IL VECCHIO SISTEMA E'
FALLITO. RIPARTIAMO DA
MERITO E BENESSERE
di Davide Reina - 14 Gennaio 2012
La vecchia economia non funziona più. Occorre uscire dal sistema della
crescita continua e della finanza ipertrofica che produce diseguaglianza e
crisi socio-economiche violente e ricorrenti, e creare un'economia della
stabilità che produce eguaglianza e benessere diffuso
pensare come negli Stati Uniti si sia passati da un rapporto di circa 20 volte tra lo stipendio medio
di un salariato e il CEO della stessa azienda, ad un rapporto di oltre 400 volte. Né fa eccezione a
questo principio l'Europa che, pur se su rapporti inferiori, vede costantemente aumentare questo
tipo di disparità anche durante gli anni di crisi.
L'attuale economia, così come quella di un secolo fa, retribuisce poco il lavoro e premia molto,
troppo, i detentori di capitale. Nel 2010 e 2009 negli Stati Uniti i profitti delle imprese erano
cresciuti di 528 miliardi di dollari mentre in parallelo i salari erano cresciuti di meno di un terzo:
168 miliardi di dollari. Nello stesso periodo, in Germania i profitti delle imprese erano cresciuti di
113 miliardi di euro mentre i salari solo di 36. E in Inghilterra, addirittura i profitti erano cresciuti di
14 miliardi di euro mentre i salari erano diminuiti di 2. La vecchia economia della crescita continua,
quando va in crisi tutela i ricchi attraverso rendite protette e relativamente poco tassate, e fa
pagare il conto ai ceti medi e bassi. Mentre quanto riparte favorisce i già ricchi e lascia le briciole
agli altri. E la vecchia economia, così come quella del secolo scorso alla fine degli anni '20, sta
collassando soffocata dal peso di un capitale d'azzardo che, già nel 2008, valeva circa 2400 trilioni
di dollari contro i 60 trilioni del PIL mondiale di quell'anno. Per ogni dollaro di economia reale
quaranta dollari di scommesse speculative. Il capitale ingordo sta uccidendo sé stesso, in un
paradosso per cui il denaro nel mondo non è mai costato così poco come ora, ma mai è stato così
difficile ottenerne per lavorare e creare cose utili, vere, concrete. Ma questa economia della crescita
continua ha prodotto anche un altro paradosso: quello di incrementare il PIL aumentando la
diseguaglianza economica e sociale. Lo prova la crescita dell'indice di GINI in buona parte delle
economie avanzate, così come in uno dei grandi protagonisti della globalizzazione, la Cina. Non
solo, la vecchia economia premia sempre gli stessi: la mobilità sociale è in riduzione in molti
paesi. La rendita (e le rendite di posizione familiari e patrimoniali) vincono sul merito e sul
coraggio di chi ha solo l'intelligenza e la voglia di intraprendere dalla sua parte. Un bellissimo
articolo pubblicato sull' Herald Tribune dello scorso 4 gennaio lo dice con grande chiarezza: il
sogno americano di uscire dalla povertà nell'arco della propria vita, per raggiungere il benessere
grazie all'intelligenza e al duro lavoro, è finito. Un americano che nasce povero ha il 70% di
probabilità di morire povero. Mentre i paesi che danno a chi nasce povero la più elevata
probabilità di raggiungere il benessere sono invece, un altro paradosso, proprio quei paesi
Scandinavi che per anni abbiamo frettolosamente etichettato come "stati socialisti e assistenziali".
E, guarda caso, quei paesi sono anche i luoghi in cui l'indice di GINI ha i valori più bassi (vale a
dire società in cui la distribuzione del reddito è tra le meno diseguali). Tutti questi fatti, tutte queste
evidenze, ci dicono che la vecchia economia non funziona più e che abbiamo bisogno di
costruire un nuovo sistema economico. Che sia più giusto, più capace di premiare il merito e
punire la rendita, e che non pregiudichi l'ambiente in cui viviamo consumando irresponsabilmente
le risorse naturali. Per farlo, dobbiamo uscire dal paradigma della crescita continua per
evolvere, usando le parole di un grande economista tedesco come Ernst Friedrich Schumacher il
quale le scrisse già nel 1973, "verso un'economia della stabilità".
Un'economia della stabilità è un'economia che persegue prima di tutto l'equilibrio del sistema
e la qualità della vita dei cittadini al suo interno, cercando di fare essenzialmente quattro cose
sotto il profilo socio-economico: ridurre l'indice di GINI; aumentare il grado di mobilità sociale
intragenerazionale (cioè la mobilità nell'arco di una vita); aumentare il tasso di occupazione; ridurre
l'energia associata ad ogni punto di PIL prodotto (e dunque abbassare le emissioni di CO2). Questo
è il nuovo modello a cui tendere. Un modello nel quale l'eventuale crescita è solo una subordinata e
non un obiettivo a cui puntare. E che, se del caso, si deve generare soltanto grazie ad incrementi di
produttività derivanti dall'innovazione e da un'imprenditorialità diffusa. Non certo grazie ad
incrementi inflattivi dei fatturati delle imprese determinati dallo sfruttamento di rendite di posizione
o di mercati a bassa concorrenza. Non è quanto si cresce, ma come, eventualmente, si cresce, a fare
la differenza. Il danno fatto degli apostoli della crescita in questi ultimi anni risiede prima di tutto
nel fatto di avere affermato una visione acritica dell'aumento del PIL, che non distingue tra
aumenti viziosi e improduttivi di PIL (come sono appunto quegli aumenti di fatturato ottenuti dalle
imprese che incrementano il prezzo della benzina approfittandosi della bassa concorrenza) da un
lato, e gli aumenti virtuosi e produttivi di PIL (come sono i nuovi fatturati generati dalle, ahimè
poche start-up italiane nei settori ad alta tecnologia) dall'altro. In una sorta di ossessione collettiva
per il +%, in questi anni ci siamo dimenticati della qualità del PIL. E guardando troppo
all'incremento, ci siamo scordati del suo intero. Come mai? Perché lo spauracchio della "crescita
zero", agitato ad arte da una finanza debordante, prepotente e incosciente (come non guardare,
invece, alle enormi scommesse speculative che, oggi, sono immesse nel sistema con un rapporto di
almeno 1 a 40 sull'economia reale, e che sono un rischio sistemico ben più grave di una crescita
zero), ci ha impedito di puntare lo sguardo nella direzione del vero obiettivo. Che non è la quantità
del PIL ma la sua qualità. Il punto non è fare di più, ma fare di meglio. Occorre uscire da questa
vecchia economia della crescita continua e della finanza ipertrofica che produce
diseguaglianza e crisi socio-economiche violente e ricorrenti, e creare un'economia della
stabilità che produce eguaglianza e benessere diffuso. Per farlo, dobbiamo definire gli obiettivi
fondamentali di questa nuova economia. Ho provato a riassumerli qui di seguito, in un'ideale
contrapposizione con quella vecchia. E questa contrapposizione lascio al giudizio dei lettori,
invitandoli a schierarsi dall'una o dall'altra parte...