REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DI MILANO
SEZIONE 46
riunita con l'intervento dei Signori:
PUNZO ROBERTO Presidente
CHIAMETTI GUIDO Relatore
PREDA MIRCO Giudice
ha emesso la seguente
SENTENZA
- sull'appello n. 2294/13
depositato il 24/04/2013
- avverso la sentenza n. 127/1/12
emessa dalla Commissione Tributaria Provinciale di LECCO
proposto dall'ufficio: AG. ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE LECCO
controparti:
(omissis)
(omissis) (omissis)
difeso da:
(omissis)
(omissis) (omissis)
difeso da:
(omissis)
(omissis) (omissis)
Atti impugnati:
AVVISO DI ACCERTAMENTO n. (omissis)/2011 IRES - OP. STRAOR 2005
AVVISO DI ACCERTAMENTO n. (omissis)/2011 IVA - ALTRO 2005
AVVISO DI ACCERTAMENTO n. (omissis)/2011 IRAP 2005
Ricorso per l'annullamento/riforma della sentenza n. 127/01/12, pronunciata dalla Commissione Tributaria
Provinciale di Lecco e depositata il 2 ottobre 2012.
Appellante: Agenzia delle Entrate, Direzione Provinciale di Lecco
Appellato: (omissis)
Con proprio atto di ricorso depositato 24 aprile 2013, l'appellante ufficio interponeva Appello alla sentenza n.
127/01/12, pronunciata il 6 febbraio 2012 e depositata il 2 ottobre 2012 dalla C.T.P. di Lecco, con cui il
Giudice di prime cure accoglieva integralmente il ricorso, promosso dalla parte qui appellata, per
l'annullamento dell'avviso di accertamento n. (omissis), anno d'imposta 2005, emesso e notificato ai sensi
del comma 3 dell'art. 43, D.P.R. 600/73 (cd. raddoppio dei termini, per violazione dell'art. 2, D.Lgs. 74/2000).
Con tale atto impositivo l'ufficio, qui appellante, accertava in capo all'allora ricorrente (omissis) S.p.A. (attiva
nel settore della vendita di materiali ferrosi e non ferrosi), relativamente all'anno d'imposta 2005, una
maggiore base imponibile ai fini delle II.DD., dell'IVA scaturente dal mancato riconoscimento di costi per €.
1.197.360,44 a seguito di operazioni considerate soggettivamente inesistenti.
L'atto impositivo de quo traeva origine dal P.V.C., redatto il 2 marzo 2010 al termine di una verifica fiscale
effettuata dalla Guardia di Finanza di Lecco.
Nel citato documentato istruttorio, i verificatori davano atto dell'utilizzo, ai fini fiscali, delle risultanze del
procedimento penale aperto presso la Procura della Repubblica di Brescia nei confronti di vari soggetti
partecipanti al sistema di frode descritto negli atti istruttori e nell'accertamento impugnato.
La stessa G.d.F., a seguito di verifica fiscale, trasmetteva alla Procura di Lecco comunicazione di notizia di
reato ex art. 347 c.p.p. a carico del sig. (omissis), quale legale rappresentante della società appellata.
La fattispecie in esame traeva origine dalle indagini di polizia giudiziaria svolte dal nucleo di Polizia Tributaria
di Brescia su delega della Procura della medesima città, a seguito delle quali veniva rilevato che tale sig.
(omissis), nel corso del periodo 2004 - 2007, aveva interposto società cd. cartiere a lui riconducibili, per
consentire l'acquisto "in nero" di materiale ferroso a varie società del settore, tra cui la società qui appellata.
In particolare, con riferimento alla fattispecie in esame, la società "(omissis) S.r.l.", riconducibile al citato
(omissis), si interponeva tra i reali cedenti in nero e l'appellata (omissis) (con il ruolo di impresa beneficiaria),
al fine di fornire a quest'ultima la giustificazione contabile dei propri acquisti.
Le fatture emesse dalla (omissis) S.r.l., a favore dell'appellata venivano, pertanto, ricondotte nell'alveo delle
cd. fatturazioni per operazioni soggettivamente inesistenti.
Era altresì emerso che i pagamenti delle fatture in oggetto avvenisse con versamenti su conti detenuti
presso la Repubblica di San Marino e prelevati in contanti dallo stesso (omissis), che li riconsegnava agli
utilizzatori delle fatture, previa decurtazione di quanto dovuto agli stessi.
Ritenevano i verificatori e lo stesso ufficio che la responsabilità oggettiva della società appellata e del proprio
legale rappresentante, risultava chiara sia dalle intercettazioni telefoniche effettuate tra i vari attori della
vicenda processuale, sia da foto e riprese video che risultavano agli atti dell'indagine penale presso la
Procura della Repubblica di Brescia, i cui contenuti erano, tuttavia, ancora parzialmente coperti dal segreto
istruttorio.
Sulla base di tali presupposti, l'ufficio accertatore procedeva ad accertare costi indeducibili, ai fini IRES ed
IRAP per €. 1.197.360,44, con recupero dell'indebita detrazione di IVA relativa a tali operazioni inesistenti
contabilizzate.
Avverso tale avviso di accertamento la società presentava ricorso, eccependo preliminarmente, tra le varie
doglianze, la decadenza dell'ufficio dall'azione accertatrice.
L'ufficio si costituiva in giudizio, replicando alle eccezioni di controparte e chiedendo il rigetto del ricorso.
Con la sentenza de qua il Giudice di prime cure, in accoglimento dell'eccezione preliminare ed assorbente
sollevata dalla ricorrente, accoglieva il ricorso e, per l'effetto, annullava l'atto impugnato, condannando altresì
l'A.F. al pagamento delle spese di lite, liquidate in €. 850,00.
In particolare, la C.T.P. adita, rilevava come, la carenza di prova in ordine alla denuncia di reato presentata
alla Procura della Repubblica, aveva di fatto impedito alla stessa di verificare la sussistenza dei presupposti
indicati nell'art. 43, comma 3, D.P.R. 600/73. Tale circostanza, pertanto, non legittimava l'ufficio, secondo i
primi Giudici, al ricorso al raddoppio dei termini per l'accertamento.
Sulla base di tali argomentazioni (suffragate da ampia giurisprudenza di merito milanese), il ricorso veniva
accolto.
Con proprio ricorso in Appello, depositato il 24 aprile 2013, l'appellante ufficio impugnava il pronunciamento
di prime cure, lamentandone la non condivisibilità sotto il profilo degli elementi probatori analizzati e sotto il
profilo delle conseguenza giuridiche scaturite dai fatti accertati.
In riferimento al tema del cd. "raddoppio dei termini" evidenziava come con Circolare n. 54/E del 2009, l'A.F.
aveva collegato l'ampliamento dei termini per l'accertamento alla mera sussistenza dell'obbligo di denuncia
della violazione, ai sensi dell'art. 331 c.p.p. Sulla base di ciò, sottolineava come l'ampliamento stesso
operasse a prescindere dalle successive vicende del giudizio penale conseguente alla denuncia.
Ciò era confermato anche, a suo dire, dalla sentenza n. 247/2011 della Corte Costituzionale.
Sulla base di ciò, l'Ade riteneva non condivisibile la pronuncia dei Giudici di primo grado, tenuto altresì conto
che la denuncia di reato presentata dalla G.d.F. di Lecco veniva, in ogni caso, allegata all'atto di appello, al
fine di smentire le argomentazioni di primi Giudici.
Nel merito della questione, l'ufficio lamentava il fatto che la C.T.P. adita avesse omesso di argomentare circa
la fattispecie concreta sottoposta alle proprie cure, determinando così un illegittimo e grave pregiudizio per
l'A.F.
Ribadiva la bontà del proprio operato in riferimento alle operazioni inesistenti poste in essere dalla società e
dagli altri soggetti coinvolti.
Evidenziava poi che era, in ogni caso, onere del contribuente provare la propria buona fese e l'estraneità
all'impianto fraudolento contestato in tutte le ipotesi in cui l'A.F. contestava l'inesistenza soggettiva e/o
oggettiva delle operazioni sottostanti alle fatture registrate in contabilità.
Sulla base di tali motivazioni, l'ufficio invocava l'accoglimento del proprio ricorso in appello, con conseguente
riforma integrale della sentenza impugnata.
Con controdeduzioni depositate il 14 febbraio 2014, il contribuente controdeduceva alle argomentazioni
dell'ufficio appellante.
Parte appellata riteneva del tutto infondato l'appello dell'ufficio che andava, dunque, respinto.
Ribadiva, in primis, come correttamente affermato dal Giudice di primo grado, la decadenza dell'ufficio dal
potere di accertamento, a nulla rilevando la produzione della prova di "denuntia criminis" in secondo grado,
ritenuta inammissibile e/o tardiva.
Anche nel merito della questione, ribadiva la legittimità delle operazioni poste in essere e la propria
estraneità a qualsiasi forma di impianto criminale.
Alla luce di tali assunzioni, invocava la conferma della sentenza di primo grado, e il conseguente rigetto
dell'appello dell'ufficio. Presenti all'udienza le parti che hanno insistito nelle loro richieste ed eccezioni.
La Sezione giudicante così decide.
La pronuncia di primo grado appare prima facie completa ed esaustiva e, quindi, non può essere oggetto di
riforma, così come invocato dall'ufficio appellante. I ragionamenti svolti dal primo Collegio giudicante sono
basati su ponderate riflessioni circa il problema del raddoppio dei termini decadenziali, di cui alla sentenza n.
247/2011 della Corte Costituzionale.
Per quanto riguarda l'annualità in questione, il primo Giudice si è accostato a quanto statuito dal sopraccitato
pronunciamento dalla Corte Costituzionale, laddove la stessa si intrattiene sul principio di "prognosi
postume". Riferendosi a tale statuizione, secondo i due Consessi giudicanti (vale a dire di primo che di
secondo grado) l'amministrazione finanziaria, per l'annualità in esame, ha fatto un uso pretestuoso e
strumentale delle disposizioni denunciate, al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di
accertamento.
Con riferimento a tale aspetto, la sentenza della Consulta stabilisce che in presenza di una contestazione
sollevata dal contribuente, bonus probandi della sussistenza di detti presupposti è posto a carico
dell'amministrazione finanziaria, dovendo questa giustificare il più ampio potere accertativo attribuitole dalla
legge. A giudizio del primo Collegio giudicante, e tutto viene condiviso da questo Giudice d'appello, nel caso
in esame e per l'annualità oggetto di accertamento, sempre secondo la prognosi postuma, il quadro
delineato dall'ufficio non è completo in quanto non è stato possibile, per il primo Giudice, effettuare un
riscontro dei presupposti dell'obbligo di denuncia penale.
Infatti, nessun elemento di prova è stato allegato da parte dell'amministrazione finanziaria del deposito della
denuntia criminis, al ricorso in prima istanza.
Il primo Consesso, sulla base della documentazione e degli atti prodotti dalla parte resistente, non ha potuto
riscontrare l'effettiva instaurazione del relativo procedimento penale, presso la competente Procura della
Repubblica. Benché l'ufficio, nei propri atti difensivi abbia addotto che la tipologia e l'entità dei rilievi accertati
costituissero presupposto per l'applicazione delle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 74/2000, in relazione al
reato di dichiarazione fraudolenta, non era dato al primo Giudice sapere, sulla base della documentazione
agli atti, se la denuncia presso l'Autorità Giudiziaria competente si fosse effettivamente perfezionata sulla
base del reato ab origine accertato, in sede amministrativa.
Rebus sic stantibus, il primo Collegio giudicante non è stato in grado (perché non è stato messo nelle
condizioni di farlo da parte dell'ufficio) di sussumere i rilievi de quibus, sulla base degli elementi probativi agli
atti del giudizio, alla fattispecie dell'art. 2, D.Lgs. n. 74/2000 non disponendo di elementi idonei a qualificare
gli elementi passivi, ab origine dedotti dalla ricorrente nella determinazione del risultato imponibile, per l'anno
d'imposta in questione, quali elementi "fittizi".
Il Collegio di prime cure, pertanto, ha riscontrato che agli atti del giudizio di primo grado non era stata
prodotta la supposta denunzia, atto prodromico all'instaurazione del procedimento penale avanti alla Procura
della Repubblica; non erano noti gli importi in essa indicati, la data del deposito della medesima ed il
soggetto denunziante (sia esso l'Agenzia delle Entrate, ovvero la Guardia di Finanza) che avrebbe dovuto
curare l'inoltro. Senza questi elementi, il primo Consesso giudicante non ha potuto effettuare il confronto
inteso ad accertare la corrispondenza (senza con questo toccare il contenuto del reato), così come richiesto
dalla sentenza del Giudice delle Leggi. Stando a quanto sopra, per l'annualità 2005, i termini per esperire
l'azione accertativa da parte dell'ufficio non erano oggetto di raddoppio (per tale anno il termine scadeva il 31
dicembre 2010) e, pertanto, l'operato dell'amministrazione finanziaria era nullo perché compiuto al di fuori
del termine decadenziale di cui all'art. 43, comma 3, del D.P.R. 600/73.
Allegazione delle denuncia penale all'atto di appello presentato dall'ufficio
L'ufficio appellante con il proprio atto di appello, ha allegato la denunzia di reato presentata dalla G.d.F. di
Lecco alla Procura della Repubblica di Lecco. Tale documento porta la data del 4 marzo 2010.
Stando ad una lettura piana dell'art. 43, comma 3 del D.P.R. 600/73, e della sentenza n. 247 della Corte
Costituzionale del 25 luglio 2011, l'ufficio accertatore (AdE o G.d.F.) doveva allegare al ricorso la denuncia di
notitia criminis. Il controllo della prognosi postuma spetta al primo Giudice, in quanto è solo a quest'ultimo, e
non ad altro Giudice di ordine superiore, vale a dire di secondo grado, verificare se l'ufficio ha agito con
imparzialità od abbia, invece, fatto un uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni denunciate al fine di
fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento. Il controllo di cui sopra è di legittimità, la
cui competenza è solo del giudice di prime cure e, pertanto, alla luce di tali argomentazioni, l'art. 43, comma
3 del D.P.R. 600/73 e la sentenza sopra citata della Corte Costituzionale, non consentono proroga alcuna
all'operato dell'ufficio non concedendogli ulteriore termine, rispetto a quanto prefissato, per l'allegazione della
denunzia penale.
Come ben si vede, il Giudice delle Leggi, è stato ben chiaro nel definire quanto sopra riportato, in quanto,
l'azione di prognosi postuma è esercitata e riservata al primo Giudice, vale a dire della Commissione
Tributaria Provinciale, e non ad altro. In buona sostanza, è il deposito della denunzia penale, presso la
competente Procura della Repubblica, che fa scattare il raddoppio dei termini, e tale controllo spetta solo e
soltanto, come già ribadito, al primo Giudice, e quindi, non vi è sostituzione alcuna. Per la Consulta, le
condizioni perché operi la normativa del raddoppio dei termini, sono le seguenti:
- l'esistenza di una violazione per la quale sussiste l'obbligo di denunzia di reato tributario;
- la denunzia di reato sia allegata al ricorso, in fase di primo contenzioso.
In mancanza di tali elementi, non è possibile parlare di raddoppio dei termini, in quanto tale documento che è
"sacro" per la procedura, perché elemento nuovo, non era noto ai giudici di primo grado. Tenuto conto di
quanto sopra e dei ragionamenti esposti, la denunzia penale, nel caso de quo è stata prodotta solo in
seconda battuta, vale a dire nel secondo grado del giudizio e la stessa risulta come non prodotta.
Ebbene, l'operato dell'ufficio è nullo perché compiuto al di fuori del termine decadenziale di cui all'art. 43,
comma 3 del D.P.R. 600/73. Giustappunto, la sentenza di primo grado non può essere oggetto di riforma. La
pregiudiziale in commento è ritenuta assorbente rispetto al merito della controversia. Le spese di giudizio
vengono compensate fra le parti.
Il Collegio giudicante
P.Q.M.
conferma la sentenza di primo grado. Spese compensate.
Milano, 25 febbraio 2014