RAFFAELE MATTIOLI BENEDETTO CROCE MCMLIV Letto nell'adunanza del Rotary Club di Milano il 9 dicembre 1952 e pubblicato da un amico per le nozze del figlio Maurizio Mattioli con la signorina Barbara de Bonstetten celebrate a Milano il 19 giu gno 1954 Egregi Consoci, U N necrologio conviviale è una contraddizione in termini. Né io mi cimenterò in simili acro­ bazie dialettiche. Se ho accettato volentieri l'invito di venirvi a parlare di Don Benedetto, è proprio perché i necrologi son già stati fatti sui giornali, e perché a leggerli si ha una curiosa impressione d'irrealtà, - come se l'opera di Croce fosse finita e conclusa, mentre sotto molti aspetti continua, e sotto alcuni, i più importanti forse, comincia ap­ pena ora. Non vi parlerò dunque di un morto, ma d'un vivo, un vivo che amava le liete compagnie, la con­ versazione fra persone di spirito; che aveva sempre pronto un frizzo, un aneddoto da raccontare e di cui era il primo a divertirsi e a ridere; che, come il dottor Faust, solo tra gli uomini si sentiva com­ pletamente uomo, e socraticamente provava e ripro­ vava la sua filosofia tra la gente di ogni rango, nella vita d'ogni giorno. Ad altri il compito di passare in rassegna le sue 9 conquiste filosofiche, i problemi risolti o spazzati via, i punti di storia chiariti, le nuove interpreta­ zioni dei poeti d'ogni tempo e d'ogni luogo, le sco­ perte filologiche e critiche. Questo è, se volete, il lavoro compiuto da Croce: lavoro immenso, di cui non si sa se più ammirare la mole complessiva o la cura dei particolari, la solida costruzione siste­ matica o il continuo processo di revisione e d'affi­ namento. Ma oltre a questo lavoro compiuto, c'è un altro lavoro che si va tuttora svolgendo, un lavoro che non si vede nei settanta e più volumi delle opere, perché emana da tutta la personalità di Croce. Se elenchiamo le grandi lezioni della sua vita, - la semplicità, la serena indifferenza ai titoli e agli onori, l'aborrimento d'ogni retorica, lo scrupolo as­ siduo del lavoro ben fatto che importa la costante disposizione a rimetterlo sul telaio, l'impavida ri­ cerca e soprattutto l'impavida accettazione del vero, - cominceremo a capire perché noi, tutti noi italiani, oggi più che mai possiamo e dobbiamo trar profitto dal suo insegnamento. Le tesi fondamentali dell'Estetica son entrate or­ mai nel patrimonio comune dell'umanità. La teoria lO della dialettica, su cui si arrovellò fino agli ultimi suoi giorni ( « in ozio stupido la morte non ci può trovare »), ha fatto con lui il primo progresso reale da Hegel in poi, ed è il più attivo fermento nel pensiero contemporaneo. La definizione della filo­ sofia come metodologia della storia è presente alla mente di tutti gli storici, anche di quelli che ne igno­ rano i presupposti logici e si troverebbero imbaraz­ zati a definirne l'esatta portata. La consacrazione della spiritualità dell'attività economica assorbe e chiude secoli di polemiche e permea di sè una mezza dozzina di scienze. Anche le parti ancora più di­ scusse, la teoria dell'errore e la sistemazione delle scienze matematiche e naturali, contengono punti acquisiti e basi di partenza per nuove indagini. Ma al di là di tutti quei volumi, e di quelle di­ squisizioni sottilissime, e della montagna di ricer­ che letterarie, filologiche e storiche, c'era qualcosa di ancor più prezioso, una personalità singolaris­ sima che non ci rassegnamo ad aver perduto. Don Benedetto stesso, con la sua pronta umanità, ci ha indicato la vera scala dei valori. Una volta, forse quarant'anni fa, si presentò da lui un giovane pro­ fessore di filosofia del diritto, Alessandro Levi, cui li egli fece, al solito, le più cordiali accoglienze. Ce­ liando, il professar Levi gli disse: «E pure io per voi, Don Benedetto, non dovrei nemmeno esistere. Sono infatti cultore di una disciplina cui negate la legittimità. Sono positivista, e voi dite che il positi­ vismo è superato e sepolto. Sono socialista, e voi avete proclamato la morte del socialismo ». Sorrise Don Benedetto e replicò: «Ma voi esistete come in­ dividuo, caro Levi, e siete tanto una cara persona »! Ecco, a me piace ricordarvi oggi Benedetto Croce come «una cara persona ». Per conscio che fosse il suo interlocutore dell'altissima mente e dell'inesau­ ribile erudizione di chi gli parlava, mai si sentiva, non che umiliato, intimidito. Anzi, con sua lieta sorpresa, scopriva che il filosofo si interessava ai suoi problemi e ai suoi casi personali, da uomo a uomo, senza ricorrere mai ai supremi princìpi, alle massime eterne o alla travolgente dottrina. Se l'in­ genuo si lasciava cogliere dallo stupore e, quasi annaspando, dopo aver girato lo sguardo sui chilo­ metri di scaffali, si faceva animo di chiedere a Don Benedetto quando e come gli fosse occorso quel tal concetto risolutivo, quella critica radicale, quella sintesi piena di luce, rischiava di sentirsi rispondere 12 molto napoletanamente, con un guizzo ironico nello sguardo: « Ma voi credete che le idee vengano a tavolino, serrando i denti e stringendo le tempie tra i pugni chiusi? Eh, a me sono venute così, per caso: qualche volta mentre m'allacciavo le scarpe, qual­ che volta soffiandomi il naso, e qualche volta men­ tre mi lavavo le mani ». E-non era cinismo questo, non era la posa provo­ cante di Diogene: era il sommesso riconoscimento di una compenetrazione assoluta della vita con la scienza; era, se la parola non vi par troppo forte, una professione di fede. La forma era burlevole, la sostanza di una spontanea, altissima moralità, di una istintiva e insieme ragionatissima antiretorica, - tanto più sorprendente quanto più lo svolgimento del pensiero di Croce è stato organico, coerente, necessario. Anche in questo il suo atteggiamento era goethia­ no. Nell'editoriale che il Times gli ha dedicato, il suo nome e la sua funzione nel mondo sono senz'al­ tro avvicinati a quelli di Goethe. Solo chi pensa per etichette, - il primo degli errori contro cui insorse Croce, - può trovar singolare questo accostamento di un poeta e di un filosofo. Al di là dei loro mezzi 13 espressivi, - e prescindendo naturalmente dal lungo studio e dal grande amore di Croce per Goethe, ed ancor più dal ricordare la ricca filosofia goethiana e l'arte finissima di Croce, perché questo sarebbe un sotterfugio logico, - c'è tra quei due grandi spiriti una segreta affinità. Entrambi han saputo rispec­ chiare e modellare i loro tempi con aderenza e un distacco insieme, una passione ed una serenità, un senso del tragico e un buon umore, che a noi po­ veretti sembrano inconciliabili. E quando Croce at­ tribuisce al caso le sue concezioni filosofiche, non echeggia forse Goethe che diceva « poesie d'occa­ sione » le sue liriche più alte? Evidentemente, la distanza di un secolo abbon­ dante, d'un grandissimo secolo, separa i due uo­ mini: e fa di Croce, per noi italiani, quello che il sommo Goethe, col suo illuminato conservatorismo, non ha potuto esser mai per i tedeschi : un maestro anche di vita civile. Si è fatto un gran parlare in questi giorni del liberalismo di Croce, della sua ferma opposizione al fascismo, della sua attività politica stricto sensu dopo l'armistizio. Non si è chiarita abbastanza, mi pare, quale fosse l'intima natura del liberalismo di Croce. Ultimo erede del 14 Risorgimento, Croce aveva nel liberalismo la sua vera religione. Non era quindi una ideologia poli­ tica, né tanto meno un sistema economico, quello cui rendeva omaggio di reverenza e da cui attingeva la forza della speranza. Anche i partiti liberali non erano per lui che uno degli strumenti attraverso cui la libertà si realizza nella storia; e l'idea liberale dilagava infatti per lui al di là dei punti program­ matici di ogni partito, senza incompatibilità con tipicizzazioni di sistemi economici. Il suo liberalismo coincideva così con il culto della storia, unica fede professionale dell'uomo mo­ derno; e dico culto della storia, e non del passato, perché egli ci ha insegnato che ogni storia è con­ temporanea, e proprio alle lotte del presente la li­ bertà dà una giustificazione e un significato. In que­ sto senso egli soleva ripetere che la storia è storia della libertà, e che alla libertà non appartiene né il passato né il futuro, perché ad essa compete l'eterno. Non occorron parafrasi, dunque, per rico­ noscere nella sua libertà la suprema istanza etica, la voce della coscienza, il verbo di Dio, la Prov­ videnza, o come altro mitologicamente si voglia chiamare. 15 Un concetto così eroico e drammatico della vita potrebbe sembrare poco d'accordo con la vita tran­ quilla, ordinata, diligentissima del vecchio signore vissuto e morto nel cuore della sua Napoli. Ma bisogna guardarsi dai relitti di dannunzianesimo e di mistica nazionalista. Il coraggio più difficile è quello che si deve avere di fronte alle idee: di fronte alle proprie e a quelle altrui: tutte per loro intrinseca virtù rivoluzionarie, e irritanti, e ango­ sciose. Se dovessi riassumere i miei ricordi in una frase, direi che Don Benedetto era un uomo che non aveva paura. Non paura della violenza fisica, non dei fuochi fatui dell'apparenza e nemmeno delle grandi fiammate che bruciano sistemi e istituzioni secolari. Non aveva paura, perché era un uomo onesto e diritto, cui repugnava di contentarsi di compromessi o di approssimazioni. E non aveva paura, perché era un uomo schietto, alieno da ogni forma di fasto e di «vistosa dissipazione ». C'è un aneddoto che lo dipinge in questa sua spontanea ritrosia. Frequentatore assiduo delle infime botte­ gucce di libri usati, - d'una fra l'altre, quella di Pappacena a Port'Alba, vero cafarnao di detriti li­ brari, - visitava una volta, con l'amico Riccardo 16 Ricciardi, la sontuosa biblioteca fiorentina dell'eru­ dito bibliofilo Tammaro de Marinis. Edizioni pre­ giatissime, esemplari unici, legature di regale ma­ gnificenza attrassero la sua curiosità e ammirazione dall'uno all'altro dei ricchissimi e ben ordinati scaf­ fali. Era il paradiso, per un conoscitore e racco­ glitore della sua forza. Ma ad un tratto il Ricciardi lo vide abbandonarsi su uno sgabello e restarvi in pensosa malinconia. «Che avete, Croce? Non vi sentite bene? ». «No, Ricca'! mi è venuta la no­ stalgia di Pappacena ». Di ricordo in ricordo potrei parlarvi ancora a lungo d'un uomo e d'un amico che, lo ripeto, non vogliamo aver perduto, e che difatti non perderemo mai finché ci alimenteremo del suo esempio. E, per intanto, non dimentichiamo che egli ci ha insegnato a non tirar le cose per le lunghe, a non fare di un epitaffio una concione. Edizione di cinquanta esemplari stampati su carta a mano e numerati da uno a cinquanta ESEMPLARE .......:1.1..... .