Parte III
Processi, funzioni e costrutti
PROCESSI COGNITIVI
Marta Olivetti Belardinelli
COGNITIVISMO E SCIENZA COGNITIVA
In psicologia, come prima in altre scienze sperimentali, si concreta, a partire dagli
anni Settanta, un periodo di ripensamento epistemologico che determina il passaggio dall’affermazione dell’oggettività della scienza all’adozione di un’impostazione
modellistica. Tale periodo, caratterizzato dall’approccio olistico della migliore ricerca
contemporanea nell’analisi relativa alla genesi e alle modalità di sviluppo del comportamento nell’ambiente sociale e dall’interdisciplinarietà propria della scienza
cognitiva nell’approfondimento dei processi mentali, è coinciso con rilevanti cambiamenti nel modo di intendere e fare ricerca in psicologia.
Alla ripresa degli studi scientifici dopo la seconda guerra mondiale, mentre in
Italia la psicologia, bandita dall’ideologia del Ventennio, andava faticosamente ricostruendo i suoi spazi di ricerca e, attraverso questi, la sua identità, a livello mondiale
l’impostazione comportamentistica, con l’asserita scientificità del metodo di analisi
dalla parte dell’oggetto, rivendicava la sua superiorità epistemologica e operativa
rispetto alla molteplicità di ricerche facenti riferimento a teorie in miniatura. Tali
teorie settoriali, che si erano sviluppate a seguito della dissoluzione delle scuole sorte
dall’originario ceppo europeo della psicologia, emergevano dalla parcellizzazione
delle ricerche in cui si era frantumata l’indagine fondata sull’analisi dalla parte del
soggetto. Tuttavia, nonostante la pretesa indipendenza dall’introspezione avanzata
dal metodo oggettivo, la necessità di interpretare le osservazioni oggettive sul comportamento, per integrarle in un quadro significativo, riportava continuamente alla
ribalta il richiamo ai dati immediati di coscienza.
Il persistere della contrapposizione tra i due modi di intendere l’oggetto di studio
della psicologia, essendo incentrato lo studio della coscienza sul mantenimento dell’identità del soggetto e lo studio del comportamento sul suo cambiamento in quanto oggetto di un osservatore esterno, più che differenze di impostazione metodologica, evidenziava uno stato di crisi epistemologica della disciplina (Olivetti Belardinelli, 1986), già rilevato da Karl Bühler nell’opera La crisi della psicologia.
Con l’introduzione del paradigma del Human Information Processing, la rivoluzione
concettuale operata dal nuovo cognitivismo che, a partire dall’opera classica di
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Neisser (1967), si presentava con caratteristiche compiute di corrente, sembrava
d’un tratto risolvere il problema epistemologico fondamentale della psicologia, generato dalla stretta interconnessione tra oggetto e metodo, ovvero dalla coincidenza
tra ciò che viene indagato e l’attività stessa dell’indagare. Si ravvivava, sulla base di
questa coincidenza, la discussione sul secolare problema del rapporto mente-corpo,
inteso nella sua versione psicologica come rapporto tra mente e cervello.
Il successo e la generalizzata diffusione del cognitivismo, che raccoglie contemporaneamente eredità strutturaliste e funzionaliste, si spiega con l’adozione, coessenziale alla teoria e generalizzata nella pratica, dell’impostazione modellistica centrata
sull’analogia mente-computer. Tale analogia afferma l’analizzabilità dei processi
cognitivi in sequenze di stadi ordinati, dove ciascuno stadio rappresenta un passo
importante nell’elaborazione dell’informazione.
Nell’evoluzione della ricerca, tuttavia, a partire dalla metà circa degli anni
Settanta, il cognitivismo si scinde in due impostazioni distinte sulla base del valore
attribuito all’analogia originaria. Da una parte si sottolineano i limiti e il valore simbolico dell’analogia (così Normann, Neisser, Pribram), mentre dall’altra l’analogia
diviene connotativa di una realtà ontologica e, più precisamente, dell’identità tra
mente e computer come due esempi distinti del medesimo tipo di sistema (Newell,
1980).
Lungo l’altra direttrice, le richieste di rilevanza per una ricerca che sembra isolarsi
nell’asetticità del laboratorio preparano il viraggio ecologico del cognitivismo
(Neisser, 1989). Per questa via, in connessione con lo sviluppo delle neuroscienze
che sostanzialmente rinverdiscono la radice fisiologistica della ricerca psicologica (di
derivazione sia sovietica sia occidentale), si apre la strada all’instaurazione di quella
scienza cognitiva che, nell’ultimo Ventennio, ha profondamente modificato il modo
di essere e di fare ricerca in psicologia.
Considerata come prospettiva, piuttosto che come disciplina autonoma, la scienza
cognitiva ha prodotto, oltre a ipotesi generali sui principali processi della cognizione, anche una variegata molteplicità di ricerche che, se da una parte dimostrano la
fertilità dell’approccio interdisciplinare, dall’altra riportano alla ribalta il problema
epistemologico fondamentale della psicologia, nella spaccatura che va allargandosi
tra gli studi relativi ai due aspetti del pensiero, quello rappresentativo e quello di elaborazione dell’informazione.
Di fatto, tale problema riemerge in forme diverse nel tentativo di chiarire, al di là
della problematicità del rapporto soggetto-oggetto, la natura della mente quale sede
della conoscenza, elaboratore delle informazioni, responsabile dell’adattamento a
livello biologico prima ancora che psicologico e promotore generale dell’efficienza
del sistema.
La ricerca riguardante la comprensione della conoscenza che l’uomo ha dei diversi
fenomeni del mondo nel quale vive, generalmente indicata come modello mentale
di un determinato dominio (essendo il modello caratterizzabile in base alla natura
del dominio, dell’approccio teoretico e della metodologia), ha registrato un’accelerazione in connessione con lo sviluppo delle “scienze dell’artificiale” (secondo la definizione di Simon, 1983) e, in particolare, con la progressiva messa a punto di programmi per l’implementazione computazionale delle strategie di ragionamento e di
soluzione problemica, quindi di rappresentazione delle conoscenze.
Per contro, la concomitante ricerca di base sui “dispositivi”, sulle “strutture”, o
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sulle “facoltà” mentali che consentono determinate configurazioni ed evoluzioni
della conoscenza, anziché convergere verso un modello organico della mente e
delle sue connessioni costitutive con i livelli biologico e culturale, continua a dipanarsi lungo direttrici altamente diversificate.
A monte di questa diversificazione delle posizioni, la crisi sembra investire le radici stesse del costruttivismo quando Neisser (1987) dichiara di non ritenere più possibile, a differenza di quanto aveva affermato in Cognitive Psychology, una teoria unificata dei processi cognitivi, non essendo in particolare assimilabili i processi costruttivi di pensiero ai processi percettivi interpretati in termini ecologici di derivazione
gibsoniana.
Una causa remota delle contraddizioni odierne può essere individuata nelle difficoltà inerenti al determinismo comportamentale, tuttora ritenuto il principale
garante della scientificità in psicologia, laddove esso risulta modellisticamente superato in fisica o in biologia (modelli della morfogenesi di Prigogine e Thom), e nella
più recente evoluzione della teoria dei sistemi: per esempio, con l’affermazione della
possibilità sinergetica dell’emergenza di un ordine strutturale nei sistemi complessi
ad auto-organizzazione, ordine che, in prossimità dei punti di instabilità, determina
un aumento di informazione e di efficienza del sistema stesso.
I modelli che abbiamo appena citato presentano in comune la considerazione di
un ordine di fattori che da tempo insidia la concezione secondo la quale la scientificità della psicologia si fonda esclusivamente sulla quantificazione dei processi.
L’equiparazione di quantificazione e scientificità, consolidatasi nell’ambito di una
concezione newtoniana della scienza, va progressivamente incrinandosi per le difficoltà di esprimere e racchiudere in termini numerici la molteplicità dei fenomeni
e delle loro qualità. In particolare, il problema si evidenzia per un’altra categoria
nodale nella prospettiva cognitivista, quella dei fattori dinamici, i quali configurano l’irruzione del qualitativo in un campo che, per diverse vie, si è tentato di
ricondurre alla presunta maggiore rigorosità del quantitativo (Olivetti Belardinelli, 1983).
Nella psicologia degli anni Ottanta si assiste a un inarrestabile diffuso recupero
della considerazione qualitativa dei fenomeni psichici a cui, di converso, fanno
riscontro disparati tentativi di salvaguardare la concezione del determinismo meccanicistico mentre, grazie alla versatilità della modellistica, va facendosi strada l’idea,
ripresa da Suppes (1983), che possa esservi un concetto di razionalità adeguato a
ogni livello di descrizione e di analisi (per un confronto tra i diversi modelli della
mente fondanti queste diverse impostazioni).
Se questa ultima posizione è paragonabile, da un punto di vista epistemologico,
alla soluzione dei Miniaturmodellen, la rivalutazione del qualitativo, cui in questi ultimi anni stiamo assistendo, può essere interpretata, nei termini di Lakatos (1970),
come la manifestazione di una delle improvvise rotture teoriche che si verificano
quando un programma degenera e viene sostituito da un programma alternativo
maggiormente esplicativo.
Particolarmente esemplificativo delle difficoltà su cui viene ad arenarsi la concezione quantitativa e meccanicistica della psicologia è il problema del simbolismo, cui hanno prospettato soluzioni diverse nell’ambito della scienza cognitiva gli
studiosi dei problemi del riconoscimento, volta a volta focalizzando gli aspetti sintattici o quelli semantici dell’elaborazione dell’informazione e mettendo a punto
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sofisticate “architetture”, come i modelli della mente a strutturazione gerarchica,
alle quali viene oggi a contrapporsi, in posizione di sfidante, il “movimento connessionista”.
La nuova corrente del connessionismo, rapidamente emergente alla fine degli
anni Ottanta con una molteplicità di ricerche sull’elaborazione massiva distribuita
in parallelo nelle reti neurali, sulla rappresentazione distribuita, sulle analisi subsimboliche e microstrutturali, propone un modello del riconoscimento derivato da idealizzazioni matematiche di reti di elementi simili ai neuroni, ritenute capaci di simulare tutti gli aspetti del pensiero cosicché, come non mancano di sottolineare Fodor
e Pylyshyn (1988), il connessionismo, pur postulando, come le architetture classiche, stati mentali rappresentazionali, elude il problema del livello simbolico della
rappresentazione (e del “linguaggio del pensiero”), e cioè degli stati rappresentazionali che hanno una struttura combinatoria sintattico-semantica. Mentre Fodor e
Pylyshyn da questa carenza rapidamente concludono che “l’architettura mente-cervello non è connessionista al livello cognitivo”, Hunt (1989) più prudentemente
condiziona il giudizio alla capacità, da dimostrarsi da parte dei modelli connessionisti, di simulare transfer e apprendimento per analogia, cioè processi cognitivi direttamente collegati al significato.
Sarebbe infatti possibile ipotizzare un’integrazione tra le due diverse architetture
della mente, l’orizzontale e la verticale, la quale consideri i sistemi connessionisti
come un modo di implementare sul computer la parte relativa al riconoscimento,
espressa nei termini del modello computazionale, se di fatto i modelli connessionisti non si scontrassero con i problemi dell’apprendimento per analogia e del transfer (quindi, per altra via, ancora con il problema del simbolismo), laddove il modello computazionale della scienza cognitiva, assumendo che la mente umana è organizzata in modo da ricorrere alle ampie capacità di memoria per compensare le
limitate capacità di elaborazione, può vantare non solo l’accordo con quanto sappiamo del sistema nervoso, ma anche la possibilità di coprire contemporaneamente più paradigmi.
A noi sembra che la rottura rappresentata dalla rivalutazione del qualitativo sottolinei la contrapposizione tra spiegazione e comprensione e, se vogliamo, tra psicologia sperimentale e clinica, mettendo in evidenza l’insufficienza dei metodi derivati
dalle scienze sperimentali nell’assolvere i compiti che la psicologia ha nei confronti
del suo oggetto e, in particolare, nell’esaurire il problema del rapporto tra realtà
interna e realtà esterna.
È stato inoltre mostrato (Olivetti Belardinelli, 1986) come la soluzione del problema del rapporto tra i due ordini di realtà possa essere trovata nella considerazione
unificata del sistema organismo-ambiente, attribuendo un semplice valore operativo
alla distinzione tra soggetto e oggetto, intesi come sottosistemi costitutivamente in
interazione. Viene così risolto il “problema delle frontiere” dei sistemi psicologici, la
specificazione dei confini sulla base dell’esperienza psichica, consentendo di
approfondire all’infinito la modellizzazione all’interno del sistema.
Ne consegue che, nell’ambito dei sistemi psicologici, l’adattamento come processo di riequilibramento intrasistemico è funzione contemporaneamente dell’organismo e dell’ambiente, potendosi di volta in volta considerare il sottosistema che
innesca il processo come sottosistema con funzione di parte guida. Per l’infinita
molteplicità dei sistemi, tutti a loro volta considerabili come sovrasistemi o come
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sottosistemi, nel fluire dei processi di riequilibramento la forma ottimale dell’equilibrio sarà quella dell’equilibrio relativo, nel quale ciascuna delle strategie è ottima
solo in rapporto alle strategie adottate dalla controparte. Si deve inoltre sottolineare che, come conseguenza della complessità sistemica, i processi non sono mai assoluti, l’interazione tra processi diversi determinando una trasformazione continua dei
processi in atto, la quale può tradursi in un salto qualitativo al livello più alto di
complessità.
Se dunque le analogie rimangono analogie e i modelli modelli, per la traducibilità
e l’integrazione metodologica che questi consentono, è possibile la considerazione
complessa degli infiniti livelli del reale. Diviene inoltre auspicabile e legittimo il
ricorso a paradigmi diversi, direzionato all’aumento della conoscenza e all’effettivo
progresso del sapere scientifico.
Coscienza o comportamento: tra i due oggetti storici della ricerca psicologica non
vi è dunque contraddizione, potendosi ovviare all’insufficienza della spiegazione causale in psicologia con un’analisi modellistica di tipo sistemico, la quale consente e
richiede la massima integrazione metodologica. Solo con l’integrazione di tutti i
metodi a disposizione della psicologia (soggettivo, oggettivo e sintomatico), nonché
con la modellizzazione matematica e la simulazione, è infatti possibile ottimizzare i
modelli psicologici, aggirando lo scoglio della “scatola nera”, in modo da sistemare il
maggior numero di elementi e di relazioni tra gli elementi al maggior numero di
livelli e di relazioni tra i livelli, facendo ricorso al numero minore di costrutti ipotetici. Sarà così possibile realizzare lo scopo ultimo della ricerca cognitiva: la realizzazione di più modelli di processo dell’accadere psichico, inquadrabili in un modello
generale esplicativo e descrittivo del costituirsi dell’esperienza.
CONCETTI E CATEGORIZZAZIONE
Lo studio dei concetti è nodale per la scienza cognitiva, nelle sue diverse articolazioni disciplinari, essendo questi considerati come le componenti fondamentali del
pensiero, oltre che del linguaggio e, in genere, delle rappresentazioni mentali. La
centralità dei concetti deriva dal “fondamentale ruolo funzionale che essi svolgono
in tutti i sistemi intelligenti, ivi inclusi gli esseri umani”.
In buona parte della letteratura psicologica contemporanea i termini di “concetto” e “categoria” vengono utilizzati come sinonimi, sulla base della considerazione,
spesso implicita, che il concetto è il risultato di un atto di categorizzazione, nonostante da più parti si sottolinei l’evidenza teorica ed empirica dell’esistenza di processi di categorizzazione indipendenti dal linguaggio, laddove questo risulta più difficile
da dimostrare per i concetti. D’altro canto, come rappresentazioni sommarie di
un’intera classe, concetti e categorie si ricollegano, per le loro qualità semantiche,
alle rappresentazioni e alle immagini mentali (Valacca, 1989).
Di fatto, fino alla metà degli anni Settanta la ricerca psicologica si è occupata
dello studio dei concetti e, particolarmente, della loro formazione, mostrando scarso
interesse “per le categorie linguistiche e culturali che la gente usa ogni giorno”. Solo
con gli studi della Rosch, l’orientamento “naturalista”, iniziatosi in psicologia animale ed estesosi poi con Gibson all’area della percezione e della memoria, viene a
essere applicato anche allo studio dei concetti e delle categorie. Anche sul versante
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“ecologico”, tuttavia, come chiaramente emerge dal volume sui “fattori ecologici e
intellettivi della categorizzazione”, curato da Neisser nel 1987 (trad. it. 1989), l’interpretazione sulla natura di concetti e categorie è tutt’altro che unitaria.
Di fatto, l’interesse maggiore della psicologia è centrato sui processi di categorizzazione e sui concetti come prodotto di questi stessi processi, in particolare per la funzione di economia cognitiva, affettiva e comportamentale che essi svolgono nel
corso dell’inferenza induttiva.
Sebbene in tutte le teorie il processo di formazione dei concetti venga collegato
all’induzione, non vi è tuttavia chiarezza sulle dinamiche che determinano la genesi
del processo di categorizzazione. Abbiamo altrove mostrato come la formazione della
prima categoria, quella della “madre buona”, che sorge a garanzia di una soddisfazione procrastinata e non tangibile, rappresenti l’assunzione di una costanza allucinatoria in ordine al recupero dell’equilibrio organismo-ambiente, perduto al momento
della nascita. Tale categoria, che si costituisce a prezzo di una frattura nell’identificazione primaria (del neonato con la madre), rappresenta il modello di tutte le categorizzazioni successive, in cui si integrano, senza alcuna priorità causale o temporale,
un momento prelogico di apprensione dell’oggetto e un momento logico di riconoscimento del percepito.
Il duplice vantaggio consentito dal categorizzare (salvaguardia della costanza del
sistema affettivo-cognitivo individuale e salvaguardia della costanza comportamentale) viene ampliato attraverso l’armonizzazione interindividuale delle costanze che
si realizza nel linguaggio come sistema convenzionale di individuazione delle categorie e come schema riduttivo di classificazione della realtà.
Con il progredire dell’esperienza, l’identità identificata dal linguaggio si costituisce in categoria socioculturale la quale, permettendo di salvare la costanza ambientale e la costanza del sistema cognitivo individuale, facilita i susseguenti comportamenti adattivi. Poiché, tuttavia, l’oggetto offerto alla conoscenza non è univoco e
nella massa di informazioni (o di affordances, secondo la teoria di Gibson) che esso
propone viene operata una selezione intesa a render possibile il riconoscimento, nell’evoluzione genetico-culturale non è più possibile determinare se sia il riconoscimento di una determinata realtà come identica o essenzialmente analoga a un’altra
precedentemente conosciuta a provocarne l’inclusione in una determinata classe o
se, viceversa, il riconoscimento di un’identità sia possibile solo in quanto il soggetto
già possiede la categoria cui, nel riconoscimento come categorizzazione, assimila il
nuovo oggetto.
Il problema della categorizzazione si innesta così su quello della memoria, avvantaggiandosi, grazie anche agli sviluppi della ricerca sull’intelligenza artificiale, di
spunti derivati dalla teoria degli schemi (Schmidt, 1975; Shapiro e Schmidt, 1981),
dei frames (Minsky, 1975), degli scripts (Schank e Abelson, 1977), teorie che arricchiscono il vecchio concetto di schema formulato da Bartlett nel 1932, integrando
costitutivamente alla funzione di astrazione dei dati osservati funzioni relative al
controllo, al significato, all’elaborazione gerarchica.
D’altro canto, per l’ineliminabilità del momento prelogico di apprensione dell’oggetto, momento che rinvia all’originario processo di identificazione gnoseologica
(Olivetti Belardinelli, 1976), ogni processo di categorizzazione implica, come già la
semplice percezione, un riferimento diretto all’io in quanto polo interno e fonte del
significato, anche se l’interpretazione di questo riferimento varia notevolmente
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secondo gli autori e le impostazioni di scuola, oscillando tra una posizione di tipo
strutturalista da parte dalla Gestaltpsychologie (si vedano i concetti di schema e di
immagine corporea in Schilder) e una di tipo funzionalista, inizialmente riferibile
all’impostazione dei transazionalisti.
L’insieme delle autovalutazioni che, sulla base dell’esperienza passata, ciascuno
elabora circa le proprie capacità di trattare con particolari sequenze di impressioni, si
costituisce in un sistema di costanza individuale come schema integrato di quei processi di categorizzazione (relativi allo schema e all’immagine corporea, al concetto di
sé, al livello di aspirazioni). Tale sistema di costanza consente all’individuo la massima economia nei processi di riequilibramento del rapporto con l’ambiente (Olivetti
Belardinelli, 1980).
Poiché, tuttavia, l’ambiente è primariamente e costitutivamente sociale, l’autovalutazione delle capacità individuali riferita alla situazione deve tener conto della
peculiarità della situazione sociale nella quale è impossibile astrarre l’individuo dal
contesto dei suoi rapporti. Il sistema di costanza da individuale diviene pertanto
interrelazionale, sostanziando così i sistemi di costanza culturale, come insiemi condivisi di categorizzazioni che garantiscono la massima prevedibilità delle molteplici
interazioni sociali.
Si spiega su questa base come tutta la più recente ricerca sperimentale sulla
categorizzazione, e non solo quella a impostazione ecologica, tenga costantemente
presente nell’indagine sulla genesi, sull’evoluzione e sulla rappresentazione di concetti e categorie, il duplice riferimento all’io e al sociale, così come la ricerca sull’immagine corporea e sul concetto di sé progredisca dalla considerazione classica
dell’“organismo in situazione” alla verifica della circolarità dinamica tra percezione e concettualizzazione nel complesso delle interazioni e delle rappresentazioni
sociali.
PENSIERO, RAGIONAMENTO, TEORIE DELLA MENTE
Il pensiero, come manifestazione dell’attività psichica intelligente, è da sempre un
tema focale nell’indagine psicologica, anche se di fatto la ricerca sul pensiero, caratterizzata secondo le diverse impostazioni di scuola, si è venuta storicamente configurando nei suoi contenuti, in modi che evidenziano in maniera più accentuata,
rispetto ad altre attività psichiche, le difficoltà di volta in volta incontrate dai diversi approcci (Aebli, 1980-1982; Hussy, 1984).
Per spiegare questo fenomeno si possono chiamare in causa tre ordini di motivi.
Anzitutto si deve ricordare la complessità stessa del pensiero come attività psichica
per eccellenza, inestricabilmente connessa, nel senso di un condizionamento reciproco, con: motivazione, emozione, percezione, memoria, apprendimento, linguaggio,
nel quadro unitario dell’attività psichica consentita dalla struttura neurofisiologica.
A livello generale sono, pertanto, ampiamente presenti in letteratura collegamenti tra la problematica del pensiero e quella della coscienza, della dinamica energetico-pulsionale e della logica, mentre nella specificazione dei processi l’attività del
pensiero viene collegata a ragionamento, conoscenza, rappresentazione, categorizzazione, concetti, significato, giudizio, ideazione, anticipazione, attenzione, decisione,
strategie, azione, procedure.
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Si comprende pertanto come – e qui entriamo nel secondo ordine di motivi – per
compiutamente caratterizzare i processi intelligenti, la ricerca sul pensiero debba di
necessità richiamarsi a una specifica teoria della mente, rivelando così, essa stessa, le
difficoltà che tali teorie incontrano nella soluzione del problema rapporto mentecorpo.
Le tre soluzioni attualmente adottate a proposito del mind body problem (ritorno
della coscienza, riaffermazione del monismo materialistico, o considerazione modellistica di mente e corpo in termini linguistico-pragmatici) filtrano attraverso altrettante concezioni della natura dell’intelligenza interrogativi tuttora aperti, peculiari
per ciascuna impostazione, su ciò che il pensiero, come struttura variabile, è o
potrebbe essere.
Infine, la ricerca psicologica sul pensiero è caratterizzata da intrinseche difficoltà
metodologiche sia per lo stretto collegamento con il problema epistemologico fondamentale della psicologia, relativo alla coincidenza di oggetto e metodo, per cui si è
costretti a indagare sul pensiero con il pensiero, sia sul piano delle metodiche, per la
necessità di ricorrere a tecniche specifiche, congruenti con l’impostazione metodologica di scuola, per rendere evidenti all’esterno i processi interni del pensiero. In questo senso il rapporto tra teoria e rilevazione, e ancor più tra teoria e interpretazione
della rilevazione, condiziona buona parte della psicologia del pensiero, storicamente
dicotomizzata tra una posizione di tipo strutturalistico che affronta le attività cognitive con una metodologia di tipo soggettivo (associazionismo, psicologia della
Gestalt, scuola di Würzburg) e una posizione di stampo comportamentistico la quale,
richiamandosi a una metodologia di tipo oggettivo, perfeziona tecniche di rilevazione delle attività interiori che mettano in evidenza i passi operativi posti in essere nel
comportamento di soluzione problemica.
Poiché, tuttavia, ciò che si rileva all’esterno non è il pensiero in se stesso ma,
comunque, la risposta dell’individuo a una determinata situazione, l’interpretazione
della risposta in termini ambientalisti o strutturalisti si fonda su una concezione rigidamente deterministica, in base alla quale il comportamento è direttamente l’epifenomeno degli eventi o processi psichici antecedenti.
Il superamento della dicotomia tra metodologia soggettiva e oggettiva viene avviato dal cognitivismo con la proposta di considerare elementi mediatori e mnestici, pulsioni e processi informativi, ipotesi, schemi e strategie, anziché come cause del comportamento, come caratteristiche del processo cognitivo che nel comportamento si
esprime e del quale si possono pertanto formulare solo modelli di funzionamento.
La conseguenza metodologica che avrebbe dovuto derivarne circa la messa a
punto di tecniche sufficientemente neutre rispetto alle preesistenti teorie, atte a evidenziare le strategie individuali di pensiero e a raccogliere i dati per l’ulteriore elaborazione di modelli, già minata sotto l’incalzare dell’approccio ecologico adottato da
buona parte del cognitivismo, risulta a tutt’oggi inattuata, come dimostra la dicotomia che riemerge, nella ricerca contemporanea, tra una concezione del pensiero
come ragionamento e una concezione del pensiero come ricerca.
Una caratterizzazione dicotomica dei processi di pensiero è presente con nomi
diversi (processi produttivi e ciechi, creativi e rigidi, divergenti e convergenti, intuitivi e razionali, autistici e realistici, in sistemi aperti e in sistemi chiusi, primari
e secondari, multipli e sequenziali, tendenti a provare un’ipotesi e meramente associativi, laterali e verticali, euristici o per prove ed errori) in tutti gli autori che,
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ancor prima del cognitivismo, si sono occupati del pensiero, tanto da indurre
Neisser a una interessante composizione delle parti contrapposte nel famoso saggio
sulla “molteplicità del pensiero”.
La dicotomia contemporanea differisce tuttavia sostanzialmente da quelle ora
indicate, relative a modalità diverse di funzionamento del pensiero, in quanto contrappone due modelli della mente che i singoli ricercatori cercano di confermare.
Nella ricerca sul pensiero condotta nell’ultimo decennio è pertanto possibile
distinguere un approccio che considera il pensiero come ragionamento guidato, al
pari del linguaggio, da regole di inferenza e un approccio che caratterizza il pensiero
come ricerca euristica che procede attraverso il cambio di operatori. Le radici lontane di questa dicotomia possono essere riportate indietro alla contrapposizione tra la
posizione di Titchner, per il quale il pensiero è sempre accompagnato da rappresentazioni, e la posizione di Bühler, per il quale non solo si dà pensiero senza immagini,
ma addirittura pensiero senza traccia di esperienza; pensiero, questo, che viene caratterizzato come consapevolezza di regole o di relazioni.
A differenza delle caratterizzazioni dicotomiche precedenti, storicamente la contrapposizione contemporanea è più radicale in quanto alimentata nell’ambito della
medesima corrente, quella della Cognitive Science, con punti oscuri, per ciascuna
delle due impostazioni, ben presenti ai sostenitori dell’una e dell’altra posizione. A
proposito del primo dei due approcci, l’interrogativo fondamentale riguarda la legittimità di identificare il pensiero con il ragionamento e il ragionamento con l’inferenza logica, dal momento che i significati sono comunque legati alle proposizioni.
A proposito del secondo approccio, quello del pensiero come ricerca, approccio che
lega i significati all’immagazzinamento in modelli mentali, l’interrogativo fondamentale riguarda le modalità con le quali le immagini pittoriche o diagrammatiche
vengono conservate nella memoria, in modo da consentire la ricerca euristica di
operatori congruenti con il modello.
D’altro canto, già nell’ambito del cognitivismo la sperimentazione di Newell,
Shaw e Simon (1958) evidenziava la necessità di integrare nel processo di soluzione
problemica regole di inferenza e regole euristiche, aprendo così la via a modelli del
pensiero (come quello di Neisser) o dell’adattamento (come la teoria logica generale
di Holland) con programmi di elaborazione in competizione reciproca.
Oggi la conciliazione dei due approcci è un’aspirazione diffusa tra gli studiosi del
settore.
Sulla base dell’affermazione di Kosslyn (1980) che le immagini mentali possono essere immagazzinate sia in modo proposizionale sia in modo diagrammatico, Simon e
Kaplan (1989) hanno recentemente concluso per: 1) l’unitarietà dei meccanismi relativi a tutte le forme di pensiero, in modo da consentire la traduzione tra input proposizionale e input per immagini; 2) la prevalenza dei procedimenti di ricerca, piuttosto che di inferenza logica, nei ragionamenti quotidiani; 3) la possibilità di utilizzo
delle regole di inferenza sia con conoscenze proposizionali sia con immagini mentali.
Questi tentativi, pur nelle loro modalità specifiche, richiamano un problema ripetutamente affrontato dalla psicologia del pensiero, che ancor oggi non può dirsi del
tutto chiarito: quello dei rapporti tra psicologia e logica.
A questo riguardo si è soliti distinguere tre posizioni principali: lo psicologismo,
secondo il quale le regole che governano il pensiero, espresse nei sistemi logici, si
sviluppano dall’esperienza (John Stuart Mill, Boole); il logicismo, secondo il quale le
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leggi logiche sono strutture innate non modificabili dall’esperienza (scuola di
Würzburg); e infine la posizione che distingue nettamente tra logica e psicologia,
considerando (per es., con Bruner, Goodnow e Austin) il pensiero come guidato
esclusivamente dall’esperienza e dalle sue conseguenze, piuttosto che dalle regole
della logica, la quale pertanto riguarderebbe solo la validità delle proposizioni e non
il processo psichico del ragionamento.
Posizioni diverse da queste e forse di maggiore interesse per il dibattito contemporaneo in quanto, più che concentrarsi sulla natura dei processi di pensiero, mettono
a fuoco direttamente il problema dei rapporti tra psicologia e logica, sono state
espresse da Dewey e da Piaget, autori che condividono l’interpretazione del pensiero
come internalizzazione di azioni.
In particolare, per Dewey il pensiero consiste in una riorganizzazione volontaria
dell’esperienza e del comportamento, mentre la logica fornisce una formulazione sistematica di regole di procedimento a garanzia dell’economia e dell’efficienza della
riorganizzazione stessa. Per Piaget, d’altro canto, il legame tra logica e psicologia è
costituito dalle operazioni come autentiche attività psichiche che giocano, altresì,
un ruolo fondamentale nella logica come sistema di manipolazioni simboliche. Per
tale motivo tutte le operazioni mentali, comprese quelle logico-matematiche, sono
regolate da un coordinamento generale che va riferito al processo generale di organizzazione del vivente.
In questa ottica, Piaget affronta altresì uno dei nodi fondamentali dell’inferenza
induttiva, quello dell’espansione della conoscenza, distinguendo tra invenzione
(come creazione di una combinazione, nuova e libera, di elementi anche già noti) e
scoperta (come acquisita consapevolezza di un oggetto prima sconosciuto). Anche il
paradosso della creazione logico-matematica in cui la soluzione, costruita attivamente dal soggetto, è tuttavia esperita come risultato necessario dell’attività di soluzione,
viene spiegato da Piaget in questi termini: la soluzione matematica, infatti, comporta il raggiungimento di una struttura più generale a un più alto livello di funzionamento cognitivo ed è pertanto nuova, in quanto non contenuta nelle strutture precedenti; è d’altro canto non arbitraria, in quanto presente nello schema di possibilità
di sviluppo delle strutture sensomotorie elementari.
Di recente, tuttavia, il problema dell’accrescimento della conoscenza nell’inferenza induttiva è tornato ad affaticare i ricercatori, questa volta a proposito dei sistemi
cognitivi artificiali nei quali l’inserimento di nuova conoscenza produce un caos che
può essere superato solo attraverso una massiccia riprogrammazione. Per questo
motivo Holland, Holyoak, Nisbett e Thagarp (1986) affermano che l’induzione, già
definita scandalo della filosofia, è divenuta ora lo scandalo della psicologia e dell’intelligenza artificiale.
Di fatto, all’origine dello scandalo vi è la stringente connotazione del comportamento intelligente come comportamento adattivo, per cui dal pensiero e dall’inferenza ci si aspettano conclusioni efficaci ai fini dell’adattamento in una situazione
di equilibrio tensionale tra organismo e ambiente, o tra ambiente esterno e ambiente interno, come poli che, continuamente modificandosi, ripropongono continuamente in una situazione “nuova” il problema del recupero (intelligente) dell’equilibrio.
La specificazione sperimentale dell’indagine sul pensiero è pertanto la ricerca sul
comportamento di soluzione problemica in un ambiente cognitivo che, come dice
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Processi cognitivi
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Maturana (1980), è definito ma illimitato, dal momento che l’osservatore “può interagire all’infinito con le rappresentazioni delle sue interazioni e generare attraverso
se stesso relazioni tra domini altrimenti indipendenti. [...] Il nuovo è, pertanto, un
risultato necessario dell’organizzazione storica dell’osservatore che fa di ogni stato
raggiunto il punto di partenza per la specificazione dello stato successivo”.
L’INTELLIGENZA E IL COMPORTAMENTO DI SOLUZIONE
DEI PROBLEMI
In tutta la storia della psicologia, indipendentemente dai termini nei quali viene
definita l’intelligenza, il comportamento di soluzione problemica fa parte della sua
definizione (Stenberg, 1982). Ciò si verifica in quanto, proprio a prescindere dalle
profonde diversità esistenti tra le diverse teorie sulla natura dell’intelligenza, è questa un costrutto che può essere solamente inferito, “assumendo come intelligente un
comportamento che non è riconducibile al comportamento istintivo o abitudinale”
(Valentini, 1957). Opportunamente, dunque, Claparède (1917) definisce l’intelligenza come il processo con il quale si risolve, mediante il pensiero, un problema
nuovo. E tuttavia lo studio scientifico di questo processo incontra, sin dagli inizi del
nostro secolo, notevoli difficoltà di ordine metodologico, trattandosi in ogni caso di
mettere in evidenza le attività intellettive interiori che stanno a monte del procedimento di soluzione.
Proprio per ragioni di ordine metodologico gli associazionisti della scuola di
Wundt ritennero le attività cognitive superiori non indagabili sperimentalmente e
focalizzarono pertanto il loro interesse sui problemi della percezione, a proposito
della quale pensavano fosse possibile evidenziare, mediante l’introspezione scientifica, il postulato parallelismo tra l’elementare anatomo-fisiologico e l’elementare
psichico.
D’altro canto, la scuola di Würzburg che, adottando una metodologia di tipo soggettivo, per prima affrontò lo studio del pensiero, mantenne in certo qual modo l’analisi a livello del soggetto, non occupandosi delle modificazioni del rapporto soggetto-oggetto che si verificano nel comportamento di soluzione problemica, ma solo
delle condizioni di validità del giudizio.
Gli psicologi gestaltisti furono pertanto i primi a indagare sperimentalmente l’attività di modificazione del rapporto organismo-ambiente posta in essere dal soggetto,
considerando il “pensiero produttivo” un ottimo esempio dell’attività strutturante
dell’organismo, migliore in un certo senso della percezione cui veniva concettualmente assimilato, in quanto la complessità del processo di soluzione problemica consentiva di evidenziare i processi di auto-organizzazione dei problemi come Gestalten,
emergenti nelle ristrutturazioni successive (e improvvise), considerate come “ricentramento della struttura”.
Nascono così, a livello di pianificazione delle ricerche di convalida della teoria
gestaltista, i “problemi per insight”, caratterizzati dal fatto che solo alcuni dei passi
che bisogna compiere per giungere alla soluzione sono cruciali (e difficili). Una
volta che questi passi siano stati risolti, la soluzione segue molto rapidamente, sempre che non subentri una fissazione funzionale, nota come effetto Einstellung, che
ostacola la successiva ristrutturazione produttiva.
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Processi, funzioni e costrutti
Il concetto di Einstellung, introdotto negli anni Quaranta per descrivere una
“distorsione funzionale” causata da fattori diversi (quantità dei dati, complessità del
problema, esperienza passata del solutore), comincia a intaccare, in ambito gestaltista, quel parallelismo tra pensiero e percezione che entra decisamente in crisi nei
recenti sviluppi ecologici del cognitivismo.
Contemporaneamente a questa evoluzione degli studi sul pensiero produttivo,
l’affermarsi del comportamentismo portava gran parte della psicologia del XX secolo
a escludere totalmente l’impiego della metodologia di tipo soggettivo, anche al semplice fine di formulazione delle ipotesi da sottoporre a convalida mediante la ricerca
sperimentale. Pertanto, nell’ambito dei processi di soluzione dei problemi, la ricerca
adotta come argomento privilegiato di indagine il problem solving, ossia si focalizza
sul comportamento manifesto di soluzione, restringendo l’indagine ai processi di
soluzione analitica, con particolare riguardo a problemi semplici, ben definiti ed evidenti, rispetto ai quali risulta efficace il procedimento “per prove ed errori”.
Di fatto, nella ricerca degli anni Cinquanta ai problemi per insight, caratterizzati
da tempi estremamente variabili di soluzione in quanto il tentativo sbagliato, non
fornendo informazioni utili alla scoperta della regola euristica, non abbrevia il
tempo di soluzione, si contrapponevano i “problemi per prove ed errori”, caratterizzati da buona probabilità di rapido successo, in quanto anche la manipolazione e la
conoscenza degli elementi non corretti avvicina alla soluzione.
I due tipi di problemi, intesi a evidenziare due tipi diversi di attività cognitive,
condividono le aporie connesse all’interpretazione di dati rilevati all’esterno, pertanto manifesti, che si considerano causati da processi interiori “di natura tale che
sarebbe impossibile renderli manifesti” senza deformarli (Oléron, 1972).
Queste attività interiori, ineliminabili in ogni comportamento di soluzione problemica, rappresentano lo scoglio principale per una ricerca psicologica impostata
secondo una metodologia di tipo oggettivo e ancorata, quindi, all’osservazione di
due categorie di fatti: la situazione, lo stimolo, l’input da una parte e la, o le, risposte, l’output insomma, dall’altra.
Un primo modo in cui si è tentato di ovviare a questa difficoltà è stato quello di
mettere a punto problemi in cui nessuno dei molti passi richiesti per la soluzione ha
un ruolo cruciale e, pertanto, la scoperta della soluzione, legata a una molteplicità di
passi corretti, deriva da tutto il processo cognitivo.
L’utilizzo di questo tipo di compiti ha portato a una focalizzazione della ricerca sui
modi in cui viene organizzato il processo di soluzione e, in particolare, sulla scelta di
strategie e sull’adozione di decisioni relative ai passi da compiere.
L’avvento del cognitivismo che, se da una parte è interpretabile come superamento e integrazione del comportamentismo, dall’altra è facilmente riportabile alla tradizione strutturalistica, frantuma lo stretto nesso deterministico fra stimolo e risposta, accentuando il ruolo dei processi di elaborazione dell’informazione, a proposito
dei quali, essendo essi irraggiungibili all’analisi obiettiva, si possono formulare solo
dei modelli di funzionamento. Cosicché, a partire dalla pubblicazione del fondamentale volume di Newell e Simon (1972) Human Problem Solving, si incrementa la
messa a punto di modelli in grado di spiegare non solo la scelta dei passi verso la
soluzione, ma anche fenomeni concomitanti all’elaborazione cognitiva come, per
esempio, le latenze, i commenti verbali o i movimenti oculari.
L’interpretazione delle manifestazioni esterne che accompagnano i processi cogni-
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Processi cognitivi
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tivi interiori comporta, anche a proposito della ricerca sul problem solving, la trasformazione del metodo da oggettivo in sintomatico, trasformazione che, nell’ambito
della nuova impostazione modellistica, induceva a sperare nel superamento dei problemi derivanti dal rapporto tra teoria e interpretazione. Su questa linea, il nuovo
obiettivo della psicologia del pensiero diviene quello di mettere a punto tecniche
sufficientemente “neutre” nei confronti delle preesistenti teorie, tecniche che consentono di evidenziare le strategie individuali di pensiero (Wood, 1978) e di raccogliere dati per l’ulteriore elaborazione di modelli.
Alla fine degli anni Settanta si sviluppa così una ricca letteratura su domini, i quali
consentono di preparare problemi che richiedono per la soluzione molte conoscenze,
di solito presentate in minuziose e diffuse pagine di istruzioni (a questo proposito vedi
Funke, 1986). Tuttavia, mentre va crescendo l’insoddisfazione per l’investimento
connotativo dell’analogia mente-computer, fondante il cognitivismo, si rendono evidenti due ordini di difficoltà direttamente relativi alla nuova impostazione.
Anzitutto, nell’ambito della simulazione e della modellistica ci si scontra con
notevoli problemi nello sviluppare modelli idonei a descrivere le attività cognitive
di solutori “esperti” in domini con compiti che risultano complessi per la specifica
conoscenza richiesta (per es., Reiman, 1990). Ne consegue che mentre in ambito
psicologico la ricerca sull’expertise, definibile come abilità e competenza, si volge, a
partire dagli anni Ottanta, allo studio dell’acquisizione delle abilità cognitive, le
ricerche dell’intelligenza artificiale sui “sistemi esperti” seguono vie e mettono a
punto programmi di soluzione assolutamente inapplicabili da parte di soggetti
umani, anche se esperti solutori di problemi.
Il secondo ordine di difficoltà si rende evidente con l’adozione dell’approccio ecologico in psicologia cognitivista, approccio che porta a sottolineare le carenze della
ricerca sulla soluzione dei problemi in relazione a tre ordini di fattori: situazioni-stimolo, disponibilità di operatori, interferenza di fattori dinamici.
In merito al primo ordine di fattori si mette in evidenza come assai raramente i
problemi affrontati e risolti nel quotidiano comportamento come adattamento presentino le caratteristiche di linearità e di semplicità delle situazioni-stimolo usate in
laboratorio, o di espressione precisa, univoca e formalmente corretta, necessaria per i
problemi utilizzati nella simulazione mediante computer.
D’altro canto, per quanto concerne gli operatori, si sottolinea come i procedimenti di soluzione quotidianamente adottati seguano il più delle volte percorsi assai
diversi dalla soluzione analitica o dal procedimento algoritmico, essendo spesso
disponibili solamente operatori irreversibili, di incerto e non univoco risultato, in
condizioni di definiti e ristretti limiti di tempo. Infine, in relazione al terzo ordine di
fattori e in connessione con la rivalutazione del qualitativo che caratterizza tutta la
psicologia contemporanea, si pone l’accento sul fatto che la regolazione degli eventi
cognitivi avviene sempre su base emotiva e motivazionale, con diretto riferimento
agli stimoli in ingresso e agli stati stabili interni all’individuo, stati che sono sempre
assolutamente individuali e soggettivi, per cui ogni valorizzazione dipende tanto dall’organizzazione dell’intera personalità, quanto dagli apprendimenti precedenti.
Sotto l’onda crescente dell’insoddisfazione per l’assolutizzazione dell’analogia
mente-computer, mentre sembra crollare la possibilità di una concezione unitaria e
unificata dei processi cognitivi superiori, riprendono vigore le ricerche sulla logica
soggettiva nel comportamento di soluzione dei problemi, con rinnovata attenzione
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Processi, funzioni e costrutti
ai processi di soluzione sintetica, alle idee “improvvise” e all’intuizione (per es., Bastick, 1982; Metcalfe e Wiebe, 1987), agli eurismi personali e alla capacità del pensiero di rivelarsi comunque produttivo nella multiforme problematicità del reale
quotidiano.
Nella situazione di rivalutazione del qualitativo e di più attenta considerazione del
soggettivo che attualmente caratterizza la ricerca psicologica, vista l’inscindibile
connessione tra aspetti cognitivi e aspetti affettivi e, in particolare, data l’influenza
che fattori motivazionali, emozionali e mnestici esercitano sul processo di soluzione
problemica, l’auto-osservazione risulta tecnicamente utile alla formulazione di ipotesi operative per la verifica sperimentale.
Oggi viene pertanto accolta con favore la considerazione secondo la quale le difficoltà metodologiche che si evidenziano quando, prescindendo da ausili interpretativi forniti da tecniche “soggettive”, si tenta di connettere il problema in input con la
soluzione in output, nascono da un equivoco di ordine metodologico, per cui i metodi di formulazione delle ipotesi (tra i quali, ai fini della ricerca sulla soluzione dei
problemi, potrebbe con vantaggio essere annoverata l’introspezione) vengono confusi con quelli di verifica delle stesse (Dörner, 1983).
La ricerca psicologica sulla soluzione dei problemi persegue attualmente l’obiettivo di “stabilire le regole di combinazione e di ristrutturazione delle esperienze di un
individuo in diversi ambiti [problemi]” in modo da superare la barriera che impedisce la trasformazione di uno stato iniziale dato e indesiderato in uno stato finale
desiderato. A questo scopo la ricerca potrebbe ragionevolmente avvantaggiarsi dell’utilizzo integrato dei due tipi di metodologia nell’ambito di una prospettiva modellistica formalmente ben precisata.
Riteniano, tuttavia, che il cammino da percorrere per raggiungere questo obiettivo sia ancora lungo e tutt’altro che univocamente delineato. In via preliminare sembra necessaria un’opera chiarificatrice di unificazione definitoria dei costrutti relativi
all’input e all’output, nonché di precisazione (per via sperimentale o di simulazione)
dei fattori intervenienti in relazione sia all’acquisito sia ai paradigmi e ai modelli di
riferimento.
LA REGOLAZIONE AFFETTIVA DELLA COGNIZIONE
Nel corso dell’ultimo decennio le tematiche relative alla valorizzazione dei processi
cognitivi hanno ricevuto attenzione diversa e discontinua, registrando curve di evoluzione non parallele, con accelerazioni improvvise di sviluppo e altrettanti rapidi
decadimenti.
In prima approssimazione possiamo classificare gli argomenti relativi alla vita
affettiva come pertinenti a: 1) definizione-descrizione dei costrutti che si postulano
all’origine della determinazione affettiva del comportamento; 2) individuazionedefinizione dei sistemi di controllo direzionale del comportamento; 3) individuazione-classificazione degli scopi immediati e degli obiettivi finali del comportamento
affettivamente regolato; 4) interazione-interferenza di fattori cognitivi e affettivi
nella regolazione del comportamento; 5) origine-evoluzione-modificazione dei processi di regolazione affettiva. Questi raggruppamenti di argomenti, ulteriormente
articolati al loro interno in modo estremamente complesso, presentano un grado ele-
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Processi cognitivi
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vato di interdipendenza che, tuttavia, si specifica in modo diverso e con accentuazioni ed enfatizzazioni particolari a seconda delle impostazioni di scuola. Per tale
motivo appare utopistica ogni aspirazione di completezza nella rassegna sistematica
sugli sviluppi contemporanei della ricerca in questo settore.
Relativamente ai costrutti che si collocano all’origine del comportamento cognitivo, i due principali sono indubbiamente motivazione ed emozione, anche se altri di
pari importanza, non coincidenti e non escludenti i due testé indicati, sono stati
individuati in contesti teorici peculiari: così, per esempio, pulsione (trieb: teoria psicoanalitica), istinto (etologia), tendenza (psicologie umanistiche), impulso (drive:
comportamentismo, teorie di apprendimento sociale), affetto (teoria psicoanalitica,
teoria degli affetti primari, teoria dimensionale degli affetti).
In merito ai due costrutti principali, l’analisi della letteratura degli anni Novanta
evidenzia una flessione dell’interesse per la motivazione (già punto focale della ricerca psicologica negli anni Settanta e Ottanta: si vedano, per es., i famosi Nebraska
Symposium on Motivation and Learning e la ricca letteratura sulle motivazioni biologiche) a fronte di un’accelerazione della ricerca sulle emozioni (a proposito delle quali,
per anni l’unico obiettivo sperimentale sembrava consistere nella convalida di una
delle teorie contrapposte, quella di James-Lange o quella di Cannon: si vedano in
proposito tutte le sfumature recenti della contrapposizione tra le elaborazioni cognitive come costituenti o, viceversa, come determinanti delle emozioni in Frijda
(1988)).
A prima vista è possibile spiegare questi fenomeni, da una parte con il diminuito
interesse per le ricerche sull’apprendimento che erano sempre state strettamente collegate a quelle sulla motivazione e dall’altra, con la necessità di indagare su tutti i
fattori che interferiscono e influenzano l’elaborazione umana dell’informazione e
quindi, in primo luogo, su quelli emotivi.
Il cambio di paradigma e, in particolare, il venir meno della pressante influenza
del comportamentismo non sono tuttavia le sole ragioni di un fenomeno che, a
nostro avviso, prende l’avvio molto più a monte con lo sviluppo della modellistica e
con la rivalutazione del qualitativo, fenomeni questi che, oltre tutto, vengono a
interconnettersi strettamente nella ricerca della Cognitive Science. Sarebbero, piuttosto, gli sviluppi sistemici della psicologia a indirizzare progressivamente la ricerca, a
partire dalla metà degli anni Settanta, verso la determinazione delle condizioni di
ottimalizzazione dei processi cognitivi, in corrispondenza con eventuali e possibili
aumenti della gerarchia della complessità.
Questa linea di sviluppo si mette in moto quando, alla quasi universale accettazione della concezione piagetiana del comportamento come adattamento, che caratterizza la psicologia degli anni Sessanta (ma che acquista nuovi e più pregnanti significati con l’affermarsi dell’approccio sistemico anche in ambito psicologico: vedi
Olivetti Belardinelli, 1986), si viene ad affiancare il consenso crescente, a seguito
dello sviluppo dei modelli di simulazione e dell’intelligenza artificiale, per l’equiparazione (comportamentista e riflessologica in origine, ma poi assunta ed enfatizzata in
tutti i modelli di controllo a feedback) di comportamento e apprendimento, “per cui i
processi di apprendimento non sarebbero in definitiva distinguibili dai comuni processi di riequilibramento che caratterizzano il comportamento come adattamento”.
Tali processi in cui, all’interno del sistema, si ha una mobilitazione di energia al
fine di ridurre, mediante il comportamento, la discrepanza tra il valore atteso e il
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Processi, funzioni e costrutti
valore in ingresso di una variabile rilevante per il sistema, mettono in evidenza tre
caratteristiche fondamentali del comportamento cognitivo motivato, individuabili
come: attivazione energetica conseguente alla rilevazione dello stato di squilibrio,
intenzionalità verso lo scopo (descrivibile in termini sistemici come riduzione della
discrepanza) e controllo dell’adeguatezza del comportamento.
L’effetto di retroazione dell’informazione, che consente il controllo mediante
feedback, non è tuttavia sufficiente a garantire la direzionalità che caratterizza tutti i
processi di elaborazione dell’informazione a livello umano.
Il problema può essere risolto solo ammettendo un effetto proattivo dell’informazione di discrepanza, concettualizzabile come processo di feedforward.
Il problema della direzionalità del comportamento, spiegabile con la causalità
proattiva del processo di feedforward, risulta in genere assai vagamente definito e
oscuramente rappresentato, mentre nell’ambito del modello generale sistemicocognitivista, cui abbiamo fatto più volte riferimento in precedenza, le polivalenti
funzioni al processo di feedforward nei riequilibramenti cognitivi emergono chiaramente. Infatti la rilevanza che tale modello dà all’interazione tra le operazioni consente la descrizione modellistica dell’interazione tra processi affettivi (sia motivazionali sia emotivi) e processi cognitivi.
In conformità alle specificazioni concettuali del modello si afferma che, come
conseguenza della complessità sistemica, i processi non sono mai assoluti, le interazioni tra processi diversi determinano una trasformazione continua dei processi in
atto, la quale può tradursi in un salto qualitativo al livello più alto di complessità
che si realizza nei processi intrasistemici di elaborazione dell’informazione all’interno
del sistema organismo-ambiente. A livello umano, infatti, l’ineliminabile interazione tra le operazioni raggiunge gradi altissimi di complessità a causa della predominanza dell’aspetto semantico dell’informazione in tutti i processi intra- e intersistemici, nonché a causa della peculiarità dell’individuo, rappresentabile come particolare configurazione interna in uno dei due sottosistemi compresi nel sistema psicologico organismo-ambiente.
L’informazione in ingresso aziona contemporaneamente al primo registro di test
(secondo Miller, Galanter e Pribram, 1960) quello relativo al “livello di adattamento” (secondo Helson, 1964) degli stati stabili implicati, fissando con una protezione
nel futuro, definita appunto come feedforward, il punto in cui la discrepanza viene
eliminata e il comportamento è destinato a cessare.
Questo primo confronto con gli stati stabili, personali e interni, implicati nel
processo di riequilibramento, configura modellisticamente l’insorgere dell’emozione
che accompagna qualsiasi episodio cognitivo di comportamento motivato. Nel momento in cui l’informazione viene selezionata, in modo da essere investita da una
ulteriore quantità di attenzione, inizia un nuovo confronto con la rete di risposte
già padroneggiate dal soggetto per informazioni dello stesso tipo. Nel caso in cui
una di queste risposte venga giudicata idonea all’eliminazione della discrepanza, insieme con il contenimento e la stabilizzazione della reazione emotiva, si realizza un
episodio di comportamento motivato nel quale, in concomitanza con la ripetizione
interna della discrepanza tra input e obiettivo fissato dal feedforward, ripetizione
che si realizza durante la fase di test del feedback, si attua una semplice transizione
di stato del sistema.
Viceversa, nel caso in cui l’organismo, giudicando inadeguate le risposte già con-
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solidate, decida per una risposta nuova, non solo il punto finale del processo viene
stabilito dal feedforward in modo peculiare per ciascun individuo, ma anche la valorizzazione della risposta viene stabilita dal medesimo processo proattivo in base al
cambiamento indotto negli stati stabili individuali.
L’incertezza in merito alle conseguenze del comportamento così regolato, conseguenze che possono essere conformi o meno alla regolazione, trova espressione nella
natura e nel decorso delle concomitanti emozionali del comportamento. Nel caso di
risposta inefficace all’eliminazione dello squilibrio, la dissonanza con l’obiettivo fissato dal feedforward mantiene attivo il comportamento motivato grazie al perdurare,
ed eventualmente all’accentuarsi o al complicarsi, della risposta emotiva suscitata
dalla prima informazione di discrepanza. Viceversa, nel caso in cui le conseguenze
della risposta nuova siano consonanti con l’obiettivo fissato dal processo di feedforward, la registrazione dell’esperienza realizza la modificazione degli stati stabili del
sistema e delle loro relazioni, mentre si attenuano le reazioni emotive di allarme e si
instaurano quelle di soddisfazione in relazione al ritrovato equilibrio all’interno del
sistema organismo-ambiente.
La sperimentazione condotta nel quadro del modello descritto conferma l’operatività della distinzione, operata sulla base del diverso funzionamento del processo di
feedforward, tra episodi di comportamento motivato ed episodi di apprendimento,
nonché lo stretto collegamento tra stati stabili individuali interessati dall’informazione di discrepanza e modalità, direzione ed esito del processo di elaborazione dell’informazione. D’altro canto, le ricerche attualmente in corso nell’ambito dello stesso modello generale tendono a mettere a punto modelli di processo in grado di tener
conto dell’intenzionalità che guida il flusso dell’interazione intrasistemica tra la
mente umana e il suo ambiente.
A questo proposito, nelle ricerche contemporanee sulla “volizione” si ritrovano le
diverse caratteristiche individuate a proposito della volontà nell’evoluzione storica
del concetto: direzionalità verso il fine accompagnata da autoconsapevolezza, controllo dell’azione in connessione con la memoria semantica, emozionale e motoria,
nonché con il sistema di mantenimento motivazionale; riferimento all’intenzionalità
cognitiva ed affettiva; potere decisionale tra diverse tendenze all’azione in concorrenza tra loro; infine, riferimento all’Io, amplificato nella formulazione di una teoria
del completamento simbolico del Sé nei termini di una volizione intesa come fondamentale alla realizzazione dell’identità personale (per approfondimento e riferimenti
bibliografici vedi Olivetti Belardinelli, 1988).
I richiami all’Io, all’identità personale, e alla formazione ed evoluzione del Sé
introducono a una ricchissima letteratura che affronta da angolature diverse i problemi dell’origine e dell’evoluzione dei processi di regolazione affettivi (ultimo raggruppamento tematico tra quelli che abbiamo inizialmente indicato per organizzare
la letteratura sul comportamento motivato). Si tratta, in particolare, di ricerche
sullo sviluppo delle emozioni e di singole emozioni, sulla formazione e la modificazione dei sistemi di valori, sulle determinanti socioculturali, personali e affettive
nella formazione e nelle modificazioni dell’identità personale, sessuale e di genere,
sulla formazione e interferenza dello stress nel comportamento motivato, sulla centralità del Sé in tutte le regolazioni comportamentali.
A conclusione di questo discorso si deve sottolineare come la regolazione affettiva
del comportamento corrisponda a un principio omeostatico generale, secondo il
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quale la mobilizzazione dell’energia inizia quando l’equilibrio interno viene disturbato (input dell’informazione di discrepanza) e continua finché tale equilibrio viene
ripristinato (con l’eliminazione della discrepanza). Questi processi dinamici di adattamento sono condizionati dall’esperienza e tendono a una modificazione pianificata
dell’ambiente. Pertanto, la costanza del sistema globale organismo-ambiente è
garantita dalla dominanza degli stati stabili gerarchicamente superiori, la quale controlla lo sviluppo dell’eterostasi a favore dell’omeostasi olistica.
In questo quadro si intende come l’accrescimento dei valori di esperienza consenta una progressiva ottimizzazione dei successivi processi di riequilibramento. La sicurezza derivante dalla costanza globale del sistema è, infatti, configurabile come lo
stato stabile gerarchicamente più elevato, il quale, in connessione con l’aumentare
della complessità, contiene l’eterostasi implicata dall’aumento di esperienza dei sottosistemi interessati.
I PROCESSI COGNITIVI DI COMUNICAZIONE
Lo sviluppo storico delle ricerche psicologiche sulla comunicazione è stato enormemente accelerato dall’affermarsi, nell’ambito della rivoluzione modellistica della
scienza, dell’impostazione cognitivista.
Secondo il modello logico generale adottato dalla psicologia cognitivista, tutti i
processi psichici vengono, infatti, considerati come processi di elaborazione di un’informazione comunicata in input al sistema elaboratore, il quale a sua volta comunica
al termine del processo, in output, la risposta.
Al momento attuale l’analisi dei processi cognitivi come processi di trattamento
dell’informazione e di comunicazione, sia che si occupi del messaggio da trasmettere
o del modo in cui viene trasmesso, del trasmettitore o del ricevitore o, secondo le
tendenze più recenti della reciproca interazione, segue diverse direttrici, tutte di
grande rilevanza per la psicologia a impostazione sistemico-cognitivista. Volendo
schematizzare, è possibile individuare queste direttrici nel modo seguente:
1)
2)
3)
4)
5)
la teoria matematica della comunicazione, iniziata dallo schema cibernetico di
Shannon, con il successivo innesto da parte di Weaver della semantica dei fatti
linguistici e dei “tratti semantici permanenti”;
l’informatica, la telematica, la sinettica, l’intelligenza artificiale che focalizzano i
problemi della comunicazione senza interlocutore e del sistema comunicativo
uomo-macchina;
l’analisi linguistica computerizzata e la psicolinguistica, costruttivistica o selezionistica, gli sviluppi più recenti della semeiotica e della psicosemeiotica, nonché della
logica;
la neuropsicologia della comunicazione cerebrale e dell’immagazzinamento ed elaborazione dell’informazione, secondo impostazioni diverse che fanno capo a Hebb,
Pribram, Lurja e anche a Broadbent, Neisser ecc.;
l’analisi dei media, dalle ricerche sulla formazione e il cambiamento dell’opinione
pubblica alla teoria delle comunicazioni a due livelli, sino alla teoria sulla natura
dei media come prolungamento dei sensi, destinati secondo McLuhan, a modificare i rapporti fisiologici con l’ambiente;
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Processi cognitivi
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6) l’analisi del cambiamento culturale che parte dalla Teoria comunicazionale della
modernizzazione di Lerner, incentrata sui filtri di ricezione che mediano il passaggio dal microambiente al macroambiente;
7) l’approccio relazionale e sistemico che, a partire dalla Pragmatica della comunicazione umana, ha introdotto modalità e modelli comunicativi interattivi e antimeccanicistici nella psicologia clinica e nella teorizzazione e programmazione di interventi psicologici e di sostegno.
Indubbiamente centrali per la contemporanea scienza cognitiva, in questa ampia
diversificazione di direttrici, appaiono le ricerche sul linguaggio, per due distinti ordini di motivi, legati il primo alla peculiare natura dell’oggetto d’indagine e il secondo
allo sviluppo storico della disciplina. Il linguaggio, infatti, come prodotto tipicamente
umano, è un sistema oggettivato di categorizzazioni interrelate, passibile di manipolazioni sperimentali al fine di ottenere indicazioni sulla struttura e le modalità di funzionamento della mente che lo ha prodotto. In quest’ambito un’importanza principale hanno sinora rivestito le ricerche sullo sviluppo linguistico dal momento che,
come nota Pinker (1989), “spiegare l’acquisizione del linguaggio significa fornire
risposta a molte delle topiche centrali e ricorrenti della scienza cognitiva”.
E forse è dovuto ancora alla natura dell’oggetto un decorso storico che ha portato
spesso la psicolinguistica a essere in vantaggio sulla psicologia dominante e affermata: in misura eclatante all’inizio degli anni Sessanta, quando essa ha svolto un ruolo
trainante nel superamento del comportamentismo e nello sviluppo di una psicologia
cognitiva in termini mentalistici (Carlson e Tanenhaus, 1988), ma ancora oggi nell’incentivo agli studi sulla semantica (Wasow, 1989) che hanno spianato la via alla
rivalutazione del qualitativo che caratterizza la psicologia contemporanea.
Significato linguistico delle espressioni, contenuto proposizionale, significato
cognitivo, riferimento, indicatività e sensibilità al contesto, componibilità, verità,
implicazione, ambiguità, presupposizione sono i nodi problematici affrontati dalla
ricerca dei semanticisti. Questi nodi da una parte introducono alla “psicolinguistica
del messaggio” e dall’altra accendono il dibattito sul simbolismo e sul significato nell’ambito della scienza cognitiva (per es., Fodor, 1987).
Di fatto, la storia recente della psicolinguistica è segnata da fasi: dall’impostazione
empiristica e informazionale, negli anni Cinquanta, all’impostazione razionalistica
derivata da Chomsky, ma anche da Piaget e da Bruner, al recupero della semantica e
della pragmatica dell’atto di comunicazione, sino al “tentativo epistemologico di
recupero di tutti gli elementi essenziali dell’atto linguistico inteso come processo dialogico e contestualizzato di comunicazione”.
Tali fasi corrispondono, spesso precorrendole, a quelle dello sviluppo generale
della psicologia, cosicché lo stesso dibattito contemporaneo sulla specie-specificità
della elaborazione umana dell’informazione si sostanzia consistentemente delle ricerche sul linguaggio, anche a livello di modellistica, dove i modelli analogici (per es.,
Skousen, 1989) vengono oggi a contrapporsi ai già citati modelli connessionistici
dell’elaborazione distribuita in parallelo, elaborati da Rumelhart e McClelland.
Sempre al fine di ottenere indicazioni sulla struttura e le modalità di funzionamento della mente i cognitivisti hanno ben presto individuato un altro linguaggio
specie-specifico, quello musicale. Così, durante gli anni Sessanta e Settanta, materiale-stimolo di natura musicale viene frequentemente utilizzato nelle ricerche psico-
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Processi, funzioni e costrutti
logiche per evidenziare la localizzazione cerebrale delle funzioni cognitive. L’obiettivo di questi primi studi (che concludono per una specializzazione dicotomica dei
due emisferi in relazione alle funzioni collegate o meno al linguaggio verbale) non è
pertanto la natura propria dell’esperienza musicale. Tuttavia il moltiplicarsi delle ricerche con materiale musicale, mentre finisce per mettere in crisi la netta distinzione delle funzioni tra i due emisferi, porta sia l’interesse dei cognitivisti (che si focalizza sul funzionamento cerebrale nella percezione e nell’esecuzione della musica) sia
gli sforzi congiunti di psicologi e musicologi, a tentare di chiarire fattori e modalità
dell’esperienza musicale, tenendo altresì presenti i risultati raggiunti nella ricerca sul
linguaggio (Olivetti Belardinelli, 1987).
Ne consegue che, anche nel moltiplicarsi delle ricerche propriamente di psicologia della musica, che indagano sulle tre modalità dell’esperienza musicale, in particolare mettendo a punto metodiche specifiche idonee alla sperimentazione su produzione, esecuzione e fruizione della musica, è possibile individuare linee evolutive
simili a quelle della ricerca cognitiva in generale, con un progressivo allargamento di
orizzonti, dall’analisi degli elementi all’analisi psicosemantica (per es., Imberty,
1986), all’analisi delle strategie cognitive (Serafine, 1988; Kramer, 1988; Handel,
1989), sino a esplorative modellizzazioni dei processi dinamici della mente (Sloboda,
1985; Olivetti e Pessa, 1991).
Per questa via anche la psicologia della musica come, più in generale, tutta la
ricerca psicologica sui processi di comunicazione, contribuisce alla realizzazione del
compito proprio della psicologia cognitiva che, come abbiamo più volte indicato,
può essere individuato nella messa a punto di un modello generale del funzionamento psichico nella cognizione come struttura logica di una rappresentazione empirica
strutturalmente isomorfa al suo universo.
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BIBLIOGRAFIA
Per la bibliografia del capitolo consulta la Bibliografia web.
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