1 Lucio Gentilini CAOS, COMPLESSITA’ E CASO Introduzione L’umanità, la società e io stesso facciamo evidentemente tutti parte dell’universo (o della natura) e dunque a rigor di termini non è corretto sostenere che la conoscenza è l’attività del soggetto sull’oggetto perchè in realtà essa è invece l’attività del soggetto che si autoconosce: tuttavia questa precisazione dal tipico sapore idealistico non sembra aver alcuna rilevanza nel momento in cui si affronta il problema di quale sia il metodo corretto della scienza e in questa sede verrà quindi del tutto trascurata. Il metodo impiegato dalla scienza a sua volta deriva da come la natura stessa viene concepita e intesa e contemporaneamente la definisce: solo con un metodo adeguato alla struttura della realtà si può infatti procedere con sicurezza sulla strada di un sapere cumulativo e avanzare senza sosta sulla via di una sempre maggiore e più accurata rappresentazione della natura. La storia della filosofia e della scienza testimoniano egregiamente l’inesausto sforzo (estremamente variegato nel corso dei secoli) di esprimere correttamente la struttura della realtà in modo da poterle applicare il corrispondente metodo scientifico: in questa sede si cercherà di definire allora quello che sembra essere l’ultimo traguardo raggiunto su questa strada, la teoria della complessità (e le sue conseguenze). La complessità Secondo Newton (1642-1727) – e secondo la scienza dell’età moderna - il mondo era un tutto continuo, un vastissimo, precisissimo e ordinatissimo unico meccanismo in cui la materia si muoveva secondo le immutabili leggi matematiche dello spazio (descritto dalla geometria euclidea), del tempo e del moto assoluti: era questo l’ordine con cui Dio aveva costruito e strutturato il mondo così che - in teoria - dalla conoscenza di tutte le condizioni date in un certo momento sarebbe stato possibile procedere alla descrizione completa del mondo stesso praticamente senza fine in ambedue le direzioni del tempo. La fiducia di aver colto finalmente il segreto della natura (cioè la sua struttura matematica espressa dalla meccanica classica) era tale che Galilei (1564-1642) era arrivato a sostenere che questa conoscenza delle leggi matematiche della natura era talmente certa da coincidere con la conoscenza divina stessa! Le scienze ‘forti’ dell’età moderna (matematica, fisica, meccanica, astronomia) erano così passate di successo in successo, di conferma in conferma, irridendo e distruggendo tutto il sapere che le aveva precedute, spazzando via la vecchia metafisica ed eliminando definitivamente dalla scienza ogni istanza etica e morale. 2 Esempio e conferma illuminante di questa impostazione fu la scoperta di Nettuno che in base alle anomalie dell’orbita di Urano venne matematicamente individuato prima ancora di essere direttamente osservato: data la perfezione matematica del cielo, si dedusse infatti che le variazioni rilevate nell’orbita di Urano dovevano e potevano dipendere solo dall’esistenza di un altro pianeta fino ad allora del tutto sconosciuto, le cui dimensioni e la cui orbita vennero precisamente calcolate sempre in base alle suddette anomalie dell’orbita di Urano: ciò permise di sapere dove e quando puntare il telescopio per la definitiva conferma empirica (il 23 settembre 1846) ma anche di ribadire la validità della meccanica classica stessa. L’uomo moderno si considerava un autonomo soggetto conoscente, estraneo e diverso dall’oggetto: egli contemplava da fuori campo la realtà la cui conoscenza consisteva nel suo fedele (e possibile!) rispecchiamento passivo. Alla fine del Settecento Kant (1724-1804) mostrò come la conoscenza del mondo così com’è in se stesso ed indipendente dall’uomo era impossibile: secondo lui l’uomo poteva conoscere solo come egli stesso l’aveva ricostruito e ristrutturato (in base all’Io penso), ma questo non toglieva che comunque la conoscenza del mondo – seppur fenomenico – rimaneva unica e certa, ed anzi proprio a questo scopo – fondare e difendere la scienza – egli aveva scritto il suo capolavoro. I A cavallo del XIX-XX secolo questa fiducia nell’ordine meccanico del mondo venne però incrinata in modo drammatico: l’evoluzionismo di Darwin, le geometrie noneuclidee, la termodinamica, la nuova teoria del campo elettromagnetico, la teoria della relatività di Einstein, la fisica subatomica, la meccanica quantistica di Planck, la scoperta dell’universo in espansione di Hubble, e (perché no?) la psicanalisi di Freud costrinsero la scienza a un profondo ripensamento di tutta la sua impostazione precedente. Si scoprì così che il mondo non è una macchina lineare (dunque prevedibile) e illimitata come aveva sostenuto la scienza moderna, ma un organismo complesso. Ma che cos’è la linearità? Quando un processo è lineare? La linearità è lo sviluppo logico e ordinato (dunque prevedibile) a partire da premesse inziali e un problema è lineare se può essere scomposto in un insieme di sottoproblemi indipendenti tra loro: era esattamente ciò che aveva sostenuto la scienza moderna, ma ora si era scoperto che la natura non era lineare e che la sua struttura era invece complessa. Ma che cos’è la complessità? Quando un sistema è complesso? Un sistema è complesso quando consta di parti interrelate che influiscono l’una sull’altra: quando i vari componenti o aspetti di una situazione interagiscono gli uni cogli altri e non possono dunque venir separati si è di fronte a un processo nonlineare ma complesso. ‘Complesso’ deriva dal latino ‘complector’ che significa cingere, tenere avvinto strettamente, abbracciare, comprendere, unire tutto in sé, riunire sotto un solo pensiero: l’etimologia stessa del termine ci fa ben comprendere che un sistema 3 complesso (e quale sistema non lo è?) non può essere compreso mediante il solo esame delle sue componenti nè essere risolto con la semplice scomposizione in parti perchè esso consiste anche nell’interazione tra le componenti e richiede quindi un’unica visione globale. Se per esempio si vuol comprendere lo sviluppo o il regresso o la sparizione di una popolazione di animali vegetariani, si scopre che la sua esistenza e il suo futuro dipendono dalla disponibilità di cibo e dalla presenza o meno di predatori: in questo caso il modello lineare si rivela inadeguato perchè gli animali vegetariani predati sono anche una funzione dei predatori (la cui espansione o contrazione dipende anche dalla presenza di prede) e il cibo dei vegetariani non è affatto una costante ma dipende da ulteriori molteplici fattori (non ultimo il tasso del suo consumo). Nessuno dei componenti di questo sistema può essere studiato separatamente dagli altri ed esso è dunque non-lineare e complesso. Come spiega Franco Prattico ‘la complessità è la scoperta che i metodi semplici, lineari, determinati di interpretazione dei fenomeni e della loro evoluzione fanno cilecca (almeno in parte) quando l’oggetto dell’indagine è un processo non lineare, un sistema in cui diverse parti interagiscono tra loro’. Per Godel sono complessi i problemi non risolvibili per deduzioni logiche da fatti noti e dunque, come dice Marcello Cini, in questi casi bisogna ‘rinunciare alla priorità delle categorie di semplicità, ordine, regolarità rispetto a quelle di complessità, disordine e aleatorietà’. Il caos La teoria della complessità rifiuta dunque i due capisaldi della scienza empirica tradizionalmente intesa, il determinismo e la causalità lineare, secondo i quali i fenomeni si svolgono l’uno dall’altro secondo un unico ordine che è prevedibile a seconda della conoscenza dei fenomeni precedenti: tutto al contrario, tanto più un sistema è complesso, tanto più il suo sviluppo risulterà invece imprevedibile perché le condizioni iniziali sono molteplici e interconnesse così che minime variazioni anche di una sola di esse possono produrre effetti anche molto rilevanti di tutto il sistema stesso. Per esempio secondo Murray Gell-Mann ‘i quark sono semplici come lo sono le leggi fondamentali della natura. Ma quasi tutto ciò che sperimentiamo, e l’Universo stesso, pur essendo costituito da quark e da elettroni, sono tutt’altro che semplici: sono un campionario di complessità.’ Dunque bisogna ‘scoprire ciò che collega le leggi fondamentali che reggono il mondo, le leggi della fisica e della chimica, con il mondo reale che si svela ogni giorno sempre più popolato da sistemi complessi, da eventi apparentemente caotici che … producono strutture provviste di livelli più alti di organizzazione … sistemi cioè che si evolvono utilizzando e selezionando il flusso caotico di informazioni sul proprio ambiente e sulle proprie interazioni con l’ambiente … e traendone norme che selezionano e organizzano quelle informazioni’. 4 I sistemi complessi e multideterminati implicano processi e sviluppi imprevedibili e dunque caotici: è l’imprevedibilità degli sviluppi di un sistema a renderlo caotico. La complessità dei sistemi e le sue conseguenze (il caos) sono in netta contraddizione coi principi delle scienze tradizionalmente intese e implicano una profonda revisione delle metodologie di ricerca che si estende anche alle cosiddette scienze umane, per loro natura molto più esposte ai rischi dell’imponderabilità. La complessità costituisce una sfida alle regole della scienza tradizionale in quanto è l’irruzione dell’incertezza irriducibile delle conoscenze umane e ne testimonia l’irrimediabile incompletezza. Data quest’intrinseca irrazionalità (il caos) della realtà conosciuta, le previsioni della scienza avrebbero insomma solo valore probabilistico e l’accaduto sarebbe semmai interamente conoscibile solo a posteriori, dopo che è, appunto, accaduto. Il caso Secondo Franco Prattico: ‘in ultima analisi … la conoscenza delle condizioni iniziali di un fenomeno è limitata … e non è quindi sufficiente a spiegare tutti i potenziali sviluppi del processo e le sue possibili conclusioni’, ma se il futuro è imprevedibile è lecito allora porsi un’ulteriore domanda: in natura esistono davvero solo leggi o piuttosto ciò che accade è anche frutto del caso? La realtà non dipenderebbe anche da elementi non necessari, dall’irrompere di coincidenze bizzarre che interromperebbero e modificherebbero la consequenzialità causale degli eventi? A questo proposito Carlo Bernardini afferma che ‘il caso, in fisica, ha fatto la sua comparsa … con la meccanica quantistica e il principio di indeterminazione di Heisenberg. Sappiamo solo valutare probabilità.’ Il caso cui fa riferimento Bernardini sarebbe qualcosa che accadrebbe senza causa (almeno conosciuta) all’interno di un sistema (complesso), ma, oltre a questo tipo di caso (intrinseco a un processo) ci sarebbe poi un altro tipo di caso, quello che proverrebbe dall’esterno di un sistema fino a quel momento ritenuto completo in sé: il meteorite che, caduto sulla Terra, avrebbe causato una variazione climatica tale da far estinguere i dinosauri o la pioggia che la notte del 17-18 giugno 1815 rese i campi di Waterloo un mare di fango causando la sconfitta di Napoleone sono chiari esempi di questo secondo tipo di caso. E’ precisamente in questo senso che Eugenio Scalfari afferma che ‘si va affermando un sapere che concepisce la natura come un processo dominato da segmenti di necessità intrecciati tra loro dal caso e per caso, un sapere dove il caso … consiste … nella rottura traumatica della serie temporale’. Caos o ignoranza? Per Zygmunt Bauman ‘La modernità è arrivata come una promessa, ben determinata a sfidare e conquistare l’incertezza, a condurre contro quel mostro policefalo una 5 guerra totale’ invece ‘oggi ci stiamo rendendo conto che contingenza, casualità, ambiguità e irregolarità sono caratteristiche inalterabili di tutto ciò che esiste’. Una simile conclusione e l’impossibilità di prevedere con sicurezza il futuro condurrebbero al riconoscimento dell’irrazionalità (almeno parziale) della realtà lasciando le previsioni in balia del caso, evidentemente del tutto imponderabile. Ma le cose stanno davvero così oppure il caso è il modo sbrigativo per definire la nostra incapacità di abbracciare il divenire dell’universo in tutta la sua interezza? In natura esiste davvero l’imponderabile oppure siamo noi che non siamo in grado di comprenderne l’intero intreccio? In altri termini, come facciamo a dire che nell’universo c’è anche il caso? Non è possibile che in realtà siamo noi che non riusciamo a cogliere tutte le necessarie connessioni fra i vari sistemi, che non siamo in grado di calcolarle e che quindi quando intervengono e interagiscono ne siamo colti (diciamo così) di sorpresa? Anche David Ruelle si chiede se ‘il mondo e la vita sono frutto del caso … o sono invece frutto di un ‘disegno’, di un progetto o di una ‘necessità’ insita nelle leggi fisiche o divine’ e risponde che secondo lui ‘non si tratta di una casualità ontologica, ma di una comoda descrizione della nostra ignoranza’. Come chiarisce ulteriormente Scalfari, per Ruelle dunque ‘se l’uomo conoscesse tutte le sequenze – un numero infinito – che si sono verificate dall’inizio del mondo ad oggi, egli saprebbe che ciò che sembra accaduto per caso è invece un effetto rigorosamente determinato. Perciò per Ruelle il caso non esiste’. E’ sempre possibile insomma che avessero ragione Newton e la scienza moderna e che l’universo sia solo molto più grande e molto più complicato di quel che essi pensavano: ma chi può dirlo? Già: in natura il caso non esisterebbe e sarebbero i nostri limiti a farcelo immaginare, ma concretamente, anche se così fosse, per noi cosa cambierebbe? Che la natura contenga il caso o che essa sia invece un tutto ordinato - come sosteneva Einstein per il quale ‘Dio non gioca a dadi’ – e che siamo noi a non essere in grado di cogliere l’interezza di questo ordine, la nostra condizione non cambia perchè in ambedue gli scenari per noi non tutte le connessioni dei sistemi e fra i sistemi sono conoscibili e dunque per noi il futuro continua a rimanere imprevedibile. Non potendo definire metafisicamente l’universo, potremmo convenire allora con Josif Brodskij quando afferma che ‘poiché gli esseri umani sono finiti, il loro sistema di causalità è lineare, vale a dire autoreferenziale. Lo stesso vale per il loro concetto di caso, dato che il caso non è libero da causa: è solo un momento di interferenza di un altro sistema di causalità … con il nostro. … i nostri concetti di ordine e di caos sono entrambi essenzialmente antropomorfici. … A sua volta, la nozione di verità è antropomorfica’ perchè ‘ciò che costituisce una scoperta o, in senso più lato, una verità, è il suo riconoscimento da parte nostra.’ E’ così che secondo Bernardini – dice Scalfari – ‘la scienza non cerca la verità assoluta ma una rappresentazione la più credibile del mondo’. La scienza è insomma un’attività umana e dipendere quindi dall’uomo: invece di pretendere di sapere cosa e come il mondo è in se stesso, per l’uomo sarebbe dunque possibile dire solo quel che sa (e non sa) di esso. 6 Karl Popper (1902-94) smise così di interrogarsi sulla verità o meno delle proposizioni scientifiche e si preoccupò solamente che esse fossero scientifiche, cioè che non fossero state ancora falsificate dall’esperienza. Per parte sua, Thomas Kuhn (1922-96) si chiese se ‘è veramente d’aiuto immaginare che esita qualche completa, oggettiva, vera spiegazione della natura e che la misura appropriata della conquista scientifica è la misura in cui essa ci avvicina a questo scopo finale’ e rispose di no, esattamente come secondo Darwin l’evoluzionismo non aveva alcuna meta da raggiungere. Non solo infine lo sviluppo della conoscenza scientifica non ci avvicinerebbe (né ci allontanerebbe) dalla verità, ma, secondo Feyerabend (1924-94) in tale settore ‘l’anarchismo aiuta a conseguire il progresso in qualsiasi senso si voglia intendere questa parola’ e ‘per coloro che non vogliono … compiacere … alla … brama di sicurezza intellettuale nella forma della chiarezza, della precisione, dell’ ‘obiettività’, della ‘verità’, diventerà chiaro che c’è un solo principio che possa essere difeso in tutte le circostanze e in tutte le fasi dello sviluppo umano …: qualsiasi cosa può andar bene’. Secondo Feyerabend infatti gli uomini ‘eccellono nella soluzione di piccoli problemi ma non riescono a dare un senso a tutto ciò che va oltre il loro ambito di competenza’: essi ‘hanno sempre cercato in tutti i modi possibili ciò che serviva loro e a questo soltanto possono e devono limitarsi.’ Hilary Putnam conclude efficacemente l’intera questione: ‘La scienza è formidabile per distruggere le risposte metafisiche, ma è incapace di sostituire a queste delle nuove risposte. La scienza rimuove le fondamenta, ma non ne fornisce di nuove. Che lo vogliamo o no, la scienza ci ha messo nella posizione di dover vivere senza fondamenti.’ Questa conclusione è del tutto condivisibile ma apre il molto dibattuto problema se ‘dover vivere senza fondamenti’ sia un bene o un male: se insomma il nihilismo sia l’angosciante muoversi nel vuoto della mancanza di senso o, tutto al contrario, non sia invece la sospirata liberazione da freni e impacci. In queste pagine è questa seconda opzione che viene considerata sicuramente quella giusta: come dice Ruggero Zanin ‘la scienza … si era già liberata di Dio, ora si è liberata anche della Verità e di tutti quegli assoluti, quegli immutabili che ancora la chiudevano in gabbia. E’ diventata veramente libera di provare, di sperimentare.’ La deriva relativistica C’è però chi vuol andare ancora più in là nella distruzione dei fondamenti del sapere umano: ancora alla fine dell’Ottocento Ernst Mach (1838-1916), lo scienziato precursore del Neopositivismo logico, aveva addirittura tagliato la testa al toro sostenendo che in realtà la scienza non può pretendere di parlare della natura delle cose: essa sarebbe solo l’organizzazione funzionale e pragmatica delle nostre esperienze, utile piuttosto che vera: l’uomo conoscerebbe insomma solo le risposte 7 alle domande che si pone, ma queste domande conterrebbero già le risposte e sarebbero quindi frutto della sua attività, del suo intervento sulla realtà. Giovanni Maria Pace concorda: ‘Che cosa dice la teoria della complessità? Che quanto conosciamo lo costruiamo noi stessi’. ‘Se conoscere non è scoprire oggetti già esistenti, il sistema osservatore conserva una certa autonomia, non è un semplice specchio riflettente bensì un oggetto originale e irripetibile che elabora a suo modo gli effetti perturbatori della conoscenza prodotti dal mondo esterno.’ E’ questo il relativismo secondo il quale la scienza non solo non dovrebbe più porsi il problema della verità per il semplice fatto che la verità non esiste, ma, oltre a ciò, ogni cosa che chiamiamo ‘sapere’ sarebbe in realtà una nostra costruzione. Ora, questa posizione per quanto suggestiva è troppo estrema per essere accettabile: posto che la natura umana stessa dell’osservatore interferisce sicuramente sul processo conoscitivo, che il suo ambiente culturale lo influenza, che le teorie sono evidentemente frutto della sua attività e che i suoi scopi lo indirizzano nella ricerca, rimane pur sempre vero però che il processo conoscitivo si compie comunque con l’esperienza, cogli esperimenti e colle verifiche delle ipotesi. Costantemente l’osservatore si confronta insomma sul campo con la realtà che conserva pur sempre un suo grado di indipendenza e di autonomia così che affermare che conosciamo solo ciò che abbiamo costruito noi stessi è un’esagerazione e una forzatura del giusto e condivisibile riconoscimento del nostro ruolo attivo nella conoscenza e dei limiti di quest’ultima. Sottomarina 26 novembre 2016