1° gennaio 2014 - Momenti di riflessione…

Celebrazione Eucaristica presieduta da S. E. Mons. Arturo Aiello
Basilica di S. Michele Arcangelo in Piano di Sorrento
1° gennaio 2014
Mondo che muore, mondo che nasce. Anno che muore, anno
neonato. Anno neonato 2014: per la Storia si chiamerà così, per
noi si chiama Anno di Grazia.
Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.
Carissimi fratelli e sorelle, l’altare ci calamita in questo momento,
nonostante il sonno, le ore di veglia, perché abbiamo bisogno di
essere rassicurati del fatto che questo tempo non abbia in mano la
falce, che ci venga incontro tranquillo e sereno. E tutto questo per
noi si chiama “benedizione di Dio”. Siamo venuti qui per questo,
perché Dio ci benedica, benedica noi, le nostre famiglie e questo
tempo che ci si para dinnanzi, e che vogliamo guardare come
amico, fratello, non come nemico. Deponiamo le cose vecchie, e le
cose vecchie sono i peccati, le cose nuove si chiamano “grazia”. Per
poterle accogliere, ci liberiamo di ciò che ci appesantisce e non ci fa
correre e volare. Confessiamo, umilmente, i nostri peccati.
Noi
che notte e giorno
Te
per straniera terra
andiamo ricercando,
parole vive
profumate d’infanzia,
estasiati
berremo alla tua fonte:
cielo, stella, fiore,
luce, silenzio, amore...
O voi beati
– ci dirai allora –
voi
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che portate occhi da bambini
per vedere
la luce del mio volto!
Comincio, insieme con voi, questo anno duemilaquattordici
affidando al cuore di una grande donna della Chiesa italiana, una
madre, la madre Canopi, il compito di dirci una parola iniziale,
introduttiva, introitale. E la madre Canopi, anziana, madre di tante
figlie, ha scritto per noi questi versi, che sono scanditi dal “noi …
Te”.
Noi / che notte e giorno / Te / per straniera terra / andiamo ricercando.
Noi, noi che siamo qui, che siamo ancora vivi. Noi che possiamo
ancora perderci. Noi, marito e moglie, amici, fratelli, sorelle,
famiglia, parrocchia, diocesi. Noi. È un “noi” che, in questi giorni di
feste natalizie, senza che lo pronunziassimo, ha preso carne in
mense imbandite, sguardi, regali, auguri. Noi, che siamo ancora
qui, profughi, pellegrini per straniera terra, dice la Canopi. Noi Te
andiamo ricercando. E lo facciamo tutti, anche quelli che non lo
sanno, che in chiesa non vengono, non pregano più, quelli induriti
dal dolore e non aperti. Noi ... Te.
E nel “noi”, ovviamente, c’è l’io di ciascuno di noi, con il suo nome e
la sua identità. Il nome, abbiamo ascoltato, viene imposto a Gesù
oggi, otto giorni dopo la sua nascita. È il nome che aveva scelto
l’angelo, prima che Egli fosse concepito. C’è un io nel mistero di Dio
presente dall’eternità. Io, tu, e poi c’è il “noi”. Sono due io che si
danno la mano, come bambini in gita scolastica, come amanti, come
compagni di scuola, come Cappuccetto Rosso nel bosco. Io e te: noi.
Ci stringiamo la mano, più forte, in questa prima mattina, in questa
luce mattinale del 2014, sentendo che ciascuno, da solo, potrebbe
perdersi e non avere futuro. Se siamo qui, a dieci, venti, trenta,
quaranta, cinquanta, sessanta, ottant’anni, è perché qualcuno si è
preso cura di noi. E allora il “noi” è l’abbraccio della vita che è
sempre fatto di due persone. Due o più, dice Gesù, per fare Chiesa.
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“Noi /che notte e giorno”, cioè senza fine, senza pausa, senza trovare
ristoro, senza fermarci, noi che, sempre, Te, per straniera terra
andiamo ricercando. E questa terra è straniera finché non le diamo un
nome, non piantiamo un albero, non generiamo un figlio, non la
incorniciamo in una finestra, in uno sguardo. Questa terra è
straniera e aspetta di essere adottata e noi siamo uomini per
adottare la terra. Dio stesso l’ha adottata. E non solo all’atto della
creazione, in una maniera impersonale, potremmo dire, anche se le
parole sembrano sempre blasfeme, ma poi in una maniera amante.
Nel Natale che stiamo celebrando, Dio riabbraccia la terra non più
come uno straniero, non più come Dio, ma come uomo, un uomo
qualsiasi, un figlio di questa terra, un figlio delle stelle che guarda
in alto, assaggia il pane, beve dopo una lunga corsa ad una fontana
d’acqua fresca. Un Dio che s’addormenta e si sveglia, sogna, sente il
profumo della primavera prima che venga, del mare prima che si
veda. Dio-con-noi è questo. È il Dio che, creatore della terra, adesso
si fa terra Egli stesso e la rende meno straniera.
Il nostro compito, carissimi fratelli e sorelle, è di rendere questa
terra un giardino, pur sapendo che un giorno sarà demolito, ma,
mentre vi abitiamo e ammettiamo altri a viverci, e sono i nostri figli
o le persone a cui diamo una direzione di vita, abbiamo il compito,
il sacrosanto dovere di rendere la terra meno straniera, quindi bella,
accogliente, casa, tavola, abbraccio.
Noi / che notte e giorno / Te / per straniera terra / andiamo ricercando /
parole vive / profumate d’infanzia / estasiati / berremo alla tua fonte!
Ecco, siamo qui per questo, stamattina, assonnati certo, ma
desiderosi di bere alla fonte di Dio parole nuove. Antiche certo, ma
nuove, perché riedite. Come sono belle le parole sulla bocca del
figlio che impara a parlare! Queste sono parole vive e profumate
d’infanzia.
I genitori, anche se fossero autori di romanzi, come esistono (vi
invito a leggere il romanzo, che ha scritto Sisto Merolla: Torna a
Sorrento, come un desiderio da parte sua non tanto di tornare nella
sua terra - da ingegnere lo prendevo in giro, quand’era
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giovanissimo - ma, come leggerete - mi faccio sponsor dei nostri
autori - per ritrovare le sue radici e un amico che sembra perduto)
non le pronuncerebbero.
Ecco, noi riceviamo da Dio parole nuove che sono come le parole
che balbetta il figlio che incespica nel parlare, che non conosce
ancora tutto il vocabolario dei genitori, magari insegnanti di
Lettere, ma quelle parole, balbettate, come le poesie di Natale sulla
bocca dei bambini, attirano l’attenzione, e i genitori si fanno angeli
sulla bocca del figlio perché non perda il verso.
Siamo qui per berle queste parole, alla bocca e alla fonte di Dio: Egli
ci dà parole nuove. Sono le parole di sempre, ma che aspettano di
essere rinverdite, rese di nuovo vergini dal tuo amore, dalla tua
fede, dalla tua umanità, dal tuo impegno, dal tuo essere vivo in
questo mattino del primo di gennaio, che ha dinnanzi a sé tanti
giorni, tante possibilità, magari anche tante disgrazie, che è meglio
che non conosciamo. E quali sono queste parole? Sono le parole del
mondo. Dice la Canopi: cielo, stella, fiore, luce, silenzio, amore…
La Canopi, che alcuni di voi hanno incontrato anni fa, vive nel
monastero-isola sul lago d’Orta, sull’isola di San Giulio, e queste
parole le avrà prese dalla foschia sul lago, dalle lunghe veglie, dal
confronto con la Parola. Cielo, stella, luce, fiore, silenzio, amore…
Adesso a dirle così sembrano banali, ma quando le beviamo,
assetati di arsure e di incomunicabilità, alla fonte di Dio, allora
diciamo: aaah…, come dopo una sorsata d’acqua fresca alla fine
d’un deserto.
Nel Vangelo che abbiamo ascoltato e che Emmanuel ci ha
proclamato Maria riceve delle parole e non le capisce, come noi non
capiamo tante cose. Sono le parole che vengono dai pastori, che
parlano di un bambino, della sua regalità, e intanto lui continua a
fare la cacca; della sua divinità, e intanto ancora non parla. Queste
parole sarebbero andate perdute se Maria non le avesse conservate.
Il nostro compito è quello di conservare parole, parole che altri
butterebbero nel sacchetto dell’immondizia o nella raccolta
differenziata.
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Che significa amore? Ce lo chiediamo e i nostri adolescenti neanche
lo sanno più. Cosa significa cielo, stella, silenzio? Conservale queste
parole! Sono le parole dei nostri defunti, le parole di quelli che
hanno vissuto prima di noi e sono morti come falliti, ma adesso ci
accorgiamo, alla luce della Parola, che la loro vita è stata bella.
Com’è strano, vero? Di noi non capiremo mai nulla fino a che un
altro non venga a farci da specchio. Per Maria, per Giuseppe, e per
gli altri presenti a questa nascita del tutto normale, a fare da
specchio sono i pastori, che arrivano in tanti, gioiosi, colmi di
meraviglia, e dicono, dicono del bambino, e dunque di Maria, di
Giuseppe.
Cari fratelli e sorelle, la novità cristiana serve a questo, a dire e a far
dire ad altri ciò che siamo, perché non lo sappiamo; vediamo bene
lontano, ma non sappiamo vedere bene vicino, tanto più in quel
vicino vicino che è il mio io.
Chi sei tu, Tonino? Chi sono io? Chi sei tu, Marco? Lo chiediamo
agli altri. E gli altri ci rimandano, magari, immagini, progetti,
proiezioni, bellezze, che non sappiamo vedere. Noi vorremmo
suicidarci, e invece un altro ci dice che siamo fortunati, re, regine,
profeti… E allora questa parola che non capisci, che l’altro ti
rimanda, sia egli il padre, la madre, il maestro, conservala,
confrontala con la Parola.
Maria prende tutto, perché nulla vada perduto (lo farà anche Gesù
per la moltiplicazione dei pani) e lo conserva nel suo cuore, come
una madia, il cuore di Maria, dove si conservano le parole
sbocconcellate, i pani che sarebbero andati perduti, e che sono gli
eventi dell’infanzia, i vangeli dell’infanzia, che ci giungono
attraverso il cuore di Maria. Ma lei non li ha visti quei vangeli, li
hanno visti i pastori. Eppure lei, da collezionista, cultrice delle
parole, ha messo tutto nel cuore e quelle parole hanno poi
cominciato a fermentare, come il pane, il seme sotto la neve. Sono
diventate vangelo, il vangelo che leggiamo, che i diaconi
proclamano, che ci dirige, che questa mattina ci dice: “Coraggio,
impara a parlare. Bevi alla fonte fresca le parole profumate
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d’infanzia, le parole vive che Dio ti rimette nel cuore. E affronta
quest’anno con poche parole, con un piccolo abbecedario, come
Pinocchio, con poche parole fondamentali”.
Una vita, alla fine, si riassume in poche parole. Gli epitaffi sono
sempre così stringati, ma le parole di cui sono composti sono
pesate, perché sono state sofferte, le abbiamo dette e ridette allo
specchio, prima di dirle alla ragazza, al ragazzo di cui c’eravamo
innamorati, prima di dirle agli amici, su un palcoscenico, prima di
dirle alla moglie, ai figli, ai nipoti… Le parole! Come sono
importanti le parole! Belle quanto più ammantate di silenzio, belle
quanto più tirate fuori dall’ingorgo di un’iperproduzione sui mezzi
che i nostri figli, già da bambini, sanno utilizzare così bene, per
questo non imparano a parlare. Le parole.
Alla fine, di me ricorderete una parola. Di don Pasquale, di don
Mariano ricorderete una parola. Di mio padre, di mia madre
ricordo una parola. Dei parenti defunti mi raggiunge una parola.
Non è poco?, starete pensando. No, è tanto, perché quella parola è
una parola sedimentata, incarnata. Una parola detta, ridetta,
trovata, ritrovata. Cantata, sofferta, accompagnata dal pianto,
bagnata non in Arno, ma nelle sorgenti sempre abbondanti delle
lacrime.
Questa piccola poesia della madre Canopi si conclude così: alla fine
di questa ricerca dove noi, Te, per straniera terra andiamo ricercando,
dopo che abbiamo bevuto alla tua fonte parole profumate
d’infanzia, parole vive, allora Dio ci dirà, non adesso, un giorno: O
voi beati, beati voi! Bravo Gaetano, bravo Salvatore! O voi beati, che
portate occhi da bambini per vedere la luce del mio volto. Quasi a dire che
si diventa grandi, si studia tanto, si leggono tanti romanzi, si fanno
tanti esami all’Università, per imparare l’arte di quando eravamo
bambini. Allora era un’arte naturale, spontanea, poi diventa un’arte
appresa attraverso tediosi e dolorosi esercizi di pronunzia. Beati
voi!
Questa poesia si impernia su noi, Te, voi. Dio dice: O voi beati voi che
portate occhi da bambini per vedere la luce del mio volto. Poche parole,
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ma essenziali, belle, perché le parole sono formative, formano la
realtà. A volte la deformano, ma, spesso, quando sono vergini,
confrontate con la Parola, pronunziate in giorni, in settimane, in
mesi, in stagioni, in anni, diventano parole che, come la goccia,
traforano la pietra.
Lo sapete che le parole sono performative di una famiglia, di
un’educazione, di una Chiesa, di una coppia?, cioè danno forma.
Siamo creativi nel parlare, nell’ascoltare, nello scrivere e nel
guardare le parole, perché le parole bisogna guardarle. Nella
misura in cui te ne innamori, esse trasformano la realtà, diventano
fiabe, racconti, grandi racconti che tolgono ansia al nostro vivere e
diventano significati, legami, ali, maestri.
Sta per essere pronunciata una parola nella vita di Emmanuel e di
Paolo (che stanno qui alla mia destra e alla mia sinistra a far sentire
ancora di più la mia piccolezza in confronto alla loro statura e alla
loro giovinezza) una parola, il 28 aprile, che li cambierà. Al tempo
stesso a loro, Paolo ed Emmanuel, preti (don Pasquale vi ha
annunciato la notte di Natale questi preti ancora in grembo, da
nascere, in gestazione, preti-padri) tremeranno le mani e le labbra,
come tremano a noi, a don Pasquale, a Mariano, come tremeranno a
te, Salvatore, e agli altri, per queste parole che cambiano: “Questo è
il mio corpo, questo è il mio sangue”. Lo diremo tra poco di nuovo,
nuovamente e anticamente, parole che riguardano il futuro, ma che
vengono dal passato. E voi, davanti a una botte di vino, come
racconta Santucci in una sua fiaba, trasformerete una cantina in
sangue di Cristo di cui ubriacarsi.
Le parole. Ci sono anche le parole della liturgia, la liturgia
dell’amore, l’amore alla liturgia, a cui il gruppo ministranti è stato
educato da più di venticinque anni, parole che, pronunziate, non
tornano più, come la colomba che Noè mandò fuori dall’Arca e che
non tornò più, non come annuncio di sventura, ma come fine di un
castigo. Non tornano più, perché entrano nel pane, nel vino, nelle
persone.
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Quante parole avrete ricevuto anche da me, di cui ho perso
memoria, perché gli anziani vanno sempre incontro all’Alzheimer,
più o meno evidente, e che invece voi conservate. “Un giorno mi
hai detto… una volta in una confessione…”. “No, non lo
ricordo…”, ma era una parola, e quella parola ti è entrata dentro e
non è più tornata, a dire che si è incarnata, ha messo fuoco.
Vedete, questa Eucaristia è un colore - per quelli fra voi più attenti,
che sanno che c’è una maniacalità anche nella liturgia - ed è il
corallo. Ce ne sono tanti di coralli. Quando siamo arrivati
sull’altare, l’incensiere tardava ad arrivare, perché con un soffio più
potente di Pepi, probabilmente, si è acceso tutto, ed Emmanuel ha
commentato sottovoce: Eccesso d’ardore, un fuoco. Cos’è il corallo?
È un fuoco a mare. Un fuoco nei fondali, rosso.
Vi auguro un anno così, pieno di fuoco, di parole in fuoco. Anche
nel buio di un fondale, di una crisi, di una morte, di una malattia, di
un cancro; i fuochi maturano laddove non ci aspetteremo fuoco
perché c’è acqua. E acqua e fuoco bisticciano. Non così nei fondali,
dove cresce il corallo rosso fuoco, nel mare. Auguro ad Emmanuel e
a Paolo di essere così: ardenti. Tanti anni fa a un Ritiro ministranti,
ma nessuno di voi c’era, commentammo: Fac ut ardeat, fa’ che arda!
In qualsiasi situazione si può ardere, in qualsiasi crisi matrimoniale,
in qualsiasi deserto si può trovare una fonte. In qualsiasi silenzio
può esserci una parola, puoi dirla questa parola. Questa parola sei
tu, sei tu a confronto con la Parola, sei tu che pronunci una parola e
ingravidi una donna o un uomo, perché con le parole si
ingravidano anche i maschi. Potenza della parola!
Auguri!
Non abbiate paura di quest’anno! Affrontiamolo con coraggio, con
grinta, col fuoco di cui il corallo è sacramento, anche negli orizzonti
più difficoltosi.
Noi
che notte e giorno
Te
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per straniera terra
andiamo ricercando,
parole vive
profumate d’infanzia,
estasiati
berremo alla tua fonte:
cielo, stella, fiore,
luce, silenzio, amore...
O voi beati
– ci dirai allora –
voi
che portate occhi da bambini
per vedere
la luce del mio volto!
Alcuni di voi stanno per partire, com’è tradizione, per Avezzano e
riceveranno coralli, parole di fuoco, che li faranno tornare senza
parola, per diventare parola. Altri si sposeranno, avranno un figlio,
i nostri due seminaristi saranno preti, Salvatore diacono. In quest’
anno si pianteranno alberi…
Auguri!
Abbiamo poco tempo per dire qualche parola di fuoco che rimanga
oltre noi, che aleggi oltre la nostra tomba, che raggiunga il futuro e
ci ottenga la beatitudine. Beati voi che vedete il mio volto quando ci
sono tante prove della mia inesistenza.
E tu Maria, cui è dedicato questo giorno, Madre di Dio, Tu che hai
saputo conservare le parole che altrimenti non ci sarebbero giunte,
Tu, Madre dell’ascolto e della Parola, prega per noi, adesso e
nell’ora della nostra morte. Amen.
Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto
dall’autore.
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