Stupefacenti e repressione penale: un banco di prova per la tenuta dei principi
costituzionali
La disciplina penale in materia di stupefacenti ha subito, di recente, una vera e propria
"rivoluzione". Nel febbraio 2014, difatti, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 32, ha sancito
l'illegittimità costituzionale della c.d. legge Fini-Giovanardi: è un fatto noto a tutti.
Ma con quale motivazione una parte di quella legge è stata eliminata? Approcciandomi allo
studio di questa complessa materia, qual è quella della disciplina penale in materia di stupefacenti,
ed esaminando quali sono state le modifiche che la legge Fini-Giovanardi ha apportato al Testo
Unico in materia di sostanze stupefacenti e psicotrope (D.P.R. n. 309 del 1990), mi sono molto
stupita del fatto che questa fosse sopravvissuta nel nostro ordinamento per otto, lunghi anni. Di
fatto, il suo contenuto contrastava con una numerosissima serie di principi costituzionali, a partire
dal principio di eguaglianza-ragionevolezza (art. 3).
Ciononostante, la Corte non si è addentrata ad esaminare il contenuto di quella legge. Si è,
cioè, limitata a rilevare come questa, dal punto di vista formale, si ponesse in contrasto con il
secondo comma dell'art. 77 della Costituzione: una norma, quest'ultima, che individua i casi in
cui il Governo può avvalersi dello strumento del decreto legge, e che disciplina le modalità tramite
le quali questo, entro i sessanta giorni dalla sua emanazione, deve essere convertito dalle Camere.
Queste modalità, nel corso della XIV Legislatura della Repubblica italiana, secondo la Corte
costituzionale, sono state del tutto eluse dal Governo Berlusconi. Senza entrare nei dettagli tecnici
della pronuncia, da questa emerge un dato incontestabile: il Governo, in quella situazione (ed in
molte altre, in realtà), si è avvalso impropriamente dello strumento del decreto legge, utilizzandolo
per consentire l'ingresso nel nostro ordinamento di nuove norme penali, senza che queste
venissero sottoposte al controllo parlamentare. Quando si dice che in diritto la forma è anche
sostanza...
Il diritto penale, si sa, è il settore più delicato di qualunque ordinamento giuridico. Le ragioni
sono evidenti: è tramite quest'ultimo che lo Stato può, nelle forme del processo penale, esercitare la
sua forza coercitiva, che a sua volta può tradursi nella limitazione della libertà più incisiva che
l'ordinamento italiano ha a disposizione, ovvero la pena. Si giustifica alla luce della estrema
delicatezza e pericolosità di questo strumento, quindi, la prescrizione di cui al secondo comma
dell'art. 25 della nostra Costituzione: nessuno può essere punito se non in forza di una legge.
Riserva di legge in materia penale: un principio cardine del nostro ordinamento giuridico, in
virtù del quale soltanto il Parlamento può decidere chi, cosa, come, quando incriminare. Il
controllo operato dalle minoranze in sede parlamentare, difatti, è fondamentale per garantire che il
diritto penale non diventi un grimaldello tramite il quale il Governo possa perseguire degli
interessi non condivisi dall'intera collettività.
In realtà, è lo stesso concetto di "perseguimento degli interessi", che male si adatta al diritto
penale. Più che perseguire interessi ed obiettivi generici, il diritto penale dovrebbe essere
predisposto, invece, esclusivamente per proteggere beni, beni giuridici. Questo significa, cioè, che
il diritto penale non dovrebbe essere utilizzato, ad esempio, "per eliminare dalla faccia della terra
tutti i ladri in quanto ladri", ma, piuttosto, per proteggere il bene giuridico che il furto è in grado di
ledere (il patrimonio). Si tratta di una prospettiva diversa, significativa in alcuni casi speciali, come
quello delle droghe: è la prospettiva del principio di offensività del reato. Secondo quest'ultimo,
cioè, un comportamento può essere punito soltanto laddove provochi una lesione o, almeno, una
messa in pericolo di uno o più beni giuridici, che coincidono all'incirca con quelli contemplati dalla
Costituzione stessa. Un comportamento, insomma, non può essere punito in quanto tale:
perlomeno, non da quando abbiamo adottato la Costituzione.
Quali sono i beni giuridici protetti dalla normativa penale in materia di stupefacenti? Andare
alla ricerca di questi beni è impresa ardua: si devono superare diversi "muri", costruiti dai
compilatori della legge, dai media e dalla stessa giurisprudenza, impegnata nel tentativo di
cercarne una giustificazione razionale, nel rispetto del principio della separazione dei poteri. Una
volta superato, tuttavia, il muro dell'ordine pubblico (pregiudicato dalla criminalità organizzata:
nulla di più vero, ma non esistono già delle norme che puniscono l'associazione a delinquere?),
della salute pubblica (ma la droga non è un'epidemia o una catastrofe naturale!), della sicurezza
pubblica, della tutela delle giovani generazioni, ecc., è impossibile non imbattersi nell'unico
risultato, a mio parere, sensato. La disciplina penale in materia di stupefacenti si propone di
proteggere il bene giuridico della salute individuale. Le droghe sono pericolose, impedirne la
circolazione è il sistema più adeguato per proteggere la salute di coloro che potrebbero assumerle:
questo il ragionamento del legislatore.
A questo punto, si aprono di fronte a noi ulteriori problemi, che non sono stati risolti dalla
sentenza della Corte costituzionale, nonostante questa abbia ripristinato la più virtuosa
distinzione sanzionatoria tra le condotte riguardanti droghe pesanti e le condotte riguardanti
droghe leggere.
Il punto più delicato, a mio parere, non è tanto quello relativo alla cannabis (e cioè: le droghe
leggere sono pericolose per la salute? Ma soprattutto: le droghe leggere sono più pericolose per la
salute degli alcolici, del tabacco, del gioco d'azzardo, ecc.?), in relazione alla quale già si dice molto
nel dibattito politico e sulla cui necessità di legalizzazione non nutro alcuna perplessità, quanto
invece quello relativo alle droghe pesanti: nessuno, per fortuna, metterà mai in dubbio la loro
pericolosità, e le conseguenze drammatiche che anche un'assunzione limitata è in grado di
provocare, nel corpo e nell'anima. Il problema è: dal punto di vista giuridico, la configurazione
delle norme in questione è debolissima in punto di offensività, perchè esse si propongono di
proteggere la salute di chi assume, punendo però chi produce, chi traffica, chi detiene (per
vendere) le sostanze, nonostante la salute non sia lesa, nè messa in pericolo, da queste condotte in
sè, se non in modo davvero "astratto", o, per utilizzare un linguaggio giuridico, in modo
estremamente "anticipato".
Siamo sicuri che, forzando i limiti del principio di offensività, e tentando (peraltro in modo
infruttuoso: gli studi che affermano che la war on drugs sia fallita sono molti) di eliminare i
produttori ed i trafficanti di queste sostanze, elimineremo il problema della droga? Il punto centrale è
che la lesione della salute interviene soltanto con l'assunzione della sostanza: e questa lesione è
sempre frutto di una scelta di una persona: sbagliata, fatta in un momento di difficoltà,
inconsapevole, non condivisibile. Ma pur sempre una scelta: la scelta di mettere in pericolo la
propria salute.
Questo non significa che lo Stato non debba intervenire. Pensare che chi intraprende la strada
dell'eroina debba essere "lasciato in pace", equivale a pensare che sullo Stato non gravino una serie
di doveri che invece sono previsti dalla Costituzione. Ciononostante, pensare di dominare il
consumo delle droghe, reprimendone la produzione ed il traffico, per il tramite del diritto penale,
significa, a mio parere, voler "spostare" il problema, e significa non tenere conto del fatto che la
domanda di stupefacenti, nel corso degli anni del proibizionismo, non è mai diminuita, anzi.
Le soluzioni che potrebbero adottarsi sono diverse, ma non contemplano il diritto penale.
Aldilà della dubbia efficacia di questo strumento nel contrasto al problema della droga, difatti, il
suo utilizzo, come previsto dal Testo Unico in materia di sostanze stupefacenti, risulta distorto
rispetto alle funzioni che la Costituzione gli attribuisce. Il diritto penale, che è extrema ratio di
tutela, non può comportarsi come un padre che si proponga di educare i propri figli con la forza.
L'auspicio è che considerazioni di questo tipo vengano prese in considerazione al più presto,
nell'ambito del primo dibattito parlamentare serio e completo sul tema degli stupefacenti, dopo 24
anni di riforme realizzate "a colpi di maggioranza", nell'elusione quasi totale del principio di
legalità: c'è in gioco la tenuta del nostro sistema penale, che a sua volta è, forse, il banco di prova
più severo per la nostra democrazia.
Giulia Ometto