La magia dellincontro
- Claudio Corvino, 01.07.2015
Saggi. «Ernesto de Martino. Teoria antropologica e metodologia della ricerca» di Amalia Signorelli,
per L'Asino d'oro. Un libro che ripercorre gli studi del fautore dell'umanesimo etnografico fondato
sullo scambio con l'altro da sé
Guardando al secolo scorso oramai da un certa distanza, potremmo dire che il Novecento fu il secolo
della ri-scoperta dell’altro. Un «altro» che non abitava solo quell’«interno mondo straniero» indicato
da Freud o quegli esotici mondi transoceanici che romanzieri, pittori e antropologi andavano
esibendo, ma soprattutto alterità più vicine e domestiche, diversità endotiche a poche ore di
macchina dalle nostre città.
A mostrarcene la consistenza, l’importanza e i significati fu, a metà del Novecento, Ernesto de
Martino con le sue ricerche nel Mezzogiorno italiano, tra mondi magici e lamentazioni funebri,
tarantismo e jettatura. Un quadro completo e puntuale dei suoi studi, della sua collocazione nel
panorama intellettuale e antropologico europeo, delle sue teorie e metodologie di ricerca sul campo
ci viene offerto dal libro di Amalia Signorelli Ernesto de Martino. Teoria antropologica e metodologia
della ricerca (edizione L’asino d’oro, XXII + 137, euro 18). Quattro densi capitoli che spiegano,
raccontano, riprendono e approfondiscono «il duplice problema della coerenza e compiutezza della
teoria antropologico-culturale di de Martino, nonché della utilizzabilità qui e ora di quella teoria».
Chimere e miti
Partendo da una vecchia querelle di origine positivista che divideva l’antropologia tra «impegnata» (
committed) e avalutativa (value-free), il volume di Signorelli mostra immediatamente come de
Martino non abbia mai creduto alla possibilità di un’asettica osservazione «oggettiva» della realtà fin
dal suo primo volume, Naturalismo e storicismo nell’etnologia (1941). Perché l’antropologo è dentro
la storia esattamente come lo sono coloro che osserva e, inoltre, nella ricerca antropologica c’è un
elemento di mutevolezza continua, dovuto sia ai cambiamenti dell’osservatore, sia a quelli della
stessa realtà osservata.
Presupporre il contrario, può essere superficiale quando non potenzialmente pericoloso sul piano
etico e politico, come esemplifica Amalia Signorelli, citando quelle istituzioni o imprese che sfruttano
tali approcci considerati «neutrali»: «dall’industria turistica specializzata nei viaggi che fanno
’scoprire’ mondi ’diversi’ stereotipati ad hoc, onde farli aderire all’aspettativa di esoticità del turista,
agli interventi assistenziali e di aiuto umanitario che si legittimano identificando la diversità con
l’inferiorità, quanto meno con il ’bisogno di aiuto’; per finire con le ideologie e le pratiche dei partiti
e dei gruppi politici separatisti, radicate in una visione ontologica della diversità, visione che quasi
sempre mette capo a forme di vero e proprio razzismo».
De Martino visse appieno lo scandalo della guerra mondiale e descrisse quegli anni bui come «gli
anni in cui Hitler sciamanizzava (…) in Europa». Certo oggi gli «sciamani» delle nostre società fanno
meno parate militari, ma resiste una loro pericolosità potenziale, legata al potere di manipolazione
del logos e anche alla larga adesione di molti cittadini a messaggi sempre più legati a mitologie,
irrazionalismi e a tutti i vari idòla di baconiana memoria.
Sembra apparire all’orizzonte un nuovo sciamanesimo di Stato, un nuovo mondo magico, che è poi il
titolo di un altro volume di de Martino discusso da Signorelli in un capitolo intitolato
significativamente «Antropologia orientata da valori, antropologia libera da valori».
Con Il mondo magico (1948) l’antropologo napoletano si allontana dall’ambito dello storicismo
crociano per esplorare temi e persone esclusi dalla storia e mostrare che «il magismo – a scrivere è
Signorelli – è a pieno titolo una concezione del mondo e della vita in cui la questione dell’efficacia
dei poteri magici ci obbliga ad affrontare questioni fondamentali anche per noi». Questioni che
potrebbero essere riassunte – secondo l’autrice – nel condizionamento culturale della natura, nella
crisi culturale e nella psicopatologia della presenza umana sulla terra, nelle possibili vie d’uscita dal
disagio.
Era inevitabile che, dopo il magismo, l’esplorazione demartiniana si rivolgesse ad altre forme di
alterità endotiche, ai contadini lucani e del Sud, considerati allora come un «problema storico al pari
del mondo magico». Fu qui che de Martino visse sulla propria pelle quei continui riposizionamenti
esistenziali e teorici che ogni esperienza di campo provoca, che sia tra le isole Trobriand o tra gli
ultras della propria città. Fu ancora qui che nascerà in lui quella «condizione fondamentale che
inaugura l’umanesimo etnografico». Un umanesimo che, andando molto al di là del significato
storico che siamo soliti attribuirgli, in genere collegandolo al Rinascimento, sia basato sull’ethos del
confronto con esseri diversi da noi ma uniti dalla comune umanità.
Fuori dal limite
Per de Martino, insomma, è l’uomo di scienza, l’etnologo, che deve risvegliare, grazie all’incontro
etnografico, la coscienza storica delle scelte che l’Occidente ha fatto (e continua a fare). «L’altro da
noi – spiega Amalia Signorelli – è strumento della scoperta dei limiti dell’Occidente e dunque anche
dei rischi di crisi che incombono sulla nostra stessa cultura».
Tutto il volume è una testimonianza della dimensione umana e intellettuale del ricercatore de
Martino e ne ricostruisce i passaggi più significativi del percorso formativo, da Vittorio Macchioro a
Antonio Gramsci, da Karl Marx a Raffaele Pettazzoni, passando ovviamente per Benedetto Croce e
altri. Si tratta di una ricostruzione non semplice, confessa la stessa Signorelli, e non solo per quella
sorta di «eclettismo» che ha sempre caratterizzato lo studioso, ma anche per quella sua incrollabile
fede nello «storicismo assoluto» che forse – suppone l’antropologa – gli ha permesso di rivedere
costantemente le proprie ipotesi teoriche.
Altro fondamentale concetto del percorso demartiniano, tra i tanti proposti, riguarda il binomio
natura/cultura: l’uomo non ha rapporti con la natura se non modellati dalla sua cultura, perché
«chiedersi cosa sia la natura in sé è domanda che può nascere solo da una ‘radicale inintelligenza
del metodo storiografico’, dello stesso tipo di quella che fa nascere l’’illegittima richiesta di un
concetto che qualifichi che cosa sia in sé la magia per gli uomini in sé che la praticano’».
Restando fedele al suo professore (Signorelli si laureò con Ernesto de Martino nel 1957),
l’antropologa scrive che «è solo e sempre ‘per entro il movimento della coscienza storiografica’ che
si formulano le domande e le risposte, e si producono concetti».
Ma questo binomio natura/cultura rischia di essere interrotto dalla morte, altro tema trattato
soprattutto nel volume Morte e pianto rituale, del 1958. L’uomo attraverso la sua peculiare capacità
di produrre significati e valori riesce a vincere la morte, a condizionarla culturalmente «in quanto –
chiosa Signorelli, riprendendo de Martino – ci consente di affrontare ‘la potenza reale della morte
naturale’, opponendole ‘la potenza reale della regola umana della morte’».
Radici consapevoli
Il compito principale dell’uomo resta quello di essere presente nel mondo, di non viverlo
distrattamente. Compito esemplificato nel concetto demartiniano di esserci nel mondo, dove quel ci –
che differenzia l’esserci dall’essere – allude precisamente alla differenza tra stare al mondo senza
sapere di starci e vivere sapendo che cosa sia il mondo e che cosa sia l’ente che chiamiamo esserci
nel mondo, cioè in buona sostanza, noi stessi in quanto esseri umani. Ne consegue dunque che l’idea
di «non esserci» elimini – secondo l’autrice – «la necessità di ogni spiegazione metafisica del
negativo dell’esistenza, dalla colpa originaria al degenerazionismo; storicizza ciò che è negativo».
Il volume di Signorelli è informato anche da un altro concetto fondamentale di de Martino,
l’etnocentrismo critico, ovvero lo sforzo che ogni antropologo dovrà fare per prendere coscienza
delle sue inevitabili radici culturali, delle sue stesse categorie di osservazione, differenti da quelle
del suo oggetto di ricerca. Ma è proprio questo rimettere in discussione le categorie analitiche che
può far nascere la consapevolezza del proprio operare: un punto di vista critico che faccia di ogni
incontro un momento costruttivo di crescita e non la produzione di un giudizio, di inevitabile
superiorità.
È dunque in questo spirito «impegnato», civile che sta tutta la modernità di de Martino e del volume
qui recensito. La realtà per l’antropologia demartiniana non è altro che una sorta di laboratorio
civile e scientifico al tempo stesso, un laboratorio in cui l’incontro etnografico diviene metafora di
ogni incontro e sistema di lettura del mondo. In un’Italia in cui la politica sembra essere subìta e non
costruita insieme, la rilettura di Ernesto de Martino serve a ricordarci che l’impegno civile,
scientifico, intellettuale non può esistere al di fuori delle scelte, delle prese di posizione, di una vita
«orientata da valori». O, per dirla con le stesse sue parole, «potrà essere lecito sbagliare nel giudizio:
non giudicare non è lecito. Potrà essere lecito agir male: non operare non è lecito».
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