Chieti-Pescara - Facoltà di Architettura Appunti

Universit€ degli Studi “G. d’Annunzio” - Chieti-Pescara - Facolt€ di Architettura
Appunti delle lezioni di “Teoria e Storia del Restauro”, prof. Claudio Varagnoli
Restauro e dibattito architettonico in Italia alla met€ dell’Ottocento: la Lombardia;
il Regno di Napoli. Polemiche e restauri a Venezia.
Nella seconda met€ dell’Ottocento, si diffonde anche in Italia l’attenzione verso il restauro stilistico
anche se rispetto alla Francia e all’Inghilterra la concezione italiana di ‘stile’ ƒ meno rigorosa, per
cui spesso i restauri di edifici importanti non mirano tanto al raggiungimento di un’unit€ stilistica
complessiva, quanto piuttosto ad un superficiale tentativo di uniformare le singole parti.
Questo si spiega soprattutto perch„ in Italia, a differenza delle altre nazioni dell’Europa centrosettentrionale, dove la continuit€ con il Medioevo e con l’architettura gotica ƒ forte, ƒ molto
sentita la tradizione classica; l’attenzione per l’architetura neogotica si diffonde, seppure con
grande ritardo, maggiormente nel nord del paese e soprattutto in Piemonte ad opera dei Savoia.
Basti pensare che spesso sono scenografi e non progettisti a recuperare il linguaggio medievale,
come Pelagio Pelagi che, dal 1836 al 1858, ƒ nominato da re Carlo Alberto, architetto di corte del
governo sabaudo, per cui si impegna in una vasta attivit€ di decoratore dei palazzi reali. Realizza
anche numerosi apparati effimeri per teatri ed ƒ il primo a progettare ville neogotiche, sempre per i
Savoia.
Tra gli architetti si ricordano le significative esperienze di Carlo Maciachini in Lombardia, che
restaura le chiese di S. Simpliciano (1870) e S. Marco (1871) a Milano (fig. 1), ricostruendone le
facciate con ampia reinvenzione delle parti mancanti, di cornici e pinnacoli, raggiungendo cos…
un’unit€ stilistica solo a livello decorativo.
A Napoli operano gli architetti Federico
Travaglini ed Ettore Alvino. A quest’ultimo in
particolare si deve il progetto per la nuova
facciata del duomo di Napoli ( f i g . 2 ) - in
sostituzione dell’esistente, risalente al XVIII
secolo – e il progetto per la nuova facciata
del duomo di Amalfi (fig.3), parzialmente
crollata. Il nuovo disegno - totalmente frutto
della fantasia dei due - prevede il totale ridisegno del portico d’accesso, inizialmente costituito da
tre arcate uguali, con una soluzione in cui l’arco centrale ƒ rialzato mediante l’inserimento di
una coppia di colonne sopra quelle esitenti. Analogamente, nella parte superiore il grande
finestrone rettangolare, realizzato nel Settecento, viene sostituito con un doppio ordine di loggette.
A Venezia ƒ attivo Pietro Selvatico, vero paladino del neogotico italiano, che oltre ad essere
storico dell’architettura e professore all'Accademia di Belle Arti di Venezia, sostiene l’importanza di
tornare al medioevo per rinnovare la cultura architettonica italiana. Nel 1866, Venezia viene
annessa al regno d’Italia dopo aver vissuto un periodo di decadenza. Da questo momento, la citt€
inizia ad essere vista in chiave decadente, in cui ƒ molto forte l’interpretazione ruskiniana dei valori
architettonici della citt€.
Importanti restauri interessano in quegli anni la Ca’ d’Oro, su progetto dell'architetto Giovan
Battista Meduna, il quale modifica profondamente sia il fronte principale che gli interni, e il Palazzo
Ducale, anch’esso modificato con operazioni di ‘pulizia’ e di unificazione dei dettagli decorativi.
Ancor pi‡ emblematico ƒ
il caso del
fondaco dei Turchi (XII secolo) (fig. 4), in
passato utilizzato come magazzino e
caratterizzato da archi a sesto rialzato tipici
dell’architettura bizantina, restaurato da
Federico Berchet. La fabbrica, con pianta
ad “U” affacciata sul Canal Grande, ƒ
interamente realizzata
in
laterizi,
originariamente rivestiti da lastre di
marmo con motivi decorativi come
medaglioni e sculture. Con il passare del
tempo, tuttavia, l’atmosfera salmastra, i frequenti allagamenti dovuti al fenomeno dell’acqua alta
e modifiche strutturali avevano finito per creare seri problemi all’edificio: parte delle lastre di
marmo erano cadute, alcune logge erano state occluse ed altre costruzioni si erano sovrapposte
alla fabbrica. Il restauro, realizzato tra gli anni Cinquanta e Sessanta, punta a conferire all’edificio
un aspetto unitario chiaramente medioevale e, per perseguire tale intento, Berchet porta avanti
un’indagine anche sugli atti notarili che nel corso degli anni avevano interessato l’edificio stesso.
Dopo un accurato studio dei marmi di rivestimento rimasti e delle decorazioni, Berchet giunge ad
un restauro che porta all’eliminazione di tutte le superfetazioni, al rivestimento completo delle
facciate con nuove lastre marmoree, alla regolarizzazione di tutte le aperture e alla ricostruzione di
due torrette angolari (fig. 5).
Inoltre, analizzando la veduta di Venezia di Jacopo de Barbari (1500), Berchet ne trae spunto per la
realizzazione di una serie di elementi decorativi che offrono della fabbrica una visione
orientaleggiante, alla quale contribuiscono anche i doccioni, le terminazioni a merli triangolari e le
sfere poste alla sommit€ di ciascun merlo, tutti dettagli completamente inventati. In sintesi,
Berchet giunge, utilizzando un documento autentico in maniera del tutto arbitraria, ad una
riprogettazione ex-novo dell’edificio, che finisce per essere una costruzione ottocentesca.
L’opinione pubblica veneziana critica duramente questo restauro, come anche si oppone alla
volont€ di rinnovare la basilica di San Marco, il cui restauro viene bloccato. Nel dibattito si
manifestano posizioni contrarie al restauro (Alvise Zorzi), sulla base del rispetto dei materiali
originari e dei segni della loro decadenza, cioƒ della loro patina; ƒ chiara l’influenza del pensiero di
Ruskin e la stessa S.P.A.B. (Society for Protection of Ancient Buildings) interviene pi‡ volte nel
dibattito a partire dal 1877.
Un aspetto che emerge evidente, non solo nel restauro del fondaco dei Turchi, ma in generale nei
restauri italiani della fine dell’Ottocento, ƒ il tentativo di giustificare operazioni di ricostruzione
richiamandosi ad una fonte attendibile scientificamente: il documento. Sia esso una fonte grafica o
scritta, il documento serve sempre a chiarire l’aspetto di un edificio in un certo periodo. In qualche
caso, l’esigenza del documento ƒ talmente forte che anche quando non esiste, si arriva ad inventarlo
pur di provare l’esattezza delle scelte compiute. E’ il caso del restauro della chiesa di S. Croce a
Firenze (fig. 6), di cui era rimasta incompiuta la facciata progettata dal Cronaca. A partire degli anni
Quaranta dell’Ottocento la facciata viene realizzata dall’architetto Nicola Matas con forti richiami
ad altre importanti opere del medioevo toscano, e soprattutto vantando il ritrovamento dei disegni di
rilievo del Cronaca, successivamente non rintracciati e, dunque, presumibilmente mai esistiti. Su
temi analoghi (ripresa del linguaggio originario, compatibilit€ tipologica con l’edificio preesistente) si
svolger€ il lungo dibattito sul completamento della facciata del duomo di Firenze, dove si
manifesteranno grandi incertezze nelle scelte stilistiche di fondo.
Camillo Boito: i principi teorici, le realizzazioni e l’influenza sul dibattito nazionale.
In questo panorama si inserisce una figura fondamentale del restauro italiano: Camillo Boito,
personalit€ poliedrica, che nasce a Roma nel 1836 da famiglia di origine veneziana. Camillo studia
prima a Padova e poi all'Accademia di Venezia, dove ƒ allievo di Piero Selvatico e dove
successivamente ƒ nominato professore aggiunto di architettura. Successivamente, a partire
dal 1860, insegna in due importanti istituzioni scolastiche milanesi, l'Accademia di Belle Arti di
Brera e, per ben 43 anni, al Politecnico di Milano. Partecipa al movimento letterario della
Scapigliatura e scrive anche libri di novelle.
Forte sostenitore dell’architettura neomedievale, durante la sua lunga vita, pubblica una grande
quantit€ di articoli e saggi sulla storia dell’architettura che contribuiscono a fornire, insieme ad
un’azione continua svolta nelle istituzioni accademiche e nei concorsi di architettura,
nonch„ mediante costanti rapporti con il Ministero della Pubblica Istruzione, l’indirizzo principale
all’architettura italiana dell’Ottocento.
Boito si fa sostenitore di una nuova
architettura realizzata con materiali
quali pietra e soprattutto mattone,
dichiarati all’esterno senza l’uso
di intonaco e fatta di volumi
semplici; concetti che trovano
applicazione per esempio nella
realizzazione del cimitero e
nell’ospedale di Gallarate, in
progetti di scuole elementari (fig.
7) e, soprattutto, nell'intervento
nell'area medievale del Palazzo
della Ragione nella stessa citt€
veneta, dove realizza il palazzo delle Debite e l’edificio d’ingresso al Museo Civico.
L’intento di Boito ƒ di offrire all’architettura un carattere peculiare e marcato nell’Italia da poco
unita. Dopo il 1861, ci si pone infatti, il duplice problema di uno stile unitario da adottare
per l’intera nazione, e della notevole differenza di tradizione architettonica e di indirizzi nella
tutela del patrimonio esistente, che pure esisteva fra i vari stati pre-unitari. Boito, sostenendo in
larga parte la posizione di Selvatico, raccomanda l’adozione del linguaggio romanico, in quanto
stile che rappresenta il riflesso di una verit€ etica, spirituale; ƒ lo stile dei comuni italiani
che si sono ribellati, da una parte alla Chiesa e dall’altra all’impero tedesco, liberandosi dal loro
giogo. In un’Italia unita, nata rendendosi libera dall’impero austro-ungarico e dal papato, l’unico
punto di riferimento del passato cui si possa guardare, dunque gli appare il medioevo romanico,
inteso come modello da seguire, ma non da imitare o riprodurre.
Nell’ambito del restauro, a Boito viene attribuita una posizione “intermedia” tra quelle di Ruskin e
Viollet-le-Duc, in quanto rifiuta di accettare la fine di monumento senza intervenire, ma non ne
accetta neppure ricostruzioni arbitrarie e false, invitando gli architetti contemporanei a
completare gli edifici che necessitano di cure, ma anche a conservare la loro autenticit€, in
maniera tale da non ingannare chi osserva. La soluzione proposta da Boito richiama la
filologia, disciplina che, mediante l’analisi linguistica e la critica testuale, mira alla ricostruzione e
alla corretta interpretazione di testi o documenti scritti. Boito osserva che ƒ giusto restaurare un
edificio antico utilizzando elementi nuovi in modo da renderne chiara la lettura complessiva, ma i
nuovi elementi sono da inserire tra segni diacritici, quei segni che in scrittura servono a
distinguere una parola dal contesto nel quale ƒ inserita (parentesi, virgolette, corsivo). Egli
suggerisce cioƒ di utilizzare segni diacritici anche nel restauro, adottando per questa disciplina un
metodo filologico attraverso il riferimento a due principi fondamentali:
- distinguibilit€ dell’intervento (ossia, l’intervento di ricomposizione dell’unit€ stilistica
deve avvenire in maniera che le parti nuove siano distinguibili da quelle antiche);
- notoriet€ dell’intervento (ossia, quando si esegue il restauro, esso va reso
noto chiaramente, in modo da non ingannare l’osservatore del manufatto oggetto
d’intervento).
Dei due, sicuramente il principio pi‡ importante ƒ quello della distinguibilit€: il restauro ƒ legittimo
poich„ i monumenti non possono essere lasciati in rovina, ma il loro completamento va eseguito
evidenziando la modernit€ dello stesso.
Boito sostiene queste idee per la prima volta nel 1879, per ripresentarle in versione definitiva nel
Congresso Nazionale degli Ingegneri ed Architetti del 1883, durante il quale presenta un ordine
del giorno articolato in otto punti relativi al restauro. I principi esposti rappresentano una sorta di
prima Carta del restauro italiano e forniscono un indirizzo preciso al restauro italiano di fine
Ottocento e di gran parte del Novecento, riferendosi chiaramente al restauro dell’arco di Tito,
eseguito da Valadier all’inizio dell’Ottocento.
Tra i principi, vi ƒ quello legato alla possibilit€ di reintegrare le parti mancanti di un manufatto
differenziando perŠ i materiali (differenza di materiali da fabbrica) e lo stile delle parti aggiunte
(differenza di stile fra il nuovo e il vecchio), evidenziando il restauro anche con date da apporre
sulle nuove parti (incisione della data del restauro o di un segno convenzionale). Un’altra
modalit€ di intervento ƒ quella di sopprimere gli ornati e di semplificare le sagome originarie
(soppressione di sagome e di ornati), facendo attenzione a non creare delle forti discontinuit€
nell’edificio, in modo cioƒ da potersi rendere conto solo da vicino della differenza di materiale, al
contempo ricomponendo da lontano l’immagine complessiva del monumento. Un altro punto
riguarda il concetto della notoriet€ (epigrafe descrittiva sul monumento): se nel corso del
restauro si rende necessaria l’asportazione di alcune parti autentiche del monumento per evitarne
il progressivo deterioramento, queste devono essere comunque conservate nei pressi della
fabbrica per far capire che appartengono alla sua storia (mostra dei vecchi pezzi rimossi, aperta
accanto al monumento). E’ inoltre necessario rendere noto l’intervento (notoriet€) attraverso
pubblicazioni che mostrino i disegni di rilievo e di restauro del monumento: emerge, in questa
circostanza, la finalit€ didattica dell’intervento, accentuata anche dalla proposta di presentare
delle riproduzioni fotografiche che indichino lo stato dell’edificio prima e dopo il suo restauro, cos…
da non ingannare l’osservatore (descrizione e fotografie dei diversi periodi del lavoro, oppure
descrizione pubblicata per le stampe).
Gli otto punti vengono presentati ad una platea di professionisti con formazioni diverse fra loro:
da un lato, gli ingegneri, come quelli del Genio Civile demandati al restauro degli edifici antichi ma
abituati a progettare strutture quali ponti, strade o acquedotti, privi quindi della giusta
preparazione per intervenire sui monumenti; dall’altro, gli architetti, abili nel disegno e nella
decorazione ma con scarsa conoscenza dei problemi statici degli edifici. In Italia, in questo periodo
infatti, esistono so lo i politecnici, presso i quali si consegue la laurea in ingegneria; i corsi di
architettura si seguono invece presso le Accademie di Belle Arti, che conferiscono il titolo di
architetto. Boito intuisce che, per proporre un valido restauro, sarebbe necessario formare una
nuova figura professionale che riunisca in s„ le competenze scientifiche degli ingegneri e la
sensibilit€ artistica degli architetti delle accademie. A questa figura andrebbe affidato il vasto
patrimonio artistico dell’Italia unita. Tuttavia, Boito non porter€ a compimento il progetto di
fondazione di una nuova facolt€ di architettura, che sar€ raccolto da Giovannoni.
L’intera cultura italiana del restauro, si puŠ dire quasi fino ad oggi, si basa sui principi fondamentali
enunciati da Boito, anche se nell’immediato gli otto punti proposti non vengono particolarmente
seguiti n„ da lui n„ dai suoi allievi, i quali continueranno ad operare sostanzialmente nella
direzione del restauro stilistico.
Il volume Questioni pratiche di Belle Arti, che Boito pubblica nel 1893, raccoglie numerosi scritti
sull’arte e sull’architettura, offrendo indicazioni per il concreto operare sugli edifici antichi. Sono
indicati, secondo il tipo di monumento, tre diversi tipi di restauro: il primo ƒ il restauro
archeologico, rivolto ad edifici che non hanno pi‡ una funzione concreta e per i quali ƒ indicata la
sola conservazione dei ruderi. Per questi edifici sar€ consentita al massimo l’anast…losi, ossia il
rimontaggio dei pezzi, basato su conoscenze concrete e con integrazioni minime.
Il secondo ƒ il restauro pittorico, atto a mantenere il carattere pittoresco degli edifici (come ad
esempio il loro aspetto decadente, la loro ‘patina’). Questo tipo di restauro ƒ indicato per gli edifici
medievali, per i quali sono possibili anche reintegrazioni e aggiunte, purch„ di essi non si alteri il
valore pittoresco.
Il terzo ƒ il restauro architettonico, adatto agli edifici costruiti dal Rinascimento in poi, che Boito
sente pi‡ vicini a s„. Tali edifici, che conservano quasi sempre una funzione concreta, sono privi
della ‘patina’ caratteristica delle fabbriche pi‡ antiche e non presentano vegetazione che li riveste.
Per loro sar€ legittimo il completamento seguendo lo stile originario.
Emblematico a Milano il restauro che Boito realizza della Porta Ticinese, compresa nel giro di
mura della citt€ antica. Seguendo la prassi ottocentesca di demolire le antiche mura cittadine per
isolare la porta di accesso, Boito elimina le costruzioni che vi si erano sovrapposte nel tempo e
oltre al varco centrale, crea due fornici laterali, forse mai esistiti. Vengono anche inserite due torri
in mattoni, una conclusa e un’altra lasciata incompleta. L’intervento comprende anche il ripristino
di finestre a sesto acuto e la ripresa della cortina muraria in pi‡ punti (fig. 8).
Nei suoi interventi, Boito si muove sempre secondo una linea stilistica, come in Palazzo Cavalli
Franchetti a Venezia, ma ƒ anche vero che la sua parabola professionale e scientifica copre un
arco assai lungo in cui le formulazioni teoriche sono in anticipo sulla realt€ dei tempi.
Infatti, pi‡ che i punti di Boito, i restauri in Italia seguivano i principi operativi sanciti dal capo
della Direzione Generale di Antichit€ e Belle Arti, l’archeologo Giuseppe Fiorelli, che in una
circolare del 1882 – la vera “carta” italiana del restauro di quegli anni - fissa alcuni principi
operativi per i progettisti, obbligandoli a fondare il progetto di restauro su uno studio dell’edificio,
con rilievi e saggi per quanto riguarda gli aspetti statici. La circolare di Fiorelli fu all’origine di
intense campagne di restauro dell’Italia unita, anche nel Sud, spingendo indirettamente al
ritorno alla fase originaria, ma come alternativa agli arbitri o alle demolizioni ingiustificate.