Fulvio Salimbeni, Un caso esemplare: i pentimenti di Ernesto Teodoro Moneta. Nel 1907 il giornalista milanese Ernesto Teodoro Moneta (1833-1918) fu il primo, e sinora unico, italiano a essere insignito del premio Nobel per la Pace, giusto riconoscimento a chi da decenni s'era votato alla causa con tale passione da affermarsi ben presto a livello internazionale come uno dei maggiori esponenti del movimento a essa votato. Ragazzo combattente sulla barricate nelle Cinque Giornate milanesi nel 1848, con Garibaldi nella spedizione dei Mille, ufficiale nell'esercito italiano nella disgraziata battaglia di Custoza del 1866, sconvolto dal tremendo spettacolo di quel campo di battaglia - come nel 1859 lo era stato Henry Dunant vedendo quello di Solferino, donde l'ispirazione a fondare la Croce Rossa -, efficacemente rappresentato da Visconti in quel capolavoro cinematografico che è Senso, il giovane lombardo, dimessosi dal servizio militare, nel 1869 diveniva direttore del quotidiano, d'impronta radicale, “Il Secolo”, fondato tre anni prima a Milano, in poco tempo rendendolo uno di giornali nazionali più seguiti, dalle cui pagine avviò una diuturna e mai intermessa campagna antimilitarista, che nel 1887 lo portò, tra l'altro, a fondare l'Unione Lombarda per la pace e l'arbitrato internazionale. Animatore, nel 1891, del congresso internazionale per la pace di Roma, dove conobbe la baronessa Bertha von Suttner, amica e ispiratrice di Alfred Nobel per le sue iniziative pacifiste, insieme a lei un anno dopo in Svizzera lanciò un appello per la costituzione, in chiave federale, degli Stati Uniti d'Europa, che avrebbe eliminato alla radice le cause di conflitto tra le nazioni, instaurando una pace definitiva, mentre già nel 1890 aveva fondato la rivista “La Vita Internazionale”, cui collaborarono alcuni dei più bei nomi del pacifismo europeo, affermatasi sin da subito tra le voci più autorevoli in materia. Risolutamente avverso alla politica coloniale africana crispina, che avrebbe portato al disastro di Adua, contrastante con i suoi ideali e che per lui non trovava giustificazione nei reali interessi nazionali, vertenti sull'educazione popolare, sul riscatto del Meridione e sulla democratizzazione della vita politica, il Moneta vide riconosciuto e coronato il proprio inesausto impegno per la causa assunta con tanta dedizione dall'assegnazione, congiuntamente al giurista francese Louis Renault, del Nobel per la Pace, che riscontrò un pressoché generale consenso, dati i suoi meriti al riguardo. Queste, dunque, le coordinate essenziali della biografia del Nostro sino alla svolta cruciale del secondo decennio del Novecento, per ulteriori approfondimenti rispetto alla quale si rinvia al nostro Ernesto Teodoro Moneta, primo italiano Nobel per la Pace, leggibile in Fatti e personaggi del Risorgimento, a cura di Oscar Venturini, supplemento di “Gens Adriae”, VIII/2, 2012 (pp. 8795), ma in particolare a La pace dei liberi e dei forti. La rete di pace di Ernesto Teodoro Moneta, di Francesca Canale Cama (Bononia University Press, Bologna 2012), il lavoro più recente e aggiornato al riguardo, e a Giù le armi! Ernesto Teodoro Moneta e il progetto di pace internazionale, di Claudio Ragaini (Angeli, Milano 1999), più specifico e settoriale. Per meglio intendere quello che a molti poté sembrare un pentimento rispetto alle precedenti posizioni allorché nel 1914 scoppiò il conflitto europeo, va precisato, almeno a grandi linee, il suo pensiero in tema di guerra e pace, fortemente influenzato da quello di Mazzini e dello stesso Garibaldi, tutt'altro che un eroe impegnato soltanto a, e desideroso di, combattere, poiché per entrambi la guerra si giustificava esclusivamente - e questo l'apostolo ligure l'avrebbe precisato in più occasioni e sedi - se condotta per difendersi da un'aggressione esterna, per rovesciare una tirannide interna o una dominazione straniera (era ovviamente il caso dell'Italia, per conseguire libertà, unità e indipendenza), per portare aiuto a nazioni sorelle, quali, ad esempio, la Polonia, oppressa dalla dominazione della Russia zarista, e quelle slave meridionali, sottomesse al giogo ottomano e impegnate esse pure a lottare per la conquista della propria libertà. Lo stesso condottiero nizzardo subito dopo la battaglia del Volturno aveva indirizzato alle cancellerie europee un'esortazione a impegnarsi per la pace, mentre nel 1867 fu il protagonista del congresso internazionale per la pace di Ginevra. Si trattava, dunque, d'un pacifismo non assoluto e radicale, come sarebbe stato quello di Leone Tolstoj, che pure con Moneta fu in relazione, bensì condizionato e particolare, subordinato a specifiche esigenze patriottiche. No, inoltre, a eserciti permanenti, sì, invece, a milizie nazionali a scopo difensivo, anche se l'amico ed estimatore Vilfredo Pareto avendo presente l'uso delle forze armate, quelle italiane incluse, a scopi di repressione sociale interna - non mancò più volte di fargli notare tale rischio e la necessità d'impegnarsi a rimuovere le cause delle ingiustizie e discriminazioni economiche per porre le premesse d'una vera e duratura pace. A ciò s'aggiunga che l'età della “Belle Époque”, comprendente il periodo che va dalla conclusione del conflitto franco-prussiano del 1870-71 all'avvio della conflagrazione del 1914, fu connotata da un notevole sviluppo economico nei principali stati europei, dall'affermarsi dell'ideologia positivista del Progresso, che avrebbe fatto trionfare la collaborazione tra i popoli, ponendo termine alle guerre, e promosso la scienza e la cultura, che avrebbero posto termine ai mali dell'umanità, instaurando il regno della pace e dell'armonia. Tutto ciò sembrava trovare conferma nel fatto che in quel quarantennio non vi furono più guerre tra le potenze europee e nacquero iniziative per favorire la soluzione pacifica delle vertenze internazionali, quali la conferenza internazionale per l'arbitrato dell'Aja, promossa nel 1899 dallo zar Nicola II. In tale prospettiva le guerre coloniali trovavano una facile giustificazione teorica nella considerazione che così le potenze europee, ovviamente reputate all'avanguardia da tutti i punti di vista, esportavano la loro civiltà tra i popoli “selvaggi” d'Africa e Asia, che avrebbero dovuto essergliene grati, anche se già allora vi fu chi, sia pure in forma narrativa, come Joseph Conrad in Cuore di tenebra - di cui una libera trasposizione cinematografica avrebbe compiuto Francis Ford Coppola in Apocalypse now -, avrebbe denunciato l'ipocrisia di tale giustificazione, rivelandone il volto oscuro; d'altronde, lo storico inglese Arnold J. Toynbee negli anni Cinquanta avrebbe fornito un obiettivo e lucido inquadramento storico di tale fenomeno nell'ancor oggi illuminante Il mondo e l'Occidente (Sellerio, Palermo 1992). Guerre come quella russo-nipponica del 1904-05, fuori dal contesto europeo, e quelle balcaniche del 1912-13 tra i paesi slavi meridionali e l'impero ottomano, ai margini del continente, la vera Europa essendo considerata quella occidentale e centrale, non modificarono sostanzialmente il clima internazionale e la convinzione che quelle crisi periferiche non incrinavano l'assetto pacifico ormai instauratosi nei rapporti internazionali, interpretazione che nel complesso era condivisa dallo stesso movimento pacifista internazionale e pure dal Moneta, che da tutto ciò semmai trovavano ulteriore motivo per impegnarsi ancor più nelle iniziative a favore dell'arbitrato internazionale. Le due stesse crisi marocchine tra Francia e Germania del 1905 e 1911 e quella successiva all'annessione anche formale della Bosnia-Erzegovina all'impero asburgico nel 1908, che, con l'alterare gli equilibri in un settore cruciale come quello danubiano-balcanico, comprometteva le relazioni tra regno d'Italia e Duplice Monarchia, furono superate in maniera pacifica, tramite accordi tra tutte le cancellerie interessate, confermando ulteriormente la convinzione generale che fosse giunto il tempo di Giù le armi!, riprendendo il titolo del celebre romanzo dalla von Suttner pubblicato nel 1889 (Beppe Grande, Torino 2013), che l'aveva rivelata all'opinione pubblica europea. D'altro canto, la baronessa nelle corrispondenze con Nobel (Moretti§Vitali, Bergamo 2013), ma ancor più negli articoli pubblicati nelle principali riviste e giornali europei di primo Novecento - ora raccolti, a cura di Annapaola Laldi, in Giù le armi! Fuori la guerra dalla storia (Edizioni Gruppo Abele, Torino 1989) -, riteneva che la terrificante potenza dei nuovi armamenti, resa possibile dai progressi della scienza e della tecnica, avrebbe per ciò stesso reso impossibile la guerra, nessuno Stato Maggiore potendo essere così folle da scatenare un conflitto distruttivo per tutti. Quest'orientamento generale era condiviso in pieno dal Moneta, e ciò spiega la sua posizione rispetto all'impresa libica del 1911-12 voluta da Giolitti, poiché, come il Nobel italiano ebbe a precisare più volte negli interventi giornalistici d'allora e nelle corrispondenze con amici e collaboratori, di cui tratta diffusamente la Canale Cama in Il declino: pace e guerra, capitolo terzo e ultimo del saggio prima citato, l'intervento italiano sulla quarta sponda era giustificato sia dalle necessità difensive della nazione, per evitare che essa finisse in mano alla Francia, che così l'avrebbe soffocata nel Mediterraneo, rendendone insicura e precaria la collocazione geopolitica, e con cui già un trentennio prima, con la sua occupazione della Tunisia, v'erano state tensioni per poco non sfociate in un conflitto aperto e che avevano spinto l'Italia a stipulare la Triplice Alleanza, difensiva, con Germania e Austria-Ungheria, sia con l'esigenza di portare la civiltà alle popolazioni arabe ivi residenti, oppresse dalla dominazione turca, che, invece, dimostrandosi tutt'altro che insofferenti d'essa e incapaci di comprendere i benefici apportati dalla colonizzazione italiana, opposero una tenace e sanguinosa resistenza. Tale atteggiamento, che, a fronte di alcune iniziali perplessità e remore negli ambienti pacifisti europei, trovò, infine - rientrando in uno schema interpretativo del colonialismo allora largamente diffuso e condiviso -, comprensione e accettazione, fu ribadito con ancor maggior forza dal direttore de “La Vita Internazionale” dopo le fatali pistolettate di Sarajevo del 28 giugno 1914. Superata un'iniziale, ma breve, incertezza, Moneta si schierò risolutamente con il fronte interventista, battendosi con foga per l'entrata in guerra dell'Italia a fianco delle potenze dell'Intesa contro i vecchi alleati della Triplice, che, avendo scatenato una guerra offensiva, senza nemmeno consultare l'alleata, non potevano contestarne l'iniziale scelta neutralista. Quando poi il governo di Roma optò per l'intervento, il suo appoggio, incondizionato ed entusiastico, venne spiegato ai sodali dell'Unione Lombarda e ai vertici internazionali del movimento pacifista richiamandosi alla tradizione risorgimentale mazziniana in cui s'era formato, cui era sempre rimasto fedele e alla quale si sarebbero ricollegati pure gli interventisti democratici, come Gaetano Salvemini. A suo avviso, infatti, quella in corso era la IV guerra d'indipendenza, che per un verso doveva completare il processo d'unificazione nazionale con la “redenzione” di Trento e Trieste così come degli altri territori abitati da italiani dell'impero asburgico, mentre per un altro essa andava considerata come aiuto alle nazioni balcaniche aggredite dagli Imperi Centrali e impegnate a completare il loro processo risorgimentale, come già aveva vaticinato il fondatore della Giovine Europa nelle Lettere slave, date alle stampe nel 1857. La partecipazione italiana al conflitto, inoltre, era concepita quale contributo alla crociata delle potenze dell'Intesa contro il militarismo, autoritarismo e imperialismo della Germania, che, tra l'altro, violando gli accordi internazionali, aveva invaso il Belgio, stato neutrale, e per l'affermazione dei valori progressivi, democratici e liberali, di cui esse si facevano banditrici. Tale lettura da parte del Nobel per la Pace - che provocò sgomento tra i vertici internazionali del movimento pacifista, che la deprecarono vivamente, pur senza giungere mai a un'esplicita condanna, anche per rispetto verso lui e la sua pluridecennale milizia, e che provocò una scissione interna all'Unione Lombarda, capeggiata dal torinese Edoardo Giretti - trovò ulteriore conforto con la discesa in campo degli USA nell'aprile 1917 e con i famosi 14 punti del presidente Wilson, che davano un'ulteriore conferma teorica alla scelta del Moneta, anche se per sua fortuna, essendo morto il 10 febbraio 1918, egli non poté assistere allo stravolgimento di quel programma alla Conferenza della pace di Versailles, un'implacabile e lucida denuncia del quale fu attuata già nel 1919 da John Maynard Keynes, allora delegato del Tesoro nella delegazione britannica, da cui si dimise per protesta, nel tuttora imprescindibile Le conseguenze economiche della pace (Adelphi, Milano 2007). Inoltre la rivoluzione russa del febbraio 1917, provocando la caduta dell'autocrazia zarista, dal suo punto di vista semplificava il quadro generale, contrapponendo ancor più nettamente democrazia e dispotismo e vieppiù giustificando la sua scelta, che, tra l'altro, lo fece trovare a fianco di Benito Mussolini, che, manifestando sempre grande deferenza per lui e per la sua condotta in quel frangente, nel “Popolo d'Italia” pubblicò pure un'intervista che gli consentì di precisare ancora meglio le sue posizioni, cui rimase fedele sino alla scomparsa. L'atteggiamento del Moneta rientra, d'altronde, in uno più generale e allora largamente diffuso in Italia e in Europa. Se da un lato lo scrittore austriaco pacifista Stefan Zweig nell'autobiografico Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo (Mondadori, Milano 2015), riconobbe che allo scoppio della guerra in tanti, lui compreso, che bellicista certo non era, furono travolti da un entusiasmo patriottico che, almeno all'inizio, li portò a sostenerla e a giustificarla, cambiando opinione solo allorché assunse proporzioni e dimensioni inimmaginabili, e anche Alfred H. Fried, Nobel per la Pace nel 1911- di cui ora Francesco Pistolato sta curando l'edizione italiana del Diario di guerra -, come Moneta giustificava la guerra difensiva e, a certe condizioni, la guerra in sé come fattore di crescita morale d'un popolo, dall'altro l'Internazionale Socialista, che del pacifismo e della lotta al militarismo e alla corsa agli armamenti aveva fatto una sua bandiera, si comportò ancora peggio, perché al momento della prova - con poche eccezioni, tra cui quella del francese Jean Jaurès, assassinato da un giovane nazionalista il 31 luglio 1914, che in lui vedeva un simbolo del tradimento pacifista - tutti i partiti aderenti votarono i crediti di guerra, unica parziale eccezione essendo quella del PSI con la nota formula del “né aderire né sabotare”, tenendo, però, presente il dissenso del futuro Duce, che ne uscì, schierandosi tra gli interventisti e fondando quel giornale in cui poi avrebbe pubblicato l'intervista di cui sopra e che divenne uno dei portavoce più accreditati dell'opzione bellica. Lo stesso movimento cattolico, nonostante l'autorevole e ufficiale presa di posizione del pontefice Benedetto XV con la lettera ai Capi dei popoli belligeranti dell'1 agosto 1917 sulla “inutile strage”, si schierò compattamente (anche in questo caso con rarissime eccezioni) a favore delle rispettive cause nazionali. Quanto sopra s'è voluto ricordare per intendere come i cosiddetti pentimenti di Ernesto Teodoro Moneta in realtà tali non furono affatto, rientrando in una linea di pensiero a suo modo coerente, anche se per la nostra odierna sensibilità discutibile, e che trovò puntuale riscontro in tante altre personalità e correnti intellettuali e politiche coeve, che non seppero, o non vollero, resistere alla seduzione delle sirene patriottiche, accampando le più diverse ragioni per spiegare tale condotta, sicché sarebbe opportuno, a ideale complemento di questo convegno, dedicarne uno ai “profeti ascoltati”, e sin troppo, ovvero ai cantori nazionalisti degli immancabili gloriosi destini delle rispettive patrie.