cSp tabula rasa L’IDEA FORTE CREA L’ARTE L’IDEA DEBOLE LA DISTRUGGE Damnatio memoriae (I) U MBERTO B ROCCOLI Damnatio memoriae: consuetudine, largamente esportata nei secoli dei secoli, di eliminare ogni ricordo di un uomo di potere caduto in disgrazia. Il governato si accanisce e cancella le tracce: decapita le statue, cancella il suo nome, distrugge le sue opere illudendosi di farne dimenticare l’esistenza. Il condannato della memoria, al contrario, sopravvive con accresciuto vigore, perché ogni simbolo contro il quale ci si è accaniti fa sorgere la curiosità. Tentando di cancellarne i resti, lo si consegna all’immortalità. La damnatio memoriae comprova la meschinità del carattere umano, incapace di contestare il potere quando si manifesta ma pronto a scagliarsi contro i suoi simboli quando questo non c’è più. la condanna della memoria. Il diritto romano prevede la possibilità di cancellare ogni traccia materiale della presenza di una persona non più degna di essere ricordata. O meglio: non più degna di essere ricordata per decisione altrui. E, una volta decisa da altrui l’indegnità, sarà buona norma provvedere a distruggere quanto di materiale resta dell’opera dell’indegno. Roma antica regolamenta questa consuetudine, presente da sempre nelle Storie della storia. RIVISTA ITALIANA DI INTELLIGENCE 137 UMBERTO BROCCOLI cSp Nei nostri tempi, più o meno antichi, è stato tutto un mettere e levare insegne, statue, ritratti, simboli. Con l’illusione, abbattendo un simbolo, di abbattere l’idea che esso evoca. Semmai l’idea si rafforza. Perché per decenni ci sarà la curiosità di chi vorrà andare a vedere quelle cancellature. Vorrà andare a capire quali fossero le parole condannate, il volto di marmo preso a sputi e martellate. E la curiosità alimenterà il ricordo. Stalin, Lenin, Mussolini, Saddam Hussein, Francisco Franco, uomini del Novecento che hanno innalzato statue, distruggendone altre. I successori non sono stati da meno, distruggendo per ricostruire, nell’illusione di eliminare il tempo intermedio appena trascorso. Sarebbe stato meglio non permettere a quei regimi di prevalere, contrastandoli sul nascere. Invece no. Si ripara dopo, a martellate. «Sia santificato il tuo nome»: è nella preghiera più importante del cristianesimo. E spiega indirettamente l’uso della damnatio memoriae, pervenuta fino a noi direttamente dal mondo antico. Nel nome c’è tutto, esso si identifica con la persona, conosciuta (in quel tempo e fino a pochi decenni orsono) quasi solo ed esclusivamente con il nome. Non esisteva il volto, non prevaleva l’immagine: l’uomo era degno di essere ricordato per nome. Le tombe antiche proponevano il nome scolpito a chiare lettere nella pietra, perché non ci si scordasse di quanto aveva realizzato sulla terra quell’uomo, oramai ridotto in resti abbandonati sottoterra. Il nome illustre portava con sé le informazioni necessarie per identificarne la vita e le opere. Al contrario, chi si macchiava di indegnità non aveva più diritto nemmeno a quel ricordo: ecco la damnatio memoriae, la condanna ad aver distrutto tutto e, soprattutto, il nome. Piccole cose del mondo degli uomini: voler cancellare parole, ritratti, simboli quasi per riconquistare una verginità e dimostrare a se stesso di essere stato un combattente di un regime, di aver sempre pensato all’opposto rispetto al pensiero di quella persona, il cui nome ora va dimenticato. Alla fine del mondo romano si corre alla conversione religiosa. Il cristianesimo è religione di Stato, per cui fa comodo iscriversi al partito del vincitore, è necessario rinnegare il simbolo antico (le immagini degli dèi di una volta), e abbracciare totalmente questo simbolo nuovo costruito sulla croce. Cosa importa se l’insegna, in quel periodo, rappresenta l’ignominia, perché sulla croce finiscono i derelitti, i farabutti, coloro il cui nome non deve essere né ricordato né (tantomeno) santificato. Non importa. Ora la croce vince, ora la croce trionfa e tutti sono pronti a prendere per sé quel segno. 138 GNOSIS 1/2017 TA B U L A R A SA. DA M NAT IO M E MO RIA E Inconsapevolmente, per convenienza. All’inizio di quel medioevo la croce si ostenta, si esibisce come ornamento, occupa gli spazi lasciati liberi anche negli oggetti della vita quotidiana. Il segno della croce finisce su bicchieri e stoviglie dell’alto Medioevo. Usati, probabilmente, durante banchetti dei signori, mentre la gente non aveva di che vivere. Oggi e sempre, quando la storia si libera di quel capo di governo o di quel dittatore, l’uomo comune esce per strada. E non importa se, per un certo periodo, sia stato anche sostenitore di quel regime: esce per strada con scalpello e martello e inizia a colpire teste di statue, ritratti, iscrizioni celebrative, ansioso di farsi vedere libero e rivoluzionario. Non si risparmia nessuno. Massenzio, alla fine dell’Impero romano, distrugge le statue di Costantino, non potendo distruggere Costantino, distruttore delle statue di Massimiano padre di Massenzio. Finiranno tanto l’uno, quanto l’altro. Qualche anno fa hanno rimosso (in Spagna, in gran segreto) anche l’ultima statua a cavallo di Francisco Franco, ultimo erede delle dittature del secolo XX, morto da tempo e fuori dalla storia da altrettanto tempo. «Dava fastidio e attorno a quelle zampe si radunavano ancora nostalgici e passatisti»: così è stato detto, per giustificare l’abbattimento del simbolo. Ancora una volta spaventano i simboli. Una statua a cavallo, vecchia, male in arnese, ricordata più dai piccioni che dagli uomini. Per qualcuno, la libertà è ora più tutelata. Che soddisfazione distruggere a pezzi quelle facce arroganti, alzare le nostre spade contro di loro, di tagliarli ferocemente con le nostre accette, come se il sangue e il dolore potessero seguire i nostri colpi. Le parole descrivono una distruzione di statue e non provengono da un militante del Daesh, né da un fanatico politico o religioso. Scrive così Plinio il Giovane, vissuto tra 61-62 e 113-144. È il nipote altrettanto celebre di Plinio il Vecchio, entrambi estremamente importanti e influenti nella Roma dell’epoca. Plinio il Giovane fa carriera soprattutto al tempo di Traiano, l’imperatore sotto il quale l’Impero romano raggiunge il massimo della sua espansione. Plinio è giovane e vive quando regna Domiziano, l’ultimo imperatore della dinastia dei Flavi. È un periodo particolarmente complesso della storia di Roma, così come lo è ogni RIVISTA ITALIANA DI INTELLIGENCE 139 UMBERTO BROCCOLI cSp momento storico di passaggio o di crisi. Domiziano è imperatore e, probabilmente, anche imperatore efficace. Si appoggia all’esercito, favorisce i piccoli coltivatori, non si lancia in guerre di conquista o di affermazione del potere di Roma a differenza del fratello Tito, protagonista della distruzione storica di Gerusalemme nel 70. Entra in contrasto con l’aristocrazia e con il senato: ma questo fa parte dello stipendio degli imperatori romani. Negli ultimi anni del suo governo vira verso un potere più presente e repressivo: e anche questo rientra nella busta paga imperiale, non solo per Roma e dintorni. Tra le ragioni, l’insurrezione delle legioni della Germania superior guidata da Lucio Antonio Saturnino. È il 1° gennaio dell’89 e Saturnino si ribella con i suoi fedelissimi e con l’appoggio nascosto del senato. Inizialmente è sostenuto anche da Aulo Bucio Lappio Massimo, governatore della Germania inferior. Poi Lappio Massimo ci ripensa, conferma la fedeltà a Domiziano e muove contro Lucio Antonio. Il 25 gennaio la rivolta è già domata e Lappio Massimo si premurerà di distruggere ogni documento prodotto da Saturnino: sia per nascondere il suo rapporto con gli insorti, sia per tentare di uccidere la memoria assieme ai protagonisti. A questo punto Domiziano deve necessariamente cambiare stile. Repressione, stato di polizia e culto della personalità: egli diventerà dominus ac deus, signore e dio, celebrato in statue, iscrizioni, opere d’arte varia, perché il dittatore – amante di arte e letterature – è anch’esso tradizione storica ben consolidata. Domiziano scriverà poesie e Quintiliano, grande retore del momento, scriverà testualmente recensendo l’imperatore: Gli dei hanno ritenuto che fosse troppo poco per lui essere il più grande dei poeti. Cosa vi è di più sublime, di più dotto, di più armoniosamente bello delle sue poesie composte nell’ozio in cui si è confinato nella sua giovinezza, dopo averci fatto dono dell’Impero? Chi potrebbe cantare meglio la guerra di colui che la fece così gloriosamente? A chi dovrebbero mostrarsi più benigni gli dei che presiedono agli studi? I secoli futuri parleranno meglio di me; ora la sua gloria poetica è eclissata dalla fama dei suoi altri talenti. 140 GNOSIS 1/2017 TA BU L A RA SA. DA M NAT IO M E MO R IA E Anche in questo caso è rispettata la regola millenaria, non scritta, dell’intellettuale con la lingua appiattita sul regime. La storia va avanti ed è sempre simile a se stessa. La possibilità di far cadere il regime, sperimentata una volta anche se fallendo, è uno spiraglio lasciato aperto per altri tentativi più organici. Così è. Altri senatori si accordano con Cocceio Nerva, umbro di Narni, senatore e governatore della Mauritania e riprovano a porre fine alla vita e al governo di Domiziano. Ci riescono nello stile Giulio Cesare: il procuratore Stefano si fa ricevere da Domiziano, lo accoltella, non lo finisce, cosa che fanno gli altri cospiratori al suo seguito. È il 18 settembre del 96. Dopodiché Nerva sarà imperatore. Ma cosa c’entra tutto questo con le parole di Plinio il Giovane? Anche qui c’è il rispetto di regole millenarie non scritte: quando cade un dittatore ci si accanisce con tutto quanto può essere ricondotto alla dittatura dimostrando, ancora una volta, lo stile del correre dopo. E allora Che soddisfazione distruggere a pezzi quelle facce arroganti, alzare le nostre spade contro di loro, di tagliarli ferocemente con le nostre accette, come se il sangue e il dolore potessero seguire i nostri colpi. Ecco spiegato l’antefatto. E, in questa distruzione, immaginiamo quante statue siano andate perdute, quante sculture, pitture e simboli legati all’imperatore, ma anche all’arte romana. Del resto, qualche anno prima Lappio Massimo distrugge i documenti del rivale Saturnino: qui l’evento ha più la connotazione della eliminazione di prove compromettenti. Ma si tratta sempre di memoria distrutta. Inutilmente, perché noi oggi possiamo ricostruire lo stesso le fasi della cospirazione di Saturnino contro Domiziano, così come Domiziano stesso è ben presente nella memoria storica. L’accanirsi su resti materiali identificati, in quel momento, come simboli del male, rivela solamente isteria infantile con venature di idiozia: nessun bambino bucherebbe il suo pallone per far dispetto ai compagni di gioco con cui ha litigato. Eppure le Storie della storia sono ridondanti di questo cupio dissolvi. Tell el-Amarna, Egitto, XIV secolo a.C. Va al potere Amenofi IV, figlio di Amenofi III. Non bello, una moglie bellissima (Nefertiti), idee rivoluzionarie. Basta allo strapotere della casta sacerdotale, basta adorare Ammon Ra e tutte le divinità di quel pantheon, basta con la capitale a Tebe, basta con tutti i templi eretti per divinità (considerate) false. D’ora in avanti (qualche anno dopo il suo insediamento), un solo dio, Aton, una capitale diversa costruita RIVISTA ITALIANA DI INTELLIGENCE 141 UMBERTO BROCCOLI cSp a Tell el-Amarna e il cambiamento del proprio nome e di quello della moglie: da Amenofi e Nefertiti ad Akhenaton (Aton è soddisfatto) e Nefer-neferu-Aton (Bella è la perfezione di Aton). La città nuova si chiamerà Akhet-Aton (Orizzonte di Aton), 240 chilometri a nord della vecchia capitale. Di conseguenza, l’ordine di distruggere ogni segno della religione precedente: dai templi alle statue, via via fino ai palazzi del potere. Akhenaton distrugge per costruire il suo potere, tenta di annullare architetture, sculture, pitture e ogni altra manifestazione in linea con il passato da dimenticare. Naturalmente – anche questo passato non sarà dimenticato – l’antico riaffiorerà potente e prepotente una volta eliminato il faraone eretico. Perché sarà chiamato così: Akhenaton sarà oggetto, sua volta, della damnatio memoriae, i suoi palazzi distrutti, le sue statue fatte a pezzi, la sua tomba profanata. Nel 1917, nella Valle dei Re gli archeologi scoprono una tomba. Può essere contemporanea al faraone eretico. Non solo, ma le iscrizioni del sepolcro sono scalpellate anticamente, per annullare il nome, oramai impronunciabile, perché ritenuto una bestemmia. È possibile, quindi, trovarsi di fronte alla mummia di Akhenaton, riaffiorata dalla notte dei tempi, nonostante la distruzione sistematica di ogni sua opera. Oggi gli studi sul Dna aprono orizzonti incredibili, altroché Akhet-Aton (Orizzonte di Aton). Il corpo rivela proprio quelle imperfezioni fisiche, caratteristiche del faraone: testa a pera, spalle cadenti, bacino largo, guance scavate, sintomi della Sindrome di Marfan, la stessa di Abramo Lincoln cui Akhenaton somigliava. In ogni caso, nessuno è riuscito a cancellare la memoria di nessuno, nonostante ogni accanimento. La religione combattuta dall’eretico sarà restaurata assieme ai templi distrutti e ricostruiti con le pietre eretiche dei monumenti dedicati ad Aton. Il successore non diretto di Akhenaton è Tutankhamon, figlio di una seconda moglie. Tutti e due hanno lasciato una traccia evidente e indelebile nei libri di storia. Tutankhamon e la sua tomba hanno fatto parlare il mondo, fin dal momento della loro scoperta nel 1922: ricchezze incredibili e leggende legate alla maledizione di chi avesse osato profanarle. Akhenaton, nel 2004, è diventato un fumetto Marvel, 3.300 anni dopo. Le Storie della storia conoscono migliaia di casi del genere: violenza ottusa contro le cose e, al limite, contro i cadaveri. Contro le cose e le opere d’arte c’è solo l’imbarazzo della scelta. 142 GNOSIS 1/2017 TA B U L A R A SA. DA M NAT IO M E MO R IA E York, 4 febbraio 211. Muore Settimio Severo, marito di Giulia Domna e padre di due figli: Caracalla e Geta. Entrambi diventano imperatori e, da sempre, questo è il sistema per far crollare ogni impero. Geta e Caracalla litigano. Vorrebbero spartirsi il potere e l’impero e, ovviamente, non si accordano. Caracalla farà uccidere il fratello nelle braccia della madre Giulia. Geta sarà sepolto in una tomba al Palatino, poi sembra abbia trovato pace eterna nel mausoleo di Adriano, anteriore di un secolo e più noto come Castel Sant’Angelo. Non troveranno mai pace le opere d’arte legate a Geta. Probabilmente è una delle azioni più capillari di damnatio memoriae distruttiva. Sparisce ovunque, su ordine del fratello Caracalla. Come se non bastasse, Settimio proscrive ed elimina almeno 20.000 sostenitori di Geta e manda a morte Papiniano, giurista dell’epoca, perché non vuole scrivere una apologia del fratricidio. Geta sparisce ovunque, perfino dai piccoli oggetti della vita quotidiana. Un tondo (è un quadretto circolare) rappresenta la famiglia imperiale con Settimio Severo ancora vivo: si vedono il padre, Giulia Domna e i fratellini Geta e Caracalla. Ma la faccia di Geta è strappata via. Se poi passate per il Foro Romano e andate sotto l’arco di Settimio Severo, vedrete chiaramente un’altra operazione del genere. Nell’iscrizione in alto, il nome dannato è stato abraso, ma si vedono ancora i fori che alloggiavano le lettere di bronzo asportate. Al suo posto, le parole optimis fortissimisque principibus, frase riferita ovviamente a Settimio Severo e a Caracalla. Operazione ancor più scientifica quella effettuata nell’arco di Settimio Severo a Leptis Magna: qui il bassorilievo eretico è scalpellato e si intuiscono fretta e rabbia dai segni lasciati sulla pietra. L’Operazione Geta è un po’ più capillare delle altre, considerando quanti personaggi siano stati strappati dai monumenti e siano sopravvissuti, comunque, alla damnatio memoriae. Oggi è molto difficile identificare un ritratto del fratello di Caracalla. La storia ha vendicato Geta solo in parte. Caracalla, imperatore tra 198 e 217, rappresentato barbuto e quasi sempre accigliato, artefice nel 212 della rivoluzionaria estensione della cittadinanza romana a tutti i cittadini dell’Impero, sarà ucciso da un fedelissimo del fratello sepolto da tempo. La cultura popolare di lui non ricorderà né le riforme né le battaglie contro i barbari, ma la costruzione delle grandi terme romane, quelle di Caracalla, appunto, luogo dove «i romani giocavano a palla» per le filastrocche delle gente comune. La damnatio memoriae non risparmia i cadaveri, si diceva. RIVISTA ITALIANA DI INTELLIGENCE UMBERTO BROCCOLI cSp Siamo nell’891. All’inizio di quegli anni novanta, in Roma medievale erano due i partiti: uno filogermanico (legato ad Arnolfo di Carinzia e Berengario), l’altro nazionalista (legato a Guido e Lamberto di Spoleto e ad Adalberto di Tuscia). Nel settembre di quell’anno viene eletto papa il vescovo di Porto, cardinal Formoso. Nome strano quanto la vicenda. Inizialmente Formoso si schiera con il partito filogermanico, ma è costretto a incoronare imperatore Guido, il capo del partito nazionalista. Il papa, logicamente, non vede di buon occhio il consolidarsi di una dinastia imperiale in casa: meglio sarebbe avere un imperatore lontano, dagli occhi e dal cuore. Per cui, con una mano incorona l’imperatore nato in casa e con l’altra chiede aiuto ad Arnolfo di Carinzia. Formoso applica quella prassi, rimasta immutata nei secoli dei secoli: faccio una cosa pensandone un’altra, penso a una cosa facendone un’altra. Formoso, indeciso a tutto, inevitabilmente porta la sua stessa città alla guerra civile, scoppiata fra i due partiti. E mentre l’imperatore di Germania scende verso Roma, a Roma scoppia una rivolta contro il papa e contro la fazione imperiale. È il febbraio dell’896: le truppe s’accampano sotto Porta San Pancrazio, all’inizio della via Aurelia. Nel frattempo il partito nazionalista ha organizzato la difesa della città. Anche questa è una delle caratteristiche storiche della città. Negli stessi posti, lungo le stesse strade hanno marciato eserciti in cammino per liberarla da qualcuno, attesi dalla popolazione, inizialmente ostile ma sempre pronta a correre in soccorso del vincitore. La difesa dura ben poco. Porta San Pancrazio è aperta a colpi d’ascia e gli imperiali entrano in Roma per riportare il loro ordine e liberare papa Formoso, chiuso in Castel Sant’Angelo. Ricompensa logica: la corona imperiale messa sulla testa di Arnolfo dallo stesso pontefice, nel corso di una cerimonia svoltasi sulla gradinata della basilica di San Pietro. Non è la prima incoronazione in Vaticano, ma è la prima calata di un imperatore sceso in Italia per portare il suo aiuto fraterno. Le Storie della storia conoscono tanti interventi analoghi: aiuti politici per imporre la propria politica. E, siccome il buongiorno si vede dal mattino, anche quello di Arnolfo si distingue chiaramente all’indomani della sua incorona- 144 GNOSIS 1/2017 TA B U L A RA SA. DA M NAT IO M E MO R IA E zione. Il popolo romano liberato deve giurargli obbedienza in coro, con una formula arrivata fino a noi: Giuro per tutti i divini misteri che senza pregiudizio del mio onore, della mia legge e della mia fedeltà al signore e pontefice Formoso, in tutti i giorni della mia vita sono e sarò fedele all’imperatore Arnolfo; che mai stringerò alleanza con alcuno per venir meno alla fedeltà a lui; che mai presterò aiuto alcuno a Lamberto, figlio di Agiltrude, o a sua madre perché ottengano cariche temporali; e che mai, per mezzo di intrighi o speciosi argomenti, consegnerò la città di Roma a Lamberto o a sua madre Agiltrude o alla loro gente. C’è di che essere contenti. Ma il popolo di Roma non brillerà particolarmente per coraggio e intelligenza, però ricorda. Formoso muore quell’anno. Arnolfo lo segue, probabilmente distrutto dalle dissolutezze cui amava abbandonarsi. E a Roma prevale nuovamente il partito nazionalista, influenzando anche il comportamento del nuovo papa, Stefano VI. Per dimostrare a tutti la fedeltà agli ideali antigermanici, Stefano VI fa riesumare la salma di Formoso – oramai seppellita da mesi – e fa celebrare al papa un processo in piena regola, con tanto di pubblica accusa e di imputato vestito di tutto punto, con tiara e paramenti sacri. Di fronte a vescovi e cardinali, nella sala del concilio, il Pubblico ministero tuona contro il cadavere papale: Perché hai usurpato la sede apostolica per ambizione, tu che prima eri vescovo di Porto? Inutile attendere qualsiasi risposta. E, in vece di Formoso, risponde l’avvocato rimettendosi alla clemenza di una corte pronta ad accettare solamente un’ammissione di colpa. Per un reato del genere si prevede la pena di morte, difficilmente applicabile a un morto. Per cui lo si spoglia degli abiti sacri, non omettendo di tagliargli le tre dita della mano destra, quelle della benedizione. Per finire, lo si getterà nel Tevere fra i clamori di una folla ancora una volta pronta a correre in soccorso del vincitore. Pertanto a uno principe è necessario sapere usare bene la bestia e l’uomo, dice Machiavelli. Pensiero mai colpito da damnatio memoriae RIVISTA ITALIANA DI INTELLIGENCE 145