Lévi-Strauss erudita[1]

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Lévi-Strauss erudita1
Alcune note critiche sulla genealogia ed attualità del pensiero lévistraussiano
di Michele Parodi
Cercherò nelle osservazioni seguenti di ordinare liberamente alcune critiche a Lévi-Strauss che sono
venuto formulando durante le mie ricerche di campo in Brasile tra il maggio 2006 e l’ottobre 2008. La lettura
di un libro di Edmund Leach dedicato a Lévi-Strauss (Leach 1970) e la conoscenza di alcuni dettagli
dell’esperienza brasiliana dell’etnologo francese, hanno ispirato le mie prime riflessioni sul pensiero
lévistraussiano, parte anche di una indagine personale sulle origini della mia vocazione etnologica. Nel
momento in cui un nuovo interesse per il folclore (i saperi tradizionali, la cultura materiale, i patrimoni
intangibili), sponsorizzato dalle influenti politiche diffuse dall’UNESCO, sembra affermarsi con una
sorprendente naturalezza, senza che tale ritorno (come un ritorno del rimosso) sia oggetto di un esteso ed
approfondito esame critico da parte di antropologi e scienziati sociali2, evidenziare un certo tipo di
genealogia del pensiero di Lévi-Strauss, mostrarne le contiguità con lo stile enciclopedico estetizzante degli
studi folclorici più tradizionali, permette di rilevare il percorso sotterraneo che l’ideologia folclorica ha
compiuto, sotto false spoglie, negli ultimi decenni. Non si tratta di disconoscere la ricchezza dei contributi
alle discipline antropologiche presenti nell’opera complessiva di Lévi-Strauss (illustrati nella loro varietà
anche nei testi precedenti qui pubblicati), ma di svolgere una valutazione politica o ideologica di alcuni nodi
del suo pensiero.
Il criterio dell’autenticità
Nell’ultimo capitolo di Anthropologie Structurale (Lévi-Strauss 1958b)3 appare la traccia del
programma di una peculiare etnologia della prossimità. La progressiva scomparsa reale e
Questo articolo è apparso per la prima volta in “Achab”, Rivista di Antropologia, n. 14, 2009, pp. 22-28.
Il seminario La costruzione del patrimonio culturale – discussioni critiche tra antropologia e altri territori,
organizzato dalla “Fondazione Basso” e dalla “Società Italiana per la museografia e i beni Demo Etno Antropologici”
(simbdea) nel marzo-maggio 2007, e la pubblicazione di alcuni volumi sulle politiche e le poetiche patrimoniali
(Palumbo 2003; Pizza 2004; vedi anche l’“Annuario di Antropologia” dedicato al patrimonio culturale curato da Irene
Maffi nel 2006) segnalano l’emergere tra gli antropologi italiani di una prospettiva di analisi dei processi di
patrimonializzazione più problematizzante e critica. In Francia e nel Nord America un simile dibattito è iniziato già
verso la fine degli anni ottanta (vedi ad esempio i lavori di Lowenthal 1985 e 1997, Handler 1988, Jeudy 1990, Choy
1992, Poulot 1993). In Brasile (dove le mie ricerche riguardano le politiche del patrimonio in São Luís do Maranhão)
una prospettiva simile ha iniziato a prendere consistenza a partire dalla pubblicazione nel 1996 del volume di Reginaldo
Gonçalves, Retorica da perda (1996), ispirato ai lavori di Handler (suo tutor nella stesura della tesi di dottorato) e
Clifford, e dalla fondazione nel 2002 del Grupo de Trabalho Permanente do Patrimônio Cultural istituito dalla
presidenza della “Associação Brasileira de Antropologia” (cfr. Abreu 2007). Nella Università Federale del Maranhão il
prof. Alexandre Fernandes Corrêa, leader del Grupo de Estudos Culturais al quale ho partecipato durante la mia
permanenza in Brasile, svolge dal 2002 una critica puntuale alle pratiche patrimoniali (v. Corrêa 2003; v. anche
http://gpeculturais.blogspot.com/).
La presenza di questi autori e di questi gruppi, almeno in Italia, ma anche in Brasile, sembra però relativamente
marginale rispetto al proliferare di pubblicazioni e ricerche documentarie descrittive. L’elenco di iniziative, conferenze,
seminari, master e scuole di specializzazione inscrivibili in un ottica “applicativa” avente come finalità l’inventario, la
protezione o la rivitalizzazione dei patrimoni, è praticamente infinito. Si verifica qui una convergenza tra gli interessi di
certi gruppi accademici (come i settori del design culturale, della comunicazione, della moda, delle belle arti e del
restauro) e le istanze di valorizzazione identitaria organizzate o sponsorizzate dagli enti locali e condotte da un numero
crescente di associazioni ed istituzioni museali (si veda per fare solo un esempio il convegno, Patrimonio culturale
immateriale, tradizione locale e rete globale, organizzato dalla Regione Lombardia nel maggio 2008 a Milano;
locandina dell’evento disponibile in internet: http://www.agranelli.net/ DIR_rassegna/convegno_LombBBCC_08.pdf ultimo accesso 3 maggio 2009).
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Cap. XVII: Place de l’Anthropologie dans les sciences sociales et problèmes posés par son enseignement (testo già
pubblicato nel 1954 nel volume edito dall’UNESCO, Les Sciences sociales dans l’enseignement supérieur).
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concettuale dello specifico oggetto di studio dell’antropologia, le società “primitive”, sottilmente ed
ambiguamente enunciata da Lévi-Strauss già in Tristi Tropici (Lévi-Strauss 1955), induce
l’antropologo francese a spostare il suo sguardo di etnologo rimpatriato dai luoghi esotici della sua
iniziazione professionale al proprio territorio di origine, trovando così una nuova missione e un
nuovo campo di ricerca: la rivelazione dell’autenticità preservatasi nei complessi meandri della
società moderna. È significativo che il concetto di autenticità tanto caro ai folcloristi si ripresenti nel
testo della svolta strutturalista di Lévi-Strauss. Nel paragrafo intitolato Il criterio dell’autenticità
(segnalatomi dal prof. Alexandre Corrêa; v. anche Corrêa 2007: 244) l’autore, ribaltando le tipiche
definizioni negative con cui, ancora alla fine degli anni ’50, erano individuate le società primitive –
società “non civili”, “senza scrittura” – ne identifica le sostanziali caratteristiche positive: la
raffinata complessità di rapporti sociali fondati “su relazioni personali, su rapporti concreti tra
individui”, “sul tipo delle relazioni più dirette, di cui la parentela offre il solido modello” (LéviStrauss 1958a: 400). Ciò che interessa qui osservare, è il fatto che tale ribaltamento, più che essere
il frutto dell’approfondimento di un’analisi fondata su un’osservazione empirica prolungata,
contiene dei chiari elementi polemici e di valore. Per Lévi-Strauss è la società occidentale ad essere
caratterizzata in termini di privazione:
Le nostre relazioni con altri non sono più, se non in maniera occasionale e frammentaria, fondate su
un’esperienza così globale, su una comprensione così concreta dei soggetti tra loro. […] Siamo collegati al
nostro passato, non più attraverso una tradizione orale che implica un contatto vissuto con persone –
novellieri, preti, saggi o antichi – ma per tramite di libri immagazzinati in biblioteche […]. E sul piano del
presente, comunichiamo con la grande maggioranza dei nostri contemporanei attraverso ogni sorta di
intermediari – documenti scritti o meccanismi amministrativi – che certo allargano immensamente i nostri
contatti, ma conferendo loro nello stesso tempo un carattere di inautenticità (id.: 401, corsivo mio).
Certamente, continua Lévi-Strauss, “le società moderne non sono integralmente inautentiche.
[…] possiamo anzi constatare che, interessandosi sempre più dello studio delle società moderne,
l’antropologia si è applicata a riconoscere e isolare in esse livelli di autenticità” (id.: 402). LéviStrauss conclude trionfalmente il paragrafo esaltando i futuri meriti dell’antropologia:
L’avvenire giudicherà probabilmente che il più importante contributo dell’antropologia alle scienze
sociali, sta nell’avere introdotto (d’altronde inconsciamente) questa fondamentale distinzione fra due
modalità di esistenza sociale: un genere di vita percepito in origine come tradizionale o arcaico, che è
anzitutto quello delle società autentiche; e forme, di più recente apparizione, da cui il primo tipo non è certo
assente, ma in cui gruppi imperfettamente e incompletamente autentici si trovano organizzati in seno a un
sistema più vasto, affetto a sua volta da inautenticità (id.: 402-3).
Nostalgia di un’unità perduta
La nostalgia di Lévi-Strauss per le società “autentiche” – per un luogo fortemente desiderato e
definitivamente perduto, ipotetico stato di natura originariamente incontaminato, al medesimo
tempo, luogo epistemologico della scoperta e fantasma di desideri più profondi e inconfessati – è
continuamente presente anche in Tristi tropici. Uno stile riflessivo percorre con una vena
angustiante tutto il testo dell’antropologo francese, tentativo di svelare a se stesso e a noi qualcosa
di oscuro. Tale progetto di auto-indagine sarà però successivamente messo in secondo piano
dall’autore conquistato dal fascino estetico di altre logiche e altre strutture.
Un famoso brano di Tristi tropici rimane la sintesi testuale più compiuta di questa nostalgia:
il visitatore che per la prima volta si accampa nella boscaglia con gli indios è preso dall'angoscia e dalla
pietà di fronte allo spettacolo di questa umanità così totalmente indifesa; schiacciata, sembra, contro la
superficie di una terra ostile da qualche implacabile cataclisma, nuda e rabbrividente accanto a fuochi
vacillanti. Egli circola a tastoni fra la sterpaglia, evitando di urtare una mano, un braccio, un torso di cui si
indovinano i caldi riflessi al chiarore dei fuochi. Ma questa miseria è animata da bisbigli e da risa. Le coppie
si stringono nella nostalgia di una unità perduta; le carezze non si interrompono al passaggio dello straniero.
S'indovina in tutti una immensa gentilezza, una profonda indifferenza, una ingenua e deliziosa soddisfazione
2
animale, e mettendo insieme tutti questi sentimenti diversi, qualche cosa che somiglia all'espressione più
commuovente della tenerezza umana (Lévi-Strauss 1955: 316)
Affiora qui un desiderio erotico, dove la nostalgia di una mitica unità perduta non è certo la
nostalgia degli indigeni, ma la proiezione su di essi della nostalgia dell’autore per una “ingenua
soddisfazione animale”.
L’atteggiamento polemico e nostalgico di Lévi-Strauss pur nella sua inadeguatezza analitica e
metodologica, manifesta l’espressione di un malessere, di una sofferenza interiore che non riesce ad
incontrare forme efficaci di mobilitazione pratiche o teoriche. È interessante notare come, ad un
certo punto, Lévi-Strauss tenti legittimare le sue affermazioni citando Wiener, il rappresentante
della “più moderna delle scienze sociali – quella della comunicazione”:
It’s no wonder that the larger communities […] contain far less available information that the smaller
communities, to say nothing of the human elements of which all communities are built up (Wiener in LéviStrauss 1958b: 401).
Lévi-Strauss sembra qui percepire chiaramente il fenomeno proliferativo entropico che
caratterizza la cultura nelle società industriali, e l’inflazione dei valori culturali che tale espansione
induce (Clifford ironicamente lo definisce “rassegnato «entropologo»”; Clifford 1988: 277), senza
però comprendere come la missione che intende proporre, sostenuta dal metodo analitico
strutturalista, si inscriva proprio in questo stesso processo, essendone anzi uno dei supporti
compensatori: riesumazione nostalgica e consolatoria di un astratto paradiso perduto infinitamente
manipolabile, decontestualizzate da una seria analisi di ordine storico-politico.
Ritorno del rimosso
L’esame del testo di Lévi-Strauss mostra un funzionamento discorsivo simile a quello della
retorica folclorica, così confermando la complicità sotterranea tra l’antropologia e gli studi del
folclore segnalata verso la metà degli anni ’80 da Nicole Belmont (Belmont 1986). Permangono in
Lévi-Strauss visioni polemiche venate di nostalgia in cui i complessi inconsci presenti nelle
concezioni folcloriche riemergono in una specie di ritorno del rimosso, trovando nuove vesti con
cui accedere al livello dell’espressione. Si tratta di veri e propri sintomi, nella accezione
psicoanalitica del termine, arcaismi che al medesimo tempo, definiscono percorsi di ricerca,
posizionamenti teorici, suggestionano polemiche accademiche tra scuole e dipartimenti rivali, senza
che una riflessione antropologica effettiva ne sveli la struttura più intima. Secondo Belmont la
condanna degli studi del folklore è avvenuta in Francia “senza processo” (Belmont 1986: 260)4.
Mentre al livello internazionale più generale, a partire dalla fine degli anni settanta, una vasta
interrogazione autocritica ha colpito l’antropologia, fino a mettere in discussione le fondamenta
della disciplina, paradossalmente, la critica scientifica degli studi folclorici, limitatasi in precedenza
agli aspetti teorici metodologici (il descrittivismo, l’assenza di rigore e oggettività), in seguito,
confinata la loro presenza ai margini dell’accademia, non si è più rivolta all’indagine e allo
svelamento della loro dimensione ideologica più profonda. È forse questo “non detto” (id.) a
consentire l’attuale riemergere dell’ideologia folclorica in ricerche metodologicamente distanti dal
dilettantismo dei folcloristi del passato, come nel caso dello strutturalismo o dell’etnosemiotica.5
Le traduzioni italiane di testi citati in bibliografia in lingua originale sono dell’autore.
Da questo punto di vista il caso italiano e l’egemonia che gli studi demo-antropologici hanno conservato nel campo
delle scienze antropologiche del nostro paese fino alla fine degli anni settanta, presenta delle specificità rilevanti. In
Italia l’influsso del pensiero di Gramsci ha consentito un precoce rinnovamento teorico e metodologico degli studi
folclorici e ha permesso una progredita, anche se non sempre efficace, critica del folclore e delle analisi folcloriche (v.
ad esempio i lavori di Cirese, de Martino e Lombardi-Satriani). Alla fine della militanza politica degli anni settanta, è
seguita, però, una fase di ristagno delle ricerche sul folclore, a partire dalla quale gli studi folclorici sono potuti
riemergere gradualmente in una forma pura, filtrata dalle precedenti finalità politico-ideologiche, elaborando
conoscenze “essenzialmente rivolte al passato” (cfr. Bravo Tucci 2006: 12). In Brasile si è verificato un fenomeno
simile in cui la fase di latenza ha coinciso con il primo decennio della dittatura militare (1964-1985).
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Estetismo enciclopedico
Ciò che accomuna Lévi-Strauss ai folcloristi è l’idea che l’oggetto dei propri studi sia
irrimediabilmente perduto, e che il proprio impegno debba di conseguenza concentrarsi nella
raccolta e conservazione di ciò che va sparendo. Un misto di romanticismo e di positivismo che
anela alla conoscenza dell’altro, ma al medesimo tempo lo irrigidisce nei suoi aspetti esteriori, così
piegandolo ai propri fini polemici ed ad uno sguardo estetizzante che si limita a manipolarne gli
aspetti formali in un raffinato gioco combinatorio. Vi è in Lévi-Strauss un rifiuto radicale della
possibilità e della opportunità di condividere la vita dei propri interlocutori di campo. Qui si
percepisce l’eredità della tradizione etnografica maussiana, caratterizzata dal sospetto nei confronti
dei discorsi nativi (dove opererebbero continuamente forme di mascheramento e di omissione), e
dalla valorizzazione della sicurezza eloquente degli “oggetti autentici e autonomi” (cfr. Mauss in
Clifford 1988: 85). È a partire da queste premesse che Griaule, seguendo un diverso percorso, non
abdicando a confrontarsi con le difficoltà del campo, svilupperà il suo peculiare metodo
“giudiziario”, “antagonistico” (id.: 79, 94). L’etnografia di Lévi-Strauss, portando agli ultimi esiti
questa logica, si riduce invece alla raccolta di reperti, di resti, di rovine, di miti. Secondo LéviStrauss si è irrimediabilmente troppo lontani o troppo vicini per poter afferrare le stranezze dei
selvaggi. Da qui l’ironia del famoso passo di tristi tropici citato anche da Geertz (1988: 52-53):
“Alla fine di un viaggio esaltante avevo trovato i miei selvaggi. Ma ahimè, essi lo erano troppo […]
erano là pronti ad insegnarmi i loro costumi e le loro credenze e io non conoscevo la loro lingua.
Vicini a me […] potevo toccarli ma non potevo comprenderli” (Lévi-Strauss 1955: 361-62). Questa
impossibilità, il “cerchio chiuso” (id.: 50), che Lévi-Strauss vuol qui far passare come
epistemologica (o episodica: la mancanza di tempo, “le limitate risorse”, “il deperimento fisico”;
cit. in id., p. 361), dipende invece essenzialmente dalle specifiche finalità conoscitive dell’autore
che lo hanno spinto a vagare per mesi nell’amazzonia piuttosto che a stabilirsi permanentemente in
un villaggio indigeno, guidato da “un melange di estetismo […] e di enciclopedismo illuminista”
(Geertz 1988: 39). A Lévi-Strauss in verità non interessava comprendere i significati della vita
indigena, ma, con sguardo di esteta, mettere a sistema la diversità delle manifestazioni materiali che
si davano alla sua vista: tatuaggi, ornamenti, rappresentazioni grafiche, oggetti rituali, relazioni di
parentela, miti e loro varianti. È questo tipo di attività che ha caratterizzato anche le ricerche
folcloriche, nella fase in cui, verso la fine dell’ottocento e i primi del novecento, tentarono di darsi
una parvenza di scientificità. La linguistica strutturalista darà poi a Lévi-Strauss gli strumenti con
cui nobilitare questa attività dandone una veste più filosofica.
L’atteggiamento di Lévi-Strauss, come quello dei folcloristi, è simile ai fenomeni di fissazione su
un “monumento” della vita passata che caratterizzano certi tipi di nevrosi, dove le manifestazioni
psicotiche possono giungere fino a negare la realtà e il presente (cfr. Freud 1909: 135-36; cit. in
Belmont 1986: 265).
Lévi-Strauss archeologo
Per Lévi-Strauss il lavoro etnografico consiste nel viaggio (nonostante il famoso incipit di Tristi
tropici dica il contrario: “Odio i viaggi e gli esploratori; Lévi-Strauss 1955: 19) e nella raccolta dei
“reperti” incontrati lungo il percorso (Geertz considera Tristi tropici il risultato della mescolanza di
più generi di testi: un libro di viaggi, una etnografia polemica, un testo filosofico, addirittura una
guida turistica; Geertz 1988: 40-50). Lévi-Strauss più che ad un etnografo può allora essere
paragonato ad un archeologo, ad una specie di “flâneur antropologico” (Clifford 1988: 274) o ad un
collezionista (non ad un viaggiatore “puro” i cui vagabondaggi comportano sempre anche la
possibilità di un non ritorno e da qui probabilmente l’incipit sopra citato)6. Questa ipotesi è
In un passo di Tristi tropici, Lévi-Strauss si riconosce “viaggiatore, archeologo dello spazio, che invano tenta di
ricostruire l’esotismo con l’aiuto di frammenti e rottami” (Lévi-Strauss 1955: 50). Una delle tante confessioni contenute
nel libro e successivamente rimosse, come se la confessione delle proprie contraddizioni avesse reso Lévi-Strauss più
agile e leggero nel convivere con le proprie ossessioni. Ugo Fabietti in una recente lezione seminariale, osserva come
guardando la traiettoria complessiva dei lavori di Lévi-Strauss si resta colpiti dall’affiorare, scomparire e riapparire di
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confermata, dall’idea che egli ha sempre avuto del destino dell’antropologia. Nel 1988 intervistato
dal giornalista francese Didier Eribon affermava: “[L’antropologia] cambierà la sua natura. Se
l’indagine sul campo non avrà più oggetti, ci trasformeremo in filologi, storici delle idee, specialisti
di civiltà avvicinabili solamente attraverso i documenti che antichi osservatori hanno raccolto”
(Lévi-Strauss 1988: 202). In realtà questa trasformazione per Lévi-Strauss è avvenuta
precocemente, alla conclusione della sua esperienza brasiliana nel 1939. In seguito, scrollatosi di
dosso l’impiccio di ogni residuo etnografico potrà “dedicarsi al tema che – come afferma Geertz –
gli è veramente proprio: “il gioco formale dell’intelletto umano” (Geertz 1988: 37). Non è di
conseguenza un caso che la ricerca di campo tra i Nambikwara, la più prolungata della sua carriera,
non occupi un ruolo di rilievo nella sua produzione teorica. In effetti è lo stesso Lévi-Strauss a
riconoscerlo: “io mi sentii ben presto uomo da biblioteca piuttosto che uomo da campo. […][Ho
lavorato sul campo] abbastanza per imparare e capire che cos’è questo lavoro, condizione
indispensabile per giudicare correttamente e utilizzare il lavoro fatto da altri” (Lévi-Strauss 1988:
70, 72).
Lévi-Strauss erudita
Quanto detto finora corrisponde alla tesi presentata da Edmund Leach nel primo capitolo del suo
libro dedicato a Lévi-Strauss (Leach 1970), dove include l’antropologo francese nella genealogia
degli antropologi eruditi, famiglia a cui assegna come prototipo Frazer e alla quale contrappone la
genealogia degli antropologi che fanno della ricerca di campo intensiva il momento cruciale della
loro professione, primo fra tutti, secondo Leach, il padre dell’“osservazione partecipante”
Bronislaw Malinowski. In effetti tutta l’esperienza etnografica di Lévi-Strauss si può ridurre ad
alcuni mesi trascorsi tra gli indios Caduvei e Bororo (tra il 1935 e il 1936, alla fine del primo anno
accademico all’università di São Paulo dove era professore visitante) e tra gli indios Nambikwara
(giugno-dicembre 1938; cfr. Faria 2001; Domingues, Monte-Mór, Sorá, 1998). Se i frutti della
prima missione etnografica nel Mato Grosso si concretizzarono nella raccolta di una importante
collezione di artefatti etnografici per conto del futuro Musée de l’Homme, la seconda missione tra i
Nambikwara, nel cui territorio Lévi-Strauss trascorse circa quattro mesi, fu spesa per la gran parte
in spostamenti. Come riconosce Lévi-Strauss, intervistato dall’antropologo e fotografo brasiliano
Marcelo Fiorini
[i Nabikwara] non parlavano il portoghese, salvo alcuni di essi che conoscevano una decina di parole. Io
stesso non sapevo parlare Nabikwara, con competenza, e, pertanto, noi costruimmo insieme un tipo di gergo
comune, formato per metà di parole portoghesi e per metà di parole Nabikwara, il che ci permetteva un
minimo di comunicazione. Evidentemente con ciò non si poteva andare molto lontano (Lévi-Strauss in
Fiorini 2007: 11).
Leach osserva:
É perfettamente vero che un antropologo sperimentato, visitando per la prima volta una “nuova” società
primitiva e lavorando con l’aiuto di interpreti competenti, sarà capace, dopo una permanenza di alcuni
giorni, di sviluppare nella sua mente un “modello” ragionevolmente esauriente di come funziona il sistema
sociale; ma è anche vero che, se permanesse lì sei mesi e apprendesse a parlare la lingua locale, molto poco
resterebbe di quel “modello” iniziale. Significativamente, il compito di comprendere come il sistema
funziona sembrerà ancora più formidabile di quanto non lo fosse stato nei primi giorni successivi al suo
arrivo.
Lévi-Strauss non ebbe mai l’opportunità di soffrire questa esperienza demoralizzante…
[Egli] come Frazer, è insufficientemente critico, in riferimento al corpo basico di informazioni su cui
lavora. […] Qualsiasi prova, per molto dubbia che sia, è accettabile – dal momento che si aggiusti ad
aspettative logicamente calcolate (Leach 1970: 20).
alcuni nuclei di idee ricorrenti, come se nel suo pensiero lavorassero delle forme fisse che non si sviluppano in modo
irreversibile, ma si ripresentano ciclicamente in forme solo leggermente variate (Fabietti 2008).
5
Dopo le prime iniziazioni etnografiche in Brasile, Lévi-Strauss non compirà più alcuna
significativa ricerca di campo dedicandosi interamente allo studio minuzioso dei testi etnografici
raccolti da altri antropologi sulla cui base elaborerà le sue opere teoriche più famose.
Lévi-Strauss e il Brasile
La retorica testuale di Lévi-Strauss, il suo estetismo e il suo moralismo (Geertz, nell’articolo già
citato, provocatoriamente parla di Tristi tropici come di un “trattatello riformista”; Geertz 1988:
46), ha probabilmente la sua origine, oltre che nel più generale contesto culturale delle scienze
sociali della Francia degli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, nella storia personale dell’etnologo
francese (ad esempio nel fatto che il padre fosse un pittore di ritratti rovinato dall’avvento della
fotografia…), nella condizione di classe della sua famiglia (borghesia intellettuale in declino), e
nella sua specifica traiettoria accademica (è lo stesso Lévi-Strauss a dichiarare il carattere
autodidatta dei suoi primi studi antropologici; cfr. Fiorini 2007: 11). La lunga intervista rilasciata da
Lévi-Strauss a Didier Eribon nel 1988 è da questo punto di vista illuminante (Lévi-Strauss 1988).
Ci sembra però che la permanenza in Brasile di Lévi-Strauss abbia assunto un’importanza
speciale nel definire la sua vocazione e la sua traiettoria intellettuale. In particolare nel definire il
suo stile etnografico e la sua vena polemica.
È nota l’influenza di Lévi-Strauss e dello strutturalismo sullo sviluppo dell’antropologia e delle
scienze sociali in Brasile (vedi ad esempio i primi lavori di Roberto da Matta: da Matta 1973 e
1976). Forse meno nota l’influenza del modernismo brasiliano e delle ricerche folcloriche di questo
paese sul suo pensiero. Con la moglie Dina, durante la sua permanenza in Brasile come professore
visitante, partecipò nel 1936 alla fondazione della Sociedade de Etnografia e Folclore (FUNARTE,
INF 1983: 70), organizzata da Mario de Andrade – romanziere, poeta, etnografo, musicologo, tra i
fondatori con Oswald de Andrade nel 1928 del modernismo antropofago brasiliano. Dina, segretaria
della rivista della Sociedade (id.: 10, 72), pubblicherà a puntate sul Boletim le Istruções práticas
para pesquisas de Antropologia Física e Cultural (Lévi-Strauss D. 1936), una specie di Notes and
Queries aggiornato, inspirato dalle esigenze enciclopediche dei lavori di Frazer e Mauss.7
È qui importante segnalare l’affinità profonda che univa Lévi-Strauss e Mario de Andrade,
accomunati da medesimi studi umanistici e filosofici, figure poliedriche in cui la scrittura
etnografica e la letteratura si incrociano spesso.
Negli anni del loro incontro si trovarono uniti nella comune missione per la salvaguardia di un
patrimonio di cui temevano la rapida estinzione: la cultura delle “ultime” popolazioni indigene e le
tradizioni folcloriche del popolo brasileiro, culture localizzate nel Brasil profundo, sopravvissute
alla rapida avanzata della frontiera brasiliana. Da qui l’urgenza per entrambi di dislocarsi nei
territori “selvaggi”, dove ancora era possibile incontrare questo Brasile. Si trattava per de Andrade
di riscoprire l’inconscio della nazione, mentre nella visione universalizzante dell’etnologo francese
di rivelare l’inconscio dell’uomo stesso.
Si può forse ipotizzare che il progetto universalista di Lévi-Strauss sia nato proprio a partire
dall’incontro con de Andrade e il Brasile, dalla mediazione del disegno nazionalista di de Andrade
per tramite della tradizione illuminista francese. Furono numerose le spedizioni folcloriche nei
dintorni di São Paulo a cui Lévi-Strauss partecipò insieme a de Andrade: “qualcuno ci informava
dello svolgimento di una festa di mori e cristiani o di Bumba-meu-boi e noi ci andavamo” (LéviStrauss in Sandroni 1993: 239). Viceversa fu lo stesso de Andrade, per tramite del “Dipartimento di
Cultura” del municipio di São Paulo, da lui diretto dal 1935 al 1938, a finanziare parzialmente le
missioni etnografiche di Lévi-Strauss nell’interno del Brasile (id.: 238). L’elogio della diversità
assumeva per de Andrade un significato emancipatorio, rivelando la singolarità brasiliana, per LéviUn questionario speciale fu organizzato dalla Sociedade al fine di realizzare una “carta geografica” di alcuni costumi
popolari nello Stato di São Paulo, carta che, su invito di Dina Lévi-Strauss, fu presentata al Congresso Internazionale
del Folclore di Parigi nel giugno 1937. Il tema specifico del congresso riguardava la cartografia folclorica (promossa in
Francia da Van Gennep; cfr. Cocchiara 1952: 521) e la promozione dell’accesso degli studi folclorici al campo delle
scienze antropologiche (FUNARTE, INF 1983: 11, 73-75).
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Strauss un significato etico: elogio, come dirà nei primi anni ’50, della varietà in sé “in un mondo
minacciato dalla monotonia” (Lévi-Strauss 1952: 407).
Di qui l’irrilevanza di una permanenza prolungata sul campo e la preferenza per missioni
itineranti di breve durata dove collezionare un vasto e diversificato numero di artefatti etnografici8.
Entrambi erano posseduti da una vera e propria voracità antropofaga di “oggetti culturali”9: un
“cannibalismo nostalgico” (Lévi-Strauss 1955: 48) di “turisti apprendisti” (nel 1927 de Andrade
iniziò a scrivere per il giornale O Diario Nacional una sorta di quaderno di viaggio poetico e critico
intitolato O Turista Aprendiz) su cui fondare, secondo de Andrade, la incerta identità nazionale
brasiliana, per Lévi-Strauss, un istintivo gusto per il bricolage e i giochi combinatori consentiti da
un insieme di oggetti, o di stili10, sciolti dalle proprie relazioni sociali. Per entrambi alle origini di
questo comune sentire vi era il surrealismo e il simbolismo francese (nel caso di Andrade anche il
futurismo italiano), ma il senso di spaesamento che nei surrealisti più militanti diventava elemento
di trasgressione e di fiduciosa adesione alla dinamica imprevedibile del reale, era vissuto in loro in
modo più angoscioso, continuamente contrastato da un turbato e contraddittorio bisogno di identità
e di confini. Così per entrambi, ad un certo punto, la dissociazione della cultura e l’attacco
sovversivo surrealista, si sciolgono in operazioni di rielaborazione e sistemazione estetica di
frammenti culturali che la legittimazione scientifica e l’azione organizzativa delle istituzioni
consentono di accumulare.
Non per caso l’universalismo differenzialista e nazionalista dell’UNESCO all’inizio del nuovo
millennio ha ritrovato in Lévi-Strauss un interlocutore ideale (cfr. Stoczkowski 2008), mentre il
famoso Anteprojeto di de Andrade (Andrade 1936) – il “Piano preliminare per la creazione del
servizio del patrimonio artistico nazionale” – da lui elaborato nel 1936 su sollecitazione dell’allora
ministro dell’educazione Gustavo Capanema e accantonato durante la dittatura di Vargas (19371940), è diventato in seguito una delle principali fonti di ispirazione delle politiche del patrimonio
brasiliane (da Silva 2002)11.
Sia Lévi-Strauss che de Andrade, seppur con sfumature diverse, amano le identità ben definite. Il
nazionalismo per de Andrade era l’unica maniera di universalizzarsi: “Poiché un popolo solo si
universalizza nel momento in cui concorre con il suo contingente particolare e inconfondibile ad
arricchire questa cosa sublime, uniforme ma multipla che è l’umanità” (Andrade 1924-1936: 150).
Citazione che ricorda un famoso brano di Razza e storia (testo commissionato a Lévi-Strauss
8
Durante le spedizioni del 1935-1936 Lévi-Strauss collezionò un grande numero di oggetti. Il successo della mostra che
egli e la moglie Dina organizzarono a Parigi sulla base di questi materiali nel 1937, permise a Lévi-Strauss di ottenere i
fondi per la spedizione del 1938 (Lévi-Strauss 1988: 37-38; 1955: 265). Nei “viaggi etnografici” del 1927 e del 19281929, e nella famosa missione folclorica nel Nord del Brasile del 1938, Mário de Andrade raccolse invece una
importante collezione di registrazioni musicali, di fotografie e immagini filmate delle tradizioni popolari brasiliane (cfr.
Nogueira 2005).
9
In una lettera a Luís da Câmara Cascudo (fondatore a Natal nel 1941 della “Fundação da Sociedade Brasileira de
Folclore”), nel settembre 1924, Mário de Andrade scrive: “Ho una fame per il Nord, che non immagina. Mi mandi
alcune fotografie della sua terra. Vi sono opere di arte coloniale? Immagini di legno, chiese interessanti? Conosce i loro
autori? Ha delle fotografie? Mi creda: tutto ciò mi interessa più della vita. Non abbia paura di inviarmi un ritratto di una
casa abbandonata che sia. O di un fiume, o di un albero comune. Sono le delizie della mia vita queste fotografie di pezzi
familiari del Brasile. Non è per sentimentalismo. Ma so sorprendere le cose comuni della mia terra. E la mia terra è
ancora il Brasile” (Andrade 1991: 34).
10
Vale la pena qui ricordare il seguente brano di Tristi tropici: “L’insieme dei costumi di un popolo è contrassegnato
sempre da uno stile; essi costituiscono dei sistemi. Sono persuaso che questi sistemi non esistono in numero illimitato
[… ]. Facendo l’inventario di tutti i costumi osservati […] si giungerebbe a comporre una specie di tavola periodica
come quella degli elementi chimici, in cui tutti i costumi reali o semplicemente possibili apparirebbero raggruppati in
famiglie, e in cui non avremmo più che da riconoscere quelli che le società hanno effettivamente adottato.” (LéviStrauss 1955: 201).
11
L’Anteprojeto di de Andrade includeva, già a quell’epoca, tra i patrimoni degni di protezione, l’arte archeologica e
amerindia, il folclore e l’arte popolare (cfr. Andrade 1936), anticipando di più di trent’anni le politiche di protezione dei
beni culturali dell’UNESCO sancite per la prima volta dalla “Convenzione sulla Protezione del patrimonio culturale e
naturale mondiale” di Parigi nel 1972.
7
dall’UNESCO): “il contributo delle culture non consiste nell’elenco delle loro invenzioni
particolari, ma nello scarto differenziale che esse presentano fra di loro” (Lévi-Strauss 1952: 403).
Possiamo così vedere come nazionalismo e relativismo culturale in Lévi-Strauss e de Andrade
(per de Andrade l’identità brasiliana è sostanzialmente meticcia) si siano influenzati
reciprocamente, diventando le due facce di una stessa medaglia (come nei paradossi del razzismo
culturalista). Entrambi ossessionati dal confine (Clifford Geertz giunge fino ad accusare LéviStrauss di etnocentrismo; Geertz 1986: 546-547), mossi da un polemico impulso interventista più
sensoriale che politico, hanno finito per inscrivere parte della loro militanza nelle istituzioni degli
Stati e delle organizzazioni internazionali, lasciando in esse le tracce del loro pensiero.
Conclusioni provvisorie
In queste note sintetiche ho cercato di mettere in luce i punti di contatto sintomatici tra l’opera di
Lévi-Strauss e i tratti caratteristici degli indirizzi più tradizionali degli studi folclorici: 1) attrazione
nostalgica e polemica per le antichità (i “selvaggi” o i “primitivi” nel caso di Lévi-Strauss); 2)
dilettantismo erudito e autodidatta; 3) contatto diretto, anche se temporaneo e di breve durata, con
gli oggetti di studio; 4) fascinazione per gli artefatti (compresi le testimonianze orali, i miti, i
proverbi) e disinteresse per i problemi e i processi sociali; 5) organizzazione sistematica e formale
dei materiali empirici; 6) ossessione per i confini e le classificazioni; 7) più o meno velato
campanilismo (regionalismo, nazionalismo patriottico o etnocentrismo).12
Il gusto estetizzante, quasi antiquario, che è possibile rintracciare nella traiettoria complessiva di
Lévi-Strauss, ci sembra essere il medesimo che oggi guida le politiche di selezione e salvaguardia
dei monumenti nazionali (materiali o intangibili, eruditi o popolari che siano), così come la messa in
ordine delle diversità culturali organizzate dall’UNESCO nella lista dei patrimoni dell’umanità. Si
tratta di forme discorsive che occultando in opposizioni distintive e giustapposizioni spettacolari
l’artificiosità convenzionale di queste operazioni, allo stesso tempo dissimulano, naturalizzandoli, i
meccanismi reali di dominio, le asimmetrie di potere e le dinamiche economiche globali che sono
alla base della riduzione a simulacri della diversità delle culture.
Lo sguardo da lontano di Lévi-Strauss che rifiuta di interagire con i suoi oggetti (interlocutori con
cui non vuole interloquire) limitandosi a contemplarli con nostalgia, finisce per sostenere una
visione depoliticizzata della cultura e della ricerca etnografica, contribuendo al più generale
arretramento della sfera pubblica e della critica.
Nello strutturalismo lévistraussiano la ricchezza della ricerca etnografica si confonde con la
moltiplicazione dei suoi oggetti in detrimento di una interrogazione più radicale, sostituita da
“un’arte della descrizione che impone la sua propria finalità” (Jeudy 2005: 34).
L’etnografia, al contrario è il luogo dell’incontro, il luogo di un apprendimento sensibile e
relazionale che si avvera sul piano etico della pluralità. Luogo dove nella dialettica tra generale e
particolare l’oggetto e i limiti del campo sono decisi nella pratica (cfr. Bourdieu 1992: 185)
Tale esperienza in Lévi-Strauss risulta impoverita, poiché sistematicamente scissa dall’impianto
teorico. Ed è proprio questa separazione a definire l’antipolitica del suo metodo. Le culture sono
apprese nella rigidezza dei dati raccolti dall’etnografo e delle analisi strutturali compiute
dall’antropologo, non nella realtà fluida e dinamica dove etnografo e antropologo si confondono.
Giulio Angioni, agli inizi degli anni settanta, formulava così le caratteristiche del “quadro clinico” della demologia
italiana di stampo romantico-positivista: “propensione alla genericità astratta o sentimentale”, “gusto del pittoresco”,
“vagheggiamento idillico”, “difesa campanilistica dei buoni villici delle proprie regioni” (Angioni 1971: 183). Secondo
Angioni la mancata attenzione critica ai dislivelli socio-economici e culturali conduceva le ricostruzioni storicodiacroniche a “una sterile ricerca del «fossile culturale» in via di sparizione, da raccogliere in un museo o da ripristinare
più o meno contraffatto in qualcuna delle numerose manifestazioni turistico-dopo-lavoristiche (per le quali è sempre
facile trovare finanziamenti da parte di burocrati […][e] mecenati provinciali appassionati di storia locale)” (id.: 185),
privando al medesimo tempo le ricerche sociologico-sincroniche di oggetti significativi cui dedicarsi. Concludeva
dichiarando l’abitudine, per tradizione, dei demologi italiani “a ricercare esclusivamente oggetti («monumenti» dell’arte
popolare) e prodotti «letterari» orali, e non comportamenti e concezioni” (id.).
12
8
L’ideologia folclorica, depurata dei suoi residui moralistici (la critica tradizionalista del presente),
aggrappandosi ai vettori forniti dal contesto competitivo del tardo capitalismo (liste patrimoniali,
inventari di beni etnografici, cartografie folkloriche, design culturale) e da paradigmi teorici
sincronici e non dialettici come lo strutturalismo, si riattiva in forme nuove purificate dalle passate
interdizioni. Si afferma un’arte seduttiva, come denuncia Henri-Perre Jeudy parlando degli studi
dell’etnologia della Francia, dove le ricerche etnologiche, abbandonato qualsiasi proposito teorico,
si riducono alla missione di rianimare le identità e le memorie collettive “mostrando ciò che non si
mostra” (come nel caso dell’esposizione organizzata delle memorie operaie; cit. in Jeudy 2005: 3435).13 Non vi sono allora più problemi da investigare, ma solo patrimoni da rivelare
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13
Si osserva qui una strana sinergia dove la freddezza delle analisi strutturali può accoppiarsi con gli approcci
interpretativi che puntano a valorizzare il punto di vista nativo, rinforzando processi antagonistici di estetizzazione e
frammentazione identitaria. Si tratta di una questione complessa e delicata che non abbiamo qui la possibilità di
approfondire. Ci sia consentito di lasciare questo cenno sperando di poter in futuro verificare e chiarire la nostra
posizione.
9
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