare, in musica perfetta, un discorso severo e forte. *…+ Piera Mattei, in “Pagine”, n° 59, 2009 Inediti. Volevo l’estasi per Alejandra Pizarnik 36 Vedi, io vivo con un coltello dentro lo stomaco. Mi taglia a pezzi l’infanzia mi taglia le pupille che vedono solo notte e squarci. Tutte le cose hanno lame spille angoli punte spigoli e parole spinose. Le mie stanno acquattate come bestie in allarme si dolgono di solitudine incurabili, inascoltate. Non c’è nulla di morbido al mondo. Nella culla al posto dei cuscini e dei ninnoli mi misero le scarpe slacciate le bambole rotte il latte amaro e il pensiero della morte. Mi cullarono con le forbici trapanato il sesso scorticata la bocca perché parlassi solo di ossa della colonna vertebrale del mondo albero sempre invernale. Volevo l’estasi il perpetuo orgasmo tra terra e parole volevo il corpo emotivo della bellezza. Nell’aldilà troverò piume e sete sentirò volare i miei capelli dolcemente snodati dalle ariose dita di un dio primaverile. Lucetta Frisa L’Iliade - Un inno alla guerra contro la guerra (2), 2010 Ivano Mugnaini Laureato in Lettere Moderne all'Università di Pisa. E’ autore di testi di prosa e poesia e di recensioni per alcune riviste nazionali e straniere: “Poiesis”, “Poeti e Poesia”, “Il Grandevetro”, “Italian Poetry Review”, “Gradiva”, “La Mosca”, “Polimnia”, “L’Immaginazione”, “La Clessidra” e numerose altre. Pubblica note di lettura anche su riviste diffuse tramite Internet. Cura il blog letterario “DEDALUS: corsi, concorsi, testi e contesti di volo letterario”, www.ivanomugnaini.splinder.com, in cui pubblica, con un commento introduttivo, liriche e prose di alcune delle voci più significative del panorama letterario contemporaneo. E’ socio e collaboratore del Gruppo Internazionale di Lettura di Pisa, fondato da Renata Giambene e attualmente diretto da Maria Paola Ciccone. Collabora, come autore di testi, con alcune associazioni culturali tra cui “Il Teatro di Campana”. Ha presentato suoi testi, prose e liriche all’interno di manifestazioni e rassegne artistico-letterarie nazionali tra cui “Versinguerra” e “Bunker Poetico”, brani letterari abbinati ad opere artistiche all’interno della Biennale d’Arte di Venezia. E’ autore di racconti premiati o segnalati in vari concorsi letterari. Il suo racconto dal titolo Desaparecidos è stato pubblicato da Marsilio Editore. Ha pubblicato la raccolta di racconti La casa gialla (1997) e i romanzi Limbo minore (2000) e Il miele dei servi (2007). Dirige la collana di narrativa di Puntoacapo editrice. 37 E’ autore di liriche e raccolte di poesie premiate o segnalate in concorsi letterari nazionali. Ha pubblicato la silloge dal titolo Controtempo (1997) e la raccolta Inadeguato all’eterno (2008). Tra i critici e gli autori che si sono occupati della sua attività letteraria o hanno scritto note o commenti sui suoi lavori, ricordiamo: Vincenzo Consolo, Gina Lagorio, Elio Pecora, Ferdinando Camon, Paolo Maurensig, Giorgio Saviane, Michele Dell'Aquila, Andrea Camilleri e Raffaele Nigro. Da Limbo minore, Manni, Lecce, 2000 Ivano Mugnaini CAPITOLO 1 38 Le giornate calde regalano una pace strana, irreale, ai prati della collina. In piedi di fronte alla siepe di questo giardino stordente di ombre e profumi, recido, con gesto pigro, i ramoscelli secchi. Ogni tanto taglio via di netto anche qualche fronda verde e turgida. Nessuno mi controlla. Al di là della siepe il finito. Il finito in cui non è possibile naufragare. Stradine polverose che girano attorno al paese di case grigie, anonime, dimesse. Ferita aperta a stento in un corpo di roccia anemica. Bocca dischiusa in una minuscola, insulsa, eterna domanda soffocata dall’aria inerte. Alle mie spalle la villa. La villa del conte. A quest’ora dorme sereno nella sua stanza. Attorno a lui dorme la famiglia, dormono gli ospiti, i servitori, i cani, i cavalli. Dormono placidi, nulla cambierà. I pilastri di calce liscia e compatta del casale continueranno a premere sulle membra ossute della vallata sottostante, che oscillerà e dondolerà, insensibilmente, urlando secolari silenzi e allargando ulteriormente le crepe riarse scavate dal tempo. All’interno della villa, dall’alto dei soffitti ornati di candidi stucchi rigati soltanto da strie giallognole, i putti alati osservano, gettando sguardi leggiadri al di là dei loro glutei sodi, gli unici esseri viventi che vegliano, oltre a me, in quest’assurda controra. Due comari panciute dai seni flaccidi che trascinano, strisciando su pantofole di stoffa, pentole incrostate, catini d’acqua livida e secchielli azzurri che odorano di varechina. Io sono il servo. Io non ho un nome. Il sole cala, si addolcisce, si immerge nell’oro dei riflessi. La vita riaffiora. Le voci tornano a rincorrersi, a cercarsi, a corteggiarsi, a sbranarsi. *…+ …un mosaico rutilante di immagini, colori suoni, persone, cioè maschere, riferimenti letterari. Fin dall’inizio, mimetizzata ma evidente, la citazione, all’inverso, de L’infinito di Leopardi: “al di là della siepe il finito”. Quindi un mondo circoscritto e affollato, ossessivo. Una serie di configurazioni dell’io, un io acuminato dalla sua collocazione negativa, marginalizzata. Un punto di vista e di ascolto esacerbati, taglienti. Rinaldo Caddeo, corrispondenza privata Da Limbo minore, Manni, Lecce, 2000 Ivano Mugnaini 39 “Luciana!”- urla il conte Emilio rivolto alla cameriera. E tutti sanno che quel nome sbraitato a gola spalancata in realtà contiene un tranquillo, inequivocabile: “Che belle tette che hai ragazzona! Tu sì hai sangue caldo e carne viva, non quella mummia di mia moglie che era già defunta e imbalsamata quando l’ho sposata. Una di queste sere...” “Francesco, guarda! Guarda qui! Guarda che bello! Guarda, Francesco!” - ronza il nipotino del conte mostrando uno dei suoi giocattoli nuovi ad un ragazzino che abita giù, in una delle case grigie e dimesse sottostanti. E ognuno sa che quel nome ripetuto con cantilenante insistenza nasconde un chiaro e lampante: “ Io ti faccio venire qui a giocare con me, ogni tanto, ma io un giorno sarò ricco e laureato ed avrò una villa come questa, e tu farai l’operaio o il muratore e abiterai nella tua scatoletta di cemento...” “Prendine ancora, cara! Ancora uno, Camillina! Su, non farti pregare cara!” miagola la moglie del conte rivolta alla propria cognata. Ed è più che evidente che quel nome sussurrato con grazia ineffabile, al punto che il tè alla rosa deposto nelle tazzine di porcellana non si increspa neppure di una lillipuziana ondettina, tra le pieghe più intime cela le spine acuminate di un: “ Se potessi te lo farei trangugiare avvelenato il teino con il biscottino, brutta befana ipocrita e parassita...” “Come si comporta lo studente, Giulia?” - chiede Ennio, figlio della signora Camilla, alla ragazza che tre volte a settimana viene a dare ripetizioni di inglese al piccolo collezionista di giocattoli, futuro possidente. E non c’è un solo essere umano, stolti compresi, che non colga nelle tremanti modulazioni l’eco di un: “Un giorno io ti sposerò. Scapperò da questa gabbia e ti porterò via con me. Via. In qualunque altro posto...” Io non ho un nome. Mi muovo quando sento: “L’erba del giardino è troppo alta. Va tagliata, Mauro”, oppure: “La contessa vuole fare degli acquisti. Devi accompagnarla in città, Mauro”, e il vento breve di quel nome racchiude un nitido, diafano: “L’erba del giardino è alta” , “La contessa deve andare in città”, ed una pausa, prima del vuoto degli occhi, prima dell’ombra gelida del sorriso. Io sono un rebus privo di chiave. Una freddura cifrata in cui non sempre a numero uguale corrisponde lettera uguale. O forse sono solo un ombrello di tela scura. Uno di *…+ Mugnaini affronta un romanzo forte e delicato: in una valle atemporale si tende il saettante rapporto tra figlio illegittimo e padre padrone. Duecentoquindici pagine di dramma, di teatro della ferita che si sfogliano in mirabile scrittura. Alberto Cappi, in “La voce di Mantova”, 18 gennaio 2001 *…+ …emerge dalle pagine il senso di una sofferenza autentica, vera, che è antiretorica e non trova consolazione *…+ …questa sofferenza, così compatta e coerente, trova espressioni così convincenti da risultare quasi purificante, agendo cioé sull’interiorità del lettore come stimolo alla riflessione (anche) etica... *…+ Luigi Guicciardi, corrispondenza privata Da Limbo minore, Manni, Lecce, 2000 Ivano Mugnaini 40 Uno quelli che si finisce sempre per dimenticare, con intimo sollievo, dentro il vaso di terracotta di un bar o di una casa qualsiasi, dando poi, ipocritamente, la colpa alla memoria. Non me ne dispiace, però. C’è spazio e tempo anche per un ombrello in questo mondo. Sì, c’è spazio e c’è tempo. Anche, ovviamente, nel senso meteorologico del termine. E’ difficile dire ciò che provo nelle giornate di pioggia. E’ più facile descrivere ciò che faccio. Quando l’erba e le siepi sono troppo bagnate, e la signora, per paura di sgonfiare la recente permanente, decide di rimanere a casa a leggere i saggi consigli dei rotocalchi di moda, io lascio che la cappa opaca di umidità penetri in me iniettando nelle vene il veleno di un’insensata allegria. Striscio, in punta di piedi, verso la mia stanza. Chiudo la tapparella fino all’ultima stecca. Il gesto è preciso, solenne, carico della sacralità dei riti pagani. Mi siedo sul letto, riempio i polmoni d’aria, e mi godo, immobile, l’abbraccio di velluto del nero cloroformio che mi si avvinghia addosso. Con fluida, inebriata frenesia, mi spoglio completamente. L’ultimo indumento che mi tolgo è un calzino, quasi sempre di un colore lievemente sbagliato. Nel buio non si vede. Vola via leggero, verso altri lidi. Le lenzuola fredde sulla pelle sono polpastrelli raggrinziti di anziane, generose prostitute. Inchiodato nel centro del letto, con l’orlo della coperta che sfiora la fronte, prendo coscienza della mia nudità. Sul rosso vivo del tetto, calano, metodici, rivoli di liquido trasparente. Mi giro di lato con deliberata lentezza. Ho tutto il tempo che voglio. Piego le ginocchia e le faccio scivolare palmo a palmo fino a raggiungere il petto. Le terminazioni nervose si allentano e i muscoli si sciolgono. Ma sento ancora il battito del cuore. Separo le gambe. Le vene non si toccano più, il contatto è interrotto. Vengo a patti con le ossa e col respiro. Placidamente, disperatamente dilatate, le pupille vagano come relitti in un oceano privo di coordinate. Un’ultima serie di flash indistinti. Prodotto spontaneo di energie autonome, zavorra di infimo valore e brevissima durata. Il nulla. Sono pronto. Sono buio e silenzio. Massa indistinta carica di magneti e dotata di accumulatori. Sotto miriadi di gocce, là fuori, crepita la ghiaia candida del viale. Evapora la polvere stantia che soffoca l’erba e si tramuta in fluidi rapidi. Gli alberi si scuotono, si piegano, si *…+ E’ un romanzo di contrasti violenti, domati e mai repressi da una scrittura imperativa, decisa, che non lascia spazio a incertezze riguardo gli esiti narrativi e che riesce a realizzare, da una trama semplice e senza particolari intrecci d’azione, una storia con un forte movimento interno. La direzione di questo movimento non è mai unidiretta, è lineare, circolare, a spirale e produce un apparente congelamento della dimensione temporale, che è invece la vera protagonista del testo, attraverso l’incarnazione umana nei personaggi. *…+ Da Limbo minore, Manni, Lecce, 2000 Ivano Mugnaini 41 Gli alberi si scuotono, si piegano, si contorcono. Nel portico, al riparo dalla pioggia, respiro di narici dilatate. La scarica magnetica dell’incontro di sguardi e di mani. L’eterno, beffardo elettroshock che scuote i polsi grinzosi del tempo, della morte e… Meglio cercare altri suoni, altri profumi. La cucina è proprio sotto di me. Dalle fessure della porta penetra, inarrestabile, odore di minestrone. Sale dalle scale ed entra senza chiedere permesso. La cucina è la meta prediletta delle mie scorribande. E’ il luogo più misterioso che esista, più segreto di uno studio, più intimo di un’alcova. E’ il regno delle donne, la vera fucina della vita. E’ lì che impastano la farina del destino, ridendo, piangendo, aggiustandosi ogni tanto i seni nei vestiti troppo stretti, e asciugandosi la fronte con una mano bianca e leggera. E’ l’unico tempio in cui non ammettono intrusioni. Sghignazzano, sotto sotto, se un piede virile varca di sorpresa la soglia delle loro camere, ma diventano iene se un bipede di sesso maschile osa intrufolarsi nello spazio riservato alle cerimonie logo-gastronomiche. La cucina della villa è riservata alle serve, alle sguattere e alle cameriere. Vecchie e giovani, grasse e magre, silenziose e loquaci, sono loro che custodiscono i segreti di questo gigante di pietra antica sdraiato sui prati della collina. Lo nutrono, lo imboccano, gli fanno da balia e da puttana, e lo fanno parlare. Solo loro sanno ciò che succede nelle stanze dell’enorme casermone, solo loro sanno ciò che è accaduto, ciò che si dice e ciò che non si dice, ciò che è falso e ciò che è vero. Anzi, una cosa diventa vera solo quando è stata detta. Quando diventa parola e rotola voluttuosa sulle lingue irrorate di vermouth e tra i denti che esalano effluvi di aglio e cipolla. E la parola diventa vera solo dove può toccarsi il sedere, allargare la scollatura, sudare, gesticolare e imprecare senza temere rimbrotti e ramanzine: in cucina. La cucina è sotto di me. Le narici diventano voragini, le orecchie si tendono, si inarcano, si fanno incandescenti. Il sangue si scioglie in disgustate ebbrezze. Nell’immenso pentolone si insinua un mestolo di legno. Rimbalza rumorosamente sui bordi, si apre un varco nel fluido denso, raggiunge il centro, vi si sofferma un istante e risale in superficie. Si immerge di nuovo. Torna ad allargarsi in cerchi concentrici, poderosi, instancabili. Due braccia robuste menano la danza. Sopra di esse, proteso in *…+ si avverte una lunga dimestichezza dell’autore con la poesia, non tanto per la ricchezza di immagini e metafore talvolta così belle da sfiorare l’estetismo, ma per il passo ritmato della narrazione, cadenze precise, martellanti che costituiscono il corpo sonoro del romanzo e ne sono una delle migliori caratteristiche. *…+ Mariella De Santis, in “Punto di vista”, n° 24, aprile giugno 2000 *…+ è un libro tenuto insieme da voci, odori, parole che danno a loro volta vita ai personaggi dipinti a tutto tondo, mai in modo banale, a furia di minuti e curati particolari che, come in un puzzle, costruiscono, alla fine, immagini precise. *…+ Lisa Mugnai, in “Vibrisse”, 14 agosto 2002 Da Limbo minore, Manni, Lecce, 2000 Ivano Mugnaini 42 Sopra di esse, proteso in avanti e investito dal vapore bollente, il busto di una donna. Serro con maggior forza le pupille. Immagino un vestito scuro, ruvido, abbottonato fino al collo, intriso di odore aspro di faina. Sorrido. Il buio mi risponde esplodendo in scintille fosforescenti. Non ci sono dubbi, è proprio lei, è Flavia. Il suo corpo trasuda odori penetranti, aggressivi, prepotenti, più forti di qualsiasi aroma, balsamo o profumo. Più forti di qualsiasi cosa. Più forti di lei, soprattutto. Non c’è bagno di acqua gelida e spugna scagliosa come porcospino che riesca a spegnerlo. Non c’è brivido di ginocchia nude piegate sul marmo, né lacrime azzurre e limpide di santo che possano estinguerlo. Anzi. A volte sono proprio gli occhi scuri e profondi della statua lignea del patrono a tingerle di rosso le guance e a farle pizzicare la carne delle braccia come se la sfiorassero lame affilate. Allora è costretta ad abbassare la testa prendendo atto della sconfitta e di ciò che essa comporta: la resa, ineluttabile, alla tirannia di quel fremito. Resa dignitosa e non priva di rigurgiti di testarda resistenza, tuttavia. Ogni suo pensiero peccaminoso è accompagnato da un fulmineo e rabbioso segno di croce, anche in pubblico, anche in presenza di occhi indiscreti. Ed ogni centimetro del corpo è meticolosamente coperto dalla stoffa grezza degli abiti che cuce con le sue mani. Solamente in cucina si scopre le braccia, impugna mestoli e scolapasta, e ride forte, guardando in faccia le compagne, quando il magma in fiamme del sangue le inonda il viso. Davanti alle pentole in ebollizione, di fronte alle pile di piatti sporchi, è lei la sacerdotessa. Ha ereditato questo ruolo dalle vecchie e lo custodisce gelosamente. E’ lei la vestale delle storie d’amore, dei racconti sussurrati di sospiri e carezze, di promesse e di inganni. E’ lei che dirige il coro di osanna rivolti all’eterno mistero beatifico e doloroso, puro come agnello e torbido come serpente. Detta lei i ritmi, modula i toni, e snocciola le perline del rosario dell’amore. O, più esattamente, delle voci sull’amore: del si dice, del si bisbiglia, del si sussurra... Alle sue labbra sono appesi ex-voto limati e lustrati di storie, ognuno dei quali rappresenta le vicende, gli accadimenti, gli incontri e gli addii. La bigiotteria da poco, pacchiana e appariscente, di ottone e perline, sulla quale si riflette la *…+ Limbo minore è anche la storia del non detto, della realtà taciuta, di un amore padre-figlio che non viene svelato e che vola via con la morte. Eppure questa calda atmosfera toscana, questi ritmi fuori dal tempo lasciano spazio allo scrittore di intervenire e sottolineare la contemporaneità con la vita di oggi, attraverso riferimenti espliciti a cose e uomini attuali. *…+ Gianluca Bocchinfuso, in “Il filorosso”, n° 34, giugno 2004 Da Limbo minore, Manni, Lecce, 2000 Ivano Mugnaini 43 La bigiotteria da poco, pacchiana e appariscente, di ottone e perline, sulla quale si riflette la felicità e l’infelicità degli uomini. E quando Flavia parla d’amore provoca una comica, divertita eccitazione, persino nelle compagne più pudiche. Da quassù lo sento bene il tintinnio lieve delle dita di Teresa sulle stoviglie di ceramica. Il suono è chiaro, distinto. La sento poggiare i piatti gli uni sugli altri con angelica delicatezza, dopo aver asciugato con cura anche l’ultima, microscopica gocciolina. Non c’è segno di rossore sul suo viso, neppure una stria rosata nell’angolo più nascosto delle guance. Ne sono certo. La sua pelle contiene una peculiare membrana emorepellente di colore grigio-sabbia. Il sangue è costretto a ripiegare, a fuggire lontano, rifugiandosi all’interno di munitissimi confini. La guerriglia però, si sa, cresce sulle ceneri ancora tiepide della disfatta. Si nutre di rocce, di boschi, di anfratti, di grovigli di rami contorti e radici. Si coagula improvvisa in qualche punto indefinito e colpisce inesorabile. La sua forza è la pazienza. Sa aspettare, sa attendere il luogo e l’attimo propizio. In questo momento le stille di sangue di Teresa sono drappelli di Viet Cong che avanzano a raggiera, a passo di danza, fendendo l’intrico di foglie che fa da schermo al sole. Proprio lei, ora, con punturine rapide e acuminate di frasi poco più che bisbigliate, sta pungolando Flavia. Sì, la monachella, proprio lei, vuole di più, vuole una storia più vivace, più stimolante. I suoni calano d’un tratto d’intensità assieme al tono delle voci. Rumore di tacchi nel corridoio. Passi metodici, ritmati. Scarpe da uomo. Persino la goccia del lavandino concede una tregua. Con cigolio breve si apre la porta della cucina. Brusio prolungato di sollievo. Riprende lo sciabordio, torna il chiacchiericcio usato. E’ solo Enrico, non ci sono dubbi. Enrico, il maggiordomo. Schiena diritta, rettilinea, a prova di filo a piombo. Passo piano, ammortizzato, posato al suolo con la grazia ineffabile con cui appoggia il cucchiaino sul vassoio dopo aver mescolato il caffè del conte. Non un solo capello della sua impeccabile chioma si muove di un millimetro mentre cammina, né un solo pelo della sua soffice barba rossiccia. Al di sotto di essa il boccolo chiaro e vaporoso della voce. Si insinua acuta nella schiuma che ricopre i piatti, nelle calze di lana raggomitolate sui collant, tra le costole che si allungano e si contraggono come mantici sopra mucchi di *…+ …un libro incentrato sulla memoria, per un verso difettosa e per l’altro ridondante, che cerca di evitare la deriva, nella speranza di riprodurre un tempo dell’oggi. *…+ Senza tregua il fondo della memoria si affida alla solitudine esistenziale: uno scandaglio psicologico che rende le pagine oltremodo succulente, tra l’insignificante scivolo lasciato dalle impronte di una “cattiveria” e lo scavo disincantato di chi ri/conosce una paternità negata, per accettare una realtà priva di macigni. *…+ Antonio Spagnuolo, in “Cartaepenna”, settembre 2003 Da Limbo minore, Manni, Lecce, 2000 Ivano Mugnaini 44 Si insinua acuta nella schiuma che ricopre i piatti, nelle calze di lana raggomitolate sui collant, tra le costole che si allungano e si contraggono come mantici sopra mucchi di cenci da risciacquare. Il solito attimo di leggero, micidiale imbarazzo. La voce emessa dalle labbra ricoperte dal fitto tappeto di curatissimi peli è di gran lunga la più femminile tra tutte quelle che rimbalzano, in questo istante, sui granitici muri della cucina. “The time is out of joint”. C’è qualcosa di scassato in questo trabiccolo che ruota nel nulla e verso il nulla, viene fatto di pensare ogni volta che le onde sonore di quella voce, della voce di quell’uomo, cominciano ad assestare colpetti insistenti sui padiglioni auricolari. Ed invece, imprevedibilmente, proprio loro, le donne, di solito così glacialmente spietate in materia di virilità, in questo caso chiudono un occhio, anzi tutti e due. Loro, che ammettono e perdonano tutto o quasi, ma che non transigono, forse in risposta ad un impulso genetico, quando si tratta della differenziazione che garantisce la conservazione della specie e di tutte le attività ad essa accessorie e collaterali, nel caso specifico del buon Enrico si rivelano capaci di magnanimità. Forse perché Enrico è un essere lineare, limpido e geometrico come la sua schiena. Non ha zone d’ombra, amletici contorcimenti o nodi da sciogliere. E’ una di loro. Una di loro a cui è capitato di nascere con una zavorra di peli e appendici di carne disposte male e nei punti sbagliati. Una delle figure di quei quadri strani, con un corpo minuscolo, due gambine filiformi e una testa gigantesca con tre enormi pupille purpuree spalancate che la tagliano orizzontalmente come ferite. […] Enrico chiede qualcosa. Uno straccio soffice per spolverare un tavolo di mogano. Finge altezzoso disprezzo, simula distratta concitazione. Vorrebbe dare ad intendere che è dovuto scendere laggiù per forza, che non ha potuto farne a meno e che ha ben altro di cui occuparsi. In realtà si è inventato una scusa. Si è aggrappato ad un banale pretesto pur di entrare lì, nel vapore denso della cucina-bunker, lo scrigno in cui è racchiuso il gioiello arcano della femminilità, un po’ perla d’avorio un po’ dado da brodo alle erbe aromatiche. Si guarda intorno ancora un po’ con sguardo avido. Respira profondamente la pasta appena spianata, il pomodoro fresco, il sedano triturato fitto fitto. Ma non ha più scuse, non ha più appigli. […] *…+ …piace, di Limbo minore, questo procedere per visioni (mi viene di chiamarle “visioni della mente”); questo muoversi come di singole “allucinazioni” che appaiono aggrappate, quasi uncinate, alla trama della storia raccontata. Né la trama, né la sequenza delle visioni, però, sembrano avere un ruolo dominante. Esse si completano a vicenda dando al libro le sembianze di un vecchio maniero da perlustrare con cura e attenzione… *…+ Danilo Mandolini, corrispondenza privata Desaparecidos, in Parole di carta, Marsilio, Venezia, 2006 Ivano Mugnaini 45 Desaparecidos. Scomparsi. E’ così che li chiamano. Anzi, è così che li chiamiamo anche noi. La violenza del potere inizia dalle parole. Le addenta, le riduce in brandelli, le avvelena, e ce le dà in pasto. E noi lecchiamo la ciotola, quieti e diligenti. Buttiamo giù tutto, boccone dopo boccone, e non ci accorgiamo che il loro trucco, la trappola arrugginita di sempre, si cela proprio nella parte più morbida e tiepida del pastone: la speranza. Sì, l’astuzia più raffinata e collaudata del potere consiste proprio nella capacità di far sì che ogni giorno siano le nostre narici ad annusare frenetiche l’aria alla ricerca della carne flaccida e narcotizzante dell’illusione. Al di là di un certo limite, un passo oltre il confine estremo dell’assurdità umana, l’ossigeno vitale della speranza si disperde e si confonde con i vapori annichilenti dell’abisso della colpa. Carlos non è scomparso. E’ morto. Sì, mio fratello è stato torturato e assassinato. E’ tutto molto semplice. Lo bisbiglia l’aria ogni mattina quando apro le finestre, lo sussurra la polvere delle strade, lo urla il buio della notte. Carlos è stato ucciso due anni fa. Eliminato. Un pensiero pericoloso annegato nel sangue. Annegato ma non dissolto. Il suo ricordo si siede ogni giorno davanti a me, e mi scruta, per ore. Io non so guardarlo in faccia, non sono capace di fissarlo negli occhi. Preferisco uccidere il tempo osservando le mie mani, bianche, pulite, senza neppure un minuscolo callo... rimirando le facce eternamente sorridenti dentro lo scatolone grigio eternamente acceso... oppure pensando che lui sia ancora vivo, e che non sia accaduto niente. Anche il mondo, là fuori, la pensa così. Le massaie vestite di nero continuano a riempirsi le braccia di buste di nylon colme di pane, latte, sale e detersivi, e i bambini sghignazzano come sempre prendendo a calci un pallone che tra pochi anni sarà nero di barba appena spuntata e bianco della prima sigaretta, noia rotonda piena di rabbia compressa e cuoio duro e screpolato di disoccupazione. *…+ Ivano Mugnaini sa coltivare come pochi la difficile arte del racconto breve: l’unica che, a mio modo di vedere, dia con immediatezza la misura esatta delle capacità espressive e dello stile di un narratore. *…+ Francesco Marotta, in “La poesia e lo spirito”, 12 settembre 2008 *…+ I racconti di Ivano Mugnaini hanno un comune denominatore nella notevole versatilità e capacità di variare argomenti, ambientazioni, personaggi, toni e registri stilistici. Mugnaini mostra di avere una spiccata propensione per l’umorismo, nel quale però fa capolino il pirandelliano sentimento del contrario che spesso tinge la narrazione di assurdo o grottesco *…+ Desaparecidos, in Parole di carta, Marsilio, Venezia, 2006 Ivano Mugnaini 46 E io? Io guardo la vita dalla finestra, mi perdo nelle rughe e nelle smorfie dei visi, e seguo il ritmo cadenzato dei passi accompagnandolo con le note languide del tango che mi risuona senza tregua nella testa. E’ la colonna sonora preferita della mia malinconia. Un disco rigato che non so e non voglio spegnere. La mia musica non si stacca da me neppure quando scendo per strada e percorro vie di clacson e grida, per poi dissolvere l’eco dei miei passi nel ritmo del nulla, dentro vicoli lividi di silenzio. Un sorriso distende impercettibilmente gli angoli delle labbra. Non potete leggere i miei pensieri, rifletto. Lo ripeto incessantemente a me stesso sia quando fendo la calca distratta, sia quando incrocio un viandante solitario che mi sfreccia accanto un istante e sparisce, inglobato da altre strade. Non potete leggere i miei pensieri. Già. Sai che disgrazia. Mi sento avvilito, offeso. Non sanno che si perdono. Rinunciano a cuor leggero al balbettio di parole sconnesse che martellano nella testa come macchine per cucire impazzite, quando passo davanti ad un drappello di soldati che sta coscienziosamente fracassando le braccia e le costole all’uomo inerme segnalato dal delatore di turno, nascosto come un topo dietro le persiane. Rinunciano alla trama fitta fitta di fatalistiche preghierine con cui ricopro accuratamente il suolo rugoso di imprecazioni e bestemmie, quando attraverso un posto di blocco e vedo fronti “sospette” incollate alla calce di un muro, e file di corpi, colpevoli di indossare camicie del colore sbagliato, che vengono ripetutamente spintonati e rivoltati come calzini. Rinunciano alle nenie da bambini che canticchio, biascicandole tra le labbra assieme ad un ebete sorriso dolciastro, ogni volta che l’aria si spalanca come una ferita e le orecchie esplodono, colpite dal sibilo secco di fucilate inequivocabili che rimbalzano sui muri di anonimi palazzotti. Davanti a me, al di là delle finestre dell’appartamento di fronte, solo una vecchietta rinsecchita che gira all’interno del lindo salottino come un criceto in gabbia. Assesta in continuazione con uno straccio bianco colpetti sdegnati ad ogni granello di polvere che osa posarsi sul tavolinetto o sulle credenzine ricoperte da centrini ricamati. La testa *…+ Altri racconti, invece, tendono decisamente al dramma, ma l’elemento tragico vi appare frenato, o meglio presentato come una componente spesso ineluttabile dell’esistenza, con l’assenza quindi di tinte forti, anzi con una straordinaria naturalezza per la quale il tragico emerge da sé dai fatti stessi,… *…+ In altri racconti assistiamo a un’equilibrata mescolanza di tragico e di comico, che appaiono inscindibili come le due facce di una stessa medaglia... *…+ Desaparecidos, in Parole di carta, Marsilio, Venezia, 2006 Ivano Mugnaini 47 La testa canuta risponde agli scoppi ritmati delle pallottole piegandosi in avanti, di scatto, come una bambola di pezza colpita alla nuca da una ragazzina viziata. Appena il silenzio riemerge dalla sua tana sotterranea riallargando le esili braccia sulle strade e sulle case, l’anziana donna si placa e riprende la sua immutabile danza tra i mobili. Negli occhi acquosi infossati tra le rughe non un’ombra di impazienza, di irritazione, di fastidio. Niente di niente. Solo un sogghigno rannicchiato nei bordi biancastri della bocca. L’impronta atavica di rassegnazione, il marchio secolare che il destino imprime sulle spalle ricurve dei capi di bestiame domati e raccolti. A volte mi capita di pensare che l’appartamento di fronte al mio in realtà non esista. Le lucidatissime finestre in realtà sono specchi. E la vecchina dai capelli bianchi è una mia immagine riflessa: una strana foto di cui è venuto fuori solo una specie di negativo, una minuscola macchia di luce, una figurina opalescente che si muove senza sosta sullo sfondo nero. Sì, sono io. Il sogghigno è il mio, e il marchio me lo sento sulle spalle, ogni santo giorno, come un timbro rotondo da rinnovare in continuazione, senza minimamente modificarlo. Mercoledì mattina. E’ giorno di libera uscita. Bisogna provvedere all’approvvigionamento settimanale di viveri. Esco di casa, attraverso il portico, aggiro l’eterna pozzanghera centrale dal lato nord-ovest, metto il piede sulla pietra smossa del selciato stando bene attento a trasferire tutto il peso del corpo sull’altra gamba, e saluto Jorge. L’enorme soriano, randagio con fissa dimora residente da tempo immemorabile nell’angolo meno illuminato del cortile, alza la testa per un istante al mio passaggio, apre un quarto della pupilla, e ricambia il mio sguardo d’intesa. Il marciapiede che porta ai grandi magazzini ha un debole per me. Depongo su di lui le suole delle scarpe con tale garbata lievità che quasi non se ne accorge; anzi, spesso è lui a invitarmi ad osare di più, e a chiedermi scusa per la sua ruvidezza. Anche la folla che scorre ai miei fianchi non si accorge della mia presenza. Mi insinuo tra gambe e braccia mulinanti come l’alito di noia di una brezza istantanea si incunea tra le fauci spalancate di una sconfinata afa estiva. La fila di fronte alle casse si muove, come sempre, con la goffaggine e la lentezza di *…+ Il campionario di umanità che popola i racconti è assai vasto e Mugnaini sa presentarlo in modo sereno e nel complesso distaccato, mostrando un’accettazione sofferta della realtà senza la pretesa di una denuncia netta o di offrire ricette per improbabili cambiamenti. Del resto anche i presunti vincitori della vita non sempre si rivelano tali, la sorpresa o il capovolgimento della situazione è sempre in agguato… *…+ Desaparecidos, in Parole di carta, Marsilio, Venezia, 2006 Ivano Mugnaini 48 La fila di fronte alle casse si muove, come sempre, con la goffaggine e la lentezza di un pachiderma paralitico. Sopporto sorridendo. Chino le spalle per far risaltare di meno la differenza di altezza tra me e la donnetta che ho davanti, schiacciata ulteriormente al suolo da grappoli di borse e sporte di vimini. Faccio mezzo passo indietro. Una gonna svolazzante ne approfitta e si inserisce tra me e l’esile massaia che mi precede. La giovane proprietaria della gonna mi dribbla con estrema disinvoltura. Le pieghine della maglietta fucsia sono dritte, statiche, perfettamente lineari, così come assolutamente immobili e quiete sono le estremità delle pieghina rosa che ricopre i bianchissimi denti. Sorrido, almeno io. Sorrido di nuovo. Lo sguardo è quello di un San Sebastiano che accoglie sereno un’ennesima freccina sul petto già irto di dardi sanguinolenti. Solo le lentiggini del viso si riscaldano, si animano, e mi ronzano sulla pelle come sciami di rosse zanzare. Incuriosito dai vivacissimi insetti, il doloretto assopito in qualche grotta buia dello stomaco si risveglia, spalanca entrambi gli occhi, e viene fuori all’aperto. E’ un inquilino abusivo, ma non ho voglia di denunciare la sua presenza a qualche medico privo di fantasia. Mi ci sono quasi affezionato ormai. Taglio il traguardo e pago, beato. Ripercorro il mio amico marciapiede, raggiungo il portico, e cerco con lo sguardo Jorge. Strano, a quest’ora di solito si dedica alla toletta quotidiana. Lisciatura del pelo. E invece oggi dorme. Mi avvicino a lui e lo sollevo leggermente. Oscilla tra le dita lieve e dinoccolato come un pupazzo con la molla rotta. Il signore dell’ombra, custode della grande pozzanghera e padrone del versante del mio cuore esposto ai raggi della luna, se n’è andato. Senza strepito e senza agitazione, in silenzio, senza disturbare i passanti. Si è sdraiato comodo sul suo fianco preferito, ha respirato per l’ultima volta gli odori del vicolo, ha sbadigliato a lungo in faccia alla morte, e si è addormentato, guardandola fissa, ad occhi aperti, senza sfida e senza rabbia, senza panico e senza orrore. Senza sconfitta. In questo momento, mentre tengo sollevata la sua testa ciondolante con l’indice e il medio, sta guardando anche me. Mi sussurra qualcosa ora, lui che non ha mai voluto dirmi niente, se non di cercare di essere il più leggero possibile quando calpesto l’erba, l’asfalto e il cemento. *…+ Mugnaini si è saputo creare una marca stilistica personale fortemente espressiva, lontana dal linguaggio quotidiano, da cui si vuole spesso distaccare, senza però indulgere in tentazioni troppo scopertamente letterarie…*…+ per questo si può parlare della ricerca di un linguaggio medio, comico nel senso medievale del termine, sorvegliato e nello stesso tempo mosso, brioso, soggetto a pause e accelerazioni ben alternate. *…+ Desaparecidos, in Parole di carta, Marsilio, Venezia, 2006 Ivano Mugnaini 49 Guardo la mia faccia riflessa nelle sue pupille chiare e spalancate. Guardo la mia faccia e la vedo, come non facevo da troppo tempo. Ho gli stessi lineamenti di Carlos. La stessa espressione, la stessa bocca, gli stessi occhi di mio fratello. Quando eravamo ragazzi c’era sempre qualcuno che ci chiedeva se eravamo gemelli. E noi giù a ridere. A volte ci scambiavamo perfino le ragazzine... Chissà se riesco a fregare anche la vecchia megera che sta con Carlos adesso. Domattina mi metto la camicia del colore giusto e la vado a cercare. *…+ Lo stile personale di Mugnaini è inoltre caratterizzato dall’uso di immagini e metafore inusuali, non di rado forti, che riescono a rendere con efficacia e precisione un fatto, una situazione, uno stato d’animo, e non appesantiscono la narrazione come inutile orpello, ma le conferiscono, appunto, vivacità e dinamismo… *…+ Gianni Caccia, in “La Clessidra, n° 1, aprile, 2001 Inediti. Nomi concreti e nomi astratti Ivano Mugnaini 50 La professoressa Annarita Canipaletti, solerte, infervorata, sicura di sé e della logica stringente della propria materia, insegnò a Sergio Venanzi e all'intera 2a D della Scuola Media "Vincenzo Gioberti" a suddividere le parole in due categorie: nomi concreti e nomi astratti. "Se ci si riferisce a qualcosa che risulta percepibile tramite i cinque sensi, e il vocabolo che lo esprime è dotato di plurale, abbiamo un nome concreto; in caso contrario avremo un nome astratto". Sergio ebbe problemi: quella distinzione per lui era ambigua e sfuggente. La nebbia è percepibile? E il cielo? E la gente ha un plurale? Si intestardì, comprese che in quella difficoltà c'era sostanza, forse addirittura la chiave per la lettura e l'analisi della grammatica del mondo. Finì per fissarsi, divenne maniaco di quell'attività tassonomica. I suoi compagni giocavano con le playstation e lui passava il tempo a guardare la vita che gli passava di fronte provando a dividere tutto in nomi astratti e nomi concreti. "Paura" è un nome astratto - diceva a se stesso - "violenza" è un nome astratto, ma il sangue sulla faccia del mio amico Livio, preso a pugni da un branco di infami per rubargli il cellulare, è concreto. E' vero, "i sangui" non esistono, c'è solo il singolare del termine sangue, ciascuno ha un suo sangue individuale. "Barbone" è astratto; nessuno pare percepirlo, forse per evitarne l'odore e il pensiero. Barbone è schifo, e schifo è nome astratto. Quindi non c'è orrore se una mattina trovo sul marciapiede davanti al mio palazzo un barbone pestato e bruciato dai teppisti per passare il tempo. L'orrore è astratto, non ha plurale; quindi non esiste, si può accettare, forse. "Solitudine" è un nome astratto, si diceva ancora Sergio, rinfrancato dalla certezza di aver colto nel segno. Non c'è il plurale di solitudine, sarebbe comico oltre che contraddittorio. Un attimo dopo cambiò espressione: non era del tutto convinto che la Inediti. Nomi concreti e nomi astratti 51 Un attimo dopo cambiò espressione: non era del tutto convinto che la solitudine non fosse percepibile con i cinque sensi. Di certo qualcosa di concreto gli accadeva dentro ogni giorno, anche nelle aule e nei corridoi affollati, come se la mente e lo stomaco gli si strappassero e un senso di ribrezzo gli riempisse la gola come miele marcio. Giulia era concreta. Sergio avrebbe voluto sfiorarla con le dita e sentire il profumo dei suoi capelli. Il profumo era un nome astratto, ma per quel nulla Sergio avrebbe dato tutto ciò che aveva, compreso il diario su cui aveva stilato, accanto alle cose fatte e non fatte, alle lezioni studiate e non studiate, la lista concreta dei suoi sogni. Giulia era bella, attraente, già formata e procace. Fu preda di uno dei bulletti della 5a F. La prese con sé e le fece provare il gusto di sentirsi grande, il sesso e il fumo. Un nome astratto che la rese persa, verde come l'erba ma senza sole. "Rabbia" è un nome astratto. Non sai da dove nasce né dove siano i suoi confini. Una mattina Sergio si rese conto che tutto il suo mondo, la compilazione infinitamente paziente del bianco e del nero, del vero e del falso, del piacere stillato goccia a goccia da mattinate lunghe come una lezione di matematica con il rischio costante di essere chiamato alla lavagna, non tornava. Non c'era più modo di trovare un punto di appoggio, una sensazione solida e carezzevole che gli desse la forza di alzarsi dal letto. Di alzarsi come un essere vivente concreto, dotato di una pluralità di sensazioni e desideri e speranze e prospettive, non come un automa destinato a ripetere azioni e gesti di plastica e metallo. "Scuola" è un nome astratto o concreto? Certo, ci sono le pareti e i banchi e le lavagne e i vetri e i cessi e le finestre e le ringhiere, ma, a ben pensare, è più un concetto che un'entità, provò a riflettere Sergio. La scuola è ciò che ci insegnano, è il modo in cui lo fanno, è un'idea, un insieme di regole e concetti, una tradizione che prosegue da secoli, identica a se stessa anche se i tempi cambiano e cambiano i vestiti, gli zaini, i mezzi di trasporto, i capelli e le idee sopra e dentro la testa. Esistono le scuole, edifici diversi, palazzi moderni o che cadono a pezzi, ma in fondo l'attività è identica ovunque, eterna, invariabile. C'era un solo modo per sciogliere il nodo dei nodi dando un'etichetta definitiva alla Ivano Mugnaini Inediti. Nomi concreti e nomi astratti C'era un solo modo per sciogliere il nodo dei nodi dando un'etichetta definitiva alla fonte di ogni dubbio, al luogo esatto in cui era nata la passione per la suddivisione del mondo in categorie contrapposte. Se si brucia un nome astratto non succede niente: la noia, la tensione, l'oppressione, se ne infischiano delle fiamme; restano intatte, inalterate. Se la scuola è un concreto astratto, resisterà, si disse Sergio mentre acquistava al distributore due taniche di benzina. In caso contrario, diventerà cenere. Ma, nel profondo, sarà felice, lei, la scuola, e con lei la professoressa Annarita Canipaletti, il suo simbolo: resterà cenere, ma sarà trionfante. Io avrò risolto l'equazione e imparato la lezione, finalmente. Avrò sciolto l'enigma, e svolto il compito per cui io, allievo, nome concreto, forse, sono chiamato ad esistere. Sergio avrebbe davvero voluto effettuare l'esperimento sulla decrepita Scuola Gioberti. Ma il riso e la pigrizia, nomi sicuramente astratti, e di certo possenti, lo fermarono. Usò la benzina per farne dono al suo amico Carlo, diciottenne, in possesso di una patente di guida quasi concreta. Insieme fecero un giro follemente astratto sulle colline finché ci fu carburante. Da lassù tutto, perfino la scuola, aveva una dimensione diversa, come l'aria, quella luce che entrava dal parabrezza fin dentro le braccia e il cuore, come quella sensazione di non aver compreso nessuna distinzione, in fondo, nessuna categoria. Ma tanto era sabato, e con una spinta concreta e con l'aiuto di qualche generosa discesa, potevano raggiungere l'unico distributore aperto in quelle viuzze di campagna, e, mettendo insieme anche le monete da dieci centesimi, potevano riempire il serbatoio quel tanto che bastava per arrivare, forse, al più astratto e al più concreto dei nomi: il mare. 52 Ivano Mugnaini Lo scienziato e la formica Giullarata di fine millennio (2), 2010 Adelelmo Ruggieri Adelelmo Ruggieri (1954) vive e lavora a Fermo. Per peQuod ha pubblicato le raccolte di versi La città lontana (2003), Vieni presto domani (2006) e Semprevivi (2009). Con Massimo Gezzi ha scritto il racconto-saggio Porta Marina. Viaggio a due nelle Marche dei poeti (peQuod, 2008). Di lui ha scritto Biancamaria Frabotta in Almanacco dello Specchio (Mondadori, 2007): «La poesia di Ruggieri, volutamente defilato dalle principali tendenze riconosciute, proviene da quelle speciali nature doppie che Levi chiamava “centauri”, divise fra scienza e letteratura, con sicuro vantaggio non so se della prima, ma certamente della seconda attività. Ruggieri è un ingegnere, di colte letture filosofiche, di contemplazioni campestri o marine, di meditazioni niente affatto trascurabili.». 53 Da La città lontana, peQuod, Ancona, 2003 Adelelmo Ruggieri Origine di una strada: Venerdì di Pasqua il gradino Per lunghi anni mia madre ebbe la vista acutissima e la mano ferma Seduta sul tavolo con una punta di carta toglieva le schegge dagli occhi dei fabbri Io bambino le giravo intorno Allora lei diceva: siediti sul gradino Sono appena tornati i ragazzi dal ballo Stanno in cerchio come sempre e non è per niente, quello loro un parlare, come dire, gentile La gentilezza arriva alla fine all’alba, in quel saluto pasquale molto speciale, per tutta la famiglia per tua madre, mi raccomando e io sedevo sul gradino e restavo a guardare PS, Lapedona, gennaio 2003 54 Cantilena La mia casa da piccolo aveva tre stanze una grande terrazza che dava sui monti due ripide scale Dal passato noi veniamo Nel passato cascheremo Sono tornato a Santa Maria di Manu Piove, guardo le pietre Guardo la calce che lega i mattoni E’ così piccola questa chiesa su questa spianata della collina che appena dopo scende La misuro: cinque passi per nove e un viale alberato di trentuno come Piranesi all’Aventino inquadra la porta *…+ La voce di cui parlo è quella del libro di versi che avete in mano e che presto incontrerete, scritto da un amico, Adelelmo Ruggieri, col quale ho condiviso un pezzo di strada, che ha un tono già sicuro, ed una voce nuda, priva di travestimenti intellettualistici. Non è timida come lui, ma piena di pudore, e avanza per sottrazioni. Sommessa, mai gridata, non vuole essere nient’altro che se stessa. Ricorda e narra il tempo di un romanzo privato, famigliare e provinciale, ripercorre le stagioni e i passaggi nel “minuto animale”, quello dell’assoluto quotidiano, quando la vita accade,… Da La città lontana, peQuod, Ancona, 2003 Adelelmo Ruggieri 29 maggio 15 ottobre io non so descrivere questo risalire del passato nel tempo di ora Pomeriggi lontani ritornano e quell’aria sottile sul tuo corpo disteso in un campo di maggio tra i tulipani E non è ricordare E’ di più Avete mai visto bene la casa di chi non c’è più? Una casa che amavate, s’intende, e stipata di cose Di quell’accumularsi invano delle cose nel tempo? Avete mai provato a riflettere sulla polvere Che devasta, già da ora Quelle cose tanto amate da rappresentarci? Ma chi ci ama altre cose intorno a sé raccoglie Una somma innumerevole di cose opponiamo A non sappiamo cosa Santa Caterina, 1959 55 Un piccolo passaggio divideva le due stanze. In quel punto malsicuro sbarcava la ripida scala. Aveva cinque anni il bambino, non si rendeva conto quando s’arrampicava a notte fonda tra di loro che uno stava col sonno suo leggero a controllare vigile. Di domenica, le nove passate, molte volte, preso d’affetto il padre aspettava che il figlio si destasse per fingere lui d’essere destato. …procede per frammenti e malinconica pendolareggia tra passato e presente, nella classica ciclicità di ogni vita,… *…] La voce ondivaga di questo libro riferisce, descrive, rivisita i luoghi e le persone delle geografie più intime, anche le più lontane, i vivi e i morti, i padri e i passi perduti, tra il dentro e il fuori bilancia il proprio punto di osservazione nel diario dei giorni. La visione si focalizza sempre nel rapimento dello sguardo… *…+ Angelo Ferracuti, dal risvolto del libro Da Vieni presto domani, peQuod, Ancona, 2006 Adelelmo Ruggieri Orientamento La posizione del morto Ho dormito sempre da questa parte qui Solo qui la riconosco, in questa stanza alta sulla via, e sin dall’alba rumorosa di camion con le merci. In nessun altro posto riconosco la parte che è di sollievo al mio sonno; nel letto di ora perfino Tanto delicata che dimentichi di stare con il volto vòlto al cielo da sotto una spinta ti tiene a galla le membra lambite da piccole onde quel guardare di piatto l’orizzonte… La posizione del morto è felice Dietro la collina il sole che scende E’ un giorno verso sera che si spegne io non so mai da molti anni come faccio a sollevarmi, quando mi desto. Qui no il tuo respiro d’allora m’orienta ancora Aurora di Salvano 56 madre del mattino, di questo pianto misura del tempo che resta quando scendo la strada che si spiana e tutto è tanto terso da lasciare trasalire fino a Miramare dove ritraggo il sole tra le palme degli chalet. A che vale proseguire? Ritorno e già l’aria s’è tinta di celeste chiaro tutta e pigola un uccelletto screziato di bianco nella lacuna dell’asfalto grigio, poi torna fra i rami ancora freddi dell’albero davanti, balzella un po’ *…+ …in poesia il suo principio è la decrescita. Un principio osservato con scrupolo e sobrietà: le poesie che scrive all’inizio sono lunghe descrizioni, lunghi racconti di semplici situazioni che lui si trova a vivere: prendere il caffè al bar, fare quattro passi dopo cena, andare al mercato, tornare a casa dopo aver accompagnato il figlio a scuola. Pian piano le parole vanno via dai suoi fogli… *…+ Franco Arminio, da Il poeta nascosto, in “Stilos”, gennaio 2007 Da Vieni presto domani, peQuod, Ancona, 2006 Adelelmo Ruggieri Di nuovo qui a Santa Maria di Manù il cielo terso la signora della casa affianco che raccoglie pomodori per il sugo rosso Che c’è di speciale in questo posto? La misura 57 Oggi è talmente celeste questo cielo di fine marzo che sono sceso in garage per portare in anticipo sopra la tenda del mio giardino e adesso quelle righe lo coprono questo cielo fuori stagione Cammino sotto di loro, le guardo Un poco mi distolgono occultando tutta quella bellezza precoce in alto Quanto dura, nei fatti questo mattino presto d’estate? Io che lavoro al calcolatore elettronico Tu nella stanza tua figlio mio quindicenne che ti muovi ogni tanto nel tuo giovane sogno *…+ … quello di Ruggieri è un lirismo improntato alla fenomenologia e depurato da qualsiasi tentazione solipsistica, dove l’io, benché spesso separato dal mondo, riconosce una sorta di segreta armonia in virtù della quale gli uomini interagiscono con l’ambiente e con i luoghi… *…+ Massimo Gezzi, in “Poesia”, maggio 2008 Vieni presto domani è la cronaca di una continua ricomposizione tra tempi, modi e luoghi in cui l’io si è distanziato invocando però l’altro, non potendolo espungere né cristallizzarlo per sempre da ciò che è stata la propria esistenza. Così si riparte da gesti tanto semplici quanto personali… Domenico Cipriano, in www. rivistasinestesie.it Da Vieni presto domani, peQuod, Ancona, 2006 Adelelmo Ruggieri 58 Ieri, al mercato del sabato ho visto una donna con un cappello in quel giorno assolato di novembre e perfetto a forma di riccio solamente che gli aculei erano morbidi filamenti sintetici brevi L’ho guardata negli occhi per dirle Che accidente porti sulla testa? e lei m’ha risposto sorridendo nei miei Due ragazzi cinesi appoggiati a una ringhiera vendevano frivolezze In una gabbietta a forma di pagoda ci stava un animaletto di plastica dalle penne malamente colorate Una molla teneva in alto la gabbietta e ritrovando la sua lunghezza la molla cantava l’animaletto Di notte il silenzio non è mai tale il buio non è mai tale e nel mio caseggiato che non è di città né di campagna s’avverte di più l’approssimazione del buio detto nero del silenzio che vorremmo assoluto della notte Ogni tanto non sai quanto lontano un cane guaisce ma non è ripreso il canto degli uccelli del mattino Non si sente l’approssimarsi vero del giorno che appena nato iniziano subito i rumori, e tu t’addormenti Questi nostri anni sembrano caratterizzati da una sorta di progressiva e esponenziale riduzione della qualità alla quantità, o potremmo dire dell ’ontologico all ’economico. Tutto deve essere quantificato, monetizzato, reificato. Avete mai sentito un personaggio pubblico, di ogni parte, mettere in dubbio che il tèlos della vita sociale sia la crescita, e quello individuale il successo? Due sole figure ci possono salvare da questa folle corsa a schiantarsi sul nulla: il prete, che ci ricorda che dobbiamo morire, e il poeta, che si fa sorprendere a ogni istante dall ’esistenza in sé delle cose. Adelelmo Ruggieri è un poeta cosciente di questa vitale funzione della poesia, e aspira dunque, programmaticamente, a decrescere. L’–atto violento, coraggioso, sovversivo, di cui credo ci sia al momento urgenza come di una boccata d ’aria nella calca soffocante della contemporaneità. Livio Borriello, da L’irresistibile decrescita di Adelelmo Ruggieri, in “Semaforo blu”, 23 novembre 2006 Da Vieni presto domani, peQuod, Ancona, 2006 Adelelmo Ruggieri Raggi Quanti anni sono trascorsi, tutti quelli che dovevano, non uno di più né mezzo di meno, con i mesi in fila a far da esattori Anche l’ultima rata è pagata… stanotte una bufera di vento ha scatenato l’azzurro di questa mattinata, sul tettuccio della Multipla di Clara un grappolo di raggi si riflette, attraversa le rose, entra nella casa. Sillabario notturno Stanotte mi tocca tornare da te Parlarti. Prendere sulle mie spalle gli anni che ci toccano, coccolarli come fu con mio figlio da piccolo 59 Come può fare, ripetevo sempre a iniziare a parlare? Chiaramente dire da solo di sé? Ripetendo dicevi, non farla lunga stavolta Spengo la luce, sillabo nel buio questi versi. Sono le tre di notte Solo quel che basta cercherò da ora Chiudo gli occhi. Vieni presto domani Nella poesia di Ruggieri la dialettica tra lo scendere e il salire, la dinamica degli opposti, è centrale, tanto che si potrebbe dire che il suo verso è prodotto dal rilascio di una forza *…+, oppure, riprendendo i versi di una delle sue “camminate campestri *…+, che è un movimento di risalita che dà una sorta di finitezza, di precaria durata ad una bellezza fragile e sempre sul punto di svanire.*…+ Di questi piccoli prodigi è fatta la poesia di Ruggieri: deviazioni, quasi impercettibili scarti, minimi e grandi avvenimenti, tenerezze, distanze che improvvisamente si colmano, e una grazia che fa dimenticare il lavoro duro di cesello, la tradizione che ha alle spalle e potremmo quasi dire che fa dimenticare di essere scritta: sembra lì, che accade nelle cose. Franca Mancinelli, in www.lagru.org Da PORTA MARINA – Viaggio a due nelle Marche dei poeti, peQuod, Ancona, 2008 Adelelmo Ruggieri 60 […] Rapidamente i pescherecci stanno uscendo dalla marina di San Giorgio. E’ un venerdì sera di ottobre. A prua stanno stesi i panni ad asciugare. Un pescatore sta raccogliendo i suoi quattro panni stesi… è una scena enorme… Si sentono le voci sul peschereccio che si allontana. Eccone un altro. Si chiama Nuvola. Che nome magnifico per un peschereccio in mezzo al mare. Ora ne stanno uscendo altri due. Passa un elicottero. E’ sicuramente uno di qui che ha un mare di soldi e quando torna a casa ci avverte tutti quanti. Un gabbiano insegue Nuvola. Eccone un altro, si chiama Maristella. Prendo a camminare per andarmene via. Ecco i gabbiani in cima alle vongolare. Sul Nautilus in prima fila, uno di loro guarda dritto davanti. Sembra una piccola scultura di Del Zozzo. Il sole è calato. All’inizio del molo la recinzione è divelta. Si può andare di là. Appena dopo c’è la foce dell’Ete Vivo. Se chiudi le mani a canocchiale tutto è come una foto del 1960. Il proprietario di C’est la vie sta pittando la sua barca. Intanto sente una canzone alla radio. Io invece da che sono venuto non ho mai smesso di ascoltare dentro di me due versi di Remo Pagnanelli: “L’anno ha pochi giorni perfetti. / Non ci lascia mai incolumi la divinità felpata”. […] […] Ho trovato la foce del Tronto. La nebbia non rende esattamente percepibile la vastità dello spazio, tuttavia, lambendo le acque, ne accentua il carattere. Mi metto a parlare con un pescatore. E’ del ‘41. “L’altro giorno” mi dice “il fronte del fiume era di almeno cinquanta metri”. Dal molo partono i bilancioni. I pesci in certi periodi precisi vanno a radunarsi proprio lì, al confine fra la terra e il mare e il fiume e gli scogli, sotto i bilancioni. “Era un fiume da favola il Tronto, non voglio fare il campanilista ma era un fiume da favola, e la casa mia eccola lì, l’abbiamo rifatta, venne disastrata dalla guerra”. “Disastrata?”. “Sì. Il 14 ottobre del ‘43. Il famoso bombardamento del Tronto”. Lo guardo… poi mi dico di tacere. “Sì. Entrarono dal mare e distrussero tutto quello che poterono… quando mia madre che mi copriva si alzò mi vide in un mare di sangue… ma non era il mio sangue… allora urla a mio padre: ci hanno ammazzato i bambini…”. […] Da Semprevivi, peQuod, Ancona, 2009 Adelelmo Ruggieri Fiaccola Ora non accendo più la piccola luce che tanto t’aiutava a prendere sonno Non era per paura, piuttosto una fiaccola sul tuo corpo riposato dal buio, ardente Ti osservo di passaggio, la porta aperta le coperte a posto, l’imposta socchiusa Fra poche ore la luce calma dell’alba ti farà da sveglia, delicatamente Tu pensa a un albero pensati in un albero Noi stiamo in un albero ma quando i rami stanno troppo vicini non va Devono stare i rami in una certa tale maniera di modo che le fronde non si toccano ma io non ho la forza per capire tutto questo 61 Ero quieto, sottile, il treno correva pinnacoli d’estate presero a smascherare lo spasimo che sarebbe venuto poi Poi, invecchiando, ho preso ad ammirare gli alberi a guardare le spirali tra le chiome di modo che le fronde non si toccano e ciascuna foglia sta entro la sua vita e quando cade la foglia non cade la fronda l’albero non cade Quando restò solo per diverso tempo accostava sempre il suo viso al vetro della stanza Preparava così la sua pena alla sottigliezza del ricordo Semprevivi è il libro nel quale viene raggiunta un’equidistanza tra il livello figurale e quello fonico della memoria. (…) L’incisività del lessico e l’autonomia paratattica delle singole frasi fornisce ai testi un senso di dolorosa definitività. La stessa autonomia è riscontrabile nell’andamento delle strofe, rivolte a concludere singolarmente il discorso, moltiplicando così i piani semantici. *…+ L’istanza comunitaria del ricordo non è mai stata così impellente. Tuttavia, proprio i versi di Semprevivi segnalano un distacco dalla poetica della rieducazione sentimentale condotta attraverso la fonicità della memoria. Da Semprevivi, peQuod, Ancona, 2009 Adelelmo Ruggieri 62 PERCY E MARIA Erano riquadrate di bianco le finestre della stanza Ogni giorno andavo sotto gli olmi ad ascoltare le cornacchie cra-cra cra-cra-cra Guardavo i rododendri Raggiungevo la gora. Inciampavo orbo come sono, ma non mi dispiaceva e quando leggevo non mi rincresceva tenere gli occhi incollati alle pagine le capivo di più le parole mi segnarono di più Vedo Maria sulla riva ha paura, sta scrivendo Dice di quando sono andato via stamattina, era talmente colmo di sole che bisognava uscire. Dice di me nella tempesta. Di me in mezzo ai flutti. Del cuscino di alghe dove il mio volto riposerà LA SCOMPARSA DEGLI OGGETTI Un altro atto iniziò così un sudore freddo circospetto Le ombre di prima in quelle di ora e queste qui di adesso vai a sapere dove andranno… sì, qui ci sono più finestre che a casa, sicuro e si vede il mare che laggiù non vedevo, questo non è poca cosa, ma la mattina presto i corrieri non spengono mai, mai i motori… io cerco di finire questo libro a cui tenevo molto e che ora non poco mi secca; ha perso lo stato febbrile dell’insonne, il non trascorrere delle ore Di là il rubinetto che dà forma, perdendo goccia dopo goccia, al tempo Si avverte un’estraneità verso se stessi che mediante l’accoglienza poetica permette ancora di lenire il caos emotivo, ma sempre con maggiore disincanto. *…+ Ciò che rende unitario il suo lavoro, è l’assetto dei suoi temi privilegiati: l’unità inscindibile di nascita e morte, l’annullamento del dolore attraverso l’accettazione della temporalità, la capacità di ricreare poeticamente il ricordo in forma comunitaria e fruibile a tutti, anche negli episodi più personali. Nel designare una rete di rapporti affettivi elementari. La memoria di un piccolo mondo può trasformarsi nella memoria dell’intero mondo. Stelvio Di Spigno, da Una solitudine colloquiale: su Semprevivi di Adelelmo Ruggieri, in www.librischeiwiller. it Da Semprevivi, peQuod, Ancona, 2009 Adelelmo Ruggieri 63 La mitezza Ieri è accaduta una cosa stupefacente Pioveva a dirotto, non avevo benzina Mi sono fermato al distributore lungo l’Ete Ci lavorano due benzinai, stavano lì a ripararsi, parlavano mitemente C’era in quella loro mitezza sotto la pioggia battente la compiutezza del pomeriggio Loro, naturalmente, stavano lì soltanto ad aspettare che spiovesse, ma in quell’ aspettare, in quel parlare fitto come la pioggia, e mite, c’era l’affiatamento di quando piove a dirotto e l’aria poi si pulisce e il cielo diventa più celeste di prima, celeste più che mai Cammino Le prime luci dopo l’aurora pennelli piatti di tasso dipingono di rosa il fianco a meridione della città Dura molto poco Questo rosa d’inverno ma c’è un tratto di strada al ritorno il rosa è già finito che il sole è di un poco salito e i raggi dilagano radenti la strada di casa *…+ Il movimento che unifica i vari pezzi di questa bella raccolta di Adelelmo Ruggieri è quello della pietas, sgombra però di ogni residuo doloristico o di cupo sofferentismo, intrisa piuttosto di una laica, cordiale, appassionata coscienza del mondo e della sua bellezza. *…+ Un’attenzione alla Simone Weil quella di Ruggieri, l’attenzione che redime il mondo perché sa dissipare la caligine di finzione che lo ricopre, restituendolo a se stesso, al suo corpo visibile, agli oggetti che ne certificano l’esistenza, che ne decidono senso e significato. Linnio Accorroni, in La poesia e lo spirito, giugno 2010 Da Semprevivi, peQuod, Ancona, 2009 Adelelmo Ruggieri SEMPREVIVI I E’ un pezzo che ci vado pensando a qual è stato il sentimento dominante e non so nominarlo Certi pomeriggi, tuttavia che ho da fare poco, alle quattro pressappoco, quella tale cosa che giudico essere un sentimento io l’avverto, oppure il sabato mattina quando sono di turno per i fiori ai morti di casa, e se l’aria è quella tale aria, e il colore del cielo quel tale colore, e se ho riposato abbastanza la notte prima, se accadono tutte queste circostanze insieme insomma allora quella tale cosa che giudico essere un sentimento l’avverto e mi viene più naturale lavare il pavimento sotto le lapidi 64 II Una parete di volti, di nomi, di date è un camposanto Per ogni volto quattro borchie brunite condivise con il volto di sopra con il volto di sotto Per ogni volto una croce un lume i fiori E’ così, eppure, oggi, qui, dove siedo su questo gradino d’ingresso il colmo quieto del colle di Capodarco mi distrae, mi riposa Mi duole assai un braccio Cominciò a questa maniera mio padre il suo calvario di chili perduti uno dopo l’altro Verso la fine sembravano legnetti disgiunti le sue ossa Altra cosa, ben altra, ricordarlo magro da giovane, nella foto coi bordi lavorati a sinusoide La parola di Ruggieri è scandita in termini essenziali, quasi guadagnata o sottratta al bianco della pagina, l’ordito metricosintattico è di nobile semplicità, chiuso in strofe di endecasillabi prolungati dalla dizione a viva voce, laddove l’impronta lirica, anzi totalmente lirica, si impedisce il canto dispiegato e semmai privilegia garbata e delicatamente fraterna. *…+ Da Semprevivi, peQuod, Ancona, 2009 Adelelmo Ruggieri III Abbiamo scelto il peggiore dei posti per i nostri fornetti, esposti come sono al sole d’estate, io dico che non ce ne è un altro di posto dove batte tanto sole C’è talmente tanto sole che i fiori d’estate durano un giorno, neanche, e l’acqua è già lurida, e questa cosa non è ripagata dalla maggiore mitezza dell’inverno qui Una donna gentile aveva i suoi fornetti vicino a questi nostri, ogni giorno veniva a cambiare l’acqua d’estate. Non tollero l’odore di marcio, fu così che mi disse 65 Ora non viene più, qualcuno per suo conto porta semprevivi, non vogliono acqua i semprevivi, ma non è la stessa cosa lo si dica apertamente, dei fiori freschi *…+ C’è sempre un “tu”, reale o virtuale, nell’orizzonte di Ruggieri, cui consegnare il tesoro di alcuni istanti presi dalla centrifuga spaziotempo: sono immagini in equilibrio, talvolta di vero e proprio incanto dentro il paesaggio, ma sono anche immagini del vivere ordinario, frammenti di residua sensatezza o di gioia inopinata dentro l’universo più anonimo e feriale. *…+ Massimo Raffaeli, da Ruggieri, la pagina bianca e le fragole, in “Alias”, marzo 2010 Inediti. Qualcuno mi ha detto l’altro ieri di te IL PUGILE VIAGGIATORE GRIDO Nulla ricorda di più del primo KO Ha sessant’anni, l’espressione mite Degli antichi combattimenti le mani nervose, scottate Non voglio diventare vecchia gli ripeteva sempre la moglie Non dirlo, tu non devi dire mai questo amore mio, la sgridava lui Ogni tanto, adesso che lei non c’è si mette in viaggio per l’Italia dove capita capita, basta che sia un rifugio tranquillo, fuori mano È una giornata di fine agosto il primo temporale dopo ferragosto non è giunto ancora l’aria non è cambiata ancora Fra poco ti volterai verso di me Griderà nel tuo sguardo dove corre ogni cosa che non ha colore ELEGIA 66 Le tende alle finestre Le sere sul terrazzo I bambini che corrono meravigliosi fuori La verità che si rallegra di se stessa Adelelmo Ruggieri Inediti. Qualcuno mi ha detto l’altro ieri di te ELEGIA PROFONDITA’ DEL SONNO Qualcuno mi ha detto l’altro ieri di te Mi ha fatto bene parlarti ieri notte Ascoltavo le tue ragioni Mi apparivano ragionevoli Non c’era in loro qualcosa di storto che offendeva l’ascolto Ho preso allora a ricordare quando fermi nella stanza ci raggiungeva sui vetri il blu della sera Poi mi sono sprofondato con il mio mezzo secolo e passa di vita, con i miei novanta chili e passa di peso in un sogno profondo FOLIAGE 67 Domenica chiudono lo chalet dove mangiammo l’ultima volta che arrivasti, è arrivato l’autunno Faccia presto per favore si chiude mi ha detto spazientito il cameriere Il mare intanto minacciosamente prendeva a ruggire, grigio l’azzurro divenne, poi presero, venivano da chissà dove, a cadere le foglie Dalla vetrata le vedevo arrivare severe cadere Adelelmo Ruggieri Inediti. Qualcuno mi ha detto l’altro ieri di te Adelelmo Ruggieri LA FEDERA Non un filo di luce nella stanza piuttosto un tessuto invisibile di cose rimaste qui loro malgrado senza effetto muto 68 L’Iliade - Un inno alla guerra contro la guerra (3), 2010 Luigi Socci Luigi Socci è nato ad Ancona, dove risiede, nel 1966. E’ scrittore di poesie “part-time” e performer testimoniale. La sua prima raccolta di versi, Il rovescio del dolore, è apparsa in POESIA CONTEMPORANEA - Ottavo quaderno italiano (a cura di Franco Buffoni, Marcos y Marcos, 2004) e con introduzione di Aldo Nove. Per le Edizioni d’if di Napoli è uscito, nel 2009, Freddo da palco, suo secondo lavoro in poesia. E’ presente in diverse antologie e riviste ed è stato tradotto in russo, inglese, spagnolo e serbocroato. E’ direttore artistico del festival di poesia “La punta della lingua”. 69 Di lui ha scritto Aldo Nove: «E la poesia di Luigi Socci è dunque quella, posso ora ribadire, di un vero walter chiari (lo scrivo con la minuscola, per ingrandirne la potenza poetica, simbolica: quasi una categoria oltre il caso umano individuale, lo svaporarsi della persona nella memoria televisiva, collettiva) del verso. “Un signore”, appunto (Socci), che con estrema perizia, ed umiltà, rivolta le cose e ne lascia trasparire il gioco in filigrana in cui la tragedia trapassa nel comico, in un movimento di continua oscillazione, senza risoluzione (scrive Luigi, del resto, con estrema lucidità: “Chino nel mio cunicolo. / Munito di binocolo. / Non cerco l’ironia, trovo il ridicolo)». Da Il rovescio del dolore In POESIA CONTEMPORANEA – Ottavo quaderno italiano, Marcos y Marcos, Milano, 2004 Luigi Socci Immobiliario Le reliquie venerabili di un pollo incollate da giorni al proprio piatto. Dentro la lampadina il ghirigoro che produce la luce è mezzo rotto. Ronzano mosche di questi tempi fuori dalla stagione delle mosche in orbite piene di contrattempi. Dalle patate i getti si diramano in cerca degli umori dell’aria. Oggi non so le cose importanti ma tutte le altre a memoria. 70 Le mani avanti Leggere attentamente il foglio illustrativo trova impiego negli stati morbosi di dolori inodori e indolori. Poesia medicinale e malattia diluita nell’acqua o presa pura solo se necessario il cavo orale dopo l’uso gettare. *…+ Così come Gadda trova attraverso il dolore la verità del suo essere – ne ha cognizione – e al contempo scopre la natura di questo suo dolore (in una sorta di algolagnico circolo ermeneutico, grammaticalizzato dall’ambivalenza del genitivo), Socci sperimenta e avverte – attraverso la limatura severa e crudele del suo interminabile addestramento poetico – il rovescio di quel dolore: la tramatura sottile che sta al verso del panno colorito di una pelle di continuo urticata dall’esistere; e, al contempo, rovescia sul lettore il referto clinico di quel dolore: lancinante nella sua intollerabile sincerità il punctum della “bic” cancellatrice che si vorrebbe “lamarasoio” per esplicitare ancor più la propria natura di kafkiano èrpice (auto) punitivo. Da Il rovescio del dolore In POESIA CONTEMPORANEA – Ottavo quaderno italiano, Marcos y Marcos, Milano, 2004 Luigi Socci Certi rovesci Il vento aspira l’aria, non la soffia, e lascia i corpi sparsi sottovuoto. La foglia rimbalza in cima all’albero la primavera retrocede a gambero. La pagina si sbianca l’inchiostro è risalito nella penna (bel risparmio) Il fumo scende nella sigaretta tornata intatta come mamma l’ha fatta. Fumo di meno ed ho il pacchetto pieno. (Tutta salute) E il morso che rinsalda ogni boccone la merda a riavvitarsi su nel culo 71 Dora è aroD, Maria airaM, Paola sarebbe aloaP sottosopra. Ma Anna all’incontrario è sempre Anna. Rovescio del dolore, il suo discuore. Allegri! Oggi si muore. *…+ Come sintetizza De Signoribus: “in questa grazia stretta / ogni cosa nell’altra s’affaccia / e ciascuna, voltando le spalle, / è perfetta”. Perfetta è la sofferenza del Socci: come l’opera di attento giardinaggio che ha abolito l’infinito. Andrea Cortellessa, da Ogni oltraggio è morte, in “La scrittura”, autunno 1998 E’ d’obbligo (direi automatico, per chi mastica un po’ della grande poesia italiana dello scorso secolo), leggendo Socci, il riferimento a Giorgio Caproni. E’ un riferimento puramente formale. Deriva da alcune analogie immediate. Da Il rovescio del dolore In POESIA CONTEMPORANEA – Ottavo quaderno italiano, Marcos y Marcos, Milano, 2004 Luigi Socci Insabbiamenti Qual è il senso di marcia del deserto? Certe sabbiosità di certe coste danno una sensazione come di asciugamento. Si aprono, saltuariamente, in una parentesi di pietra. E’ il caso del Conero trauma dell’Adriatico. Le spiagge con la sabbia danno più ampie possibilità di movimento. Forse troppe. 72 Ricordi per esempio quei bambini scambiare il bagnasciuga per pista di rincorse? Te li ricordi che fastidio i frisbi? Ricordi quei mocciosi (ai quali auguravamo molta morte) spruzzarci d’acqua gelida sulle bollenti pance? Li ricordi tra sabbie e le altre polveri, sotterrati paletta e secchiello, a scavarsi la buca con le mani? A Portonovo tanto accanimento al moto non sarebbe stato possibile. (mai) Altro problema: quel senso di sporco alle caviglie e l’annosa questione del leggere al mare, e dello scrivere. Io, nelle terze di copertina in mancanza di foglio e di meglio. Nei libri ricurvi di sole s’insinua anche la sabbia l’arsura segnalibro. Al ritorno li devi scuotere, sgrullare, sgrullare, in certi il deserto è in loro e te lo porti in casa. A quando la fine di questo processo di deversificazione? Sarà reversibile? dì L’epigramma nella miglior tradizione novecentesca del “quadretto” perfetto vociano all’interno del quale, nel dosaggio degli artifizi retorici, nell’amalgama finale di un’ineccepibile, per grazia quasi metafisica, quartina o d’altra forma riconoscibile, si costruisce un’immagine che è simbolo e riflessione, allegoria privata ma non tanto, non troppo… E come Caproni, l’equilibrio composto (ipercomposto) delle rime, la sua apparente, ma cesellatissima, “facilità” espressiva scardina le categorie ormai insostenibili di “alto” e “basso” per proporre piuttosto un quotidiano sublime, quasi sublime, in realtà tutt’altro che sublime, ricco della sua contradditorietà, sull’orlo heideggeriano dell’abisso dove l’essere non è ancora parola (Parola) ma esperienza, con tutte le incertezze del caso, nel caso. Da Il rovescio del dolore In POESIA CONTEMPORANEA – Ottavo quaderno italiano, Marcos y Marcos, Milano, 2004 Luigi Socci 28 agosto 94 * Nerastro miramare funereo zittarsi di triglie bare a vela. Onde con l’ombra al collo, il loro andar di sale ingozza il porto. Bisogna parlare dei morti (assenze che di noi fanno polpetta) perché c’è nella poesia tanto così di morto per ciascuno. Cozze col cuore a pezzi tette a lutto. Il sole simultaneo traduce sassi in terra (grossi, di Portonovo; grassa di Tavernelle) Curioso capolino di vermi o cicche spente? Dentro le sabbiature lenta lebbra dei vivi. 73 Un morto vive altrove. * Una delle più assolate domeniche di questa estate. Al mare si stava benissimo. Ci muore Franco Scataglini. *…+ Un continuo logorio, gnosologia del dettaglio quotidiano. Il tessuto, la trama dei versi di Luigi Socci mischiano perciò Gianni Rodari (la filastrocca) a Kafka (l’incomprensibilità di tutto ciò che esula dall’immediato) a Camus (l’alienazione e la scelta, eroica e pacata, dell’assurdo, del ridicolo) in punta di millennio, con una velenosa gentilezza. *…+ Aldo Nove, dalla prefazione a Il rovescio del dolore Da Il rovescio del dolore In POESIA CONTEMPORANEA – Ottavo quaderno italiano, Marcos y Marcos, Milano, 2004 Luigi Socci A babbo morto Le porte si aprono verso l’interno. Attenzione. Non è di due, di quattro o quarantuno, di circolare destra o di sinistra ma d’autobus che ferma al capolinea che si parla di zero sbarrato. Qui mi sono portato essendo il conducente nessuno mi ha parlato in quanto solo. Arriva il sale e non arriva il mare. Oggi il mare è brizzolato come tu non lo sei mai stato, tu coi capelli spessi, infissi al cranio, altro che pippo baudo. (altro che me) 74 Non ho il tuo naso e te ne sono grato. Era più scarno, quasi affusolato quando nell’obitorio ci sembrasti strano: con spigoli, sconnesso, come se fossi stato dal di dentro manomesso. …per intanto essendosi reso disponibile il corpo del Socci, in concomitanza con la di lui latitanza… Ma loro spergiuravano che no. che no. Il mare tace come gli compete specie senza domande il mare ha (non dice a non dice ba) l’ultima parola ma produce onde solo di sale senza una goccia d’acqua. Attenzione. Le porte si aprono verso l’inferno e stringersi che davanti c’è posto e non sostare. Di sicuro è un inferno d’assenza di vini, lonze e salamini, non caldo ma di roba riscaldata. Sciapo. A babbo morto te lo posso dire: le palle di neve di sale che ammucchiavi su tutte le cibarie non erano poi male. Ci sono porte che si chiudono da sé così come fa Yale. *…+ Dentro questi versi raffreddati dal gioco c’è un bisogno antico e ineludibile, ed è esattamente quella la malattia: il bisogno che si attacca perché se ci si tocca si rimane “incollati” all’altro nel bisogno reciproco. La non frequentabilità di questo bisogno è l’anima, la caratteristica fondante, della poesia di Socci: il suo trasformare tutto – anche la poesia – in teatro.*…+ Giorgio Manacorda, in Samiszdat, antologia allegata all’annuario 2005 di Castelvecchi Da Il rovescio del dolore In POESIA CONTEMPORANEA – Ottavo quaderno italiano, Marcos y Marcos, Milano, 2004 Luigi Socci 0,2 0,9 Per scriverci in corsivo finita la matita la morte entra nel vivo si tempera le dita. Una volta fuori la porta si sbarrava alle spalle. Nello sparire lasciava il posto solo a mattoni rotti e nessunissima maniglia. 1 Qualcuno è appena uscito con passi senza piedi qualcuno è appena sceso dagli spini agli spiedi. 75 C’è nessuno, è permesso? Era scusate aperto ancora scusa. In nessuno c’è casa. Ripasso. Il mondo visto dallo spioncino. E’ un gioco di specchi convessi, di lenti deformanti. Un universo livido e grottesco. Ridicolo e inquietante. Un mondo guardato da un oblò senza oceano né mare, ma affacciato sulla tromba delle scale di un condominio qualsiasi, in una città qualsiasi. Un’umanità che vista da questa “lente rimpicciolente” *…+ appare caricaturale, storpia, istintivamente infida. *…+ Da Il rovescio del dolore In POESIA CONTEMPORANEA – Ottavo quaderno italiano, Marcos y Marcos, Milano, 2004 Luigi Socci Di proprio pugno Mi scrivo una tua lettera finché dura la mano finché mi regge il pugno, finché stringe, finché so l’italiano. Come consolazione o per rivalsa mi scrivo una tua lettera falsa. Mi scrivo di mio pugno (la grafia non è mia) senza fare la brutta copia, senza bisogno di sprecare saliva per chiudere o affrancare. Mi scrivo una tua lettera. Poi te la faccio firmare. 76 La lana in casa sotto ai divani segno che senza calori umani la polvere si annoda su se stessa. Pieno che colma il vuoto tappo che attappa un buco lana nell’ombelico foglia come di fico e i grappoli di lana dei maglioni frutto d’attrito. Srotolando gomitoli si sperde ogni mio filo in doppi sensi (dentro cuscini insonni di lana a grumi densi). *…+ E’ una poesia che scava in minimali miserie quotidiane, che va a segno nel momento stesso in cui sembra perdere di credibilità, perché è in quello svelare l’assurdo, strappando persino un acido sorriso, che si palesa senso, si sostanzia dove mai avremmo immaginato. *…+ Cristina Babino, da Piccole apocalissi quotidiane. Sulla poesia di Luigi Socci, gennaio 2007 Da Freddo da palco, Edizioni d’if, Napoli, 2009 Luigi Socci Roma Tra una bocciofila e un luna park rionale in un quartiere di case basse di innocui e minimali cactus senza puntali e gentili richieste di non parcheggio. Via NICOLO (senza accento per errore epigrafico) PICCININI, famoso condottiero e altre vie intitolate a illustrissimi esistiti cartografi davvero. Dove, attraverso i buchi nella rete, come da uno spiraglio di sipario che limita i confini, tocca anche a noi la nostra visione su un dettaglio del povero teatro dei cortili. 77 Dove azzurrati al posto di imbiancati, celestinati per tenere a bada i parassiti e gli altri pestilenti perniciosi animali, crescono i delicati stenti degli ulivi condominiali. Tocca anche a noi la nostra parte che impara l’arte dello spasso da parte a parte. Tocca anche a noi poveri rimatori guardoni diplomati poeti laureati mai bocciati. *…+ Articolato in quattro brevi partiture, Freddo da palco si presenta nella sua natura sostanziale di mise en abyme desacralizzante della realtà e dell’arte, della scrittura e della finzione. A chi ancora oggi insiste su una netta separazione tra compiutezza dell’arte e le eteronomie o le implicazioni, Socci sembra ribattere con l’adozione dell’understatement di una lingua dimessa e non dismessa… *…+ …procedendo prosodicamente per versi brevi e ipometri, sostenuti da rime semplici, spesso baciate, o alternate, marcate da una forte periodicità data da recursività sonore, riprese allitteranti, enjambements sconvolgenti (…) e da una ritmica dinoccolata, unita a una scorrevolezza e facilità / felicità versificatorie, con distici che si fissano nella memoria di chi legge, e ballando drammaticamente… Da Freddo da palco, Edizioni d’if, Napoli, 2009 Luigi Socci Berniniane *…+ Davanti al quirinale un sant’Andrea propulso da una nuvola a reazione ascende a un paradiso a cassettoni. Riuniti in comitato d’accoglienza, di presenza discreta ma di aspetto sbagliato, angeli e santi di serie zeta. Storti, contorti, in bilico sui bordi, col peso dello stomaco sui corpi, slogati comprimari, marmi ignari delle più elementari regole della carne. Freddo da palco 78 *…+ E questi sono i resti dei trucchi del mestiere Parrucche occhi retrattili baffi posticci grassi che si fingono magri falsi passi piccole bocche che a grande richiesta sanno come sguaiarsi. *…+ Articolato in quattro brevi partiture, Freddo da palco precipita si presentail Socci nella sua natura lettore nello sostanziale di mise sconcerto en abyme quotidiano, desacralizzante in della quella che realtà“tragedia e dell’arte, non ha la forza di della scrittura e della esplodere”, in finzione. A chi ancora quella finzione della oggi insiste su una realtà che è la scena netta separazione tra compiutezza teatrale, indell’arte cui la e le eteronomie realtà può o le implicazioni, Socci irrompere con sembra ribattere con effetti detonanti, l’adozione devastanti, sulla dell’understatement finzione. *…+ di una lingua dimessa Manuel Cohen, in e non dismessa… *…+ “Marche Cultura”, …procedendo marzo 2010 prosodicamente per *…+ versi Quest’italietta brevi e borghese, che Socci ipometri, sostenuti si diverte a da rime semplici, dipingere con tratti spesso baciate, o minimali, armato alternate,emarcate di rime sprezzanti, da una forte periodicità buttate quadata e là,daci recursività sembrasonore, di riprese allitteranti, riconoscerla bene. enjambements La rima non è infatti sconvolgenti (…) e da mai il rispettoso una ritmica omaggio a una dinoccolata, unita a tradizione lirica, ma una scorrevolezza e funziona a mo’ di facilità / felicità battuta, anche versificatorie, con forzandola volte… distici che siafissano nella memoria di chi legge, e ballando drammaticamente… Da Freddo da palco, Edizioni d’if, Napoli, 2009 Luigi Socci *…+ Ricadi e cadi ancora esperta in ricaduta acerba come un frutto che ogni giorno matura che rimuore sei giorni su sette per contratto. Si può perdere il senso andando a tempo può spezzarsi l’incanto se vibra senza suono da una tasca qualcosa di non spento. Giornaliera ricorre ogni sera la tua pena seriale serena ei dintorni dell’ora di cena. Sarò il tuo specchio per guardarti dentro culturista dell’occhio agonista del muscolo che goccia a goccia tira indietro il pianto. Non ho (perché non c’è) nessun riparo dal refrigerio che soffia dal sipario perché il freddo da palco esiste e in questo consiste. 79 Finiscono le prove iniziano gli indizi. Piuttosto che crepe meglio dire interstizi. *…+ Per Socci si direbbe che nulla è serio, tutto va desacralizzato, gli ori del barocco romano fatti cadere, la santità di Teresa d’Avila sputtanata, la sacralità dell’arte nelle chiese capitoline viene svilita dalle visite turistiche che illuminano le opere a suon di gettoni. Tutta la realtà offerta al poeta si riduce a quella di cortili rionali, bocciofile e luoghi abitabili che “tocca” mettere in versi, nella maniera meno lirica possibile…*…+ Fabrizio Bajec, in www.attimpuri.it, febbraio 2010 Da Freddo da palco, Edizioni d’if, Napoli, 2009 Luigi Socci Ultima prima al “Na Dubrovka” Il teatro russo degli anni ottanta mi stanca. Il teatro russo degli anni novanta invece incanta. Ma il teatro russo degli anni zero è vero. La realtà si realizza il passo è corto tra la vita e il teatro prende corpo. La scena dilagava in sala e a casa veniva a chiamarci per la catarsi per renderci partecipi (spettatori carnefici) dell’irripetibile evento. Imparavo a memoria la mia vita come una vittima di talento. Quella sera era meglio se non ero in abito nero per l’occasione come a una prima i capelli in un velo la vita ristretta da un cinturone. 80 Io quella sera proprio io non c’ero e se c’ero dormivo e morivo già cascavo dal sonno e mi gasavano (posto 12 fila C) la testa mi andava giù. Epidemie di tosse rumore di giunture che disturba la già pessima acustica, asfissiando è difficile farsi sentire. L’emissione vocale del morire non arriva alle ultime file. Nel personaggio a cui davo la vita mi identificavo alla perfezione: il mio cadavere in carne e ossa in attesa di identificazione. Centinaia di comparse disperse rivolevano i soldi del biglietto perché il passo che separa la vita ora era fatto. Una cappa di fumo scendeva dal soffitto come un effetto speciale reale la mano si poteva allungare per vedere se tutto accade. Mi confondo nei ruoli. Mi confondono i ruoli. Mi credo e mi capisco. Dico l’ultima poi mi finiscono. *…+ …in tutte queste liriche, per parafrasare Manganelli, l’angoscia scherza spesso con il gioco. La menzognera artificiosità della finzionalità (nella lingua, nell’arte, nel suo luogo d’elezione che è il teatro – ecco il lemma decisivo di questa raccolta, vero e proprio wortmotiv che ricorre incessantemente) è messa a nudo dall’emergere di una realtà che si fa via via sempre più dolorosa e tragica, senza redenzione né salvezza. *…+ Linnio Accorroni, in “La poesia e lo spirito”, settembre 2009 *…+ …Luigi Socci, in Freddo da palco, preferisce l’ironia disperante di chi constata come la paura, l’orrore facciano parte della nostra realtà, siano la nostra realtà. (…) Il Freddo da palco di Socci è la paura che ci resti solo da vivere l’apparenza della finzione. Sergio Rotino, in “il Domani”, dicembre 2010 Inediti. Da Ma chi ti credi di non essere ? Prevenzioni del tempo Cammini contromano per le strade come su un nastro trasportatore cammina un camminatore cammini da una parte totalmente sbagliata del marciapiede un passo insieme all’altro e non t’importa di camminare come ci si siede. Ogni tuo buco ha un nome ogni capello bianco la sua data le rughe una per una una ragione che non è la durata. 81 Dicono che non c’è più religione, insistono col fatto che non c’è mezza stagione che non ci sono più le morte stagioni di una volta, la presente viva e sepolta non è imminente. Il primo che si alza e dice che adesso si fa come dico io e si alzano tutti e si fa come dicono tutti. Qualche piovasco qualche modesto rovescio temporalesco qualche mediocre perturbazione poco mossi sia gli uni che gli altri mari, il gelo non ha alcuna intenzione. Ci sono quelli che si chiedono ostinati se non è un tuono questo clangore di lamiere allora che cos’è e c’è chi fa fantocci fantocci compatti di lane di pioppi pallide imitazioni di pupazzi. Precipitate dai piani alti da tovaglie sbattute incivilmente le briciole di pane troppo veloci per sembrare neve sono quello che sono non quello che si deve. Al riparo dai falsi freddi dietro scafandri di piuma d’oca simuli basse temperature l’autunno l’inverno eccetera la primavera l’estate secondo una logica. Luigi Socci Inediti. Da Ma chi ti credi di non essere ? Superstite di un’epoca di ferrea disciplina semaforica il sole passa come una cometa e rischiara e rioscura gettato nella mischia di una nuova era di rotatorie molto meno sicura. Senti come una testa nella testa una testa più piccola all’interno di una testa custodia. Da ieri è primavera e si direbbe una svolta epocale. Una delle due teste ti fa male. Non sai quale. 82 Luigi Socci Inediti. Da Ma chi ti credi di non essere ? Consigli di lettura Leggi con gli occhi in orbita filamentosi, acquosi. Leggi perché sei quello che sa farlo (chi scrive è l’altro), leggi perché non è il momento di saper far di conto. Leggi le scritte piccole, le clausole capestro- vessatorie ad alta voce a chiare lettere minatorie. Leggi senza usare il leggio dal libro della memoria come faccio io. Leggi le barre dei codici a barre. Leggi arrotandoti tutte le erre. Leggi, resta sul testo non ti astrarre. 83 Leggi perché se leggi non ti accorgi ai lati della vista della perdita d’occhio che non scorgi. Leggi prima che con un tratto di penna si scancelli tutto quello che ti si legge in faccia perché ce l’hai scritto. Fra le righe nel vuoto leggi e rileggi lo spazio bianco tra un verso e quello dopo. Pratichi la lettura silenziosa per non mettere bocca nella cosa per non prendere parte come scusa eviti la lettura rumorosa. Leggi le guide della Lonely Planet fino ai glossari per non partire, leggi la vasta gamma delle contro indicazioni invece di guarire, leggi due righe prima di dormire e i necrologi al posto di morire. Leggi del manganello Tonfa (che porta il nome del suo rumore) in dotazione al nucleo antisommossa speciale della celere di Roma che può colpire due persone insieme come una cosa sola. Leggi e sputi la pelle allucinogena del rospo in gola. Luigi Socci Inediti. Da Ma chi ti credi di non essere ? Luigi Socci I have a dream. You have a dream? He, She, It has a dream. We have some dreams. You have a lot of dreams. They have parecchi dreams. Io ho un sogno così almeno mi pare quando dormo è che quando mi sveglio me lo scordo 84 Ma il sogno non è ordigno e non sa ticchettare. Sogno (e son desto) il sogno che mi viene a svegliare. Lo scienziato e la formica Giullarata di fine millennio (3), 2010 Collage Guido Gozzano Il gioco del silenzio 85 Non so se veramente fu vissuto quel giorno della prima primavera. Ricordo - o sogno? - un prato di velluto, ricordo - o sogno? - un cielo che s'annera, e il tuo sgomento e i lampi e la bufera livida sul paese sconosciuto... Poi la cascina rustica sul colle e la corsa e le grida e la massaia e il rifugio notturno e l'ora folle e te giuliva come una crestaia, e l'aurora ed i canti in mezzo all'aia e il ritorno in un velo di corolle... - Parla! - Salivi per la bella strada primaverile, tra pescheti rosa, mandorli bianchi, molli di rugiada... - Parla! - Tacevi, rigida pensosa della cosa carpita, della cosa che accade e non si sa mai come accada... - Parla! - seguivo l'odorosa traccia della tua gonna... Tutto rivedo quel tuo sottile corpo di cinedo, quella tua muta corrugata faccia che par sogni l'inganno od il congedo e che piacere a me par che le spiaccia... E ancor mi negasti la tua voce in treno. Supplicai, chino rimasi su te, nel rombo ritmico e veloce... Ti scossi, ti parlai con rudi frasi, ti feci male, ti percossi quasi, e ancora mi negasti la tua voce. Giocosa amica, il Tempo vola, invola ogni promessa. Dissipò coi baci le tue parole tenere fugaci... Non quel silenzio. Nel ricordo, sola restò la bocca che non diè parola, la bocca che tacendo disse: Taci!... ARCIPELAGO itaca informa NOI REBELDIA 2010 La rivista elettronica http://www.retididedalus.it (del sindacato scrittori italiani) ha lanciato un esperimento progettuale di scrittura (lingua italiana) poetica collettiva, e SINE NOMINE. Il progetto si chiama “Noi Rebeldìa 2010”, ed è aperto a tutti quanti interessati all’uso del linguaggio poetico. Il progetto “Noi Rebeldìa 2010” comprende il programma teorico (sinteticamente espresso), le regole di partecipazione e l’incipit originario “we are winning wing”. I tre documenti (programma teorico, regole di partecipazione e incipit) sono pubblici e scaricabili dal sito http://www.retididedalus.it. I partecipanti che, presa visione, volessero condividere la progettualità sperimentale poetica SINE NOMINE, nel rispetto delle indicazioni date, possono spedire il loro contributo alla e mail ivi esplicitamente dichiarata. Via via, seguendo le scelte decise e dichiarate nel documento delle modalità partecipative, è prevista la pubblicazione dei risultati acquisiti con la dicitura “Noi Rebeldìa 2010.1” o “Noi Rebeldìa 2010.2”. http://www.retididedalus.it ha già messo in rete il primo risultato di “Noi Rebeldìa 2010.1” “Noi Rebeldìa 2010.1”. La notizia del progetto “Noi Rebeldìa 2010” è accolta e pubblicata (finora) pure da http://www.retroguardia.it, http://www.lapoesiaelospirito.it; http://mazaracult.blogspot.com; http://www.mazaraonline.it; http://marsala.it; http://www.marsalace.it; http://lellovoce.altervista.org. 86 ARCIPELAGO itaca informa E’ DINO CAMPANA? Riportiamo di seguito un brevissimo brano tratto da una ricerca curata da Davide Argnani. Questa ricerca porta a nostra conoscenza il fatto che una foto da sempre attribuita a Dino Campana riproduce - in realtà - Filippo Tramonti, compagno di Liceo del poeta. L’immagine in questione era parte del “collage” dedicato a Dino Campana ed inserito nella prima apparizione di ARCIPELAGO itaca. Si ringrazia Davide Argnani per la segnalazione. […] Grazie a contatti culturali che da un po’ di tempo intrattengo con Paolo Pianigiani di Empoli, poeta, pittore e artista di valore, studioso e ricercatore sull’opera e la vita di Dino Campana, e dopo l’avventura delle dimenticanze intriganti dei Canti Orfici a opera di Papini-Soffici, poi ritrovati anni fa abbandonati sul fondo di una vecchia cassa appartenuta all’illustre critico e pittore toscano, ora, grazie alla paziente ricerca di Stefano Drei, negli archivi del Liceo faentino, dove Dino Campana studiò a cavallo degli anni tra ’800-‘900, si scopre che una delle foto classiche attribuita al poeta che ispirò gran parte della poesia nuova del Novecento è un falso. Paolo Pianigiani ha fatto questi accertamenti grazie al contributo del Prof. Stefano Drei, docente e ricercatore presso il Liceo Torricelli di Faenza. […] 87 Quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga fertile in avventure e in esperienze. Costantino Kavafis, Itaca In copertina: Sit, di Pietro Spica. Serigrafia, cm 24 x 17. Riproduzione fotografica. Per ulteriori notizie sull’autore: www.pietrospica.it. La piccola immagine in basso a destra nella seconda di copertina e in alto a sinistra nella terza di copertina raffigura la sagoma dell’isola di Itaca. Zanichelli Frisa Rogani Mugnaini Mandolini Socci Gozzano Ruggieri ARCIPELAGO itaca: Danilo Mandolini – Via Mons. D. Brizi, 4 – 60027 Osimo (AN). www.arcipelagoitaca.it [email protected]; [email protected]