Mozart 05 - Conservatorio Paganini

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Roberto Iovino
Caro Amadeus
5.
Il Teatro
Nel Figaro
il dialogo si fa pura musica e
la musica stessa diventa dialogo
Richard Wagner
La fase giovanile
Dopo l’opera in latino Apollo et Hyacinthus, composta per l’Università a 11 anni, Mozart ricevette tre commissioni che preannunciarono le forme in cui avrebbe operato in tutta la sua
carriera: l'opera buffa italiana La finta semplice (1768), il Singspiel Bastien und Bastienne
(1767/68) e l'opera seria italiana Mitridate (1770). Va notato che mentre Gluck nella parte
conclusiva della sua vita, si trasferì a Parigi e scrisse opere francesi, rilanciando la forma della
tragédie-lyrique (e anticipando una prassi che sarebbe stata in seguito di molti compositori
europei “costretti” a rendere omaggio al teatro francese per acquisire fama internazionale: si
pensi a Cherubini, Rossini, Donizetti, Verdi ma anche ai tentativi di Wagner) Mozart non si
avvicinò mai né alla tragédie-lyrique né all’opéra-comique.
Alle prime esperienze giovanili seguirono una serie di opere serie nelle quali Mozart consolidò la propria scrittura, gradualmente distaccandosi dalle consuetudini. Se ad esempio in Mitridate (Milano, 1770) i recitativi erano ancora prevalentemente secchi, non esisteva il coro e i
concertati erano ridotti a due, in Lucio Silla (Milano, 1772) aumentarono i recitativi accompagnati e i concertati e comparve anche il coro. In più in orchestra acquistarono un maggior
peso i fiati.
Dopo La finta giardiniera (1775), Il re pastore (1775) e Zaide (1779), nel 1781 (l’anno, come
si ricorderà, della liberazione dalla forte di Salisburgo e dell’approdo alla libera professione.)
arrivò la prima, autentica opera matura di Mozart, Idomeneo re di Creta, punto di partenza
dell’ultimo, incredibile decennio creativo dell’artista.
Idomeneo
Commissionata dalla Corte di Monaco (dove andò in scena il 29 gennaio 1781), Idomeneo si
basa su un libretto scritto da Giambattista Varesco e ispirato a una precedente tragédie, Idomenée di Antoine Danchet, musicata nel 1712 da André Campra. La struttura è tipica dell'opera seria del tempo, anche se l'argomento esula, almeno in parte, dalla tradizione metastasiana, incorporando elementi della mitologia greca (il ritorno a casa, il naufragio evitato con il
voto, quest'ultimo infranto con il conseguente castigo divino) con elementi di tipo fiabesco e
addirittura biblico (il sacrificio del primo essere vivente incontrato: si pensi a Jephte).
La trama
Atto I - Dopo la caduta di Troia, Idomeneo, re di Creta, torna in patria dal figlio Idamante, ma la sua
flotta in prossimità dell'isola è colta dalla tempesta (Pietà! Numi, pietà!). Fa dunque voto a Nettuno di
sacrificargli il primo uomo incontrato appena approdato. La figlia di Agamennone, Elettra, dopo l'uccisione della madre Clitennestra, si è rifugiata a Creta dove si è innamorata di Idamante, il quale ama
invece Ilia, figlia di Priamo re di Troia, inviata da Idomeneo a Creta come prigioniera di guerra. Lacerata tra l'amore per un nemico e l'onore di principessa troiana, Ilia respinge Idamante che, informato
dell'imminente arrivo del padre, libera i prigionieri troiani e dichiara a Ilia il suo amore.
Elettra, a sua volta, accusa Idamante di proteggere il nemico e di oltraggiare tutta la Grecia. Arriva nel
frattempo Arbace, confidente del re, a portare la falsa notizia che Idomeneo è annegato dopo un naufragio. Idamante allora si ritira in preda al suo dolore, mentre Elettra sfoga la sua disperata gelosia,
pensando che ormai Idamante, divenuto il nuovo sovrano, sposerà Ilia. Dalla spiaggia si scorge la flotta di Idomeneo sul mare in burrasca. Idamante si reca sulla spiaggia ed è il primo uomo che il padre
incontra. Idomeneo inorridisce al pensiero del voto e fugge.
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Roberto Iovino
Caro Amadeus
L'intermezzo - che costituisce di fatto il finale dell'atto I - è articolato in due episodi: una marcia dei
soldati rientranti in patria e un coro inneggiante a Nettuno (Nettuno s'onori). Nell'intermezzo non canta nessuno dei personaggi principali, solamente il coro, che rende omaggio a Idomeneo e a Nettuno.
Atto II - Idomeneo confessa ad Arbace l'orribile voto che ha fatto. Arbace gli suggerisce di inviare Idamante con Elettra ad Argo;
ma Idomeneo sospetta che Idamante e Ilia si
amino. Elettra manifesta la sua gioia sentendosi ormai prossima a realizzare il suo
desiderio più ardente.
Al momento della partenza (Placido è il
mar) Idomeneo esorta figlio di affrettarsi
verso Argo, però, Nettuno scatena una nuova tempesta, e dal mare si leva un orribile mostro. Il re grida il suo sdegno a Nettuno (Ingiusto sei!), gridandogli di prendersela solo con lui, non con tutta Creta.
Il popolo, spaventato alla vista del mostro, si rifugia dentro Sidone.
Atto III - Ilia affida ai venti il suo messaggio d'amore per Idamante (Zeffiretti lusinghieri), che le dichiara di essere deciso a cercare la morte combattendo il mostro: Ilia, commossa, gli confida il suo
amore. Giungono Idomeneo ed Elettra e, ancora una volta, il re ordina al figlio di lasciare Creta per
sottrarsi alla morte (Andrò ramingo e solo). Arbace annuncia che il popolo vuole che Idomeneo confessi il suo segreto, e lamenta il destino della città (Sventurata Sidone). Il Gran Sacerdote sollecita il re
a compiere il voto e chiede il nome della vittima: il re pronuncia il nome del figlio (O voto tremendo).
Inizia il rituale del sacrificio, ma giunge Arbace ad annunciare che Idamante ha ucciso il mostro (Stupenda vittoria!). Il principe ora sa tutto e si dichiara pronto a morire, ma, nel momento in cui Idomeneo sta per colpirlo, Ilia si precipita tra le sue braccia e si offre come vittima al posto dell'uomo che
ama. All'improvviso si sente la voce dell'Oracolo di Nettuno: Idomeneo deve rinunciare al trono in favore di Idamante che sposerà Ilia e poi regnerà in luogo del padre. Elettra, furente, impreca (D'Oreste,
d'Aiace) e poi fugge. Idamante viene incoronato tra cori e danze (Scenda amor, scenda Imeneo).
La fortuna dell’opera
Sono giunte a noi due versioni del libretto: la prima presenta il testo integrale, mentre la seconda omette i tagli effettuati da Mozart. A partitura ultimata, Amadeus fece ulteriori tagli a
dimostrazione che l’opera fu dal musicista particolarmente sofferta.
Nel 1786 l’opera venne ripresa a Vienna per una esecuzione concertistica e Amadeus approfittò dell’occasione per trascrivere la parte di Idamante per tenore.
Sul piano musicale, Mozart giunse a delineare una partitura ricca di elementi interessanti. Rispetto alle precedenti opere serie, il salto è notevole. Non solo perché il linguaggio si fa naturalmente più maturo, ma anche perché la struttura stessa viene modificata in una visione
drammaturgica più variegata e compatta. Da notare, ad esempio, la ricerca di una maggiore
unità interna, con le forme chiuse sempre più strettamente collegate fra loro. In tal senso vanno segnalati non solo i recitativi accompagnati, ma anche la più intensa partecipazione del coro. Fra le arie, in genere in forma bipartita, si può segnalare quella di Idamante nel secondo
atto con violino concertante, oppure quella di Ilia “Se il padre perdei” con quattro fiati solisti:
flauto, oboe, fagotto e corno. Infine è interessante il quartetto del terzo atto “Andrò ramingo e
solo” che suscitò molte perplessità fra gli interpreti durante le prove. Il 27 dicembre 1780
Mozart scrisse al padre1:
Il quartetto: più me lo immagino in teatro e più mi sembra efficace ed è anche piaciuto a tutti
quelli che lo hanno ascoltato al clavicembalo. Soltanto Raaf2 è del parere che non sarà d'effetto.
1
2
Cit. in S. Kunze, Il teatro di Mozart, Marsilio, Venezia, 1990.
Anton Raaf (1714 – 1797) fu amico di Mozart e primo interprete di Idomeneo.
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Roberto Iovino
Caro Amadeus
Me lo ha detto lui solo: “non c'è da spianar la voce, lo sento troppo stretto” come se in un quartetto non si dovesse molto più conversare che cantare. Queste cose non le capisce affatto....
E’ una lettera illuminante: il concertato è semplicemente una “conversazione” e, in questo
senso, il suo valore è più drammaturgico che musicale.
Die Entführung aus dem Serail
Nel 1781 Giuseppe II, deciso a rilanciare un teatro nazionale tedesco, commissionò a Mozart
per il teatro di Corte di Vienna un Singspiel. La scelta cadde su Die Entführung aus dem Serail, il Ratto dal serraglio su testo di Christoph Friedrich Bretzner rielaborato dall’attore Johann Gottlieb Stephanie il giovane. L’opera debuttò a Vienna (Burgtheater) il 16 luglio 1782.
L’argomento apparteneva al filone delle turcherie, ampiamente battuto all’epoca anche dal teatro comico italiano. In questo caso la vicenda ruota intorno ad una donna europea che è rinchiusa in un serraglio, oggetto del desiderio di un pascià.
La trama
Atto I - Una piazza davanti al palazzo del Pascià Selim - Belmonte è angosciato perché la sua fidanzata, Konstanze, una giovane e bella spagnola, è stata rapita dai pirati e venduta come schiava insieme
alla sua ancella inglese Blonde e all'innamorato di quest'ultima Pedrillo. Così Belmonte è venuto a
cercarla in Turchia. All'entrata del palazzo del Pascià Selim si imbatte in Osmin, il burbero sorvegliante, che lo allontana. Da Pedrillo Belmonte apprende che Konstanze è diventata la favorita del Pascià
mentre Blonde è stata offerta in dono a Osmin. All'arrivo di Selim e Konstanze, di ritorno da una gita
in mare, Belmonte si nasconde. Konstanze è afflitta e Selim, per quanto rispettoso e amorevole, non
riesce a guadagnare le sue grazie.
Atto II - Giardino del palazzo - L'atto si apre con Osmin che arde di desiderio per Blonde senza essere
corrisposto e viene anche da lei minacciato di accecamento se non si allontana. Sopraggiunge Konstanze e Blonde cerca di consolarla; Konstanze è pronta a subire torture di ogni genere ma non cederà
alle richieste di Selim. Pedrillo avverte Blonde dell'arrivo di Belmonte; successivamente fa ubriacare
Osmin per metterlo fuori combattimento. Così Belmonte può incontrare Konstanze. Nel quartetto finale Belmonte e Pedrillo informano le due ragazze che verranno a salvarle a mezzanotte.
Atto III - Piazza davanti al palazzo e quindi appartamenti di Selim - Giunta l'ora, Pedrillo canta una
serenata (In Mohrenland gefangen war): è il segnale per la fuga. Purtroppo Osmin si risveglia e i fuggitivi vengono catturati e condotti davanti a Selim: si scopre così che Belmonte è figlio del peggior
nemico del Pascià. Tuttavia Selim dà prova di grande magnanimità e rinuncia alla vendetta, liberando
le due coppie, che possono così ritornare a casa mentre Osmin si ritira rosso di rabbia.
La fortuna dell’opera
Il cast prevede Konstanze e Blonde (soprani), Belmonte e Pedrillo (tenori), Osmin (basso) e
Selim Pascià (voce recitante). L’organico strumentale comprende invece archi, ottavino, flauti, clarinetti, oboi, corni, corni di bassetto, fagotti, trombe, triangolo, piatti, grancassa, timpani.
Mozart costruì una partitura di straordinaria varietà, alternando abilmente le parti musicali ai
dialoghi in prosa. Curiosa la scelta di affidare ad una voce recitante il ruolo di Selim, il potente turco che tiene prigioniera la fanciulla e che quindi non interviene mai musicalmente nei
contrasti con i suoi interlocutori.
Obbiettivo di Mozart fu quello di far tesoro dell’esperienza dell’opera comica italiana (ma anche dell’opéra-comique francese) per dare un contributo sensibile alla nascita di un autentico
teatro tedesco. Lo aiutò il tempo a disposizione. Poté infatti lavorare circa un anno con il librettista con cui si trovò particolarmente bene stando alla seguente lettera inviata al padre il
26 settembre 1781:
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Roberto Iovino
Caro Amadeus
Tutti arricciano il naso su Stephanie. Può darsi che anche con me si comporti da amico solo
quando gli sono di fronte. Però mi sta rimaneggiando il libretto proprio come voglio io, a pennello e, per Dio, altro da lui non pretendo3.
Proprio in questo periodo Mozart tra l’altro inserì nelle sue lettere varie considerazioni sul
teatro, utili per capire la sua idea sulla drammaturgia operistica. Ad esempio a proposito
dell’aria di Osmin (“Solche hergelauf’ne Laffen”), scrisse nella lettera appena citata al padre:
Le passioni, violente o no non devono essere mai espresse al punto da suscitare disgusto e la
musica, anche nella situazione più terribile, non deve mai offendere l’orecchio, ma, piuttosto,
dilettarlo e restare pur sempre musica.
Mozart intervenne sensibilmente sulla struttura narrativa. In particolare modificò il finale.
Nell’originale, Belmonte veniva scoperto figlio del pascià; in Mozart, invece, Belmonte si dichiara figlio del capitano spagnolo Orano, il più terribile nemico del pascià, il quale dando
prova di grande magnanimità, perdona e lascia tutti liberi. Mozart ottiene dunque non solo di
rendere il finale ancor più teso e drammatico, in quanto con la confessione di Belmonte tutti si
preparano alla morte, ma conferisce alla figura del pascià quell’aura di saggezza che trova
spazio, in una visione illuminista, anche in altre opere mozartiane: si pensi alla Clemenza di
Tito, ma anche alle Nozze di Figaro.
Al contrario di quanto accade nel suo teatro italiano, Mozart dà qui più spazio alle arie solistiche rispetto ai concertati, creando alcune pagine di notevole difficoltà.
Va citata in particolare “Martern aller Arten” cantata da Costanza. Organizzata in modo già
stravagante, su un testo di tre strofe, si presenta dal suo esordio con l’anomala configurazione
di un movimento di concerto; l’orchestra, a pieno organico, fronteggia non solo la voce della
protagonista, ma anche un gruppo di quattro strumenti (flauto, oboe, violino e violoncello) cui
si aggiunge la voce in una scrittura di acrobatico virtuosismo.
Lorenzo da Ponte e la trilogia italiana
Nel 1783 iniziò il rapporto di collaborazione fra Amadeus e Lorenzo Da Ponte.
Da Ponte, letterato e avventuriero italiano, era nato a
Ceneda nel 1749. Entrato in seminario aveva preso gli
ordini nel 1773. Aveva poi avviato un’esistenza quanto
mai libera tanto che nel 1779 era stato costretto a fuggire da Venezia a seguito di una condanna per adulterio.
A Vienna apparve nel 1781 e collaborò oltre che con
Mozart, con Salieri e Martin y Soler4. Nel 1792 lasciò
Vienna per Londra dove fece il libraio e poi, per sfuggire ai creditori, si imbarcò per New York. Lì esercitò varie attività: droghiere, distillatore di liquori, insegnante
di italiano. Morì quasi in miseria nel 1838 e, così come
era accaduto per Mozart, anche i suoi resti andarono dispersi. L'incontro fra Mozart e Da Ponte costituisce uno
di quegli eventi straordinari nella storia della musica
che consentono il raggiungimento di vertici assoluti sul
piano artistico.
3
W.A. Mozart, Lettere, a cura di E. Ranocci, Guanda, Milano 1981.
Lo spagnolo Vicente Martin y Soler (1754 – 1806) lavorò a lungo in Italia, poi a Vienna e infine a Pietroburgo.
Fra le sue opere si cita Una cosa rara su libretto di Da Ponte.
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Roberto Iovino
Caro Amadeus
La cosa migliore – aveva scritto Amadeus al padre il 13 ottobre 1781 durante la creazione
dell’Idomeneo5 - è quando un buon compositore che capisce il teatro ed è in grado di dare un
suo contributo ed un poeta intelligente si incontrano come una vera e propria araba fenice. Allora non bisogna più preoccuparsi dell’approvazione degli ignoranti. I poeti mi sembrano quasi
dei trombettieri con i loro scherzi di mestiere! Se noi musicisti volessimo seguire sempre fedelmente le nostre regole (che un tempo andavano molto bene quando non si conosceva niente di
meglio) faremmo sempre della musica inutile come essi fanno dei libretti inutili.
Mozart fu il primo despota del mondo teatrale, con buona pace dello stesso Da Ponte che
condivideva il concetto mozartiano secondo il quale la poesia era al servizio della musica. Fra
il 1786 e il 1790 Mozart e Da Ponte scrissero Le nozze di Figaro, Don Giovanni e Così fan
tutte.
Nelle Nozze di Figaro e nel Don Giovanni - ha scritto Gallarati6 - il realismo temporale con cui i
musicisti precedenti avevano già tentato con successo di interpretare il ritmo della vita quotidiana viene ulteriormente accentuato e abbinato alla nuova profondità del realismo psicologico:
nella velocità del tempo che scorre senza arresti, la rigidezza dei tipi dell’opera goldoniana, il
dinamismo ancora sommario dei personaggi del Re Teodoro in Venezia si rinnovano nella definizione di caratteri individuali, in perenne trasformazione, immersi nel flusso della vita dove il
riso e il pianto, la comicità e la tragedia si confondono nella cangiante metamorfosi di una vera
e propria corrente di coscienza....
Emergono due aspetti fondamentali. Il primo è legato al ritmo narrativo, incalzante, scorrevole come mai in precedenza. Mozart e Da Ponte non concedono pause, si precipita inevitabilmente verso il finale. Così, opportunamente, Le nozze di Figaro hanno come sottotitolo La
folle giornata: è nello spazio di un giorno che si consuma l’intera vicenda, giocata su continui
colpi di scena. Ma anche in Don Giovanni, (pur se non avviene tutto in ventiquattro ore), il
protagonista corre incontro alla sua morte con una baldanza e una “incoscienza” assolutamente straordinarie.
Il secondo punto riguarda il “tono” del teatro mozartiano. Uno dei grandi meriti del musicista
e di Da Ponte fu quello di aver saputo abbattere definitivamente ogni barriera fra tragico e
comico. Il teatro diventò davvero lo specchio della vita nella quale riso e pianto si mescolano
quotidianamente. In questa fusione di sentimenti opposti, generatori di strutture sceniche assai
più articolate che in passato, come si vedrà, sta la complessità e il fascino principale del teatro
mozartiano, il cui perno sono i concertati: nelle Nozze si ritrovano quattordici arie e quattordici pezzi di insieme; nel Don Giovanni, su ventisette brani, quindici sono arie, mentre in Così
fan tutte, su trentun pezzi, le arie sono appena undici.
Il «realismo» è ancora felicemente reso da Mozart e Da Ponte considerando l’opera come una
sorta di «tranche de vie». All’alzarsi del sipario lo spettatore si trova di fronte ad un’azione
già in divenire. Si prendano le Nozze: nella prima scena, Susanna e Figaro sono intenti a misurare la loro stanza. Ci imbattiamo in loro come se li guardassimo attraverso una finestra aperta e li sorprendessimo in un’azione che li sta già impegnando da tempo. Così pure in Don
Giovanni: da quanto tempo Leporello sta passeggiando nervosamente sotto le finestre di
Donna Anna, attendendo il padrone che si è infiltrato nell’appartamento della nobildonna per
tentare di sedurla, con le buone o con le cattive? E in Così fan tutte la prima scena ci mostra
Ferrando e Guglielmo seduti al tavolo di un caffè in piena discussione con Don Alfonso sulla
fedeltà o infedeltà delle loro amanti.
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6
W.A.Mozart, Lettere, cit.
P. Gallarati, Musica e maschera, cit.
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Roberto Iovino
Caro Amadeus
In tutti e tre i casi, poi, emerge un altro aspetto interessante che rimanda alla tendenza mozartiana di privilegiare i pezzi di insieme. Non c’è più bisogno di un’aria di sortita per chiarire la
funzione, il carattere del personaggio. Il pubblico capisce perfettamente cosa sta facendo Figaro, i suoi rapporti con Susanna, così come dalle parole di Leporello esce in tutta evidenza
non solo il carattere del personaggio, ma anche un colorito ritratto del suo padrone.
Una delle principali novità mozartiane sta dunque nel frequente superamento dell’aria di presentazione, a favore di più agili e spigliati duetti, terzetti ecc. E’ dall’incontro-scontro con gli
altri, insomma, che vengono esplicitati ruolo e carattere del singolo personaggio.
La discorsività dei concertati si estende poi alle arie. Già in precedenza, l’aria aveva assunto
una funzione dialogica abbattendo sul piano drammaturgico la barriera che la separava dal recitativo. Mozart e Da Ponte ne fecero quasi una regola. Così, nelle Nozze, Figaro prende in giro Cherubino («Non più andrai farfallone amoroso») e in «Madamina il catalogo è questo»
(Don Giovanni) i personaggi sono addirittura tre: Leporello canta a Donna Elvira che sta impietrita ad ascoltare, ma il vero protagonista è Don Giovanni. Altrove l’interlocutore immaginario è più generale: in «Aprite un po’ quegli occhi» Figaro si rivolge a tutti gli uomini; in
«Voi che sapete», Cherubino canta sì a Susanna e alla Contessa ma il suo messaggio è diretto
a ogni donna.
Ci sono anche rare arie di solitaria riflessione, nelle quali spesso colpisce il commovente lirismo mozartiano: si pensi a «Dove sono i bei momenti» intonata dalla Contessa nelle Nozze o
alla estatica «Dalla sua pace» cantata da Don Ottavio in Don Giovanni oasi di nobile espressività fra due pagine di forti contrasti passionali e di contrapposti toni espressivi: «Or sai chi
l’onore» (splendido racconto di Donna Anna della violenza subita) e «Fin ch’han dal vino»
(festosa e irruente esaltazione della gioia di vivere di Don Giovanni).
Le nozze di Figaro
La genesi
Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais (Parigi, 24 gennaio 1732 – Parigi, 18 maggio 1799) è
stato uno dei maggiori scrittori e polemisti del suo tempo. Figlio di un orologiaio aveva studiato musica da giovane, ma poi aveva condotto una vita alquanto scapestrata e avventurosa,
abbandonando la famiglia e la bottega del padre. Il matrimonio con una ricca vedova gli regalò un titolo nobiliare, trampolino di lancio verso le sue successive fortune, artistiche ed economiche. Diventato segretario di Luigi XV, percorse una brillante anche se non facile carriera
politica, spesso messa a rischio dalla sua vena di scrittore polemico.
Nel 1755 scrisse Il barbiere di Siviglia con buon successo, non paragonabile tuttavia a quello
arriso, dopo non poche opposizioni da parte della censura, al Mariage de Figaro (1784). Nel
1792 completò la trilogia dedicata a Figaro con il dramma morale La mère coupable (La madre colpevole, 1792).
Probabilmente fu Mozart stesso a portare una copia della commedia di Beaumarchais a Da
Ponte, che la tradusse in lingua italiana e che (d'accordo con Mozart) rimosse tutti gli elementi di satira politica dalla storia.
L'opera fu scritta da Mozart in gran segreto (la commedia era stata vietata dall'Imperatore
Giuseppe II, poiché attizzava l'odio tra le classi sociali). Impiegò sei settimane per completarla (famoso è il finale del secondo atto, scritto in un giorno, una notte e un successivo giorno di
lavoro continuato). Solo dopo aver avuto l’assicurazione che le scene politicamente più scabrose erano state rimosse, l’Imperatore diede il permesso di rappresentare l'opera.
Un problema fu rappresentato dalla scena finale del terzo atto, che comprendeva un balletto e
una pantomima. Un decreto imperiale, infatti, vietava la rappresentazione di balli in scena.
L’aneddoto è raccontato da Da Ponte nelle sue divertenti Memorie.
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Roberto Iovino
Caro Amadeus
Un certo Bussani, inspettor del vestiario e della scena e che sapea fare tutti i mestieri fuori che
quello del galantuomo, avendo udito ch’io aveva intrecciato un ballo nel Figaro corse subitamente dal conte [il conte Rosemberg, responsabile del Teatro dell’Opera] e, in tuono di disapprovazione e di meraviglia, gli disse: «Eccellenza, il signor poeta ha introdotto un ballo nella
sua opera». Il conte mandò immediatamente per me e tutto accigliato cominciò questo dialoghetto […]
- Dunque il signor poeta ha introdotto un ballo nel Figaro?
- Eccellenza sì.
- Il signor poeta non sa che l’imperatore non vuol balli nel suo teatro?
- Eccellenza, no.
- Ebben signor poeta, ora glielo dich’io.
- Eccellenza sì.
- E le dico di più che bisogna cavarlo, signor poeta.
Questo «signor poeta» era ripetuto in un tuono espressivo che pareva voler significare «signor
ciuco» o qualcosa di simile. Ma anche il mio «Eccellenza» aveva il dovuto significato.
- Eccellenza no
- Ha Ella il libretto con sé?
- Eccellenza sì.
- Dov’è la scena del ballo?
- Eccola qui Eccellenza.
- Ecco come si fa.
Dicendo questo levò due foglietti del dramma, gittolli gentilmente sul fuoco, mi rimise il libretto, dicendo: «Veda, signor poeta, ch’io posso tutto»; e mi onorò d’un secondo «vade».
Andai sul fatto da Mozzart il quale all’udire tal novelluccia da me, n’era disperato. Voleva andar dal conte, strapazzar Bussani, ricorrer a Cesare, ripigliar lo spartito: ebbi in verità a durar
gran fatica a calmarlo. Lo pregai alfine di darmi due soli giorni di tempo e di lasciar fare a me.
Si doveva quel giorno stesso far la prova generale dell’opera. Andai personalmente a dirlo al
sovrano il quale mi disse che interverrebbe all’ora prefissa. Difatti vi venne e con lui mezza la
nobiltà di Vienna. V’intervenne altresì il signor abate con lui. Si recitò il primo atto tra gli applausi universali. Alla fine di quello havvi un’azione muta tra il conte e Susanna, durante la quale l’orchestra suona e s’eseguisce la danza. Ma come Sua Eccellenza Puotutto cavò quella scena, non si vedea che il conte e Susanna gesticolare e l’orchestra tacendo pareva proprio una
scena di burattini.
«Che è questo?» disse l’imperatore a Casti che sedeva dietro di lui. «Bisogna domandarlo al poeta» rispose il signor abate con un sorriso maligno. Fui dunque chiamato ma invece di rispondere alla questione che mi fece, gli presentai il mio manoscritto in cui aveva rimessa la scena. Il
sovrano la lesse e domandommi perché non v’era la danza. Il mio silenzio gli fece intender che
vi dovea esser qualche imbroglietto. Si volse al conte, gli chiese conto della cosa ed ei, mezzo
borbottante, disse che mancava la danza, perché il teatro dell’opera non avea ballerini. «Ve ne
sono» diss’egli «negli altri teatri?». Gli dissero che ve n’erano. «Ebbene n’abbia il Da Ponte
quanti gliene occorrono» In men di mezz’ora giunsero ventiquattro ballerini, ossia figuranti: al
fine del secondo atto si ripetè la scena ch’era cavata e l’imperatore gridò: «Così va bene!».
Finite il 29 aprile, Le nozze di Figaro furono messe in scena al Burgtheater di Vienna, il 1º
maggio 1786. Ottennero un successo strepitoso, al punto che l'imperatore dovette emanare un
decreto per limitare le richieste di bis, in modo che le repliche non durassero troppo. Ancor
più grande fu il successo a Praga, dove (a detta di Mozart) «non si suona, non si canta, non si
sente altro che Figaro».
La trama
Atto I - Il mattino del giorno delle proprie nozze Figaro e Susanna sono nella stanza che il Conte ha
destinato loro. Figaro misura la stanza mentre Susanna si prova il cappello che ha preparato per le
nozze. Figaro si compiace della generosità del Conte, ma Susanna insinua che quella generosità non è
disinteressata: il Conte vuol rivendicare lo ius primae noctis, che egli stesso aveva abolito. Le brame
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Roberto Iovino
Caro Amadeus
del Conte sono favorite da Don Basilio, maestro di musica. Figaro si irrita e trama una vendetta. Anche la non più giovane Marcellina è intenzionata a mandare all'aria i progetti di matrimonio di Figaro e
reclama, con l'aiuto di Don Bartolo, il diritto a sposare Figaro in virtù di un prestito concessogli in
passato e mai restituito. Don Bartolo, del resto, gode all'idea di potersi vendicare dell'ex "barbiere di
Siviglia", che aveva aiutato il Conte a sottrargli Rosina, l'attuale Contessa. Entra il paggio Cherubino
per chiedere a Susanna di intercedere in suo favore presso la Contessa: il giorno prima il Conte, trovandolo solo con Barbarina (figlia dodicenne del giardiniere Antonio), si è insospettito e lo ha cacciato
dal palazzo. L'arrivo improvviso del Conte lo costringe a nascondersi e ad assistere suo malgrado alle
proposte galanti che il Conte rivolge alla cameriera. Ma anche il Conte deve nascondersi a Don Basilio, che rivela a Susanna le attenzioni rivolte dal paggio alla Contessa. Spinto dalla gelosia, il Conte
esce dal nascondiglio, poi, scoprendo a sua volta il paggio, monta su tutte le furie. Entrano i contadini
che ringraziano il Conte per aver abolito il famigerato ius primae noctis.
Il Conte, con un pretesto, rimanda il giorno delle nozze e ordina la partenza immediata di Cherubino
per Siviglia dove dovrà arruolarsi come ufficiale del suo reggimento. Figaro si prende gioco del paggio con una delle arie più celebri dell'opera, Non più andrai, farfallone amoroso.
Atto II - Susanna rivela all’addolorata Contessa le pretese del Conte. Entra Figaro ed espone il suo
piano di battaglia: ha fatto pervenire al Conte un biglietto anonimo dove si afferma che la Contessa ha
dato un appuntamento a un ammiratore per quella sera. Quindi suggerisce a Susanna di fingere di accettare l'incontro col Conte: Cherubino (che non è ancora partito) andrà al posto di lei vestito da donna, così la Contessa smaschererà il marito, cogliendolo in fallo. Tuttavia, mentre il travestimento del
paggio è ancora in corso, il Conte sopraggiunge e, insospettito dai rumori provenienti dalla stanza attigua (dove la Contessa ha rinchiuso Cherubino), decide di forzare la porta. Ma Cherubino riesce a fuggire saltando dalla finestra e Susanna ne prende il posto.
Quando dal guardaroba esce Susanna invece di Cherubino, il Conte è costretto a chiedere perdono alla
moglie. Entra Figaro che spera di poter finalmente affrettare la cerimonia nuziale.
Irrompe però il giardiniere Antonio che afferma di aver visto qualcuno saltare dalla finestra della camera della Contessa. Figaro cerca di parare il colpo sostenendo di essere stato lui a saltare. Ma ecco
arrivare con Don Bartolo anche Marcellina che reclama i suoi diritti: possiede ormai tutti i documenti
necessari per costringere Figaro a sposarla.
Atto III - Mentre il Conte si trova nel suo studio a meditare, arriva Susanna che, spinta dalla Contessa,
propone al Conte un appuntamento galante, ma questi si accorge dell'inganno e promette di vendicarsi.
Il giudice Don Curzio entra con le parti contendenti e dispone che Figaro debba restituire il suo debito
o sposare Marcellina, ma da un segno che Figaro porta sul braccio si scopre ch'egli è il frutto di una
vecchia relazione tra Marcellina e Don Bartolo, i quali sono quindi i suoi genitori.
Marcellina è lietissima di aver ritrovato il figliolo, ma in quel mentre sopraggiunge Susanna con la
somma necessaria a riscattare Figaro liberandolo dall'obbligo di sposare Marcellina: vedendoli abbracciati Susanna dapprima s'infuria, poi, compresa la felice situazione, si unisce alla gioia di Figaro e dei
due più anziani amanti.
Marcellina acconsente alla tardiva proposta di matrimonio dallo stesso Don Bartolo e condona il debito come regalo a Figaro per le nozze con Susanna, Don Bartolo porge invece una somma di denaro; il
Conte invece monta su tutte le furie.
La Contessa intanto, determinata a riconquistare il marito, detta a Susanna un bigliettino, sigillato da
una spilla, per l'appuntamento notturno da far avere al Conte. Modificando il piano di Figaro, e agendo
a sua insaputa, le due donne decidono che sarà la stessa Contessa e non Cherubino a incontrare il Conte al posto di Susanna.
Mentre alcune giovani contadine recano ghirlande per la Contessa, Susanna consegna il biglietto galante al Conte che si punge il dito con la spilla. Figaro è divertito: non ha visto, infatti, chi ha dato il
bigliettino al Conte. Poi si festeggiano due coppie di sposi: oltre a Susanna e Figaro, anche Marcellina
e Don Bartolo.
Atto IV - È ormai notte e nell'oscurità del parco del castello Barbarina sta cercando la spilla che il
Conte le ha detto di restituire a Susanna, ma che la fanciulla ha perduta. Figaro capisce che il biglietto
ricevuto dal Conte gli era stato consegnato dalla sua promessa sposa. Mosso dalla gelosia si nasconde
con un piccolo gruppo di persone per smascherare Susanna che, nascosta, ha sentito le lamentele di
Figaro e si è offesa per la sua mancanza di fiducia.
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Roberto Iovino
Caro Amadeus
Entra Cherubino e, vista Susanna, (che è in realtà la Contessa travestita) decide di importunarla; nello
stesso momento giunge il Conte il quale, dopo aver scacciato il Paggio, si mette a corteggiare quella
che crede essere la sua amante.
Fingendo di veder arrivare qualcuno, la Contessa travestita da Susanna fugge nel bosco mentre il Conte va a vedere cosa succede; nel contempo Figaro, che stava spiando gli amanti, rimane solo e viene
raggiunto da Susanna travestita da Contessa. I due si mettono a parlare ma Susanna durante la conversazione dimentica di falsare la propria voce e Figaro la riconosce. Per punire la sua promessa sposa,
questi non le comunica la cosa ma rende le proprie avances alla Contessa molto esplicite. In un turbinio di colpi di scena, alla fine Figaro chiede scusa a Susanna per aver dubitato della sua fedeltà mentre
il Conte, arrivato per la seconda volta, scorge Figaro corteggiare quella che crede essere sua moglie;
interviene a questo punto la vera Contessa che, con Susanna, chiarisce l'inganno davanti ad un Conte
profondamente allibito. Allora questi implora con sincerità il perdono della Contessa e le nozze tra Figaro e Susanna si possono finalmente celebrare; la "folle giornata" si chiude in modo festoso.
Una drammaturgia perfetta
L’opera è in quattro atti, anziché negli ormai usuali due. Ma, come si è notato, il ritmo
dell’azione è talmente forsennato da far dimenticare l’apparente dilatazione. Splendida la Sinfonia, strutturata in un allegro in forma-sonata e condotta (fatto questo comune al resto
dell’opera e agli altri due titoli mozartiani della Trilogia italiana) con estrema perizia sul piano del trattamento strumentale. Abile orchestratore, Mozart sfruttò appieno le risorse dei singoli strumenti per ricavarne effetti anche teatrali. Da ricordare, fra i vari concertati il finale del
secondo atto, un autentico capolavoro di teatro: nella scena della fuga dalla finestra di Cherubino, della sostituzione dello stesso con Susanna e dell’interrogatorio da parte del Conte a Figaro, il compositore risolse musicalmente la concitazione del momento, con la frantumazione
del discorso in battute brevissime, creando un dialogo serrato ed efficacissimo.
La freschezza e l’inventiva delle arie “a dialogo” è già stata sottolineata in precedenza. Vale
la pena solo soffermarsi su quella di Figaro del quarto atto per le implicazioni “politiche” cui
si è fatto cenno. Da Ponte e Mozart hanno sforbiciato il testo di Beaumarchais smussando le
intemperanze sociali dello scrittore francese per riportare l’opera al clima buffo di una semplice storia di amori contrastati, anche se emerge, malgrado tutto, la contrapposizione sociale
fra il conte e il servitore con una esaltazione dell’intelligenza e dell’intraprendenza di
quest’ultimo.
L’aria “Aprite un po’ quegli occhi” comunque è interessante. Mozart e Da Ponte ci propongono un Figaro amante deluso che se la prende non solo con Susanna, ma universalizzando,
con tutte le donne. E ad aprire gli occhi debbono essere tutti gli uomini “incauti e sciocchi”.
Recita il testo:
Recitativo
Tutto è disposto: l'ora/ dovrebbe esser vicina; io sento gente...
È dessa... non è alcun... buia è la notte.../ed io comincio ormai
a fare il scimunito/ mestiero di marito...
Ingrata! Nel momento/ della mia cerimonia...
ei godeva leggendo: e nel vederlo/ io rideva di me senza saperlo.
Oh, Susanna! Susanna!/ Quanta pena mi costi!
Con quell'ingenua faccia,/ con quegli occhi innocenti...
chi creduto l'avria!.../ Ah, che il fidarsi a donna è ognor follia!
Aria
Aprite un po’ quegli occhi/ uomini incauti e sciocchi
guardate queste femmine/ guardate cosa son.
Queste chiamate dee/ dagli ingannati sensi
a cui tributan incensi/ la debole ragion
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Roberto Iovino
Caro Amadeus
Son streghe che incantano/ per farci penar
sirene che cantano/ per farci affogar
civette che allettano/per trarci le piume
comete che brillano/ per toglierci il lume
sono rose spinose/ son volpi vezzose
son orse benigne/ colombe maligne
maestre d’inganni/ amiche d’affanni
che fingono, mentono/ amore non senton
non senton pietà/ il resto no’l dico
già ognuno lo sa
In Beaumarchais il monologo di Figaro, un capolavoro, era tutt’altro, una violenta invettiva
contro la società. Vale la pena rileggerne alcune parti.
O donna! donna! Creatura debole e ingannatrice! Nessun animale creato può sottrarsi ai propri
istinti: il tuo è dunque quello d’ingannare? Dopo avermelo ostinatamente rifiutato quando la sollecitavo davanti alla sua padrona nel momento in cui mi dà la sua parola, nel bel mezzo della cerimonia… lui rideva leggendo, il perfido! Ed io come un babbeo… No, signor Conte, voi non
l’avrete… voi non l’avrete. Perché siete un gran signore, vi credete un gran genio!... Nobiltà,
fortuna, rango, cariche, tutto questo rende così fieri! Che avete fatto per meritare tutto questo?
Vi siete dato la pena di nascere e niente di più. Per il resto, siete un uomo abbastanza comune;
mentre io, perbacco! Sperduto in mezzo alla folla oscura, ho dovuto impiegare più scienza e
calcoli soltanto per sopravvivere di quanti non ne siano stati adoperati, da cento annai a questa
parte, per governare tutte le Spagne: e voi volete gareggiare…. Viene qualcuno… è lei… non è
nessuno. La notte è nera come la pece ed io son qui a fare lo sciocco mestiere del marito, benché lo sia solo a metà! C’è qualcosa di più bizzarro del mio destino? Figlio di non so chi, rapito
da banditi, educato nei loro costumi, me ne disgusto e voglio percorrere una carriera onesta: sono respinto ovunque! Imparo la chimica, la farmacia, la chirurgia e tutto il credito di un gran signore riesce appena a mettermi in mano la lancetta del veterinario! Stanco di tormentare delle
bestie malate e per fare un mestiere opposto, mi getto a corpo morto nel teatro: mi fossi messo
una pietra al collo! Butto giù una commedia sui costumi del serraglio. Autore spagnolo, credevo
di poter dileggiare Maometto senza scrupolo: subito un inviato… di non so dove si lamenta che
offendo nei miei verso la Suplime Porta, la Persia, una parte della penisola indiana, tutto
l’Egitto, i regni di Barca, di Tripoli, di Tunisi, d’Algeri e del Marocco; ed ecco la mia commedia rovinata per compiacere ai principi maomettano, nessuno dei quali credo, sa leggere e che si
pestano la schiena, dicendoci: cani di Cristiani. Non potendo avvilire lo spirito, ci si vendica
maltrattandolo. Le mie guance si incavavano, il termine era scaduto: vedevo arrivare lo spaventoso ufficiale giudiziario, con la pena conficcata nella parrucca; fremendo m’ingegno. S’apre un
dibattito sulla natura della ricchezza e poiché non è necessario possedere lem cose per parlarne,
pur essendo senza un soldo, scrivo sul valore del denaro e sul suo prodotto netto: subito vedo,
dal fondo d’una carrozza, abbassarsi per me il ponte d’una fortezza, all’entrata della quale lascio
la speranza e la libertà. Quanto vorrei avere fra le mani uno di questi governanti che duran quattro giorni, così leggeri sul male che ordinano quando una buona disgrazia ha piegato il suo orgoglio! Gli direi… che le stupidaggini stampate hanno importanza soltanto nei luoghi in cui se
ne ostacola la diffusione; che senza la libertà di biasimare, non è possibile nemmeno un elogio
che ci lusinghi; e che son solo gli uomini piccoli a temere i piccoli scritti. Stanchi di mantenere
un oscuro pensionante, un giorno mi rimettono in strada; e poiché bisogna mangiare anche se
non si è più in prigione, faccio ancora la punta alla penna e m’informo di che cosa si discute: mi
si dice che durante il mio economico ritiro s’è affermato a Madrid un sistema di libertà sulla
vendita dei prodotti che si estende anche a quelli della stampa; e che posto che non parli nei
miei scritti dell’autorità né della religione, né della politica, né della morale, né delle persone altolocate, né dei corpi accreditati, né dell’opera né degli altri spettacoli, né di chiunque tenga a
qualcosa io posso stampare liberamente tutto sotto l’ispezione di due o tre censori. Per approfittare di quella dolce libertà annuncio una pubblicazione periodica e convinto di non fare la
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Roberto Iovino
Caro Amadeus
concorrenza a nessuno, l’intitolo Giornale inutile. Puuh! Vedo sollevarsi contro di me mille disgraziati imbrattacarte, mi si sopprime ed eccomi daccapo senza impiego! La disperazione stava
per travolgermi; si pensa a me per un posto, ma sfortunatamente ero la persona adatta: occorreva saper far di conto e fu affidato ad un ballerino. […] Riprendo i miei arnesi e la mia coramella; poi lasciando il fumo agli sciocchi che se ne nutrono e la vergogna in mezzo alla strada in
quanto è troppo pesante per un pedone, me ne vado sbarbando di città in città e vivo finalmente
senza preoccupazioni. Un gran signore passa da Siviglia, mi riconosce, lo marito; e come premio per aver avuto sua moglie grazie a me, vuol prendere anche la mia![…]
Maestro qui, valletto là, secondo quel che piace alla fortuna; ambizioso per vanità, laborioso per
necessità ma pigro… con delizia! Oratore secondo il pericolo, poeta per svago, all’occasione
musicista; innamorato a folli ventate, ho visto tutto, fatto tutto, consumato tutto. Poi s’è distrutta
l’illusione e troppo disingannato…. Disingannato! Disingannato! Susanna, Susanna, Susanna,
che tormenti mi dai….
Don Giovanni
Da Tirso de Molina a Da Ponte
La figura di Don Giovanni nacque ufficialmente nel 1630. L'autore era Gabriel Tellez, noto
sotto lo pseudonimo di Tirso de Molina. Titolo originario: El burlador de Sevilla. Il lavoro era
articolato in tre giornate dense di avvenimenti e di personaggi, nel più puro stile barocco. Ciò
che seguì nella storia di Don Giovanni fu in genere un derivato e una semplificazione del testo
di Tirso. L'azione si svolgeva in parte a Napoli, poi in Spagna (Don Giovanni e il servo Catalinon naufragano in una spiaggia iberica, durante una fuga) e alla corte di Castiglia. Rispetto a
Mozart, il duello con il commendatore era spostato al secondo atto e nel terzo avveniva l'invito a cena. Don Giovanni svolazzava da una conquista ad un'altra senza alcuno scrupolo morale: una sola impresa erotica non giungeva a buon fine, quella con Donna Anna. Nel carattere
del conquistatore c'era tuttavia qualcosa di più del semplice erotomane: un forte egoismo e
soprattutto il gusto sadico del burlare, dell'ingannare.
Il lavoro di Tirso de Molina raggiunse ben presto Napoli. Era naturale che un testo così ricco
e piccante stimolasse la fantasia di scrittori e musicisti. E soprattutto dei comici dell'arte. Le
maschere si appropriarono della vicenda e Arlecchino diventò il servitore di Don Giovanni: in
una versione d'epoca la lista delle conquiste veniva lanciata verso il pubblico con l'invito a
consultarla per trovare eventuali nomi conosciuti! Del 1665 è invece Don Juan ou le Festin de
Pierre, cinque atti di Molière. In comune con Mozart, la presenza di Elvira, figura nuova, nata
dalla fusione di due personaggi di Tirso. Elvira, sedotta e abbandonata, portò una nota patetica nell'azione che sarebbe rimasta fino al Don Giovanni mozartiano. Pochi anni dopo il lavoro
di Molière, nel 1669 arrivò la prima versione musicale di Don Giovanni, L'Empio punito: la
musica era di Alessandro Melani, il libretto di Pippo Acciaiuoli. La vicenda era arretrata nel
tempo, alla corte di un re di Macedonia, in età pseudo-classica. Ciò non impedì al librettista di
inserire un assassinio con un colpo di pistola! Passando al Settecento nel 1736 eccoci al Don
Giovanni Tenorio, o sia Il dissoluto di Carlo Goldoni, una delle prime fatiche dello scrittore
veneziano. Goldoni, nel suo tentativo di razionalizzare la trama evitando ogni assurdità, rinunciò alla statua giustiziera e ricorse a un fulmine per punire Don Giovanni. Nel 1761 Don
Giovanni entrò nel mondo della danza: a Vienna andò in scena Don Juan, di Gasparo Angiolini su programma di Calzabigi e musica di Gluck. Venendo al teatro comico settecentesco,
per limitarci ai titoli principali, occorre ricordare la farsa scritta da Giambattista Lorenzi per la
musica di Giacomo Tritto nel 1783 (Il Convitato di pietra) che proponeva una introduzione
simile a quella di Mozart, con la sostituzione di Leporello con Pulcinella: serenata alla bella,
irruzione in casa, arrivo del padre, sua uccisione, fuga.
Allo stesso anno del Don Giovanni di Mozart e Da Ponte risale, infine, il Convitato di pietra
di Giovanni Bertati per la musica di Giuseppe Gazzaniga, un atto unico ambientato a Venezia,
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Roberto Iovino
Caro Amadeus
scenario suggestivo scelto, alcuni anni fa, dal regista Losey per il suo film costruito sull'opera
mozartiana.
La genesi
Il successo arriso alle Nozze di Figaro a Praga valse a Mozart la commissione di una nuova
opera nel teatro di quella città. Con Lorenzo Da Ponte la scelta cadde su Don Giovanni.
L' opera andò in scena per la prima volta a Praga il 29 ottobre 1787; dopo i consensi entusiastici di quella "prima", il compositore scriveva, con comprensibile soddisfazione:
L'opera è andata in scena, accolta con il più vivo entusiasmo7.
La trama
Atto I - Leporello lamenta la propria condizione di servitore mentre è in attesa del suo padrone, Don
Giovanni, introdottosi mascherato in casa di Donna Anna per sedurla. Le lamentele di Leporello sono
interrotte dall’irruzione in scena di Don Giovanni che fugge inseguito da Donna Anna e dal padre di
lei, il Commendatore. Questi sfida a duello Don Giovanni e viene ucciso. Don Giovanni e Leporello
fuggono mentre Donna Anna è confortata dal suo amante Don Ottavio. Nel frattempo, Don Giovanni è
per strada con Leporello in cerca di nuove conquiste; si imbatte in Donna Elvira, da lui già sedotta ed
abbandonata pochi giorni prima e che ora lo cerca disperata d'amore. Il libertino fugge incaricando il
servitore di trovare qualche scusa per rabbonirla. Leporello elenca le conquiste del padrone: 640 in Italia, 231 in Germania, 100 in Francia, 91 in Turchia e in Spagna 1003. Intanto, un gruppo di contadini
e contadine festeggiano le nozze di Zerlina e Masetto. Intenzionato a sedurre la fresca sposina, Don
Giovanni fa allontanare con una scusa il marito in compagnia di Leporello suscitando l'ira di Masetto
che però riesce a contenersi e, rimasto solo con la giovane Zerlina, la invita a seguirlo e le promette di
sposarla. Proprio quando Zerlina sta per cedere alle promesse e alle lusinghe di Don Giovanni, sopraggiunge Donna Elvira che la mette in guardia dalla perfidia di Don Giovanni e porta via con sé la
ragazza. Mentre Don Giovanni e Donna Elvira discutono animatamente, arrivano Donna Anna e Don
Ottavio. Donna Anna non conosce ancora l’identità dell’assassino di suo padre, ma capisce in quel
momento che si tratta di Don Giovanni. Rimasta sola con il suo amante, gli racconta l’accaduto. Intanto Don Giovanni, per sedurre Zerlina, ordina a Leporello di organizzare una grande festa in onore del
matrimonio. Alla festa in casa di Don Giovanni arrivano tutti. Il cavaliere balla con Zerlina e la conduce in disparte, mentre Leporello intrattiene ancora Masetto. Ma la giovane reagisce all’aggressione
gridando e tutti vengono in suo soccorso. Don Giovanni dapprima cerca di accusare della tentata violenza l'innocente Leporello, ma Donna Elvira, Donna Anna e Don Ottavio, gettate le maschere con le
quali si erano presentati al ballo, lo accusano apertamente e cercano di arrestarlo insieme a Masetto,
Zerlina e agli altri paesani. Don Giovanni e Leporello, però, riescono a fuggire.
Atto II - La sera, di fronte alla casa di Donna Elvira. Don Giovanni e Leporello discutono animatamente. Inizialmente quest'ultimo, dopo le accuse rivoltegli ingiustamente, vorrebbe prendere le distanze dal suo padrone, ma questi, offrendogli del denaro, lo convince a tornare al suo servizio attuando
una nuova impresa: scambiare con lui gli abiti in modo tale che mentre il servo distrae Elvira, egli
possa corteggiare impunemente la sua cameriera. Donna Elvira, affacciatasi alla finestra, cade nel tranello e si illude che Don Giovanni si sia pentito e ravveduto.
Dopo che Donna Elvira e Leporello travestito si sono allontanati, Don Giovanni intona una serenata
sotto la finestra della cameriera. Sopraggiunge Masetto in compagnia di contadini e contadine armati
in cerca del nobile per ucciderlo. Protetto dal suo travestimento, Don Giovanni riesce a far allontanare
tutti gli altri tranne Masetto: rimasto solo con il giovane e con l'inganno privato delle sue armi, Don
Giovanni lo prende a botte e si allontana.
Nel frattempo, Leporello travestito non sa più come comportarsi con Donna Elvira che lo incalza e
vorrebbe fuggire senza dare nell'occhio: trovata un'uscita, decide di tagliare la corda, ma è bloccato
dall'arrivo di Donna Anna, Don Ottavio, Zerlina e Masetto accompagnati da servi, contadini e conta-
7
Lettera del 4 novembre 1787 a Gottfried von Jacquin, in W.A. Mozart, Lettere, cit.
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Roberto Iovino
Caro Amadeus
dine, che credendolo Don Giovanni, si fanno avanti per catturarlo e ucciderlo. Leporello svella la sua
identità e poi con uno stratagemma sfugge all’aggressione.
È notte fonda. Don Giovanni e Leporello hanno trovato rifugio nel cimitero. All'improvviso si ode una
voce minacciosa: "Di rider finirai pria dell'aurora". Stupìti, si guardano intorno per vedere di chi fosse
quella voce tenebrosa, ma la si sente ancora: "Ribaldo, audace, lascia ai morti la pace". È la statua funebre del Commendatore a parlare. Leporello è tremante nascosto sotto una panchina, ma Don Giovanni non ne è per nulla intimorito, anzi, ordina beffardo a Leporello, terrorizzato, di invitarla a cena:
la statua accetta rispondendo terribilmente "Sì".
Nel palazzo di Don Giovanni, tutto è pronto per la cena: la tavola è preparata, i musicisti sono al loro
posto ecc... Quindi Don Giovanni si siede a mangiare. Il licenzioso cavaliere si intrattiene ascoltando
brani delle opere quando giunge all'improvviso Donna Elvira, che implora ancora una volta Don Giovanni di pentirsi, ma questi si prende gioco di lei e la caccia via. La donna esce di scena, ma la si sente
gridare terrorizzata. Irrompe la statua del Commendatore che propone a Don Giovanni di recarsi a cena da lui, porgendogli la mano. Impavido e spericolato, Don Giovanni accetta e stringe la mano della
statua: pur prigioniero di quella morsa letale, rifiuta fino all'ultimo di pentirsi. Il Commendatore,
scompare in mezzo a nubi di foschia, mentre il fuoco dell’inferno avvolge Don Giovanni.
Giungono infine gli altri personaggi con servi, contadini e contadine pronti ad arrestarlo. Leporello riferisce l'orribile scena appena accaduta. Don Giovanni è stato punito dal Cielo, la vita per gli altri va
avanti: Donna Anna in lutto per la morte del padre chiede pazienza a Don Ottavio, Masetto e Zerlina
vanno a cena insieme ai loro amici, Donna Elvira decide di ritirarsi in convento. Leporello va a cercare un padrone migliore.
Un “dramma giocoso” difficilmente etichettabile
Don Giovanni è indubbiamente la più compiuta e perfetta sintesi nel teatro musicale fra comico e tragico. Il passaggio continuo dal riso al pianto è evidente sin dalle prime note della
Ouverture (anche questa un allegro in forma-sonata) nella quale i due temi rappresentano le
«anime» dell’opera stessa: il primo, lugubre, tragico ritornerà nella drammatica scena del
banchetto; il secondo, svolazzante, rapido, rappresenta il correre a perdifiato di Don Giovanni
da una gonnella ad un’altra. Del resto anche la prima scena «aggredisce» lo spettatore con opposte situazioni. Leporello passeggia e ci appare come il tipico servitore dell’opera buffa,
simpatico, estroverso, un Figaro un po’ meno importante. Ma subito dopo la tragedia è richiamata dalle urla di Donna Anna, dalla fuga di Don Giovanni dall’uccisione in scena (nel
Settecento erano rare le morti sul palcoscenico) del Commendatore.
Opera complessa, affascinante, difficile costruita appunto su un precario equilibrio fra
tragedia e commedia in una visione quasi
shakespeariana della vita che rende arduo il
compito ai registi di oggi spesso pericolosamente tentati da accentuare l’una o l’altra
componente.
Definita “dramma giocoso”8, l’opera in effetti è difficilmente etichettabile, si pone al
di fuori di qualsiasi schema dell’epoca. Se è
vero che nel corso dei due atti si oscilla vorticosamente fra il riso e il pianto, è anche
vero che i personaggi appartengono abbastanza rigidamente a categorie predefinite.
Leporello (figura godibilissima se pur con8
Il “dramma giocoso” è un’opera di carattere comico nella quale però intervengono elementi patetici, sì da creare una galleria di personaggi psicologicamente differenziati.
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Roberto Iovino
Caro Amadeus
traddittoria: critica le bassezze del suo padrone, ma non prova alcuna “pietà” per le sue vittime, anzi, come può si sostituisce a lui: anticipa per certi aspetti il Rigoletto verdiano), Masetto e Zerlina sono personaggi buffi, Don Ottavio, Donna Anna (una «lama di Toledo» è stata
definita: autentica «nemica» di Don Giovanni in scena) e il Commendatore sono le parti serie,
Donna Elvira (donna-tenerezza, l’unica ad amare davvero Don Giovanni e a vivere in scena
opposti sentimenti) si colloca in una fascia intermedia di mezzocarattere.
Don Giovanni è figura complessa e ricca di sfumature. E' l'uomo del disordine, del caos, del
sovvertimento dell'ordine precostituito. La sua colpa non è l'eccesso nell'appetito umano; è
l'oltraggio all'ordine sacro. Non è dunque solo un problema di libertinaggio. Come ha giustamente osservato Massimo Mila9, se Don Giovanni si fosse limitato ad alzare qualche gonnella, sarebbe stato semplicemente un Falstaff più giovane e fortunato. E sarebbe bastata una
buona bastonatura da parte di comuni mortali. Falstaff prende botte e finisce nel Tamigi. Ma
per Don Giovanni ci si scomoda addirittura dall'al di là. Segno che Don Giovanni nei suoi
peccati è andato ben oltre. Un empio che sfida la giustizia divina. Pur se figura negativa, Don
Giovanni ci appare come un sole, mentre gli altri sono i suoi satelliti. Tutto ruota intorno a lui.
E se non è in scena, gli altri lo evocano con le loro parole.
In un'opera di contrasti, Don Giovanni è sempre coerente eppure in contrasto con se stesso.
Non appare quasi mai quale è effettivamente. Usa il travestimento come espediente continuo.
All'inizio finge di essere Don Ottavio, più avanti vestirà i panni di Leporello. In presenza di
altri si atteggia a nobile virtuoso mentre con le donne si mostra innamorato. E' se stesso solo
quando parla con Leporello o nei rari momenti di solitudine. Proprio in un recitativo con Leporello, in apertura del secondo atto, espone la propria morale:
Lasciar le donne! sai ch'elle per me son necessarie più del pan che mangio, più dell'aria che spiro. Chi a una sola è fedele verso l'altre è crudele, io che in me sento sì esteso sentimento vo' bene a tutte e quante; le donne poi che calcolar non sanno, il mio buon natural chiamano inganno.
E’ tra l’altro interessante notare che Don Giovanni ha pochi momenti di canto solistico (la serenata e “Fin ch’han del vino”). In realtà è continuamente coinvolto in duetti e pezzi
d’insieme, a dimostrazione che se gli altri dipendono da lui, lui non potrebbe vivere in solitudine.
Sul piano musicale vanno naturalmente ricordate alcune pagine di elegante fattura: pensiamo
al duetto «Là ci darem la mano» (Don Giovanni e Zerlina), alla serenata di Don Giovanni
«Deh vieni alla finestra», all’aria di Zerlina «Batti batti o bel Masetto» o all’aria di Don Ottavio «Dalla sua pace». Senza dimenticare la già citata “aria di catalogo” “Madamina il catalogo
è questo”, capolavoro assoluto non solo musicale, ma drammaturgico: Leporello racconta a
Elvira le conquiste di Don Giovanni, prendendosi crudelmente gioco dei sentimenti della ragazza: basta pensare all’epilogo
Purché porti la gonnella
Voi sapete quel che fa
Occorre soffermarsi su tre scene. La prima è il racconto, straordinario, di Donna Anna
all’amante Don Ottavio dell’aggressione subita e dell’assassinio del padre. Mozart ricorre a
un recitativo accompagnato che conferisce all’episodio una straordinaria intensità drammatica. Lo sbocco nella successiva aria «Or sai chi l’onore» è di splendido effetto.
Monumentale è la costruzione del finale atto I, una sorta di commedia nella commedia. Innanzitutto si chiude la caccia a Don Giovanni che i personaggi hanno gradualmente intrapreso
9
M.Mila, Lettura del Don Giovanni di Mozart, Einaudi, Torino, 1988.
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Roberto Iovino
Caro Amadeus
nel corso del primo atto. E sul piano musicale Mozart incatena una serie di episodi che creano
una crescente tensione verso Don Giovanni. Originale, in particolare, la parte del ballo. Mozart, per rendere efficacemente la scena, utilizza più gruppi strumentali (divisi fra buca e palcoscenico) e intreccia tre danze diverse che individuano altrettante realtà sociali: Donna Anna
e Don Ottavio (due aristocratici) danzano un minuetto, Don Giovanni e Zerlina (aristocratico
e popolana) una contraddanza e Leporello e Masetto (due popolani) un rustico Landler.
Infine il banchetto e il grande finale del secondo atto. Nella sua sala Don Giovanni cena allegramente mentre un'orchestrina propone alcuni temi d'opere all'epoca famose. E' la seconda
volta nell'opera che Mozart utilizza strumenti in scena, coinvolgendo la musica come effettiva
parte integrante della festa o del banchetto. Fra le musiche proposte a Don Giovanni intento a
mangiare c'è anche una citazione dalle Nozze di Figaro con Leporello che sogghigna «questa
poi la conosco purtroppo». E' il tema di «Non più andrai farfallone amoroso». Una scelta non
casuale: il farfallone non sarà per caso Don Giovanni (Cherubino ormai cresciuto) che sta per
chiudere, se pur inconsapevolmente, la propria esistenza terrena?
Dopo l’entrata e la partenza di Donna Elvira, la scena vira verso la tragedia con l’arrivo del
Commendatore. La scena del Convitato è il momento culminante dell'opera e senza dubbio
costituisce una delle scene in assoluto più geniali del teatro musicale. Nonostante tutta l'opera
sia contrassegnata da una tensione drammatica sempre avvertibile, Don Giovanni corre incoscientemente verso la fine. Solo all'arrivo della statua capisce il pericolo che sta correndo.
Emerge allora il suo coraggio. Nessuna paura, un moto di sorpresa subito represso («Non lo
avrei giammai creduto») e poi, con tono eroico, l'accettazione della sfida. Don Giovanni muore in piedi come un eroe, cadrà fra le fiamme, ma nessuno potrà accusarlo di viltà («A torto di
viltate tacciato mai sarò»). Va osservata la scelta delle voci. Don Giovanni, Leporello e il
Commendatore sono tutte voci scure, basse e baritonali, il che accentua il senso di drammaticità della scena. Si noti poi la scrittura del Commendatore. Se all'inizio dell'opera il suo canto
era umano, sillabico, inquadrato in una logica tradizionale, adesso la linea melodica risulta irregolare con ampi salti che stanno a testimoniare l'inumanità e l’innaturalezza del personaggio. Sulla frase «Non si pasce di cibo mortale chi si pasce di cibo celeste», la linea musicale
comprende nove suoni diversi: aggiungendo i tre suoni dei bassi dell'orchestra si ottiene una
serie di dodici suoni. La scoperta fu fatta dal compositore Darius Milhaud che la segnalò in
una lettera a Luigi Dallapiccola nel 1950. Certamente Mozart non aveva pensato ad una serie
dodecafonica, ma non è senza significato che in questo momento così tragico il musicista sia
stato tentato da soluzioni espressive totalmente originali e inedite.
L'opera sarebbe finita, ma gli autori fanno seguire un concertato in cui veniamo a conoscenza
delle future sorti degli altri personaggi. Questa scena ha suscitato non poche discussioni in
quanto può apparire inutile. Ma dal momento che si sta parlando di un genio quale fu Mozart,
evidentemente, la scena stessa ha una sua logica. In realtà era, per così dire, «obbligata». Don
Giovanni muore perché ha sbagliato e il bene deve trionfare sul male. Non era però possibile
chiudere l’opera con la morte del protagonista. Di qui l’esigenza di riportare la vicenda in
un’atmosfera più serena con un concertato che, inappuntabile sul piano tecnico-musicale, non
ha drammaturgicamente nulla da dire. La personalità di Don Giovanni è talmente prepotente
che, scomparso lui, gli altri ci appaiono sbiaditi e insignificanti. Non a caso, in passato qualche direttore (ad esempio Mahler) ha preferito tagliare il concertato finale e chiudere l’opera
con il banchetto.
Dopo la luminosa grandezza delle Nozze, in Don Giovanni, Mozart esplorò gli abissi della
tragedia definendo il rapporto dei protagonisti, Don Giovanni e il Commendatore, non più solo in termini psicologici ma come tensione di forze ultraterrene. Nelle sue Memorie10, Da
Ponte ha scritto che mentre componeva Don Giovanni, attendeva ad altri due libretti e si ripar10
L. Da Ponte, Memorie, Garzanti, Milano, 1981.
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Roberto Iovino
Caro Amadeus
tiva così la giornata: la mattina lavorava a Arbore di Diana per Martin y Soler pensando a Petrarca; la sera ad Axur per Salieri, pensando al Tasso; la notte al Don Giovanni dopo aver letto
qualche passo dell’Inferno di Dante.
Così fan tutte
Rispetto alle due consorelle che l’hanno preceduta , Così fan tutte, in scena al Burgtheater di
Vienna il 26 gennaio 1790, pur essendo musicalmente un capolavoro, appare assai meno interessante. In questo caso Da Ponte non aveva una fonte letteraria diretta cui attingere. Si è parlato spesso della trasposizione teatrale di un fatto realmente accaduto, così come si possono
citare fonti varie, da Ovidio, fino all’Ariosto. Ferraresi, in effetti, sono definite le due dame
mozartiane, e nell’Orlando furioso compaiono nomi non del tutto dissimili: Despina nascerebbe dunque da Fiordispina, Dorabella da Doralice e Isabella, Fiordiligi sarebbe la sposa fedele per antonomasia.
La trama
Atto primo - In una bottega di caffè a Napoli, assieme a Don Alfonso siedono i due ufficiali Ferrando
e Guglielmo che vantano la fedeltà delle loro fidanzate, Dorabella e Fiordiligi.
Don Alfonso sostiene invece che la fedeltà femminile non esiste e che, se si presentasse l'occasione, le
due innamorate dimenticherebbero i loro fidanzati e passerebbero a nuovi amori. Don Alfonso scommette cento zecchini per provare ai due amici che le fidanzate non sono diverse dalle altre donne: per
un giorno, Ferrando e Guglielmo dovranno attenersi ai suoi ordini. Nel giardino della loro casa Fiordiligi e Dorabella contemplano sognanti i ritratti dei fidanzati, ma poi si preoccupano perché sono le sei
del pomeriggio e i due amanti non sono ancora venuti a trovarle, come fanno di solito. Ad arrivare è
invece Don Alfonso, che reca loro una notizia terribile: i fidanzati sono richiamati al fronte e devono
partire all’istante. In effetti Ferrando e Guglielmo fingono davvero di dover partire. La cameriera Despina, complice di Don Alfonso, espone alle sorelle le proprie idee circa la fedeltà maschile ed esorta
Fiordiligi e Dorabella a "far all’amor come assassine": i fidanzati al fronte faranno altrettanto. Travestiti da ufficiali albanesi, si presentano Ferrando e Guglielmo che dichiarano alle due fanciulle il loro
amore ma vengono respinti. Fingono allora il suicidio bevendo un falso veleno. Le ragazze provano
compassione. Arriva Despina travestita da medico, declamando frasi in un latino maccheronico e fa
rinvenire gli albanesi toccandoli con una calamita. I finti albanesi rinnovano le dichiarazioni di amore
e abbracciano le donne. Despina e Don Alfonso guidano il gioco esortando le donne ad assecondare le
richieste dei nuovi spasimanti resuscitati, i quali si comportano in modo molto passionale. Quando i
due pretendono un bacio, Fiordiligi e Dorabella si infiammano indignate e rifiutano.
Atto secondo - Nella loro camera Fiordiligi e Dorabella vengono convinte da Despina a '"divertirsi un
poco, e non morire dalla malinconia", senza mancare di fede agli amanti, s’intende. Giocheranno, nessuno saprà niente, la gente penserà che gli albanesi che girano per casa siano spasimanti della cameriera. Resta solo da scegliere: Dorabella, che decide per prima, vuole Guglielmo, e Fiordiligi apprezza il
fatto che le spetti il biondo Ferrando.
Nel giardino sul mare i due albanesi hanno organizzato una serenata alle dame, i suonatori e i cantanti
arrivano in barca. Don Alfonso e Despina incoraggiano gli amanti e le donne a parlarsi e li lasciano
soli. Fiordiligi e Ferrando si allontanano, suscitando la gelosia di Guglielmo, che offre un regalo a Dorabella e riesce a conquistarla. Fiordiligi è sconvolta, capisce che il gioco si è mutato in realtà. Quando
Ferrando si accomiata ella ha un attimo di debolezza e vorrebbe richiamarlo, poi rivolge il pensiero al
promesso sposo Guglielmo e si proclama a lui fedele. Questi è impacciato nel comunicare a Ferrando
che Dorabella ha ceduto facilmente, ma è felice del fatto che Fiordiligi si sia dimostrata "la modestia
in carne", commentando l’infedeltà di Dorabella.
In casa, Dorabella esorta Fiordiligi a divertirsi. Fiordiligi decide di travestirsi da ufficiale e raggiungere il promesso sposo sul campo di battaglia: si fa portare delle vesti maschili, si guarda allo specchio,
constata il fatto che cambiare abito significa perdere la propria identità; immagina di trovarsi già sul
posto e che Guglielmo la riconosca, ma Ferrando la interrompe, e chiede la sua mano, rivolgendosi a
lei con parole che probabilmente Guglielmo non le ha mai detto. Guglielmo ha assistito al dialogo, è
furente, e anche Ferrando odia la sua ex fidanzata, ma Don Alfonso, che ha dimostrato quanto voleva,
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Roberto Iovino
Caro Amadeus
li esorta a finire la commedia con doppie nozze. Don Alfonso spiega di non voler accusare le donne,
anzi le scusa, è colpa della natura se "così fan tutte".
Il banchetto nuziale è tuttavia interrotto dal ritorno dei fidanzati dal fronte. Nascosti gli albanesi in una
stanza, esse si preparano ad accogliere Ferrando e Guglielmo, che fingono di insospettirsi quando scoprono il notaio (Despina) e il contratto. Don Alfonso si giustifica: ha agito a fin di bene, per rendere
più saggi gli sposi. Le coppie si ricompongono e tutti cantano la morale: "Fortunato l’uom che prende
/ ogni cosa pel buon verso, / e tra i casi e le vicende / da ragion guidar si fa".
L’eleganza di una commedia
L’opera mette dunque in scena la crudeltà
dei rapporti fra i sessi e la pretesa maschile
del monopolio fisico su un’altra persona. Il
tema del tradimento e della infedeltà non è
certo una novità nel teatro comico. Mozart
aveva già ampiamente trattato l’infedeltà
maschile (si pensi al Conte o a Don Giovanni). In campo femminile si possono segnalare servette e popolane furbe pronte ad approfittare di qualunque occasione per mettersi in mostra. In
Così fan tutte, però, alla prova sono messe due donne di condizione elevata. E il verdetto è di
colpevolezza, tanto che il lavoro è stato spesso accusato di misoginia.
Canta il vecchio saggio Don Alfonso (Atto I, scena I):
E' la fede delle femmine/ come l'Araba fenice:
che vi sia ciascun lo dice/ dove sia nessun lo sa!
Al di là della interpretazione che si può dare dell’opera sul piano filosofico, l’opera può essere
letta come un raffinato e brillante gioco ironico magistralmente condotto da Mozart che lavora
su solo sei personaggi (tre coppie), ottenendo esiti musicali straordinari, tanto nei ricchi ed
abbondanti concertati, quanto nelle arie. Su tutte, vale la pena ricordare «Come scoglio» (atto
I, scena XI) intonata da Fiordiligi, dalla scrittura impervia e dai toni drammatici: un’aria “eroica” a sottolineare la fedeltà della ragazza che «come scoglio immoto resta contro i venti e
la tempesta», non si lascia insomma deviare dai suoi sentimenti d’amore nei confronti del fidanzato.
La clemenza di Tito
La genesi
Il 6 settembre 1791 era prevista a Praga la cerimonia di incoronazione dell’imperatore Leopoldo II a re di Boemia. Per celebrare degnamente l’avvenimento le autorità locali decisero di
commissionare un’opera nuova. L’impresario del Teatro di Praga contattò probabilmente
prima Salieri che declinò l’invito. E si rivolse allora a Mozart che invece accettò immediatamente. Si dice che la commissione arrivò ad Amadeus in agosto e la composizione sia stata
conclusa in circa diciotto giorni. Sembra però che il contratto sia stato stipulato in luglio, il
che contraddice la leggenda dei diciotto giorni, anche se non concede molto tempo in più al
compositore!
Per l’occasione fu rispolverato un vecchio libretto che Metastasio, La clemenza di Tito scritto
nel 1734 (in occasione dell’onomastico dell’imperatore Carlo VI) per Caldara e poi ripreso da
vari autori fra i quali Hasse (1735) e Gluck (1752). Scelta non casuale: la magnanimità di un
imperatore romano ben si accordava alla celebrazione del nuovo re boemo. La rielaborazione
fu affidata a Caterino Mazzolà.
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Roberto Iovino
Caro Amadeus
La trama
Atto I - L'azione si svolge nell'antica Roma. Vitellia, figlia dell'ex Imperatore Vitellio, cospira contro
il nuovo imperatore Tito e cerca di convincere Sesto (amico di Tito, ma di lei innamorata) ad aiutarla
nella congiura.
Nel Campidoglio, Tito annuncia di aver rinunciato a sposare Berenice, una principessa barbara, poiché vuole unirsi con una donna romana.
Sesto si avvicina a Tito insieme all’amico Annio, per chiedere il suo beneplacito alle nozze
fra Annio stesso e Servilia, sorella di Sesto. Tuttavia entrambi scoprono con amara sorpresa che la donna romana che Tito vuole sposare è proprio
Servilia. Annio in particolare rimane sbalordito, ma per amore di Servilia, è disposto anche a perderla.
Servilia però confessa all'Imperatore l'amore che la lega ad Annio; Tito allora, in tutta la sua bontà,
ammira la sincerità dei due giovani e rinuncia alle sue nozze con lei.
Vitellia intanto, non essendo a conoscenza del rifiuto di Servilia al trono, diventa furiosa dalla gelosia
e ordina a Sesto di dar fuoco al Campidoglio e di assassinare Tito; Sesto, accecato dall'amore per Vitellia, le obbedisce e si dichiara pronto a uccidere l'amico. Non appena questi è partito, giungono da
Vitellia Annio e Publio, prefetto del Pretorio, i quali la informano che Tito ha scelto lei come sua sposa: la principessa rinsavisce e tenta invano di richiamare Sesto. Sesto, benché tormentato da continui
rimorsi e indecisioni, è tuttavia risoluto nel soddisfare Vitellia, e riesce infine a svolgere il compito che
gli è stato assegnato. L'incendio del Campidoglio e la notizia della congiura chiamano tutti i personaggi e la folla sulla scena. Il primo atto si conclude con un concertato in cui il coro dei Romani e gli amici piangono la morte dell'amato Imperatore.
Atto II - Nella prima scena, Annio informa Sesto che Tito in realtà è sopravvissuto alla congiura. Sesto, pentito e oppresso dai sensi di colpa, confessa all'amico il suo tradimento e si dichiara deciso a
fuggire in esilio, ma Annio lo invita a confidare nella clemenza dell'Imperatore. Ma Sesto è stato scoperto: giunge Publio coi soldati ad arrestarlo mentre egli assicura a Vitellia la sua fedeltà. Cambia scena, gran sala delle udienze: Tito appare in pubblico; il popolo e i patrizi cantano un coro di ringraziamento agli dèi per avere risparmiato Tito nella fallita congiura. Tito è convinto dell'innocenza di Sesto,
ma Publio gli fa notare che chi non è capace di tradire, non si rende conto quando è tradito. Tito viene
dunque informato che Sesto in persona ha confessato la sua congiura al Senato, e quest'ultimo ha già
emesso la condanna a morte, a cui manca solo la firma dell'imperatore. Compare Annio a perorare la
causa dell'amico, confidando nella clemenza e nel gran cuore di Tito. L'Imperatore però, incredulo, è
quasi sul punto di firmare la condanna a morte, ma infine decide di vedere di persona Sesto prima di
prendere qualunque decisione. I due si vedono, e sono colti da grande emozione; Tito è deciso a perdonare il traditore, ma questi, pur di non tradire Vitellia, non vuole confessare il motivo per cui ha attentato alla sua vita e dichiara di meritarsi la morte, anche se continua a nutrire sentimenti di amicizia
verso Tito e ne implora il perdono. L'Imperatore, adirato, lo condanna alle fiere; ma, dopo avere firmato la condanna, la straccia: "E se accusarmi il mondo vuol pur di qualche orrore / m'accusi di pietà,
non di rigore". Davanti a Publio afferma però che la condanna è stata sottoscritta, e canta la sua aria in
cui esalta la figura del principe illuminato. Vitellia nel contempo è angosciata dalla sorte di Sesto;
Servilia la implora di chiedere, in qualità di futura sposa, la grazia per il fratello condannato. Tuttavia,
di fronte all'indecisione di Vitellia, Servilia si stizzisce, e critica la sua ambiguità. A questo punto, colpita dalle parole di Servilia, Vitellia decide di rinunciare al trono e alle nozze confessando la sua congiura all'Imperatore. Cambia scena: nell'anfiteatro il popolo celebra la grandezza di Tito. Proprio mentre Tito sta per condannare Sesto, giunge Vitellia che rivela di essere la seduttrice del suo amico e la
mandante del delitto. L'Imperatore, rimasto stupefatto dalle nuove rivelazioni, decide tuttavia di perdonare tutti e termina con una magnifica azione di clemenza: "Sia noto a Roma ch'io son lo stesso, e
ch'io tutto so, tutti assolvo e tutto oblio". L'opera si chiude con i protagonisti e il popolo romano che
lodano la clemenza di Tito, anche se Sesto non riesce ancora a perdonarsi il suo tradimento.
La fortuna dell’opera
Con La clemenza di Tito Mozart tornò all’opera serie italiana, dieci anni dopo la fortunata esperienza dell’Idomeneo. Una rivisitazione del genere fatta con la solidità di un’esperienza af48
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Caro Amadeus
finata sulle tavole dell’opera buffa e del Singspiel. Mozart cambiò dunque la struttura arricchendola di concertati, di duetti, di terzetti e concludendo con una imponente scena d’insieme
con voci solistiche e coro.
Alcuni dei recitativi obbligati furono scritti dall'ultimo allievo di Mozart, Franz Xavier Süssmayr, ma vennero comunque controllati da Mozart.
L'opera fu rappresentata al Teatro Nazionale la sera del 6 settembre 1791. La risposta del
pubblico fu piuttosto fredda: la moglie di Leopoldo, Maria Luisa di Borbone, si espresse in
modo colorito dicendo che era «una porcheria tedesca in lingua italiana».
Contribuì probabilmente al giudizio negativo il fatto che il libretto era ben conosciuto
dall’aristocrazia del tempo nelle versioni tradizionali di Caldare o di Hasse. E lo spettacolo di
Mozart aveva evidentemente ben altri contenuti dei quali il compositore era conscio se il 5
settembre 1791 nel catalogo delle proprie opere, annotò:
La clemenza di Tito, opera seria in due atti per l’incoronazione di S.M. l’imperatore Leopoldo
II, ridotta a vera opera dal sig. Mazzolà, Poeta di S.A. l’Elettore di Sassonia.
Nella revisione di Mozart e Mazzolà, l’opera passò da tre a due atti, molte scene vennero tagliate, i recitativi secchi ridotti allo stretto necessario. La maggiore novità sta nell'introduzione di concertati, completamente assenti nell'originale mestastasiano, che prevedeva invece la
consueta alternanza di recitativi e arie, disposte secondo una gerarchia d'affetti per ogni personaggio dell'opera.
Di particolare rilevanza è l’articolato finale del primo atto. Il concitato Terzetto Vengo...aspettate (No 10, Atto I, Sc. 9) nel quale Vitellia apprende da Publio di essere stata scelta
come moglie da Tito, mentre Sesto è già andato al Campidoglio per realizzare la congiura ordita da Vitellia stessa si salda in un tutto unico con il successivo Recitativo accompagnato di
Sesto (scena 10, No 11) che invece di sfociare come sarebbe logico attendersi in un’opera seria in una grande aria, lascia il posto ad un quintetto con il sostegno del coro. La scena
dell’incendio del Campidoglio acquista così una atmosfera di forte tensione drammatica.
Die Zauberflöte
Ciò di cui Lessing riesce a convincerci solo grazie a una pletora di parole, appare chiaro e innegabile nel Flauto magico: uno struggente desiderio di luce e sole. C’è qualcosa, nei toni
dell’opera di Mozart, che richiama la gloria dell’alba sospinta verso di noi come la brezza mattutina che disperde le ombre ed evoca il sole.
Parole di Friedrich von Schiller che coglie lo spirito autentico dell’estremo capolavoro mozartiano, il suo testamento solare, fiducioso, aperto all’umanità. Slancio di fede nell’uomo da
parte di un genio che con l’uomo qualunque aveva ben poco da spartire.
E’ incredibile quell’anno 1791. Incredibile per quello che Mozart ha fatto. E impensabile la
storia della musica senza quei dodici mesi affollati di idee e di creatività.
E’ l’anno del Concerto per clarinetto K622, della Clemenza di Tito, dell’Ave Verum, del Requiem. E, appunto, del Flauto magico. Atto geniale e d’incoscienza da parte di un artista che
aveva molto da perdere e poco da guadagnare.
Il teatro mozartiano annoverava titoli importanti, rappresentati in teatri di Corte. Basta pensare alle Nozze di Figaro, a Don Giovanni e alla stessa Clemenza di Tito.
Il flauto magico nacque per un teatro di second’ordine, su richiesta di un impresario-attoreautore genialoide, ma assai poco introdotto, Emanuel Schikaneder.
Emanuel Schikaneder, nato nel 1751 a Straubin, morto a Vienna nel 1812, curiosa figura di
artista, come Mozart massone (si erano conosciuti diversi anni prima) dopo aver girato per
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Caro Amadeus
molto tempo la provincia bavarese e quella austriaca con la sua compagnia, si era stabilito a
Vienna nel 1789 e lì gestiva il Theater auf der Wien. Una lunga attività nel teatro fra Shakespeare e Lessing, con frequenti incursioni nella musica: proprio nel 1789 aveva presentato la
sua prima opera magica, Oberon, su libretto di Giesecke e musica di Paul Wranitzky. E in
quella stagione si era rivolto a Mozart, offrendogli un libretto dello stesso genere.
Cosa abbia convinto Mozart a gettarsi in questa avventura non è dato sapere con certezza. Da
un lato certamente pesarono i comuni legami massonici (e l’opera è stata interpretata come un
grande monumento alla massoneria). Dall’altro, la volontà del musicista di rilanciare il teatro
tedesco.
Nonostante Amadeus avesse già dato un contributo importante alla forma del Singspiel, mancava tuttavia il “capolavoro” assoluto che una volta per tutte garantisse al teatro tedesco la
stessa dignità degli altri stranieri, in particolare dell’opera italiana, alla cui gloria Mozart aveva contribuito in maniera determinante.
Quel capolavoro fu, appunto, Il flauto magico, capace di conciliare le atmosfere di una fiaba
(dai significati assai profondi, tuttavia) con una partitura di una nobiltà assoluta. Mescolando
tragico e comico, leggerezza e severità in un calcolato gioco in cui voci e strumenti concorrono a creare atmosfere assolutamente sublimi.
Ambientata fuori dal tempo, Il flauto magico vive in realtà più di ogni altro titolo mozartiano
dello spirito del suo tempo: manifestazione riassuntiva di tutto l’illuminismo austriaco. Tutta
la cultura tedesca successiva se ne sarebbe nutrita: Goethe, Herder, Hegel l’ammirarono, Beethoven, critico nei confronti del Don Giovanni, la venerava.
La trama
Atto I - Un paesaggio montuoso, con un tempio sullo sfondo in un Egitto immaginario. Il principe
Tamino, disarmato, è inseguito da un drago; sfinito, cade svenuto... Dal tempio escono tre dame velate
che uccidono il drago e, dopo aver ammirato la bellezza del giovane principe, si allontanano per informare della sua presenza la loro signora, la Regina della Notte. Tamino, ripresi i sensi, crede di dovere la propria salvezza a Papageno, un uccellatore vagabondo vestito di piume, sopraggiunto nel frattempo.
Ma Papageno è subito smascherato e punito per la sua menzogna
dalle tre dame, che gli chiudono la bocca con un lucchetto d’oro e
mostrano al principe il ritratto di Pamina, figlia della Regina della
Notte: il giovane se ne innamora all’istante. Con fragore di tuono
appare la Regina della Notte, che spiega a Tamino come la figlia
sia stata rapita dal crudele Sarastro e supplica il principe di liberarla, promettendogliela in sposa. Le dame donano al giovane un flauto d’oro incantato. A Papageno, liberato dal lucchetto, consegnano invece un carillon magico e gli ordinano di accompagnare Tamino
nell’impresa.
Sala nel palazzo di Sarastro. Pamina, che ha tentato di fuggire per sottrarsi alle insidie del moro Monostato, è stata nuovamente catturata. Sopraggiunge Papageno, che involontariamente mette in fuga
Monostato, spaventato dal suo strano aspetto. Papageno rivela alla fanciulla di essere stato inviato dalla Regina della Notte, insieme a un giovane principe che l’ama. Guidato da tre fanciulli,Tamino giunge dinanzi a tre templi: se l’accesso al tempio della Ragione e a quello della Natura gli viene impedito,
si schiude la porta del tempio della Sapienza. Un sacerdote gli spiega che Sarastro non è un essere
malvagio. Rimasto solo, Tamino si domanda se la giovane sia ancora in vita. Un coro invisibile risponde di sì. Risollevato, il giovane comincia a suonare il flauto e subito sbucano dal bosco gli animali
resi mansueti dal suono dello strumento. Da poco lontano Papageno risponde con il suo zufolo al richiamo del flauto. Il carillon magico di Papageno obbliga Monostato e alcuni servi, che stavano per
catturarlo insieme alla fanciulla, a danzare e marciare come per magia. La giovane implora Sarastro
perdono per la fuga, ma Sarastro si rifiuta di lasciar tornare Pamina dalla madre. Tamino viene trascinato da Monostato al cospetto di Sarastro. Il principe e Pamina si abbracciano. Sarastro ordina che
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Caro Amadeus
Monostato venga punito per aver insidiato la fanciulla e fa condurre Tamino e Papageno al tempio degli iniziati.
Atto II - Sarastro chiede ai sacerdoti degli iniziati di accogliere Tamino nel tempio, dove verrà sottoposto alle prove per entrare nella schiera degli eletti e sposare Pamina: tutti invocano Iside e Osiride
affinché donino alla nuova coppia saggezza. Tamino viene condotto nell’atrio del tempio per essere
sottoposto alla prima prova: mantenere il silenzio qualunque cosa accada. Da parte sua, Papageno si
mostra spaventato e recalcitrante. Si lascia convincere dalla promessa di ottenere finalmente una compagna. I tentativi delle tre dame, inviate dalla Regina della Notte per costringerli a parlare, sono respinti, e alla prima prova superata Monostato si avvicina furtivamente a Pamina addormentata: vorrebbe baciarla, ma è cacciato dalla Regina della Notte che, porgendo un pugnale alla figlia, le ordina di
vendicarla uccidendo Sarastro. Monostato, non visto, ha ascoltato tutto e minaccia di rivelare l’intrigo
qualora Pamina non acconsenta alle sue brame. Ma giunge in tempo Sarastro, che dopo aver scacciato
Monostato si rivolge a Pamina spiegandole che solo l’amore, non la vendetta, conduce alla felicità.
Sala del tempio. Tamino e Papageno sono invitati dai sacerdoti a rimanere ancora in silenzio. Papageno inizia a conversare con una vecchia che scompare non appena egli le domanda quale sia il suo nome. Ricompaiono i tre fanciulli, che recano, insieme agli strumenti di Tamino e Papageno, una tavola
imbandita. Mentre Papageno è felice di mangiare e bere, Tamino suona tristemente il suo flauto. Sopraggiunge Pamina, ma alla sua gioia di rivedere l’amato Tamino non può rispondere. Disperata, Pamina crede di non essere più amata e si augura la morte.
Antro delle piramidi. Sarastro esorta i due innamorati a pazientare, giacché altre prove li attendono. Al
suono del carillon, Papageno medita sulla sua solitudine e sul suo desiderio di incontrare finalmente
una donna che sia fatta per lui. Riappare la vecchia, che cela in realtà la bella Papagena. Quando Papageno cerca di abbracciarla, la giovane scompare. Un giardino. Pamina, credendosi abbandonata da
Tamino, tenta di uccidersi, ma è salvata dai tre fanciulli, che la rassicurano sui sentimenti dell’amato.
Paesaggio montuoso. Tamino è scortato nel frattempo da due armigeri che lo conducono alle prove
supreme del fuoco e dell’acqua, e poco dopo Pamina si unisce a loro. Al suono del flauto magico, le
prove sono superate con successo. Ma Papageno è disperato perché Papagena è scomparsa. I tre fanciulli gli suggeriscono di suonare il carillon magico e così la fanciulla riappare. Nella scena conclusiva
Monostato, la Regina della Notte e le tre dame meditano di uccidere Sarastro e di prendere così il sopravvento sugli iniziati, ma sono subito travolti e vinti. Tutta la scena è invasa dalla luce del sole. Sarastro e i sacerdoti celebrano la vittoria della luce sulle tenebre.
La fortuna dell’opera
Il libretto del Flauto magico (le cui fonti sono tratte da Oberon e dalla novella Lulu, entrambe
di Wieland) è certamente complesso e variamente interpretabile. Schikaneder voleva una fiaba orientaleggiante con una fata buona, un mago malvagio, una coppia di innamorati. Una vicenda vitalizzata da una messinscena ricca di spettacolarità con animali, curiose trovate, momenti di popolare comicità. La trama come era stata inizialmente concepita prevedeva che
l’eroe venisse incaricato dalla regina delle fate, di ritrovare la figlia rapita dal mago cattivo.
Un flauto magico avrebbe reso l'eroe capace di condurre a termine la sua missione. Per qualche ragione che non è mai stata chiarita in modo soddisfacente, il soggetto primitivo venne
però ribaltato: il mago cattivo (come abbiamo letto qui sopra) si trasformò nell’emissario del
Bene, mentre la regina delle fate divenne l'agente del Male. La lettura del Flauto magico può
dunque essere condotta su un doppio binario: a livello superficiale soffermandosi sulla favoletta, a livello più profondo scendendo negli abissi filosofici di una lotta che non si ferma a
Sarastro e alla Regina, ma coinvolge il bene e il male in una visione più globale, alla quale
non fu estranea la comune appartenenza da parte degli autori alla Massoneria.
Nel Flauto magico si ammira l’insieme e il particolare. Mozart va al di là dei consueti confini
del Singspiel, immettendo nell’opera l’esperienza italiana e non solo quella, in una coinvolgente e sintetica pluralità di stili. Si è, dunque, soggiogati dalla fattura dei cori e dei concertati: brillanti, divertenti, ma anche maestosi, imponenti, pervasi da un senso di mistero e di austerità (le invocazioni agli dei, gli interventi di Sarastro e dei sacerdoti ecc.).
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Caro Amadeus
Si sorride ai duetti amorosi di Papagena e Papageno (il celebre “Pa, pa, pa, pa”). E si rimane
abbagliati e turbati dalle acrobazie fredde e impetuose della Regina della Notte. Impossibile
paragonare l’aria “Der Hölle Rache” a nessun’altra pagina mai concepita per la voce femminile: voce che si fa strumento, si arrampica in acuti inarrivabili, con picchettati magici.
W.A. Mozart – Il flauto magico: un passo da Der Hölle Rache
L’eccezionalità della scrittura rimanda ad un’altra figura mozartiana, sia pure di importanza
assai minore, al Commendatore del Don Giovanni: anche in quel caso, lo abbiamo notato, la
vocalità impervia serviva a rendere la inumanità della figura non più terrestre, ma, in quel caso, celestiale. E’, il Mozart del Flauto magico, già proteso oltre, che parla e comunica attraverso figure simboliche. Dopo aver affrontato la grande commedia umana con Figaro e Susanna, Don Giovanni e Leporello, Dorabella e Despina, ora, con Sarastro, con la Regina della
Notte e con Tamino, il musicista esplora altre realtà, altri mondi. Prepara la strada al teatro tedesco ottocentesco che al romanzo, alle storie degli uomini, preferirà leggende, miti. Si pensi
a Weber (Franco cacciatore) e soprattutto a Wagner.
Il flauto magico fu accolto con entusiasmo al suo apparire e, caso alquanto unico per Mozart,
spesso maltrattato dai suoi contemporanei, il successo andò in crescendo.
Lo stesso Mozart una settimana circa dopo il debutto (30 settembre 1791, Theater auf der
Wieder a Vienna) scriveva alla moglie11:
Il duetto Mann und Weib e il carillon del primo atto sono stati come sempre ripetuti e così il terzetto dei fanciulli nel secondo atto. Ma quello che mi fa più piacere è l’approvazione muta. Si
vede bene come quest’opera stia crescendo sempre più nella stima del pubblico.
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Lettera di Amadeus a Costanza il 7 e 8 ottobre 1791, in W.A. Mozart, Lettere, cit.
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