La nera stella di Israel J. Singer
- Andrea Colombo, 31.03.2013
Letteratura Yiddish . Dalla angolazione privilegiata della vicenda ebraica, lo scrittore di lingua
Yiddish racconta fallimenti e bugie dell'illuminismo nel suo romanzo «La famiglia Karnowsky», per
Adelphi
«Ebrei in casa, uomini in strada». È questa la frase che funziona da stella polare per David
Karnowski, erede di commercianti ebrei polacchi, osservanti ma anche attenti a quel che circola al di
fuori della autarchica cultura degli ebrei dell’est. A David lo shtetl ebraico-orientale va stretto. È un
ebreo moderno, fervente seguace di Moses Mendelssohn, il maestro dell’illuminismo ebraico. Non
vuole vivere in un mondo a parte. È convinto che ci si possa integrare senza assimilarsi, coniugando
la propria specifica identità ebraica con quella del paese in cui si vive e di cui si è parte.
Karnowski va nella Berlino di inizio secolo, dove campeggia la statua di Mendelssohn, dove le menti
sono aperte e si può essere osservanti in casa e uomini come tutti gli altri per la strada.
Professionalmente raccoglierà successi, per il resto incontrerà solo delusioni. Nella illuminata patria
della modernità gli ebrei li guardano storto comunque, anche quando parlano un tedesco perfetto ed
eccellono nelle loro professioni. Gli ebrei tedeschi fanno la stessa cosa con gli ost-juden, accusati di
ostentare senza vergogna la loro appartenenza. Proprio qui, nella terra di Mendelssohn, serpeggia
fra gli ebrei un latente odio verso se stessi che era del tutto assente nel «mondo fuori dal mondo»
dell’ebraismo orientale.
Anche il sogno di potersi integrare senza farsi assimilare si rivela un miraggio. Fuori dallo shtetl, gli
ebrei orientali finiscono presto per comportarsi come tutti gli altri, ansiosi di assimilarsi. Lo stesso
figlio di David, Georg, ginecologo di chiarissima fama ed eccellente clientela, finisce per sposare una
shikse, una cristiana. Ma per i tedeschi restano comunque tutti ebrei: poco importa se vendano
stracci in caffettano o siano i loro medici di fiducia.
In capo a pochi decenni, dopo la guerra, dopo la rivoluzione, l’inflazione e l’avvento del nazismo,
David Karnowski dovrà riconoscere che le cose sono andate all’opposto di quel che pensava. Adesso
lui e la sua famiglia sono goyim in casa ed ebrei per la strada. Incalzati dai nazisti, dovranno partire
di nuovo, stavolta per l’America, portando come pesantissima eredità nel nuovo mondo un ragazzo, il
figlio metà ebreo e metà cristiano di Georg, avvelenato da un odio per se stesso portato alle estreme
conseguenze. Pubblicamente umiliato dai nazisti in Germania, diventerà nazista e antisemita nel
nuovo Paese.
Ma La famiglia Karnowski (Adelphi, traduzione di Anna Linda Callow pp. 498, e 20.00), pubblicato
nel 1943 da Israel Joshua Singer, fratello maggiore del celeberrimo Isaac Bashevis e della altrettanto
sottovalutata Esther Kreitman, tratta di faccende ebraiche solo nel suo primo e più superficiale
strato. L’obiettivo è più vasto e più ambizioso. Singer adopera l’angolazione privilegiata della
vicenda ebraica per descrivere il fallimento dell’Illuminismo, svelarne le menzogne e metterne a
nudo le illusioni. Le pulsioni che spingono a guardare con sospetto e diffidenza chi è diverso e
immaginarselo responsabile dei propri guai sono troppo profonde per essere domate dalla Ragione.
Il sogno dell’eguaglianza nella diversità finirà sepolti sotto le macerie della statua di Mendelssohn,
demolita dai ragazzi in camicia bruna delle SA. Quel sogno, peraltro, lo negano e rinnegano gli ebrei
stessi, alcuni, i tedeschi, mimetizzandosi fino a smarrire la propria identità, altri, gli ost-juden,
erigendo muri per difenderla e conservarla.
In questo bellissimo libro pubblicato per la prima volta in Italia, scritto in yiddish, tradotto subito in
inglese e poi dimenticato fino alla traduzione francese del 2008, Israel Singer fa della tragedia degli
ebrei d’Europa, di cui ignorava le reali dimensioni ma intuiva la natura sterminatrice, la lente
attraverso cui raccontare e denudare il tracollo di una intera civiltà. Per quanto angusto e arcaico, lo
shtetl era una comunità capace di dare senso all’esistenza. La modernità non conosce comunità, e
neppure sensatezza, né per gli ebrei né per i tedeschi, che qui quasi si riflettono gli uni negli altri.
Tra l’ostilità latente che gli ebrei moderni riservano agli ost-juden e quella di cui loro stessi sono
fatti oggetto dai tedeschi c’è poca differenza. Il matrimonio misto tra Georg Karnowski e la moglie
cristiana è avversato da entrambe le famiglie, per motivi uguali e ugualmente inconsistenti.
Ma anche all’interno dei gruppi apparentemente coesi, la solidarietà è pura apparenza. Lo scoprirà
David Karnowski quando, nel corso della prima guerra mondiale, avrà bisogno di un aiuto che la
cerchia più intima della sua comunità gli negherà. Lo scopriranno anche i tedeschi, nella tempesta di
Weimar, e la nostalgia di un passato pre-moderno contribuirà in maniera determinante a spingerli
nelle braccia di Hitler l’Incantatore.
Quando scriveva il suo libro, destinato a rivelarsi l’ultimo, Israel Singer non era al corrente di
Auschwitz. Sarebbe morto, nel 1944, senza sapere che il mondo in cui era nato, quello dell’ebraismo
orientale, era stato cancellato dalla faccia della terra e persino dalla memoria. È stupefacente come
riesca lo stesso, non solo a immaginare la tragedia immaginabile che si stava consumando, ma anche
a comprendere, con grandissime precisione e perspicacia, i percorsi banali, addirittura miseri, lungo
i quali il popolo tedesco precipita nella barbarie e le illusioni che impedirono a tanti ebrei tedeschi di
capire cosa stava per succedere.
Il fatto di scrivere senza sapere della Shoah e della distruzione dell’universo giudaico-orientale
concede a Israel Singer una libertà di cui altrimenti non avrebbe potuto godere. Proprio perché
ignora l’incommensurabilità di Auschwitz, può ricercare gli elementi comuni, non tedeschi né ebrei
ma umani, che sono all’origine della persecuzione, del razzismo e della catastrofe finale. Dopo il
1918, i tedeschi vanno alla ricerca di qualcuno cui addossare la colpa della disfatta e delle
sofferenze che ha comportato: lo trovano nella leggenda della «pugnalata alle spalle» e negli ebrei.
Dopo l’ascesa dei nazisti, anche gli ebrei cercano qualcuno da additare come responsabile: lo
trovano nella miriade di ebrei orientali immigrati di recente, troppo diversi per non ridestare la
fiamma sopita dell’antisemitismo.
Israel Singer non ha la potenza visionaria del fratello minore, la cui intima modernità è dovuta
peraltro proprio al suo essere ultimo testimone di una civiltà rasa al suolo, tanto da diventare il
grande narratore dell’esilio come dimensione esistenziale umana. Israel è un narratore ancora
ottocentesco, molto più a proprio agio di Isaac nelle grandi narrazione epiche e realistiche. I suoi
romanzi, e questo ancora più dei Fratelli Ashkenazi, sono un quadro corale e apocalittico della
tragedia non solo ebraica e neppure solo europea del Novecento.
Ma l’essere morto senza scoprire fino a che punto ci si era spinti, prima di sapere che l’intero suo
mondo e la sua stessa famiglia erano stati inghiottiti dalla fame di sterminio nazista, lascia ancora
spazio a un barlume di speranza che non sarà più consentito al fratello. Una speranza ispirata non
più dalla Ragione ma dalla generosità, dall’amore per la vita e per se stessi, persino da una gioiosa
incoscienza che si rovescia in saggezza. Qualcosa che esula dalla Ragione e che con la ragione, anzi,
a volte confligge. Nei decenni successivi Isaac racconterà la condizione non degli ebrei ma di tutti
gli esseri umani dopo l’apocalisse. Quella che suo fratello, nella Famiglia Karnowski, aveva descritto
in corso d’opera.
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