L’esecuzione forzata (nella forma dell’espropriazione presso terzi) nei confronti della pubblica amministrazione: rassegna delle più rilevanti questioni problematiche* di Alessandro Auletta** SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. Breve descrizione dell’evoluzione del sistema tra esigenze di tutela del creditore ed esigenza di controllo dei flussi di spesa. 3. Norme incidenti sullo svolgimento del processo esecutivo nei riguardi dell’amministrazione. L’art. 14, comma 1, l. n. 669 del 1996: evoluzione ed ambito applicativo. Cenni alla questione se tale norma sia applicabile alle società in house. Le principali questioni problematiche: le azioni esperibili dal debitore e il regime degli interventi. L’art. 14, comma 1-bis, l. n. 669 del 1996: le principali questioni problematiche. 4. Norme incidenti sui soggetti dell’esecuzione: la disciplina della tesoreria unica. Cenni all’ammissibilità del pignoramento sulle “anticipazioni di cassa”. 5. Norme incidenti sull’oggetto dell’azione esecutiva. A) I vincoli di indisponibilità derivanti da provvedimento amministrativo. Il “caso” delle aziende sanitarie e degli enti locali: evoluzione della normativa. L’art. 159 TUEL: la giurisprudenza costituzionale. Le principali questioni problematiche: quando si perfeziona il vincolo di impignorabilità e da quando esso è opponibile ai creditori; quale è la sede delle contestazioni relative alla cogenza di tale vincolo; come è ripartito l’onere probatorio riguardo alle vicende del vincolo di indisponibilità. Cenni alla individuazione ed alla latitudine dei poteri istruttori del Giudice. B) I vincoli di indisponibilità posti direttamente dalla legge: 1) l’art. 1, d.l. n. 313 del 1993 (conv. con modifiche in l. n. 460 del 1994), ovvero il c.d. pignoramento contabile (le principali questioni problematiche); 2) l’art. 6, d.l. n. 263 del 2006, conv. in l. n. 290 del 2006 (sulla emergenza rifiuti in Campania); 3) l’art. unico, comma 1348, della l. n. 296 del 2006; 4) L’art. 1, comma 24, l. n. 228 del 2012. C) Le “gestioni liquidative”: 1) la procedura di dissesto degli Enti locali e i principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale; 2) la procedura di riequilibrio finanziario; 3) la vicenda “Policlinico Umberto I”; 4) il “blocco” delle azioni esecutive riguardo alle ASL site in Regioni commissariate al fine di garantire l’attuazione dei piani di rientro. La genesi della norma. Le posizioni della giurisprudenza. La declaratoria di incostituzionalità della normativa. 6. L’esecuzione forzata nei confronti dell’amministrazione pubblica vista dalla prospettiva della CEDU: il “caso” legge Pinto, tenuto anche conto delle novità introdotte dalla legge di stabilità per l’anno 2016. 1. Introduzione. Il tema della esecuzione coattiva dei crediti nei riguardi delle pubbliche amministrazioni presenta numerosi risvolti problematici. * A supporto della sessione “L’esecuzione nei confronti della pubblica amministrazione” nell’ambito del Corso di formazione “Il pignoramento presso terzi e l’esecuzione esattoriale”, anno 2016, presso la Scuola Superiore della Magistratura. ** Giudice presso il Tribunale di Napoli Nord in Aversa e dottore di ricerca in Diritto amministrativo presso l’Università degli Studi di Napoli, Federico II. 1 Guardando all’evoluzione del sistema dal punto di vista storico possono individuarsi tre fasi: A) la fase della sostanziale “irresponsabilità” delle pubbliche amministrazioni; B) la fase della equiparazione dell’amministrazione debitrice al comune debitore, sotto il profilo dell’estensione della garanzia patrimoniale; C) la fase in cui, per effetto di una alluvionale produzione normativa (spesso di difficile lettura), sono state individuate regole peculiari dell’esecuzione forzata verso la pubblica amministrazione. A sua volta, come segnalato in dottrina (Rossi, L’espropriazione presso terzi di crediti e di cose della pubblica amministrazione, in Auletta F., Espropriazione presso terzi, Bologna, 2011, 259 e ss.), la specialità di questo (variegato) corpus normativo si apprezza sotto tre distinti profili e precisamente: 1) il profilo procedimentale (quali regole vanno seguite per agire esecutivamente nei riguardi della p.a.?); 2) il profilo soggettivo (chi sono i soggetti dell’esecuzione forzata nei riguardi delle pubbliche amministrazioni?); 3) il profilo oggettivo (quali beni – ed in particolare quali crediti – della p.a. possono essere pignorati? Quali sono le tecniche utilizzate dal legislatore per limitare la pignorabilità di crediti della p.a.?). 2. Breve descrizione dell’evoluzione del sistema tra esigenze di tutela del creditore ed esigenza di controllo dei flussi di spesa. Gli artt. 4 e 5 della legge abolitiva del contenzioso amministrativo (LAC) pongono una serie di limiti ai poteri cognitori e decisori del Giudice ordinario con riguardo ai casi in cui una delle parti processuali (ed in specie il convenuto) sia una pubblica amministrazione. Non è il caso di analizzare in questa sede in modo approfondito tali limiti, anche in considerazione del fatto che, relativamente alle sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro, l’impostazione della dottrina e della giurisprudenza è stata, fin da tempi remoti, quella di ritenere che “l’autorità giudiziaria (…) non può emettere contro la pubblica amministrazione sentenze di condanna che abbiano un contenuto diverso dal pagamento di una somma di denaro” (Falzone, Le obbligazioni dello Stato, Milano, 1960, 406; in dottrina, sul tema v. inoltre Amorth, Fondamento e limiti delle sentenze di condanna contro la pubblica amministrazione, in FL, 1937; Malenotti, In tema di limiti della giurisdizione ordinaria nei confronti della p.a., in GI, 1955; Montesano, La condanna nel processo civile, anche tra privati e p.a., Napoli, 1957; Id., Processo civile e p.a., Napoli, 1960; in giurisprudenza, sulle pronunce adottabili dal GO in considerazione delle limitazioni poste dagli artt. 4 e 5 LAC, v. Cass. n. 65 del 1954; n. 1239 del 1962; n. 1628 del 1965; n. 504 del 1970). Con riferimento a questo tipo di condanna, infatti, non emergeva la ragione che porta a restringere il campo delle sentenze adottabili dall’AGO nei riguardi della pubblica amministrazione, sul presupposto che la lettera e la ratio della LAC escludono l’ammissibilità di tutte quelle pronunce che determinino una “sostituzione della volontà del giudice a quella dell’amministrazione soccombente” (Falzone, loc. 2 ult. cit.; d’altro canto, va sottolineato che i tradizionali orientamenti limitativi con riguardo alle pronunce ammissibili - beninteso al di fuori dell’ambito delle già ammesse sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro: si pensi alla materia possessoria – hanno subito, già da tempo, un forte ridimensionamento con riguardo ai casi in cui la p.a. agisca iure privatorum o sine titulo. Lo ricorda Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, II, 1246; in giurisprudenza v. Cass. 8.2.1957, n. 2414; 10.3.1965, n. 395; 3.2.1967, n. 303; 17.10.1977, n. 4423). Malgrado la riconosciuta possibilità di ottenere sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro nei confronti di una p.a., per lungo tempo la Cassazione ha escluso che, in ordine a tali decisioni, fosse ammissibile l’esercizio dell’azione esecutiva nelle forme del Codice di rito, in quanto “la Pubblica Amministrazione non può effettuare pagamenti di somme di denaro se non con l’osservanza del procedimento previsto per l’emissione dei relativi mandati, in ordine al sollecito svolgimento del quale il privato non vanta un diritto soggettivo” (Cass. 12.5.1971, n. 1352). L’ulteriore conseguenza è che “prima dell’emissione del mandato non è configurabile una mora dell’amministrazione comunale ad emetterlo. (…) Il creditore è tutelato, contro un eventuale ingiustificato ritardo da parte dell’ente pubblico, nell’espletamento dei prescritti adempimenti contabili, dalla possibilità di ricorrere, in quanto portatore di un interesse legittimo, al Giudice amministrativo” (Cass. 12.5.1971, n. 1352; il principio suesposto verrà superato da Cass. 8.11.1983, n. 6597). D’altro canto, solo nel 1973 l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha ritenuto che, per le sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro nei riguardi della p.a., fosse esperibile il rimedio dell’ottemperanza1. 1 Anche se in questa sede si vogliono specificamente analizzare le tecniche di tutela esecutiva nei confronti della p.a. sperimentabili innanzi al GO, non sembra un fuor d’opera ripercorrere la ratio decidendi della citata pronuncia della Plenaria, dacché la stessa contiene una serie di interessanti spunti di riflessione, per molti versi ancora attuali. La sentenza in questione è idealmente scindibile in tre parti: A) la ricostruzione storica del quadro ordinamentale, ove il Collegio si sofferma a sottolineare che il rimedio dell’ottemperanza nasce con specifico riferimento all’esigenza di dare esecuzione alle pronunce dell’Autorità giudiziaria ordinaria che avessero, incidentalmente, disapplicato provvedimenti amministrativi illegittimi. Siccome, infatti, la LAC prevedeva un “divieto di repressione dell’Autorità giudiziaria ordinaria” la previsione del rimedio in esame servì a completare “il sistema delineato dalla legge abolitiva del contenzioso predisponendo gli strumenti per rendere coercibile l’obbligo di ‘conformarsi al giudicato’, obbligo precedentemente lasciato dalla legge del 1865 senza la previsione di strumenti coattivi per il suo adempimento”; B) la individuazione degli orientamenti interpretativi riguardo all’ambito applicativo del rimedio in esame. L’orientamento prevalente al tempo in cui si è pronunciata la Plenaria era nel senso di circoscrivere l’ambito applicativo dell’azione di ottemperanza alla esecuzione di decisioni che importassero l’adozione di provvedimenti autoritativi da parte della p.a., essendo del tutto preluso al GO muoversi in un ambito coperto, vista la sussistenza di poteri discrezionali, dalla riserva di amministrazione. Con riferimento alle pronunce di “mera” condanna, trattandosi di attuare un obbligo adempitivo, non involgente l’adozione di atti autoritativi ma solo attività materiali o l’adozione di meri atti, si riteneva ultroneo il rimedio in esame. Tuttavia, la Plenaria ritiene di rivedere l’orientamento della giurisprudenza amministrativa prevalente, rilevando che, tanto nell’uno quanto nell’altro caso, si tratta pur sempre di procurare l’attuazione di una decisione giudiziaria rimasta ineseguita da parte dell’amministrazione. La circostanza che tale obbligo sia coercibile anche nelle forme del processo esecutivo innanzi al GO non esclude la utilità dell’ottemperanza, che si pone con il primo in rapporto di concorrenza e non di alternatività. Oltre 3 La questione problematica, come si intende, non è quindi relativa alla possibilità di ottenere la condanna della p.a. inadempiente al pagamento del dovuto quanto piuttosto quella della concreta possibilità di eseguire tale pronuncia. Nel 1979 si registra un significativo mutamento di giurisprudenza. Le Sezioni Unite, con sentenza 13.7.1979, n. 4071, hanno affermato i seguenti principi: 1) deve ritenersi applicabile “anche all’amministrazione dello Stato il canone generale dell’esecuzione delle condanne pecuniarie contenuto nell’art. 2909 c.c., secondo cui il creditore, per conseguire quanto gli è dovuto, può far espropriare i beni del debitore secondo le regole stabilite nel Codice di procedura civile”; 2) ciò posto ci si chiede se le somme di denaro iscritte in capitoli di bilancio come “crediti” della p.a. siano suscettibili di espropriazione forzata. È importante notare che, per la prima volta, la Cassazione supera l’idea che la questione relativa alla pignorabilità di somme sia una questione di giurisdizione trattandosi di questione di merito (nella specie si trattava di valutare se i crediti in questione fossero da considerare come canoni locatizi o come canoni concessori); 3) il bilancio “proprio perché contempla tutte le entrate e tutte le uscite in una visione globale non consente in alcun modo di collegare singole entrate (e cioè determinate somme di denaro) a singole uscite (cioè all’espletamento di determinati servizi); e pertanto non può essere considerato come fonte di un vincolo di destinazione in senso tecnico di particolari somme, tale da sottrarle all’azione espropriativa dei creditori dello Stato”; 4) la sussistenza di un corpus normativo speciale sulla contabilità di Stato non è idoneo, di per sé, ad escludere che il pagamento imposto da una sentenza di che alla luce dell’evoluzione del sistema, la Plenaria deduce la soluzione positiva da un preciso dato normativo: la legge istitutiva dei Tar ha infatti previsto la possibilità per il GA di condannare la p.a. al pagamento di somme di denaro (beninteso in materia di diritti rimessi alla propria giurisdizione esclusiva) e, contestualmente, ha esteso il rimedio dell’ottemperanza – sorto, si ripete, per consentire l’attuazione delle sole decisioni del GO – a quelle rese dai Tar e dal Consiglio di Stato. Tra queste, chiaramente, sono comprese le pronunce recanti la condanna al pagamento di somme, ragion per cui lo stesso rimedio deve ammettersi per le sentenze di condanna del GO (solo se passate in giudicato); C) la individuazione degli strumenti concreti a disposizione del GA quando provvede all’esecuzione di una pronuncia recante la condanna al pagamento di somme. In questa parte la pronuncia è molto interessante anche perché mette in evidenza quelli che, almeno nel contesto storico di riferimento, potevano essere i vantaggi dell’azione di ottemperanza rispetto alla concorrente azione esecutiva innanzi al GO. Premesso che in materia di ottemperanza i poteri del GA sono quelli tipici di una giurisdizione di merito (eccezionale per il GA), “l’attività del giudice adito ex art. 27, n. 4 viene ad incidere di regola nella fase di c.d. procedimentalizzazione della erogazione della spesa, vale a dire nella fase in cui l’amministrazione è tenuta ad adottare una serie di atti diretti allo scopo di dare concreto adempimento, con l’emanazione del mandato di pagamento, all’obbligazione pecuniaria”. Rispetto a questa attività “l’esaurimento dei fondi di bilancio o la mancanza di disponibilità di cassa non costituiscono legittima causa di impedimento all’esecuzione del giudicato, dovendo l’amministrazione porre in essere tutte le iniziative necessarie per rendere possibile il pagamento, procedendo alla liquidazione, alla formazione dei mandati, al reperimento dei fondi, salvo una eventuale ragionevole rateazione dei pagamenti in relazione alle concrete disponibilità (…)”. Si tratta di una affermazione molto significativa a fronte della coeva giurisprudenza della Cassazione che affermava la indisponibilità delle somme iscritte “a credito” nel bilancio della p.a.. 4 condanna sia “un atto dovuto rispetto al quale all’amministrazione non residua alcun margine di valutazione comparativa con un (non bene identificato) interesse pubblico ad esso contrapposto. La situazione quindi è radicalmente diversa da quella propria delle ipotesi in cui i pubblici poteri determinano i propri comportamenti apprezzandone l’opportunità in vista dell’interesse pubblico da perseguire, ma senza il vincolo di una sentenza che quel comportamento imponga come dovuto”. Il principio appena esposto va necessariamente letto alla luce della successiva giurisprudenza costituzionale. Si allude, in particolare, alla pronuncia n. 138 del 1981 della Corte Costituzionale. Il Giudice delle leggi era chiamato a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 826, ult. comma, 828, ult. comma, 830, ult. comma, c.c. alla cui stregua (secondo l’interpretazione all’epoca del tutto prevalente) deve ritenersi che le somme iscritte nei bilanci preventivi della p.a. siano somme inespropriabili in quanto “destinate ad un pubblico servizio” e quindi ricadenti nel patrimonio indisponibile dello Stato. L’orientamento tradizionale, spiega la Corte, era concepito a tutela dell’indipendenza della amministrazione; indipendenza “che esige che il giudice ordinario non abbia ad ingerirsi nella condotta degli affari amministrativi, così influenzando i tempi e i modi di soddisfazione degli interessi pubblici da parte della amministrazione stessa e quindi raggiungendo risultati praticamente uguali a quelli propri degli atti amministrativi. Piena doveva rimanere la discrezionalità della P.A. nell'uso delle proprie risorse patrimoniali, con la conseguenza che, pur ammessa la possibilità di una condanna pecuniaria, la soddisfazione dei credito con l'azione esecutiva incontrava il duplice limite dello stanziamento in bilancio della relativa spesa e dell'emissione del titolo di spesa, ad ottenere il quale non vi sarebbe diritto soggettivo, stante la discrezionalità della amministrazione nella scelta dei crediti da soddisfare. Corollario di questa impostazione era che bastava l'iscrizione di somme o di crediti pecuniari nei bilanci preventivi dello Stato o degli Enti pubblici per farli qualificare ‘beni... destinati ad un pubblico servizio’ ex art. 828 ultimo comma del codice civile, quindi inalienabili e correlativamente inespropriabili: sostenendosi, in particolare, che la legge di approvazione del bilancio non vincola soltanto la P.A., ma opera anche nei confronti dei terzi”. La Corte Costituzionale ha espresso i seguenti principi: 1) la pubblica amministrazione “ha una posizione di preminenza in base alla Costituzione non in quanto soggetto ma in quanto esercita potestà specificamente ed esclusivamente attribuitele nelle forme tipiche loro proprie. In altre parole, è protetto non il soggetto, ma la funzione, ed è alle singole manifestazioni della P.A. che è assicurata efficacia per il raggiungimento dei vari fini pubblici ad essa assegnati. Per converso, al di fuori dell'esercizio delle predette funzioni l'azione della P.A. rientra nella disciplina di diritto comune e ove venga a ledere un diritto soggettivo, la potenzialità di tutela di questo affidata al giudice ordinario è completa, incontrando il solo limite del non potere costui sostituirsi all'amministrazione nell'emanare un atto né condannarla ad emanarlo”; 2) l’individuazione dei beni “destinati ad un pubblico servizio” presuppone l’accertamento della esistenza dei un vincolo di destinazione in tale senso; 5 3) dalle disposizioni di legge in esame “non è, però, dato desumere alcun criterio derogatorio rispetto alla regola generale per cui ‘il debitore risponde dell'adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri’, ai sensi dell'art. 2740 del codice civile, ed è soggetto alla espropriazione forzata se non esegue spontaneamente il comando contenuto nella sentenza di condanna (art. 2910 del codice civile). Tale regola vale anche per lo Stato e gli Enti pubblici, mentre i limiti di pignorabilità dei loro beni patrimoniali vanno individuati concretamente, in relazione alla natura o alla destinazione degli specifici beni dei quali di volta in volta si chiede l'espropriazione, in conformità della previsione, anch'essa di carattere generale, di cui al secondo comma del citato art. 2740 del codice civile (ed analogicamente a quanto disposto dagli artt. 514 e 545 del codice di procedura civile in tema di impignorabilità di cose mobili o di crediti)”. 4) la non assoggettabilità all'esecuzione forzata delle somme di denaro o dei crediti pecuniari dello Stato e degli Enti pubblici “può discendere soltanto dal fatto che essi concorrano a formare il patrimonio indisponibile, e cioè, come si è visto, dal fatto che essi siano vincolati ad un pubblico servizio ovvero, come, ad esempio, per i crediti tributari - che nascano dall'esercizio di una potestà pubblica. Per quanto qui specificatamente interessa, il denaro ed i crediti pecuniari, traenti origine da rapporti di diritto privato, per la natura fungibile e strumentale del denaro stesso, difficilmente possono ritenersi assoggettabili a vincoli di destinazione, a meno che non siano destinati immediatamente, nella loro individualità, ad un fine pubblico. Il mero fatto della loro iscrizione nel bilancio preventivo non li può trasformare in beni patrimoniali indisponibili, così da annullare la responsabilità patrimoniale dello Stato e degli Enti pubblici. Invero il bilancio preventivo costituisce strumento di attuazione dei programmi e crea un vincolo nei soli confronti della P.A.; ma non può incidere sulla sostanza dei diritti soggettivi e sottrarre il denaro alla responsabilità patrimoniale che opera per legge in una sfera diversa. Il bilancio preventivo inoltre, in quanto contempla appunto la previsione di tutte le entrate e di tutte le uscite in una visione globale, non consente in alcun modo di collegare singole entrate (e cioè determinate somme di denaro) a singole uscite (e cioè all'espletamento di determinati servizi) e non può quindi essere considerato come un vincolo di destinazione, in senso tecnico, di particolari somme”; 5) al contrario “proprio la impossibilità di correlare nell'ambito del bilancio preventivo determinate somme di denaro o determinati crediti pecuniari a specifiche voci di spesa, infirma in radice l'argomentazione qui considerata. Inoltre consentire che la mancata previsione in bilancio degli oneri cui l'Amministrazione deve sottostare in adempimento delle obbligazioni che le competono, paralizzi il soddisfacimento del diritto del creditore consacrato in una sentenza di condanna del giudice, non è neppure conforme ai principi del buon andamento e della imparzialità dell'Amministrazione”. La Corte Costituzionale sintetizza i principi suddetti ritenendo: 6 a) che di fronte alla sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro la posizione della p.a. non è diversa da quella di ogni altro debitore sicché anche nei suoi confronti è esperibile l’esecuzione forzata per espropriazione; b) i limiti di pignorabilità dei beni patrimoniali dello Stato o degli Enti pubblici vanno individuati concretamente in relazione alla natura o alla destinazione degli specifici beni di cui, di volta in volta, si chiede l’espropriazione; c) la iscrizione nel bilancio preventivo dello Stato o dell’ente pubblico di somme, di qualunque provenienza, o di crediti (salvo che questi non traggano origine da rapporti di diritto pubblico, come i crediti tributari: Cass. 15.1.2003, n. 493; 5.5.2009, n. 10284; 17.12.2009, n. 26497) non può paralizzare l’azione esecutiva, non potendo da essa desumersi un vincolo di destinazione in senso tecnico idoneo a far ricomprendere tali somme o crediti nell’ambito del patrimonio indisponibile; d) rimane salva l’ipotesi che determinate somme o crediti siano vincolati con apposita norma di legge al soddisfacimento di specifiche finalità pubbliche e resta impregiudicata la questione sul se tale vincolo possa legittimamente sorgere in modo diverso. L’ultima precisazione è rilevante, perché prelude al successivo sviluppo del sistema [supra lett. C)] nel senso di congegnare regimi peculiari (e talvolta molto diversi tra loro) alla cui stregua, in virtù della legge o di un provvedimento adottato sulla base della legge, le somme di pertinenza della p.a. possono essere “vincolate” ad uno specifico servizio o ad una determinata finalità di interesse pubblico per tale via restando sottratte all’aggressione esecutiva da parte dei creditori dell’amministrazione stessa. Come sottolineato in dottrina [Costantino, L’espropriazione forzata in danno delle unità sanitarie e dei comuni (un altro capitolo di una storia infinita), in Riv. Trim. Proc. Civ., 1993, 671 e ss.; più di recente Id., La tutela dei crediti verso le pubbliche amministrazioni, in Riv. Dir. Proc., 2014, 2, 302] la parificazione della p.a. ad un comune debitore sotto il profilo dell’estensione della garanzia patrimoniale (parificazione realizzata grazie agli arresti giurisprudenziali prima citati) presenta delle problematiche: 1) il processo civile, tanto quello di cognizione quanto quello di esecuzione, si fondano sul principio dispositivo, ragion per cui la dichiarazione di impignorabilità dei beni dipende, in linea generale, da una iniziativa processuale del debitore esecutato da attuarsi nelle forme dell’opposizione ex art. 615, comma 2, c.p.c. (ma vedi quanto sarà osservato infra): “la rigida applicazione di questo strumento di tutela consentirebbe la espropriazione anche dei beni elencati nell’art. 822 c.c.; può avvenire che gli amministratori pubblici non resistano o resistano con scarsa efficacia alle pretese dei creditori (…), ovvero si sottraggano, per il tramite del processo, alla responsabilità derivante dallo spontaneo riconoscimento di una obbligazione” (Costantino, La tutela dei crediti, cit.); 2) la regola per cui il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri (art. 2740 c.c.) mal si attaglia alle caratteristiche della pubblica amministrazione in quanto: 7 i beni suscettibili di essere aggrediti con l’azione esecutiva non sono “limitati” (o lo sono in una misura del tutto differente), così come accade laddove si consideri il patrimonio limitato di un debitore privato; ii) si tratta di soggetti che non possono cessare la propria attività ed essere sottoposti a procedure liquidative, così come accade per il debitore privato (ma v. quanto notato appresso a proposito della procedure “liquidative”). La parificazione dello Stato e delle pubbliche amministrazioni ai debitori privati “ha imposto, quindi, per un verso l’adeguamento in via interpretativa della disciplina comune e, per altro verso, un controllo dei flussi di spesa” (Costantino, loc. ult. cit.). Da quanto sopra rilevato possiamo trarre una prima conclusione: in materia di esecuzione forzata (di crediti) nei confronti della p.a. vi sono due esigenze contrapposte (tutela del creditore e tutela della “funzione” affidata alla p.a.) il cui bilanciamento ha descritto un “movimento pendolare” dove si è data volta a volta prevalenza all’una o all’altra delle suddette esigenze ovvero sono stati forgiati dei nuovi strumenti esecutivi in deroga a quelli ordinari. L’impressione che si ricava è che, a mano a mano che si è aggravata la crisi della finanza pubblica, tali strumenti incidano in senso sempre più marcato sul diritto del singolo creditore di agire in via esecutiva verso la pubblica amministrazione sua debitrice. Dopo la stagione “della parificazione”, si registra, in altri termini, una crescente intensità dei limiti posti alle azioni esecutive di cui si tratta, al punto che il riequilibrio del rapporto tra le suddette (contrapposte) esigenze è stato in taluni casi attuato dalla Corte Costituzionale, laddove si è giudicata “intollerabile” la limitazione del diritto del creditore di realizzare coattivamente la pretesa portata dal titolo. La individuazione di strumenti incidenti, in senso limitativo, sulla pignorabilità di crediti dell’amministrazione attiene per lo più all’area tematica descritta supra sub C3) [ovvero l’analisi delle normative speciali incidenti sull’oggetto dell’esecuzione forzata] onde se ne parlerà nella sede appropriata. i) 3. Norme incidenti sullo svolgimento del processo esecutivo nei riguardi dell’amministrazione. L’art. 14, comma 1, l. n. 669 del 1996: evoluzione ed ambito applicativo. Cenni alla questione se tale norma sia applicabile alle società in house. Le principali questioni problematiche: le azioni esperibili dal debitore e il regime degli interventi. L’art. 14, comma 1-bis, l. n. 669 del 1996: le principali questioni problematiche. Tra le norme incidenti sullo svolgimento del processo esecutivo (allorché a subirlo sia una pubblica amministrazione o un ente pubblico non economico) presenta un notevole interesse pratico – in ragione del suo esteso ambito applicativo – la disposizione contenuta nell’art. 14, comma 1, d.l. n. 669 del 1996 e ss.mm.. Per quanto la norma abbia subito delle modifiche (anche significative) ne resta inalterata la funzione di fondo. La quale è individuata dalla Corte Costituzionale nei termini che seguono: 8 a) in una prima occasione, il Giudice delle leggi era chiamato a valutare se la mancata inclusione nell’ambito applicativo della norma degli enti pubblici economici rappresentasse una ingiustificata disparità di trattamento. Nel ritenere infondata la censura, la Corte (sentenza 23.4.1998, n. 142) ha ritenuto che la ratio della disposizione andasse individuata in ciò che il differimento dell’esecuzione forzata serve a garantire “uno spatium adimplendi per l'approntamento dei mezzi finanziari occorrenti al pagamento dei crediti azionati, persegue lo scopo di evitare il blocco dell'attività amministrativa derivante dai ripetuti pignoramenti di fondi, contemperando in tal modo l'interesse del singolo alla realizzazione del suo diritto con quello, generale, ad una ordinata gestione delle risorse finanziarie pubbliche”; b) in altra occasione, il Giudice remittente lamentava che l’onere di una nuova notificazione del titolo ogni qualvolta si intenda procedere (ricavabile dalla interpretazione della norma) avrebbe implicato “un indubbio svantaggio per il creditore procedente ed un irragionevole privilegio a favore della Pubblica Amministrazione esecutata, rispetto alla generalità dei debitori, violando così il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.”. La Corte Costituzionale (ordinanza 16.12.1998, n. 463), ricordata la propria pregressa giurisprudenza, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione siccome “la disposizione enunciata non deroga al principio di unicità della notificazione del titolo esecutivo, non potendosi desumere tale deroga né da una interpretazione testuale della disposizione de qua, non soccorrendo nella stessa alcun elemento in tal senso, né dalla ratio legis, ben potendo l’esigenza, richiamata dal remittente, di consentire all’amministrazione un costante controllo sul debito portato dal titolo esecutivo, essere adeguatamente soddisfatta, in caso di nuova esecuzione, dalla necessaria notificazione di un nuovo atto di precetto”. Alla luce della suddetta finalità – che giustifica la compatibilità della norma anche con riguardo alla direttiva 2000/35 in materia di lotta contro i ritardi nel pagamento delle transazioni commerciali: CGUE, 11.9.2007, n. 265 - non può sostenersi la divisata omogeneità tra i soggetti ricompresi nell’ambito applicativo della disposizione e quelli che ne restano esclusi. In dottrina, in senso contrario, si è osservato che, questa essendo la ratio della disposizione, il legislatore “sembra di certo aver ecceduto lo scopo, dacché il riferimento nella formulazione letterale agli enti pubblici non economici involge nell’ambito di operatività della disposizione soggetti che per il pagamento di somme possono non adoperare lo strumentario della contabilità pubblica” [Rossi, op. cit., spec. 346, laddove si richiama la nutrita casistica giurisprudenziale, dal cui esame emerge un profilo frastagliato dove soggetti molto diversi sono assoggettati alla disposizione in esame, pur in mancanza, per alcuni di essi, del ritenuto presupposto giustificativo del termine dilatorio – assicurare l’espletamento delle procedure di contabilità pubblica occorrenti per provvedere al pagamento spontaneo. Sono stati fatti rientrare nell’ambito applicativo della disposizione: l’ACI (Trib. Napoli, 15 dicembre 2008), la Banca d’Italia (Cass. 12.4.2011, n. 8324), il Consorzio Unico di Bacino per le province di Napoli e Caserta (ma la questione è oggi controversa, stante il diverso orientamento del Tribunale di Napoli Nord)]. 9 Anziché essere troppo ristretta, la compagine dei soggetti riguardati da tale norma pare, invece, troppo estesa (pur nell’attuale formulazione), considerata la eterogeneità dell’universo degli enti pubblici non economici e, in una chiave evolutiva, dello stesso concetto di “pubblica amministrazione”. Sulla nozione di “pubblica amministrazione” deve registrarsi, rispetto al passato, il passaggio da una nozione “formale” ad una nozione “funzionale”. Questo perché il concetto di pubblica amministrazione “in senso soggettivo” tende ad assumere “contorni sfumati se non addirittura evanescenti” (T.A.R. lazio, Sez. IIIquater, 3 marzo 2008, n. 1938, citata da Clarich, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, 2015, spec. 317). Nel corso del XX secolo infatti la pubblica amministrazione “ha assunto le sembianze di una costellazione multilivello e policentrica di apparati” (Clarich, ibidem). Come si diceva, sono numerosi i casi in cui si prescinde dalla circostanza che un determinato ente sia, in senso formale, una pubblica amministrazione ai fini del relativo assoggettamento, in relazione ad uno specifico profilo, ad una disciplina di marca pubblicistica. Si pensi a quanto accade in materia di diritto d’accesso agli atti, dove “si intende per pubblica amministrazione tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato relativamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario” (art. 22, comma 1, lett. e, l. n. 241 del 1990). D’altro canto che soggetti privati possano essere “preposti all’esercizio di attività amministrative” è confermato anche da disposizioni di respiro generale ai fini: 1) del regime giuridico applicabile all’attività svolta da tali soggetti (limitatamente alla parte di attività che qui interessa), come si evince dall’art. 1, comma 1-ter della legge sul procedimento amministrativo, in forza del quale tali soggetti “assicurano il rispetto dei principi di cui al comma 1 [vale a dire i principi cardinali dell’azione amministrativa: etero-determinazione dei fini, economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza, n.d.s.] con un livello di garanzia non inferiore a quello cui sono tenute le pubbliche amministrazioni in forza delle disposizioni di cui alla presente legge”; 2) del riparto di giurisdizione, come si evince dall’art. 7, comma 2, c.p.a. alla cui stregua “per pubbliche amministrazioni, ai fini del presente Codice, si intendono anche i soggetti ad esse equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo”. Queste disposizioni, si ripete, testimoniano la “trasformazione” della nozione di pubblica amministrazione, ferma restando, però, la necessità di guardare alla singola disciplina settoriale (che assoggetta queste entità alle regole del procedimento amministrativo, con quanto ne consegue in punto di giurisdizione) per appurare se un determinato soggetto avente forma privatistica possa essere equiparato, ai fini della disciplina settoriale di cui si tratta, ad una pubblica amministrazione. Per riprendere le parole di una perspicua e recente pronuncia pronuncia del Consiglio di Stato (Cons. St., Sez. VI, 26.5.2015, n. 2660): “al contrario, l’ordinamento si è ormai orientato verso una nozione funzionale e cangiante di ente pubblico. Si ammette ormai senza difficoltà che uno stesso soggetto possa avere la natura di ente pubblico a certi fini e rispetto a certi istituti, e possa, 10 invece, non averla ad altri fini, conservando rispetto ad altri istituti regimi normativi di natura privatistica. Questa nozione “funzionale” di ente pubblico, che ormai predomina nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale, ci insegna, infatti, che il criterio da utilizzare per tracciare il perimetro del concetto di ente pubblico non è sempre uguale a se stesso, ma muta a seconda dell’istituto o del regime normativo che deve essere applicato e della ratio ad esso sottesa. Occorre, in altri termini, di volta in volta domandarsi quale sia la funzione di un certo istituto, quale sia la ratio di un determinato regime “amministrativo” previsto dal legislatore, per poi verificare, tenendo conto delle caratteristiche sostanziali del soggetto della cui natura si controverte, se quella funzione o quella ratio richiedono l’inclusione di quell’ente nel campo di applicazione della disciplina pubblicistica. La conseguenza che ne deriva è, come si diceva, che è del tutto normale, per così dire “fisiologico”, che ciò che a certi fini costituisce un ente pubblico, possa non esserlo ad altri fini, rispetto all’applicazione di altri istituti che danno rilievo a diversi dati funzionali o sostanziali. Emblematica, in tal senso, è la figura dell’organismo di diritto pubblico, che è equiparato sì all’ente pubblico quando aggiudica contratti (ed è sottoposto alla disciplina amministrativa dell’evidenza pubblica), rimanendo, però, di regola, nello svolgimento di altre attività, un soggetto che tendenzialmente opera secondo il diritto privato”. L’idea prevalente, quindi, è che la nozione di pubblica amministrazione vada oggi desunta “induttivamente dalle leggi amministrative settoriali che pongono definizioni o elenchi di enti e soggetti che rientrano nel loro campo di applicazione. Così può accadere che alcuni enti o soggetti ricadano in più definizioni legislative e che pertanto ad essi si applichino cumulativamente i regimi speciali pubblicistici posti dalle leggi settoriali” (Clarich, ibidem). Per esemplificare, i principali regimi speciali da considerare sono quelli relativi: - al pubblico impiego; - al procedimento amministrativo; - ai contratti pubblici; - al patto di stabilità. D’altro canto, anche all’interno di ognuno di questi corpi normativi, la nozione di pubblica amministrazione assume contorni differenti a seconda della particolare finalità sottesa alla norma che si prende in considerazione. E così, se ai fini della individuazione delle amministrazioni tenute al rispetto del Testo unico sul pubblico impiego del 2001, i confini della “pubblica amministrazione” sono estremamente ampi, comprendendo anche enti pubblici non economici, ai fini dell’applicazione dell’art. 45, comma 3, TFUE – relativo alla libera circolazione dei lavoratori, che è esclusa per chi svolga “impieghi nella pubblica amministrazione” – il perimetro della nozione si restringe considerevolmente, atteso che la Corte di giustizia, prescindendo dalle qualificazioni operate dal diritto interno (si pensi proprio all’art. 1, comma 2, del TUPI), considera “pubblica amministrazione” solo il nucleo di apparati che partecipano in modo diretto o indiretto all’esercizio di poteri pubblici e/o alla tutela degli interessi generali dello Stato (onde vengono esclusi dall’ambito applicativo della disposizione il personale delle aziende ospedaliere, gli insegnanti delle scuole, i lettori di lingue nelle Università e, quindi, categorie di lavoratori che, nel diritto interno, sono assoggettati alle regole speciali del TUPI). 11 Anche in materia di contratti pubblici si assiste ad una simile “relatività” delle nozioni, e così: - ai fini della individuazione dei soggetti tenuti al rispetto delle procedure evidenziali a “regime ordinario” si adotta un criterio estensivo, visto che sono sottoposti a tale regime, in quanto “amministrazioni aggiudicatrici”, “le amministrazioni dello Stato, gli enti pubblici territoriali, gli enti pubblici economici e gli organismi di diritto pubblico” (art. 3, comma 25, Codice dei contratti pubblici); - ai fini della individuazione dei soggetti sottoposti al regime tipico dei “settori speciali” (si tratta di un regime pur sempre pubblicistico ma meno “rigido”) si individua la nozione diversa di “impresa pubblica”, nella quale sono incluse anche imprese private titolari di “diritti esclusivi” (si pensi ad una società petrolifera concessionaria del diritto di effettuare ricerche e estrarre idrocarburi). E ancora, ai fini della soggezione al Patto di stabilità, si fa riferimento ai soggetti inseriti in un elenco ISTAT aggiornato periodicamente, ma deve ritenersi (alla luce di quanto sopra affermato) che l’inclusione di un ente in questo elenco non implichi la natura pubblica tout court di tale soggetto quanto piuttosto solo la relativa equiparazione dello stesso ad una p.a. ai limitati fini della soggezione alla specifica disciplina settoriale di cui in questo caso si tratta. La natura “cangiante” della nozione di pubblica amministrazione ed il suo carattere di “figura a geometria variabile” a seconda del corpus normativo che si prenda in considerazione è testimoniata da un caso molto interessante. Si allude alla questione (a quanto consta non trattata dalla giurisprudenza di legittimità) se una società in house sia o meno assoggettabile all’art. 14 d.l. n. 669 del 1996 in ragione della sua “equiparazione” ad una pubblica amministrazione. Volendo sintetizzare all’estremo un tema di notevole complessità ed attualità (anche in considerazione delle disposizioni della direttiva 2014/24/UE che dovrebbero ridisegnare i confini della nozione in senso estensivo, ricomprendendovi anche soggetti che presentino, entro certi limiti, la partecipazione di capitali privati, mentre sono state fissate delle soglie di rilevanza del c.d. oggetto dedicato diverse e più ampie di quelle individuate dalla giurisprudenza nazionale, onde si è posta, con riferimento al CINECA, la problematica della immediata applicabilità delle norme della direttiva non ancora trasposta, problematica risolta in modo alterno dalla giurisprudenza e oggetto di un provvedimento normativo ad hoc da parte del legislatore), l’in house providing è ritenuta una forma di “autoproduzione” o comunque di erogazione di servizi pubblici “direttamente” ad opera dell’amministrazione, attraverso strumenti “propri”. Questa forma è alternativa alla esternalizzazione e la giurisprudenza amministrativa in atto prevalente ha chiarito che non si tratta di regimi posti in rapporto di regola/eccezione, ma semplicemente di regimi tra loro diversi e ricollegabili ad una precisa scelta “strategica” della pubblica amministrazione che decide di gestire un determinato servizio avvalendosi dell’una o dell’altra forma. Ebbene, quando la p.a. decide di gestire un servizio in “autoproduzione”, può farlo anche “servendosi” di una società di capitali, società che però, al di là della forma privatistica, si configura come una longa manus della pubblica amministrazione in quanto assoggettata ad un “controllo analogo” a quello che la stessa amministrazione esercita sui propri organi od uffici. In ragione della particolare conformazione del rapporto che lega la pubblica amministrazione e la società in house, va esclusa, al di là del profilo formale, la alterità 12 dei soggetti e, quindi, si può procedere all’affidamento diretto (ossia senza gara) del servizio. Il soggetto affidatario è una longa manus della pubblica amministrazione, distinto da essa solo sul piano formale ma ad essa completamente assoggettato quanto alla definizione degli indirizzi aziendali. La giurisprudenza ha, in queste ipotesi, ammesso l’affidamento diretto a società in house, ma l’ha circoscritto entro limiti molto rigorosi. In specie, si è ritenuto che, per aversi società in house (e quindi per ammettersi l’affidamento diretto), devono ricorrere cumulativamente le seguenti condizioni: 1. il capitale della società deve essere interamente detenuto da un soggetto pubblico; 2. la società deve essere istituita con la finalità (che deve potersi rilevare dallo Statuto) di svolgere la maggior parte della propria attività a favore dell’amministrazione che partecipa in via totalitaria al relativo capitale (la giurisprudenza individua questo limite “quantitativo” nel 90% dell’attività sociale, ma come si è detto la normativa comunitaria di imminente attuazione prevede delle soglie più basse); 3. il soggetto pubblico deve esercitare sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui servizi svolti in proprio (elemento “indiziato” dalla totale partecipazione al capitale sociale da parte della p.a., ma da esso formalmente distinto. Si pensi al caso, controverso, dell’in house c.d. frazionato: in questa ipotesi, vari soggetti pubblici detengono il capitale azionario della società. Ebbene, l’ente pubblico che detiene una partecipazione minoritaria non potrà procedere ad affidamento diretto a favore della società in house difettando il requisito del controllo analogo controllo esercitato, invece, da altro ente conferente che potrà procedere all’affidamento diretto. Si pensi ancora al caso dell’in house c.d. a cascata dove ente affidante e società affidataria sono sottoposti al comune controllo – e quindi al controllo analogo – di un’altra amministrazione: il caso è venuto in rilievo con riguardo agli affidamenti diretti da parte della Università di Amburgo, interamente pubblica, ad una società privata con capitale detenuto da vari Enti pubblici tra cui la città di Amburgo che controllava interamente la predetta Università: cfr. CGUE, Sez. V, 8 maggio 2014, in causa C-15/13, Technische Universitat). Nondimeno quando una società in house si rivolge al mercato, anche solo al limitato fine di dismettere una parte del capitale sociale a favore di investitori privati, è tenuta ad osservare la regola della gara, in virtù dell’art. 3, comma 26, Codice dei contratti pubblici, che delinea l’ambito soggettivo di applicazione della predetta regola includendo tra i soggetti tenuti al suo rispetto, oltre alle pubbliche amministrazioni, gli organismi di diritto pubblico, cui la società in house, quando assume la veste di stazione appaltante, deve essere senz’altro ricondotta (Cons. St., Ad. Plen., 3.3.2008, n. 1, su cui v. la nota di commento di Liguori, Acocella, in Foro amm. C.d.S., 2008, 3, 756). È in questo caso, e limitatamente ai menzionati fini, che opera l’exequatur tra pubbliche amministrazioni propriamente dette e soggetti che, dal punto di vista formale, amministrazioni non sono, quantunque risultino alle stesse collegate in modo più (società in house) o meno (società mista, a partecipazione pubblico-privata) intenso. Diversamente opinando, alla pubblica amministrazione che intendesse affidare un appalto senza svolgere una regolare gara sarebbe sufficiente costituire un soggetto 13 formalmente privato (come tale in tesi astratta sottratto alle regole dell’evidenza pubblica) e delegarlo ad appaltare un certo lavoro o servizio, con conseguente aggiramento della normativa pro-concorrenziale sopra ricordata. Ebbene, tornando all’ambito applicativo dell’art. 14, d.l. n. 669 del 1996, quando il debitore sia una società in house (pensiamo ad una società che gestisca, su affidamento diretto del Comune, il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani), ci si chiede se il creditore debba rispettare o meno lo spatium deliberandi previsto per il caso in cui il debitore sia una pubblica amministrazione in senso formale. Alla luce di quanto sopra rilevato, a cioè alla luce della considerazione che “ciò che a certi fini costituisce un ente pubblico, possa non esserlo ad altri fini, rispetto all’applicazione di altri istituti che danno rilievo a diversi dati funzionali o sostanziali” (v. ancora Cons. St., Sez. VI, n. 2660 del 2015, cit.), sembra preferibile concludere nel senso che la “equiparazione” tra p.a. affidante e soggetto affidatario che giustifica l’affidamento senza gara o che giustifica la necessità di includere le società in house nella nozione di organismo di diritto pubblico, allorché le stesse si rivolgano al mercato per individuare una controparte contrattuale, non possa essere automaticamente trasposta al di fuori degli ambiti appena citati e, per quanto qui interessa, non si può da essa inferire la automatica sottoposizione delle società in house alla disposizione dell’art. 14 d.l. n. 669 del 1996. In questo senso si è orientato il Tribunale di Napoli (sentenza 19.11.2014, in proc. 14619/2013, Giudice Abete) che ha così statuito: “la qualificazione di un soggetto come società in house, se rileva ai fini prima descritti (applicazione o meno delle regole in materia di procedure evidenziali) per l’assoggettamento di queste soggettività ad un regime giuridico peculiare, non può essere assunta come presupposto concettuale sulla scorta del quale estendere alla società in house una regola specificamente dettata per la pubblica amministrazione (e gli enti pubblici non economici), regola che, atteso il suo carattere eccezionale, risulta insuscettibile di interpretazione analogica (art. 14, disp. prel. c.c.). Lo spatium deliberandi previsto dal citato art. 14 costituisce, infatti, una sospensione dell'efficacia del titolo esecutivo che fonda la sua ratio, affatto peculiare (e pertanto non estensibile a casi diversi da quelli espressamente contemplati), nell’esigenza di consentire alle pubbliche amministrazioni di completare le procedure preordinate al pagamento di somme di denaro, procedure che sono rette da norme di contabilità pubblica. Per questo motivo la notificazione di un atto di precetto in tale fase e la relativa intimazione ad effettuare il pagamento in un momento in cui l'amministrazione non è tenuta a procedere, deve ritenersi inutilmente effettuata. Epperò nel caso della società in house la richiamata esigenza non sussiste, anche in considerazione del fatto che la stessa, assumendo forma privatistica, agisce principalmente secondo le norme di diritto comune”. La questione, peraltro, rivela tutta la sua complessità se si pensa alla discussa assoggettabilità delle società in house alle procedure fallimentari. Ad esempio con riguardo a questa specifica problematica la Corte di Cassazione ha adottato un approccio diverso da quello “disaggregato” che si è sopra proposto (sulla scia della dottrina amministrativistica e della più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato). Si legge infatti in Cass. 27.9.2013, n. 22209: 14 “Alla stregua delle considerazioni sin qui svolte, si può, in definitiva, concordare con l'assunto della ricorrente, secondo cui non è possibile enucleare, in via descrittiva, uno statuto unitario delle società in mano pubblica, le quali (come può accadere anche a società a capitale interamente privato) sono assoggettate alle normative pubblicistiche nei settori di attività in cui assume rilievo la natura pubblica dell'interesse perseguito, da realizzare attraverso disponibilità finanziarie pubbliche, senza che per questo possa predicarsene l'appartenenza ad un tertium genus, qualificabile come società- ente, sottratto in foto al diritto comune. Ciò che non può condividersi è invece il corollario che da tale premessa [OMISSIS] intende trarre, che si sostanzia nell'affermazione che la verifica dell'applicabilità alle società in mano pubblica di discipline di settore pubblico o privato, in difetto di specifiche disposizioni normative, va compiuta di volta in volta, a seconda della materia di riferimento ed in vista degli interessi tutelati dal legislatore. In tale ottica, per venire al tema che in questa sede interessa, secondo la ricorrente non potrebbero essere dichiarate fallite le società partecipate (fra le quali essa si annovera) aventi carattere necessario per l'ente territoriale, ovvero quelle che svolgono un servizio pubblico essenziale, la cui esecuzione continuativa e regolare verrebbe ad essere pregiudicata dalla dichiarazione di fallimento”. Del tema, com’è noto, si sono occupate anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione seppure ai fini del riparto di giurisdizione. In considerazione dell’atteggiarsi del “controllo analogo” come vera e propria forma di “subordinazione gerarchica” la S.C. ha ritenuto di disattendere, con riferimento alle società in house, l’orientamento tradizionale – in linea generale comunque confermato – in tema di limiti della giurisdizione del giudice contabile nelle cause riguardanti la responsabilità degli organi di società a partecipazione pubblica (v. in tema Cass. S.U., 19.12.2009, n. 26806). Gli amministratori della società in house - proprio perché preposti ad una struttura equiparabile ad una articolazione interna della p.a. - sono avvinti alla medesima da un vero e proprio rapporto di servizio e, non ponendosi una distinzione del patrimonio dell’ente e della società sotto il profilo della titolarità ma solo sotto il diverso profilo della separazione patrimoniale, il danno inferto al patrimonio della società affidataria ben potrà essere considerato danno erariale. Dal che taluno ha tratto argomento per ritenere che le Sezioni Unite abbiano escluso l’assoggettabilità a fallimento delle società in house. La giurisprudenza di merito successiva (Corte d’Appello di Napoli, 27.10.2015), ponendosi la questione della esportabilità delle conclusioni cui è giunta la giurisprudenza delle Sezioni Unite “in settori diversi rispetto a quello della responsabilità erariale degli amministratori”, ha invece ritenuto di “accordare al suesposto impianto motivazionale carattere settoriale e non sistematico”. Tra i vari argomenti utilizzati a suffragio della tesi in questione (seguendo la quale il Collegio conferma la pronuncia dichiarativa di fallimento di una società in house, respingendo il reclamo ex art. 18 LF) assume rilievo quella che segue: “non solo il riconoscimento ad un determinato soggetto della natura pubblicistica a certi fini non ne importa automaticamente l’integrale sottoposizione alla disciplina dell’ente pubblico, ma anche che, in caso di soggetto in house, può parlarsi solo in via sostanziale di un rapporto di immedesimazione con l’amministrazione, risultando sul piano formale comunque distinta la personalità giuridica (…). 15 Deve conseguentemente escludersi la possibilità di ritenere, sulla base delle argomentazioni [svolte dalle S.U., n.d.s.], che le società in house siano escluse dall’area della fallibilità”. Chiarita la ratio della disposizione in esame, passiamo ad esaminare il contenuto del primo comma. Si prevede un termine dilatorio (originariamente di sessanta giorni e poi esteso a centoventi) prima della cui scadenza l’esecuzione forzata nei confronti delle amministrazioni e degli enti pubblici non economici non può essere iniziata. La disposizione – come ricordato dalla dottrina (Auletta F., nota a Corte Cost., 30.12.1998, n. 463, in Giur. civ., 1999, 1280) – nasce dalla estensione a tutti i soggetti pubblici (fatta eccezione per gli enti pubblici economici) di una istanza avanzata dall’INPS che chiedeva una “condizione di proponibilità” dell’azione esecutiva sulla falsariga di quanto previsto per le azioni intraprese per ottenere il risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli in quanto il difetto di coordinamento tra le varie strutture territoriali dell’ente (in specie quella che si occupava della fase amministrativo-contabile e quella che si occupava della fase giurisdizionale) determinava la moltiplicazione delle azioni esecutive iniziate sulla scorta di un medesimo titolo. Nella sua versione originaria il primo comma della disposizione in esame così prevedeva: “1. Le amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici non economici completano le procedure per l'esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e comportanti l'obbligo di pagamento di somme di danaro entro il termine di sessanta giorni dalla notificazione del titolo esecutivo. Prima di tale termine il creditore non ha diritto di procedere ad esecuzione forzata nei confronti delle suddette amministrazioni ed enti, nè possono essere posti in essere atti esecutivi”. Tale versione della norma aveva posto vari problemi. Ci si era chiesti, in specie, se durante la pendenza del termine in questione potesse o meno essere intimato il precetto. Aderendo alla tesi positiva, sul rilievo che il precetto è atto preliminare all’esecuzione ed alla stessa prodromico, si è ritenuto che la inosservanza del termine attenesse al quomodo dell’esecuzione, rilevando quindi come motivo di opposizione agli atti esecutivi [in dottrina v. Vaccarella, Postilla (a proposito del termine di efficacia del precetto), in Riv. esec. forz., 2000, 769; Storto, L’espropriazione forzata nei confronti degli enti pubblici (con particolare riguardo agli enti esercenti forme di previdenza ed assistenza obbligatorie) dopo l’intervento urgente del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, ivi, 2003, 754; in giurisprudenza v. Cass. 10.3.2003, n. 3530; Cass. 21.12.2001, n. 16143, su cui esprime perplessità Tatangelo, Questioni attuali in tema di espropriazione forzata presso terzi, con specifico riferimento all’espropriazione dei crediti della pubblica amministrazione, ivi, 2003, 408 e ss., spec. 510]. Tuttavia, le successive modifiche della disposizione hanno portato a rivedere siffatta impostazione (ma in senso contrario v. Storto, L’espropriazione forzata nei confronti degli enti pubblici, con particolare riguardo agli enti esercenti forme di 16 previdenza ed assistenza obbligatorie dopo l’intervento urgente del d.l. 30.9.2003, n. 269, in Riv. esec. forz., 2003, 751 e ss.. In particolare, secondo tale A. la modifica dell’espressione per cui il creditore, prima del termine, “non ha diritto di procedere ad esecuzione forzata” con l’espressione “non può procedere” avvalorerebbe la tesi sostenuta dalla giurisprudenza prima citata. Vedi tuttavia infra quanto ritenuto dalla giurisprudenza più recente). In specie, per effetto del d.l. n. 269 del 2003 (conv. in l. n. 326 del 2003), la disposizione è stata così novellata: “1. Le amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici non economici completano le procedure per l'esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e comportanti l'obbligo di pagamento di somme di danaro entro il termine di centoventi giorni dalla notificazione del titolo esecutivo. Prima di tale termine il creditore non può procedere ad esecuzione forzata né alla notifica di atto di precetto”. Da un lato, l’elevazione del termine a centoventi giorni ha la funzione di impedire la contestuale notifica di titolo e precetto (prima ritenuta possibile anche tenuto conto di quanto previsto dall’art. 481 c.p.c.) [Rossi, op. cit., 348]; dall’altro lato, è stato definitivamente chiarito che il precetto non può essere notificato prima del decorso del termine contemplato dalla norma (e questo anche al fine di non “caricare” la p.a. di ulteriori costi: Storto, op. cit..). In considerazione di quanto sopra, ed in specie alla luce del rilievo che la disciplina in parola opera su un segmento della vicenda che è anteriore a quello delineato dal combinato disposto degli artt. 479 e 482 c.p.c. (sull’intervallo di tempo che deve intercorrere tra il precetto ed il pignoramento, funzionale a consentire al debitore di evitare l’esecuzione forzata), si è ritenuto che il rispetto del termine in questione rappresenta una condizione di ammissibilità dell’azione esecutiva. In particolare, la giurisprudenza ha affermato che “il decorso del termine legale diviene condizione di efficacia del titolo esecutivo, la cui inosservanza, per l'inscindibile dipendenza del precetto dall'efficacia esecutiva del titolo che con esso si fa valere, rende nullo il precetto intempestivamente intimato, con la conseguenza che la relativa opposizione si traduce in una contestazione del diritto di procedere all'esecuzione forzata e integra un’opposizione all'esecuzione ai sensi dell'art. 615, comma 1, c.p.c., non concernendo solo le modalità temporali dell'esecuzione stessa. Tale lettura della norma di cui all'art. 14 d.l. 31 dicembre 1996 n. 669 è confermata dalla norma interpretativa introdotta con l'art. 44, comma 3 d.l.30 settembre 2003 n. 269, conv. in l. 24 novembre 2003 n. 326 con la quale è stato sancito il divieto di procedere alla notifica del precetto prima del decorso del citato termine” (Cass. 24.2.2011, n. 4498; 20.9.2006, n. 20330; più di recente, nel medesimo senso, Cass. 23.2.2010, n. 4357; 26.3.2009, n. 7360; 17.9.2008, n. 23732; 11.7.2007, n. 15469; di recente v. Cass. 17.2.2015, n. 3133). Da ciò si è evinta la rilevabilità d’ufficio della violazione del termine, con conseguente dichiarazione di inammissibilità dell’azione esecutiva (Trib. Napoli, 25.9.2006; vedi anche T.A.R. Lazio, Roma, 24.1.2008, n. 531; T.A.R. Campania, Napoli, 26.4.2011, n. 2288; in dottrina v. Rossi, op. cit., spec. 350. Vedi anche Tatangelo, op. cit., 510, il quale ricava la soluzione positiva dalla disposizione dell’art. 4, del d.m. 2.4.1997 – sostituito da un d.m. successivo - secondo cui “Le 17 tesorerie dello Stato, in caso di notifica di atti di pignoramento o sequestro contro amministrazioni dello Stato, effettuano i relativi accantonamenti soltanto nei casi in cui da tali atti esecutivi si desuma che il relativo titolo esecutivo è stato notificato all'amministrazione esecutata e questa non ha provveduto al pagamento nel termine di sessanta giorni di cui all'art. 14, comma 1, del decreto-legge 31 novembre 1996, n. 669, convertito nella legge 28 febbraio 1997, n. 30. Nel casi in cui dagli atti esecutivi non possa desumersi quanto indicato nel comma precedente, la tesoreria si astiene dall'eseguire l'accantonamento e nella dichiarazione di terzo fa presente di non aver effettuato alcun accantonamento in quanto dall'atto di pignoramento o sequestro non si desume che il relativo titolo esecutivo è stato notificato all'amministrazione esecutata e che questa non ha provveduto al pagamento nonostante sia scaduto il termine di sessanta giorni di cui all'art. 14, comma 1, del decreto-legge 31 dicembre 1996, n. 669, convertito nella legge 28 febbraio 1997, n. 30”). Altra questione trattata dalla giurisprudenza di merito e, più di recente, dalla Corte di Cassazione è quella che concerne il rapporto tra la disposizione in esame e l’art. 654 c.p.c. che esclude, ai fini dell’esecuzione, la necessità di una nuova notificazione del decreto ingiuntivo non ancora esecutivo. Si è ritenuto da parte dell’una (P. Roma, 20.7.1999) e dell’altra (Cass. 26.11.2010, n. 24078) che la disposizione contenuta nell’art. 14, d.l. n. 669 del 1996 va interpretata “nel senso che ha imposto al creditore di detti soggetti, quando debba procedere sulla base di un titolo esecutivo per il quale l’esecuzione è consentita da una norma speciale (verso il debitore in genere) – come l’art. 654, secondo comma, c.p.c. in tema di decreto ingiuntivo – senza previa notificazione del titolo, l’obbligo di provvedervi, in deroga a tale norma speciale, di modo che solo da essa decorre il termine dilatorio previsto per iniziare l’esecuzione e comunque per il precetto”. La pronuncia della Cassazione, in specie, contiene una affermazione che sarà ripresa dalla giurisprudenza successiva e cioè che “la deroga che così si avalla alla previsione dell'art. 654, comma 2, ed ad altre eventualmente presenti nell'ordinamento sempre nel senso di consentire l'esecuzione senza previa notificazione del titolo, finisce allora per essere una deroga che non è espressione della sopravvenienza di una lex posterior generalis come sarebbe stata se fosse stata introdotta (per assurdo) nel tessuto del codice una nuova norma prevedente una notificazione del titolo esecutivo per due volte con un intervallo temporale e ciò anche senza far salve norme dispositive altrimenti - bensì è espressione della sopravvenienza di una nuova regolamentazione speciale di uno specifico minisistema, quello dell'esecuzione contro le amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici economici, costituente soltanto parte della norma generale dell'art. 479 c.p.c.”. con la conseguenza che “Un contenuto precettivo di meno immediata percezione può, tuttavia, ritenersi espresso dalla norma anche nel senso che, là dove l'ordinamento non prevedeva prima di essa a carico del creditore la notificazione del titolo esecutivo formatosi nei confronti del debitore e questo potesse essere rappresentato anche da un'amministrazione dello Stato o da un ente pubblico economico, essa diventasse per questi soggetti comunque necessaria, proprio per assicurare loro lo spatium previsto dalla norma”. 18 Si discute, infine, sulla applicabilità della disposizione (e segnatamente del termine dilatorio ivi previsto) di che trattasi agli interventi. Al riguardo è opportuno fare una precisazione di fondo circa la “funzione” dell’intervento nel processo esecutivo. Si può infatti ritenere: a) che lo stesso vada inteso alla stregua di un atto tendenzialmente assimilabile a quello con cui il procedente dà avvio all’esecuzione; b) che si tratti di una mera domanda di partecipazione alla distribuzione della somma ricavata cui la legge collega il potere di svolgere atti di impulso della procedura. Ebbene, intendendo nel primo senso la funzione dell’intervento (come pare preferibile alla luce della giurisprudenza della Cassazione, anche con riferimento al “rapporto” tra l’azione esecutiva proposta dal procedente e di quella proposta dall’interveniente, allorché si è ritenuto che il venir meno della prima – ad esempio per rinuncia – non implica il venir meno della seconda2), si pone la questione se il creditore che intenda intervenire in una procedura da altri intrapresa nei confronti della p.a. debba preventivamente notificare alla stessa il titolo esecutivo ed attendere il termine di 120 giorni prima di depositare l’intervento (mancando per l’interveniente la necessità di intimare il precetto). La dottrina (Rossi, op. cit., 352 e ss.) aveva ricavato la soluzione positiva, in ordine ai soli interventi titolati, da quanto ritenuto, incidentalmente, dalla Corte Costituzionale (sentenza 27.10.2006, n. 343): chiamata a pronunciarsi sul comma 1-bis della disposizione (che individua particolari regole di competenza per il 2 La questione è stata rimeditata alla luce delle profonde modifiche recate alla disciplina dell’intervento nel processo esecutivo, e segnatamente agli artt. 499 e 500 c.p.c., dal d.l. n. 35 del 2005, conv. in l. n. 80 del 2005, in forza delle quali l’intervento nell’espropriazione da altri intrapresa (che dà diritto a compiere atti di impulso della procedura stessa) è ristretto tendenzialmente (cioè al di fuori dei casi in cui vi siano delle cause legittime di prelazione da soddisfare) al creditore che vanti un titolo esecutivo, mentre per i creditori non muniti di titolo esecutivo la partecipazione al processo esecutivo è affidata a meccanismi surrogatori ovvero all’accantonamento delle somme per dare comunque modo ad essi di munirsi, medio tempore, di un titolo esecutivo. Come si diceva, la riferita riforma ha indotto a modulare il rapporto tra il titolo vantato dal creditore procedente ed il titolo vantato dal creditore intervenuto in termini diversi dalla (in passato pacifica) necessaria accessorietà del secondo rispetto al primo: in specie la questione se la caducazione del titolo esecutivo originario importi la caducazione dell’intero processo esecutivo, anche laddove vi siano dei creditori intervenuti sulla base di un autonomo titolo esecutivo, un tempo risolta in senso affermativo (Cass. 13.2.2009, n. 3531), è stata da ultimo oggetto di ripensamento. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza 7.1.2014, n. 61) hanno affermato che “nel processo di esecuzione, la regola secondo cui il titolo esecutivo deve esistere dall’inizio alla fine della procedura, va intesa nel senso che essa presuppone non necessariamente la costante sopravvivenza del titolo del creditore procedente, bensì la costante presenza di almeno un valido titolo esecutivo che giustifichi la perdurante efficacia dell’originario pignoramento”. A tale conclusione, la Suprema Corte è giunta sottolineando che in un sistema “che accoglie il principio della par condicio creditorum e rifiuta il diritto di ‘priorità’ al creditore procedente (diritto invece riconosciuto nel sistema tedesco), dal citato art. 500 c.p.c. deve farsi derivare che il creditore intervenuto munito di titolo esecutivo si trova in una condizione paritetica a quella del creditore procedente”, con la conseguenza che “una volta iniziato il processo in base ad un titolo esecutivo esistente all’epoca, il processo può legittimamente proseguire, a prescindere dalle sorti del titolo originario, se vi siano intervenuti creditori a loro volta muniti di valido titolo esecutivo 19 procedimento esecutivi intrapresi nei riguardi dell’INPS) la Corte ha ritenuto che anche agli atti di intervento si applicassero le particolari regole di competenza territoriale ivi previste, sull’assunto che l’intervento, al pari del pignoramento, rappresenta una possibile declinazione dell’esercizio dell’azione esecutiva e deve quindi ricevere il medesimo trattamento riservato all’azione esecutiva promossa dal procedente. Si proponeva, quindi, “una lettura estensiva – e costituzionalmente orientata – della locuzione ‘procedere ad esecuzione forzata’ operata dal comma 1 dell’art. 14 e di assoggettare anche l’intervento alla condizione temporale in esso stabilita, con un doveroso adattamento per dir così ‘strutturale’: poiché l’intervento non richiede, quale prodromo necessario, l’intimazione del precetto, il termine dilatorio dei centoventi giorni va computato, a pena di inammissibilità dell’intervento, dalla notifica del titolo esecutivo alla data di deposito dell’intervento, che è il momento in cui viene in tale forma sperimentata l’azione esecutiva” (Rossi, op. cit., 354). È questa – anche per ciò che concerne il riferito “adattamento strutturale” - la soluzione seguita da Cass. 18.4.2012, n. 6087. Al riguardo però una precisazione si impone. Una lettura superficiale di tale pronuncia potrebbe indurci a ritenere che la soluzione indicata dalla Cassazione valga indistintamente a seconda che l’intervento sia fondato su un titolo esecutivo oppure no. Invero, la vicenda scrutinata dalla S.C. aveva riguardo ad un intervento spiegato nel vigore della disciplina previgente alle modifiche introdotte dalla d.l. n. 35 del 2005 (conv. in l. n. 80 del 2005) e dalla l. n. 263 del 2005, onde “in base a tale disciplina previgente, era pacificamente consentito al creditore di dispiegare intervento in ogni procedura esecutiva, anche se il suo credito non era recato da titolo esecutivo: ed in tale regime non era prevista di norma alcuna immediata verifica dei presupposti di ammissibilità dell'intervento - tra cui la certezza, liquidità ed esigibilità del credito vantato - prima del momento della distribuzione, salvo che non ne fosse sorta la necessità in tempo anteriore (come ad esempio in caso di riduzione o conversione del pignoramento), tanto che si escludeva perfino l'onere dell'interventore di produrre, prima di tali occasioni, i titoli o i documenti giustificativi del credito azionato (tra le altre, Cass. 19 luglio 2005 n. 15219)”. La Corte di Cassazione, quindi, pur ritenendo in astratto ammissibile l’intervento del ricorrente (benché sine titulo) – e ciò sulla base della considerazione che lo stesso fosse retto dalla disciplina previgente a quella sopravvenuta nelle more della vicenda giudiziaria concreta -, ha ritenuto, sulla scorta delle motivazioni già indicate dalla citata dottrina (sebbene con specifico riguardo agli interventi titolati), che gli interventi siano sottoposti al rispetto del termine dilatorio di centoventi giorni. Per gli interventi non titolati, quindi, il problema se gli stessi siano o meno soggetti alla disciplina di cui all’art. 14 si pone ancora. E si pone con specifico riferimento ai titolari di un credito pecuniario risultante da scritture contabili ex art. 2214 c.c.. Il Tribunale di Napoli, Sezione distaccata di Pozzuoli (15.7.2010), ha dubitato della legittimità costituzionale dell’art. 499 c.p.c. nella parte in cui inibisce l’intervento non titolato a soggetti diversi dagli imprenditori (si trattava nella specie di lavoratori) che siano sprovvisti della documentazione attestante la verosimiglianza della pretesa. Ai fini della rilevanza della questione il remittente ha giudicato ammissibile l’intervento non titolato anche nei confronti della p.a. e, sulla scorta di questo 20 assunto, ha ritenuto ingiustificatamente privilegiata la posizione del debitore/pubblica amministrazione. La Corte Costituzionale (ordinanza 6.7.2011, n. 202) ha dichiarato la questione inammissibile sottolineando che la disposizione che consente l’intervento non titolato per crediti risultanti da scritture contabili ha natura eccezionale rispetto al principio della par condicio creditorum e non può quindi essere applicata al di là dei casi espressamente previsti. Una parte della dottrina, invece, richiamando la pronuncia Cass. 26.11.2010, n. 24078, ha ritenuto che la creazione di “minisistema” implica la specialità della disciplina contenuta nell’art. 14 “non solo dal punto di vista soggettivo (cioè per i destinatari della statuizione) ma anche nello stabilire – con la notifica del titolo esecutivo e il decorso del termine per l’adempimento – un incombente ineludibile nelle procedure esecutive in danno della p.a., un’attività prodromica necessaria per i creditori che intendano esperire l’azione esecutiva in tutte le sue possibili modalità”, ovvero la previa notifica del titolo esecutivo (Rossi, op. cit., 358). Ne consegue che ogni disposizione che ammette l’esperibilità dell’azione esecutiva senza la previa notificazione di un titolo (v. pure l’art. 654 c.p.c. e, per quanto qui interessa, l’art. 499 c.p.c. nella parte in cui ammette l’intervento non titolato fondato sulle scritture contabili) si pone in contrasto con tale “minisistema” non potendo, nell’ambito dello stesso, trovare applicazione. Per mera completezza va analizzata la questione se la speciale disposizione in esame trovi applicazione anche con riguardo al giudizio di ottemperanza (mentre la questione dei rapporti tra le due forme di esecuzione, quella prevista dal Codice di procedura civile e quella prevista dal Codice del processo amministrativo, ha costituito oggetto di una rilevante pronuncia dell’Adunanza Plenaria3). Sul punto, due sono le tesi che si contendono il campo: 1) l’orientamento prevalente è nel senso che il termine in questione si applichi anche all’azione di ottemperanza in quanto, malgrado il testuale riferimento all’esecuzione forzata, resta pur sempre necessario assicurare alla p.a. un adeguato intervallo tra la richiesta di pagamento mediante la notifica del titolo esecutivo e l’avvio della relativa procedura coattiva (T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VII, 16.12.2015, n. 5733; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 29.10.2015, n. 12256; Cons. St., Sez. IV, 7.4.2015, n. 1772, laddove si rileva la “sostanziale identità di ratio con l’esecuzione forzata regolata dal c.p.c., trattandosi di istituti che, ancorché per vie diverse e con risultati diversi, hanno ambedue ad oggetto l’adempimento di obbligazione pecuniaria derivanti dall’ordine del giudice”); 3 Secondo Cons. St., Ad. Plen., 10.4.2012, n. 2, anche tenuto conto delle disposizioni del Codice del processo amministrativo, laddove si prevede l’ottemperabilità, con riferimento ai provvedimenti del GO, non solo delle sentenze passate in giudicato ma anche dei provvedimenti ad esse equiparati, ha ritenuto che “l'ordinanza di assegnazione del credito resa ai sensi dell'art. 553 c.p.c., nell'ambito di un processo di espropriazione presso terzi, emessa nei confronti di una p.a. o soggetto ad essa equiparato ai sensi del c. proc. amm., avendo portata decisoria (dell'esistenza e ammontare del credito e della sua spettanza al creditore esecutante) e attitudine al giudicato, una volta divenuta definitiva, per decorso dei termini di impugnazione, è suscettibile di esecuzione mediante giudizio di ottemperanza. 21 2) quello che esclude la soggezione del giudizio di ottemperanza all’art. 14, sul rilievo che tale norma ha carattere “eccezionale” e che quindi non può trovare applicazione “oltre i tempi e i casi in essa considerati” (T.A.R. Lazio, Roma, 2.2.2015, n. 1844). Rileva anche l’esame del comma 1-bis dell’art. 14 del d.l. n. 669 del 1996. Nella versione introdotta nel 2000, per effetto della l. n. 388 – versione completamente sopravanzata da una successiva novella -, la norma aveva previsto che: “Gli atti di pignoramento e sequestro devono essere a pena di nullità notificati presso la struttura territoriale dell'ente pubblico nella cui circoscrizione risiedono i soggetti privati interessati e contenere i dati anagrafici dell'interessato, il codice fiscale e il domicilio. L'ente comunque risponde con tutto il patrimonio”. Anche questa norma veniva introdotta per venire incontro alle difficoltà dell’Inps nell’erogare tempestivamente le prestazioni indicate nelle sentenze di condanna. Nell’ottica di realizzare pienamente quest’obiettivo (che avuto riguardo alla primigenia formulazione della norma restava in parte non attuato visto che prescrizione era relativa solo agli atti di pignoramento e non anche a quelli precedenti) il legislatore, con il d.l. n. 269 del 2003, conv. in l. n. 326 del 2003, ha previsto lo stesso regime anche per “gli atti introduttivi del processo di cognizione [e] l’atto di precetto”4. Con particolare riguardo al primo atto dell’esecuzione ed agli atti propedeutici, la ratio della disposizione va colta nella esigenza di assicurare che il procedimento di erogazione sia “gestito” dalla struttura territoriale dell’Ente (specialmente degli Enti previdenziali rispetto ai quali la difficoltà si è concretamente posta) che abbia “in carico” il rapporto. Sempre per effetto della riforma del 2003 al comma 1-bis in esame è stato aggiunto un nuovo alinea che così stabilisce: “Il pignoramento di crediti di cui all'articolo 543 del codice di procedura civile promosso nei confronti di Enti ed Istituti esercenti forme di previdenza ed assistenza obbligatorie organizzati su base territoriale deve essere instaurato, a pena di improcedibilità rilevabile d'ufficio, esclusivamente innanzi al giudice dell'esecuzione della sede principale del Tribunale nella cui circoscrizione ha sede l'ufficio giudiziario che ha emesso il provvedimento in forza del quale la procedura esecutiva è promossa. Il pignoramento perde efficacia quando dal suo compimento è trascorso un anno senza che sia stata disposta l'assegnazione. L'ordinanza che dispone ai sensi dell'articolo 553 del codice di procedura civile l'assegnazione dei crediti in pagamento perde efficacia se il creditore procedente, entro il termine di un anno dalla data in cui è stata emessa, non provvede all'esazione delle somme assegnate”. 4 Di modo che il tenore letterale del primo alinea della disposizione è oggi il seguente: Gli atti introduttivi del giudizio di cognizione, gli atti di precetto nonché gli atti di pignoramento e sequestro devono essere notificati a pena di nullità presso la struttura territoriale dell'Ente pubblico nella cui circoscrizione risiedono i soggetti privati interessati e contenere i dati anagrafici dell'interessato, il codice fiscale ed il domicilio. 22 È stata quindi introdotta – relativamente all’esecuzione intrapresa nei riguardi degli Enti previdenziali – una particolare regola sulla competenza territoriale: il pignoramento presso terzi “promosso” verso questi Enti deve essere “instaurato” esclusivamente innanzi al G.E. della sede principale del Tribunale nella cui circoscrizione ha sede l’Ufficio giudiziario che ha emesso il provvedimento in forza del quale la procedura esecutiva è promossa. La disposizione “deroga dunque al principio tradizionale, rispondente all’esigenza di causare il minor disagio possibile al terzo [ma vedi oggi quanto previsto dall’art. 26bis c.p.c. in specie al secondo comma, n.d.s.] che non è parte del processo e radica invece la competenza avendo riguardo alle sole esigenze organizzative del debitore, con perfetta insensibilità alle eventuali variazioni nell’organizzazione su base territoriale dei servizi di cassa”, con l’obiettivo “di consentire alla sede Inps che ha gestito la fase giudiziale contenziosa di seguire anche quella esecutiva” (Storto, op. cit., 756). Particolari difficoltà interpretative pone invece la regola per cui “il pignoramento perde efficacia quando dal suo compimento è trascorso un anno senza che sia disposta l’assegnazione”. Se si leggono le varie proposizioni del comma in esame in modo “sequenziale” occorre ritenere che la disposizione attiene solo alle procedure riguardate dal periodo antecedente (e quindi solo dalle procedure espropriative presso terzi intraprese nei riguardi di Enti previdenziali) in quanto se si fosse voluto attribuire a tale disposizione un ambito precettivo più ampio sarebbe stato necessario inserirla in un comma a sé state. D’altro canto, a parte questo argomento “sintattico”, depone nel senso anzidetto la considerazione che la disposizione, per il suo carattere eccezionale, andrebbe interpretata in modo restrittivo. È stato poi notato che la norma “con meccanismo assolutamente inedito nel nostro ordinamento ricollega la perdita di efficacia di un atto di parte (…) ad una condotta omissiva del giudice che non disponga tempestivamente l’assegnazione dei crediti pignorati mediante la pronuncia della relativa ordinanza” (Storto, op. cit., 757). La questione, a dire il vero, si poneva in un quadro normativo diverso, quale quello anteriore alle riforme del 2005-2006 che – prima ancora delle riforme successive e più recenti – hanno profondamente inciso sull’assetto regolatorio del procedimento presso terzi: a quel tempo, infatti, non era prevista la limitazione oggi contemplata dall’art. 546 c.p.c. (l’importo del credito precettato aumentato della metà) e la Cassazione era orientata nel senso che “nell’esecuzione presso terzi di somme di denaro o di prestazioni continuative di somme di denaro, oggetto del pignoramento non è una quota pari al credito per il quale l’esecutante agisce in via esecutiva, ma la somma unitaria o frazionata nel tempo di cui il terzo è debitore dell’esecutato” (Cass. 22.4.1995, n. 4584; con nota di Acone; Cass. 29.1.1999, n. 798; Cass. 4.1.2000, n. 16. Su questo aspetto, vedi di recente Corte Cost., 22.12.2010, n. 368 secondo cui la previsione del limite al vincolo esecutivo del pignoramento rappresenta il frutto di una scelta non incongrua né irragionevole del legislatore nell’ottica dell’ottimale contemperamento dei diversi interessi in gioco: da un lato 23 l’interesse del creditore; dall’altro quello del debitore di non subire il “blocco totale” delle somme di propria pertinenza detenute dal terzo5). Alla luce del quadro normativo allora vigente e tenuto conto dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità, gli enti debitori correvano il rischio di veder bloccate ingenti linee di credito a fronte di crediti azionati di importo inferiore, anche perché – sempre tenuto conto del compendio normativo allora vigente – se si riteneva (ma come abbiamo già rilevato si tratta di una vexata quaestio) che il momento perfezionativo del pignoramento coincidesse con la dichiarazione del terzo o con l’accertamento giudiziale del credito il termine annuale previsto da tale disposizione decorreva da tale momento: il che portava alla sostanziale vanificazione della ratio della disposizione, ovvero creare un regime di favore per gli enti previdenziali. È diffusa in giurisprudenza – pur a fronte di un diverso quadro normativo – l’idea che il pignoramento presso terzi costituisce una fattispecie complessa a formazione progressiva che si perfeziona, non con la notificazione dell’atto, ma con l’individuazione del suo oggetto, ovvero con la dichiarazione positiva del terzo o con l’ordinanza che accerti l’esistenza del relativo obbligo verso il debitore (Cass. 9.3.2011, n. 5529; Cass. 23.3.2011, n. 6666); tuttavia, si ritiene che la notificazione del pignoramento segna il momento iniziale dell’esecuzione ed il momento a partire dal quale ogni atto dispositivo del bene o del credito pignorato è inopponibile al creditore procedente (Cass. 9.3.2011, n. 5529) ed il momento a partire dal quale il debitore è facultato a proporre l’opposizione agli atti esecutivi (Cass. 23.3.2011, n. 6666). Considerato quanto sopra, e guardando al tenore letterale della disposizione (che si riferisce al “compimento del pignoramento”), si può ritenere che il termine di un anno decorra dalla notifica del pignoramento: è dubbio se, con riguardo al giudizio endoesecutivo di accertamento, sia predicabile quella “interpretazione che consideri la possibilità di ritenere sospeso il termine in questione fino alla definizione del giudizio di accertamento” che taluno ipotizzava con riguardo alla disciplina anteriore alle modifiche del 2012 (Storto, op. cit., 758). Una ulteriore questione interpretativa si è pone con riguardo all’ultimo alinea del comma in esame: “L'ordinanza che dispone ai sensi dell'articolo 553 del codice di procedura civile l'assegnazione dei crediti in pagamento perde efficacia se il creditore procedente, entro il termine di un anno dalla data in cui è stata emessa, non provvede all'esazione delle somme assegnate”. 5 A ben vedere si muove nella stessa logica, ed esprime l’idea che tale punto di equilibrio vada ricercato diversamente, quando ad essere debitrice è una pubblica amministrazione, la futuribile riforma che può ricavarsi dal disegno di legge n. 2953/A, all’esame del Parlamento, contenente una delega legislativa per dettare (ulteriori) disposizioni per la efficienza del processo civile. Tra le varie novità interessanti il processo esecutivo, tutte più o meno criticabili per ragioni che non è possibile in questa sede approfondire, si segnala quella contenuta nell’art. 1, comma 2, lett. d), n. 1-quinquies relativa alla individuazione del valore del credito azionato nei confronti della pubblica amministrazione al di sotto del quale il terzo deve accantonare una somma di denaro pari all’importo precettato aumentato di tre volte. Si vuole cioè prevedere un “doppio binario” in relazione alla entità della somma da “bloccare” a seconda dell’importo del credito precettato. 24 Ebbene, rilevato che ai sensi dell’art. 553 c.p.c. l’assegnazione avviene “salvo esazione”, e che ai sensi dell’art. 2928 c.c. “il diritto dell’assegnatario verso il debitore che ha subito l’espropriazione non si estingue che con la riscossione del credito assegnato”, si dovrebbe a rigore sostenere che tutte le volte che, entro un anno dalla data di emissione dell’ordinanza di cui si tratta, non intervenga il pagamento da parte del terzo, l’ordinanza stessa perderebbe efficacia. Tuttavia, è stata proposta una diversa interpretazione della norma secondo cui sarebbe opportuno “sganciare il requisito dall’effettivo incasso del credito assegnato, prendendo atto che la ratio dell’art. 2928 c.c. è diversa da (e per certi versi opposta a) quella della norma oggi in esame e che, quindi, il termine ivi previsto potrebbe ritenersi rispettato con la semplice attivazione di procedure formali di riscossione, prescindendo dai tempi di realizzazione effettiva del diritto” (Storto, op. cit., 760). 4. Norme incidenti sui soggetti dell’esecuzione: la disciplina della tesoreria unica. Cenni all’ammissibilità del pignoramento sulle “anticipazioni di cassa”. Assodato che, in linea astratta, deve ammettersi l’azione esecutiva nei confronti della pubblica amministrazione (sia pure con le particolarità di cui si è detto e di cui si dirà), occorre fare un passo indietro ed analizzare il contesto in cui viene creato il sistema della tesoreria unica. Come rilevato dalla dottrina (Costantino, La tutela espropriativa contro la p.a.. Il pignoramento di crediti in riferimento al sistema di tesoreria unica, in Mazzamuto, a cura di, Processo e tecniche di attuazione dei diritti, II, Napoli, 1989, 967 e ss.) mentre “il denaro esistente presso la sede dell’amministrazione può essere materialmente appreso dagli organi dell’ufficio esecutivo e quindi da questi trasferito al creditore procedente (…) il credito, invece, e in particolare i crediti dell’amministrazione verso il proprio Tesoriere, sono destinati a circolare esclusivamente in forza di mandati di pagamento, ai sensi degli artt. 325 r.d. 3 marzo 1934, n. 383 e 205, r.d. 12 febbraio 1911, n. 297”. La deroga a tale disciplina generale – rileva la citata dottrina – è avvenuta in forza di disposizioni eccezionali, quali l’art. 23, commi 6 e 7, d.l. n. 153 del 1980 e il d.m. 26 gennaio 1981 secondo cui l’espropriazione forzata del pubblico denaro si compie mediante pignoramento presso gli uffici della Tesoreria dello Stato i quali provvedono al pagamento mediante “vaglia del tesoro da estinguersi in conto corrente postale intestato al creditore”. Ai sensi dell’art. 40, l. n. 119 del 1981 il pubblico denaro va depositato presso la Tesoreria dello Stato (quantomeno relativamente alle somme eccedenti il 12% delle entrate previste dal bilancio di competenza), laddove le aziende e gli istituti di credito che esercitano il servizio di tesoreria a favore degli enti pubblici sono tenuti ad eseguire operazioni di incasso e pagamento con riguardo a somme di cui materialmente non dispongono (secondo il regime dell’anticipazione di cassa). Da tale quadro normativo conseguiva “che le aziende e gli istituti esercenti il servizio di tesoreria per gli enti pubblici, citati innanzi al (…) Giudice dell’esecuzione non solo non possono eseguire alcun pagamento ma non possono neppure rendere una dichiarazione positiva ai sensi dell’art. 547 c.p.c.: essi devono indicare 25 quale depositario del pubblico danaro e debitore del soggetto passivo del processo esecutivo la Tesoreria di Stato” (Costantino, op. ult. cit., 968). Dopo una lunga serie di decreti non convertiti, la materia ha trovato nella l. 720 del 1984 la propria disciplina. In specie, ai sensi dell’art. 1 della citata legge: Fatti salvi gli effetti prodotti, gli atti e i provvedimenti adottati, nonché i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti-legge 25 gennaio 1984, n. 5, 24 marzo 1984, n. 37, 24 maggio 1984, n. 153 e 25 luglio 1984, n. 372 , con decorrenza 30 agosto 1984, gli istituti e le aziende di credito, tesorieri o cassieri degli enti e degli organismi pubblici di cui alla tabella A annessa alla presente legge, effettuano, nella qualità di organi di esecuzione degli enti e degli organismi suddetti, le operazioni di incasso e di pagamento a valere sulle contabilità speciali aperte presso le sezioni di tesoreria provinciale dello Stato. Le entrate proprie dei predetti enti ed organismi, costituite da introiti tributari ed extratributari, per vendita di beni e servizi, per canoni, sovracanoni e indennizzi, o da altri introiti provenienti dal settore privato, devono essere versate in contabilità speciale fruttifera presso le sezioni di tesoreria provinciale dello Stato. Le altre entrate, comprese quelle provenienti da mutui, devono affluire in contabilità speciale infruttifera, nella quale devono altresì essere versate direttamente le assegnazioni, i contributi e quanto altro proveniente dal bilancio dello Stato. Le operazioni di pagamento sono addebitate in primo luogo alla contabilità speciale fruttifera, fino all'esaurimento dei relativi fondi. OMISSIS Restava la (già accennata) criticità consistente in ciò, che le operazioni di pagamento e incasso svolte dai tesorieri sono “a valere sulle contabilità speciali aperte presso le sezioni di tesoreria provinciale dello Stato”, dal che consegue la inconfigurabilità di un rapporto di credito-debito tra gli enti pubblici ed i rispettivi tesorieri (che peraltro neanche detenevano materialmente le somme). A tale inconveniente ha posto rimedio il legislatore con l’introduzione (ad opera del d.l. n. 359 del 1987) dell’art. 1-bis della l. n. 720 del 1984, che, nella primigenia formulazione, così prevedeva: 1. I pignoramenti ed i sequestri, a carico degli enti ed organismi pubblici di cui al primo comma dell'articolo 1, delle somme affluite nelle contabilità speciali intestate ai predetti enti ed organismi pubblici si eseguono, secondo il procedimento disciplinato al capo III del titolo II del libro III del codice di procedura civile, con atto notificato all'azienda o istituto cassiere o tesoriere dell'ente od organismo contro il quale si procede nonché al medesimo ente od organismo debitore. 2. Il cassiere o tesoriere assume la veste del terzo ai fini della dichiarazione di cui all'articolo 547 del codice di procedura civile e di ogni altro obbligo e responsabilità ed è tenuto a vincolare l'ammontare per cui si procede nelle contabilità speciali con annotazione nelle proprie scritture contabili. 3. In caso di pignoramenti o sequestri di entrate proprie degli enti ed organismi pubblici di cui al primo comma dell'articolo 1 eseguiti anteriormente al versamento di queste in contabilità speciale, il cassiere o tesoriere provvede ugualmente al dovuto versamento nella contabilità speciale con annotazione del relativo vincolo. 26 4. Restano ferme le cause di impignorabilità, insequestrabilità ed incedibilità previste dalla normativa vigente, nonché i vincoli di destinazione imposti, o derivanti dalla legge. La dottrina ha sottolineato che “il significato derogatorio sotto questo aspetto della disposizione in parola [è] in via di affievolimento a causa del progressivo e graduale passaggio degli enti locali ad un sistema di tesoreria c.d. mista nel quale una parte delle entrate (quelle tecnicamente definite come proprie, cioè non direttamente provenienti o costituite da trasferimenti erariali) sono esonerate dal riversamento nella tesoreria statale e sono invece detenute presso l’istituto cassiere o tesoriere che quindi diviene depositario delle relative somme” (Rossi, op. cit., spec. 276-277 e nota 29 per i riferimenti normativi). Alla stregua di tale dato normativo, quindi, il pignoramento poteva indifferentemente colpire le somme di pertinenza dell’ente esecutato già affluite nelle contabilità speciali quanto quelle incassate dal tesoriere ma da questi non ancora riversate nelle suddette contabilità (Cass. 17.6.1988, n. 4136). Sennonché il quadro normativo è mutato ulteriormente per effetto della introduzione, nel tessuto del citato art. 1-bis, del comma 4-bis, che prevede: “4- bis . Non sono ammessi atti di sequestro o di pignoramento ai sensi del presente articolo presso le sezioni di tesoreria dello Stato e presso le sezioni decentrate del bancoposta a pena di nullità rilevabile anche d'ufficio. Gli atti di sequestro o di pignoramento eventualmente notificati non determinano obbligo di accantonamento da parte delle sezioni medesime né sospendono l'accreditamento di somme nelle contabilità intestate agli enti ed organismi pubblici di cui alla tabella A annessa alla presente legge”. A fronte della introduzione di tale norma si è posto il problema se la indicazione del tesoriere quale terzo pignorato implichi l’impossibilità di aggredire crediti che l’ente esecutato vanti verso diversi soggetti, anche di natura privatistica. La giurisprudenza di merito appare prevalentemente orientata in senso negativo, ossia nel senso che l’esecuzione presso terzi intrapresa nei riguardi di un terzo diverso dal tesoriere debba essere dichiarata inammissibile, anche su rilievo d’ufficio (Trib. Napoli, 12.12.2005). In dottrina (Rossi, op. cit., 279 e ss.), peraltro, si ritiene che, fuori dal caso peculiare in cui il debitore sia un Ente locale (o altro soggetto ricadente nell’ambito di applicazione dell’art. 159 TUEL), la soluzione da preferire sia quella opposta. Si rileva, da un lato, che la ratio della disciplina sulla tesoreria sia quella di garantire una ordinata gestione della contabilità (e rispetto a tale ratio la rilevata inammissibilità del pignoramento appare ultronea) e, dall’altro lato, che una lettura costituzionalmente orientata del sistema dovrebbe condurre a ripudiare orientamenti che portino ad estendere la portata applicativa di ostacoli o impedimenti al pieno dispiegarsi del diritto di procedere in via esecutiva. Ed anzi la circostanza che, relativamente agli Enti locali, siffatta possibilità sia esclusa esplicitamente dalla norma, fa sorgere il dubbio che vi sia, anche per tale aspetto, un vulnus all’art. 24 Cost. con conseguente auspicio di un “intervento della Consulta che rimuova dall’ordinamento una condizione di (…) intollerabile sacrificio del diritto di azione del creditore nei confronti della p.a.” (Rossi, op. cit., spec. 283). 27 Una questione complessa che può porsi nell’ipotesi di pignoramento presso terzi nei confronti del tesoriere riguarda il caso in cui il rapporto di tesoreria sia gestito secondo il regime dell’anticipazione di cassa. Senza per adesso tenere in considerazione le ulteriori complicazioni che si pongono nel caso specifico di rapporti assoggettati alla l. n. 780 del 1984 (ed ai decreti attuativi che alla stessa si collegano), vanno preliminarmente sciolti due nodi interpretativi: 1) quale sia il momento in cui si perfeziona il pignoramento; 2) quale tipo di posizione giuridica soggettiva vanta il debitore nei riguardi del terzo allorché tra gli stessi intercorra un rapporto di anticipazione. Con riguardo alla prima questione, si ricorderà che la dottrina e la giurisprudenza sono divisi, in quanto: a) secondo una prima tesi il pignoramento, ai fini della nascita di un vincolo di indisponibilità delle somme, si perfeziona al momento della notifica dell’atto in questione al debitore ed al terzo e, in particolare, la eventuale dichiarazione negativa rileva come causa di caducazione di effetti già prodottisi (Verde, Pignoramento in generale, in Enc. Dir., XXXIII, Milano, 1983, 770); b) per altra impostazione l’insorgenza del vincolo presuppone la “specificazione” delle somme di pertinenza del debitore detenute dal terzo il che avviene o con la dichiarazione dello stesso terzo (nei limiti in cui la stessa sia positiva e con riferimento all’importo dichiarato) ovvero con l’accertamento giudiziale del diritto vantato dal debitore nei riguardi del terzo, con riferimento all’an debeatur ed al quantum debeatur (Tarzia, L’oggetto del processo di espropriazione, Milano, 1961, 315; Andrioli, Commento al Codice di procedura civile, III, Napoli, 1964, 79-80, Vaccarella, Espropriazione presso terzi, in Digesto civ., VIII, Torino, 1992, ad vocem; Colesanti, Pignoramento presso terzi, in Enc. Dir., XXXIII, Milano 1983, 846); c) la tesi che sembra essere seguita dalla giurisprudenza più recente è nel senso che il pignoramento presso terzi integri una fattispecie a formazione progressiva dove taluni effetti sono già ricollegabili alla notifica dell’atto di pignoramento (come ad esempio l’obbligo di custodia in capo al terzo come pure la inopponibilità al creditore pignorante degli atti dispositivi del credito – si pensi al classico esempio della cessione volontaria del quinto), fermo restando, però, che la specifica individuazione dell’oggetto del pignoramento (che, se del caso, sarà oggetto del provvedimento di assegnazione) richiede la dichiarazione del terzo o, quanto meno, l’accertamento (che può conseguire anche alla non contestazione in presenza di una allegazione sufficientemente specifica da parte del creditore) del relativo obbligo. In definitiva, secondo la ricostruzione in atto prevalente in giurisprudenza, gli effetti sostanziali del pignoramento si collegano al momento della notifica dell’atto al debitore ed al terzo (Cass. 9.3.2011, n. 5529; Cass. 23.3.2011, n. 6666. Sul tema v. Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, V ed., Padova, 2015, spec. 1042 e ss.). Collegata alla questione appena esaminata è quella della inopponibilità al creditore pignorante non solo degli atti dispositivi, ma anche dei fatti estintivi verificatisi 28 successivamente alla notifica del pignoramento. In questo senso si esprime chiaramente l’art. 2917 c.c.. Quest’ultima precisazione conduce alla individuazione del secondo ordine di problemi sotteso alla fattispecie in esame, ossia quello relativo alla qualificazione della posizione vantata dal debitore nei riguardi della banca quando tra l’uno e l’altro sussista un rapporto di anticipazione di cassa riconducibile allo schema del contratto di apertura di credito bancario. In virtù di questo contratto la banca si impegna verso il cliente a “tenere a disposizione” somme di denaro a favore di quest’ultimo (art. 1842 c.c.). Si discute, quindi, se il cliente sia immediatamente creditore della somma (se sia cioè titolare, rispetto alla anticipazione, di un diritto di godimento) ovvero se l’impiego dell’anticipazione (art. 1843 c.c.) costituisca l’oggetto di un potere dispositivo da molti qualificato in termini di diritto potestativo. Ebbene, laddove tra il cliente e la banca sia convenuto che le somme rimesse a favore del cliente vengano imputate prioritariamente a titolo di “rientro dell’anticipazione”, ci si chiede, in definitiva, se tali rimesse, quando intervenute dopo l’atto di pignoramento (e prima della dichiarazione), ricadano o meno nel vincolo di indisponibilità che dal pignoramento promana. Nel caso in cui il cliente sia un ente assoggettato al regime della tesoreria unica e la banca, appunto, il tesoriere, la vicenda si complica ulteriormente considerato che l’art. 4, d.m. 4.8.2009 (attuativo della legge sulla tesoreria unica) prevede che “Le anticipazioni effettuate agli enti ed organismi pubblici dai tesorieri, nei limiti previsti dalla normativa in vigore, in mancanza di disponibilita' non vincolate nelle contabilita' speciali in essere presso la Tesoreria dello Stato, devono essere estinte, a cura dei tesorieri, non appena siano acquisiti introiti non soggetti a vincolo di destinazione sul conto corrente bancario intestato agli enti e organismi pubblici, ovvero entro il giorno lavorativo successivo qualora gli introiti siano stati acquisiti sulla contabilita' speciale presso la Tesoreria dello Stato”. La giurisprudenza di merito, rispetto alla questione se le somme concesse in anticipazione siano “colpite” dal pignoramento (quantunque dovrebbero, secondo il citato decreto, essere utilizzate per il “rientro dall’anticipazione”), appare prevalentemente orientata in senso affermativo. Si v. al riguardo Trib. Napoli 12.4.2010/o. La soluzione affermativa riposa sulla valorizzazione di elementi quali: - la pignorabilità dei crediti “inesigibili” o eventuali; - la constatazione che l’apertura di credito non crea un diritto dell’Ente alla somma messa a disposizione della banca ma un “diritto potestativo” alla richiesta di erogazione del fido; - l’attrazione al vincolo pignoratizio di tutte le somme pervenute presso il terzo successivamente al pignoramento. Questa giurisprudenza viene criticata da una parte della dottrina (Pucciariello, Espropriazione presso terzi e servizio di tesoreria: può essere apposto il vincolo ex art. 543 c.p.c. sulla somma rimessa dalla Regione sul conto corrente assistito da apertura di credito, in Riv. esec. forz., 2010, 963) dalla quale si osserva – ricordando una più remota giurisprudenza in senso inverso - che l’accreditato ha la 29 disponibilità economica della somma ma non anche la disponibilità giuridica della stessa con la conseguenza che l’assegnazione resterebbe subordinata alla mera volontà del debitore esecutato e sarebbe, quindi, impossibile: “non è quindi possibile sottoporre a pignoramento il credito futuro, eventuale e condizionato che l’accreditato vanterà nei confronti della banca quando eserciterà, se lo vorrà, il potere di esigere le somme messe a sua disposizione, perché la posizione giuridica attiva non appare in questo momento dotata di capacità satisfattiva futura (P. Monza, 3.3.1989). A parere di questa dottrina, se la chiave di lettura della questione è offerta (in un senso o nell’altro) dalla potestatività della posizione dell’accreditato, occorrerebbe notare che il diritto potestativo è, di norma, non cedibile; inoltre, la somma “anticipata” sarebbe impignorabile in quanto non solo temporaneamente inesigibile ma in quanto non dovuta, essendo la relativa debenza collegata all’esercizio di un diritto potestativo del debitore. Non vi sarebbe, quindi, una “condizione in senso tecnico dal momento che il potere di disporre appare piuttosto un elemento costitutivo del tipo contrattuale e dello schema economico-sociale del contratto di riferimento: esso appare l’estrinsecazione del potere di determinare l’effetto nella sfera giuridica della banca trasformando la disponibilità in godimento; costituisce effetto (seppur eventuale) del contratto stesso, senza il quale non è luogo a parlarsi del tipo contrattuale di riferimento, e quindi è l’attuazione dell’interesse primario sotteso all’operazione tipica posta in essere” (Pucciariello, loc. ult. cit.). In realtà, ad avviso della citata dottrina, il discorso non cambia di molto se si tiene in considerazione la disposizione regolamentare che obbliga la banca ad utilizzare le rimesse del cliente in primo luogo per il rientro dell’anticipazione. Si rileva infatti che questa operazione ha funzione ripristinatoria e non solutoria e che, pur se avesse quest’ultima funzione, si tratterebbe di una vicenda estintiva non già del credito pignorato quanto piuttosto relativa “al diverso rapporto costituito dall’accensione e utilizzazione del fido che non ha creato alcun credito – in senso tecnico – del correntista” (Pucciariello, ibidem). La esclusione dell’effetto dell’art. 2917 c.c. con riguardo al “pagamento” effettuato per il rientro dell’anticipazione appare fondata su una argomentazione artificiosa perché postula una distinzione tra il “rapporto di base” e quello “di anticipazione di cassa” che non sembra sussistere nei fatti, laddove l’anticipazione non rappresenta un rapporto ulteriore che si “somma” a quello di base ma soltanto un modo d’essere di quest’ultimo. 5. Norme incidenti sull’oggetto dell’azione esecutiva. A) I vincoli di indisponibilità derivanti da provvedimento amministrativo. Il “caso” delle aziende sanitarie e degli enti locali: evoluzione della normativa. L’art. 159 TUEL: la giurisprudenza costituzionale. Le principali questioni problematiche: quando si perfeziona il vincolo di impignorabilità e da quando esso è opponibile ai creditori; quale è la sede delle contestazioni relative alla cogenza di tale vincolo; come è ripartito l’onere probatorio riguardo alle vicende del vincolo di indisponibilità. Cenni alla individuazione ed alla latitudine dei 30 poteri istruttori del Giudice. B) I vincoli di indisponibilità posti direttamente dalla legge: 1) l’art. 1, d.l. n. 313 del 1993 (conv. con modifiche in l. n. 460 del 1994), ovvero il c.d. pignoramento contabile (le principali questioni problematiche); 2) l’art. 6, d.l. n. 263 del 2006, conv. in l. n. 290 del 2006 (sulla emergenza rifiuti in Campania); 3) l’art. unico, comma 1348, della l. n. 296 del 2006; 4) L’art. 1, comma 24, l. n. 228 del 2012. C) Le “gestioni liquidative”: 1) la procedura di dissesto degli Enti locali e i principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale; 2) la procedura di riequilibrio finanziario; 3) la vicenda “Policlinico Umberto I”; 4) il “blocco” delle azioni esecutive riguardo alle ASL site in Regioni commissariate al fine di garantire l’attuazione dei piani di rientro. La genesi della norma. Le posizioni della giurisprudenza. La declaratoria di incostituzionalità della normativa. Come anticipato in apertura, a seguito della “parificazione” della pubblica amministrazione al “comune debitore”, si è aperta una stagione caratterizzata da una copiosa (e disorganica) produzione normativa volta a limitare, sotto vari profili e con diverso livello di intensità, la possibilità del creditore di aggredire le somme di denaro di cui la p.a. disponga presso il tesoriere. A) Si ricordano in primo luogo le disposizioni normative a mente delle quali la “sottrazione” di determinate somme all’azione esecutiva del creditore si verifica in virtù dell’adozione di un provvedimento amministrativo (adozione che avviene, ben s’intende, sulla scorta di una norma di legge attributiva del relativo potere) che “specifichi” le somme destinate ad una determinata finalità (già prevista in termini generali dalla norma). È quanto accade con riferimento alla ASL (un tempo USL) e con riferimento agli enti locali. Queste discipline hanno disegnato percorsi similari e, come si dirà, reciprocamente interferenti. Quanto alle USL, l’art. 1, comma 5, d.l. n. 9 del 1993, conv. con modifiche in l. n. 67 del 1993, nel suo originario tenore letterale, prevedeva: “le somme dovute a qualsiasi titolo alle unità sanitarie locali e agli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico non sono sottoposte ad esecuzione forzata nei limiti degli importi corrispondenti agli stipendi e alle competenze comunque spettanti al personale dipendente o convenzionato, nonché nella misura dei fondi a destinazione vincolata essenziali ai fini dell’erogazione dei servizi sanitari definiti con decreto del Ministro della Sanità di concerto con il Ministro del tesoro da emanare entro due mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto”. Quanto agli Enti locali, l’art. 11, comma 1, d.l. n. 8 del 1993, conv. con modifiche in l. n. 68 del 1993, nel suo originario tenore letterale, prevedeva: 31 “1. Non sono soggette ad esecuzione forzata le somme delle regioni, dei comuni, delle province, delle comunità montane e dei consorzi fra enti locali destinate al pagamento delle retribuzioni al personale dipendente e dei conseguenti oneri previdenziali per i tre mesi successivi, al pagamento delle rate dei mutui scadenti nel semestre in corso, nonché le somme specificamente destinate all'espletamento dei servizi locali indispensabili quali definiti con decreto del Ministro dell'interno, di concerto con il Ministro del tesoro, da emanarsi entro due mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, a condizione che la giunta, con deliberazione da adottarsi per ogni trimestre, quantifichi preventivamente gli importi delle somme innanzi destinate e che dall'adozione della predetta delibera la giunta non emetta mandati a titoli diversi da quelli vincolati, se non seguendo l'ordine cronologico delle fatture così come pervenute per il pagamento o, se non soggette a fattura, della data di deliberazione di impegno da parte dell'ente”. Dal confronto tra le due normative si evince una asimmetria per ciò che concerne le condizioni in presenza delle quali può operare il vincolo di impignorabilità: nel caso degli enti locali si prevedeva la necessaria adozione di una delibera che quantificasse gli importi destinati alle specifiche finalità indicate dalla legge e dal decreto ministeriale e che tale delibera non fosse efficace in caso di emissione di mandati di pagamento a titoli diversi da quelli vincolati, se fatta in violazione dell’ordine cronologico. Se ne è dedotto che la normativa in materia di USL si ponesse in contrasto con l’art. 3 Cost. sia sotto il profilo della ragionevolezza che sotto il profilo della disparità di trattamento: - dal primo punto di vista, infatti, il creditore potrebbe vedersi opposta la impignorabilità delle somme per vincolo di destinazione delle stesse al servizio sanitario anche quando il suo stesso credito sia maturato in relazione all’espletamento di una prestazione connessa a quel servizio o di altro servizio; - dal secondo punto di vista, il creditore delle USL disporrebbe di una tutela deteriore rispetto a quella del creditore degli Enti locali in quanto, ai fini della insorgenza del vincolo e della relativa efficacia, rileverebbe soltanto l’adozione del decreto ministeriale richiamato dalla norma e quindi si darebbe rilievo “esterno” (sotto il profilo della opponibilità ai creditori) ad un atto privo di tale portata. Al contrario occorre una delibera che specifichi il vincolo di destinazione con riguardo ad un determinato periodo di tempo. Diversamente opinando, la destinazione delle somme al pagamento degli stipendi ovvero all’erogazione di servizi sanitari essenziali è idonea a sottrarre le somme all’esecuzione forzata promossa dai creditori senza bisogno di esibizione di ordini specifici di pagamento e dei relativi mandati in data anteriore all’atto introduttivo del processo esecutivo. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 285 del 1995, ravvisando la disparità di trattamento tra le due classi di creditori (quelli delle USL e quelli degli Enti locali) ha dichiarato la incostituzionalità dell’art. 1, comma 5, d.l. n. 9 del 1993, “nella parte in cui, per l’effetto della non sottoponibilità ad esecuzione forzata delle somme destinate ai fini ivi indicati, non prevede la condizione che l’organo di 32 amministrazione dell’unità sanitaria locale, con deliberazione sa adottare ogni trimestre, quantifichi preventivamente gli importi delle somme innanzi destinate e che dall’adozione della predetta delibera non siano emessi mandati a titoli diversi da quelli vincolati, se non seguendo l’ordine cronologico delle fatture così come pervenute per il pagamento o, se non è prescritta fattura, dalla data della deliberazione di impegno da parte dell’ente”. Rileva segnalare che l’art. 35, comma 8, d.l. n. 66 del 2014 (conv. con modifiche in l. n. 89 del 2014) ha modificato la norma in questione (oltre che per i profili riguardanti la denominazione delle USL) nel senso che segue: al comma 5 (…) alla fine, sono aggiunte le seguenti parole: “A tal fine l'organo amministrativo dei predetti enti, con deliberazione adottata per ogni trimestre, quantifica preventivamente le somme oggetto delle destinazioni previste nel primo periodo.” Una questione del tutto simile, in quanto in una certa misura speculare a quella appena richiamata, ha riguardato l’art. 113 d.lgs. n. 77 del 1995 (come modificato dal d.lgs. n. 36 del 1996 ed oggi abrogato dal TUEL) che ha previsto, relativamente agli Enti locali, che: “2. Non sono soggette ad esecuzione forzata, a pena di nullità rilevabile anche d'ufficio dal giudice, le somme di competenza degli enti locali di cui all'art. 1, comma 2, destinate a: a) pagamento delle retribuzioni al personale dipendente e dei conseguenti oneri previdenziali per i tre mesi successivi; b) pagamento delle rate di mutui e di prestiti obbligazionari scadenti nel semestre in corso; c) espletamento dei servizi locali indispensabili. 3. Per l'operatività dei limiti all'esecuzione forzata di cui al comma 2 occorre che l'organo esecutivo, con deliberazione da adottarsi per ogni semestre e notificata al tesoriere, quantifichi preventivamente gli importi delle somme destinate alle suddette finalità. 4. Le procedure esecutive eventualmente intraprese in violazione del comma 2 non determinano vincoli sulle somme nè limitazioni del tesoriere”. Con ordinanze di rimessione del Pretore di Napoli (Sezione distaccata di Pozzuoli) e del Pretore di Catania è stata messa in dubbio la legittimità costituzionale di tale normativa. In particolare, avuto riguardo alla disciplina delle USL, come risultante a seguito della pronuncia n. 285 del 1995 della Corte Costituzionale, il creditore di un ente locale verrebbe a trovarsi in una posizione irragionevolmente deteriore rispetto a quella del creditore di una USL in quanto mentre l'ente locale esecutato potrebbe, agli effetti dell'impignorabilità (delle somme di sua pertinenza), limitarsi ad opporre al creditore procedente la delibera di quantificazione delle somme destinate ai fini indicati dal legislatore, la unità sanitaria locale sarebbe tenuta anche a provare che dalla data di detta deliberazione non sono stati emessi - a titoli diversi da quelli 33 vincolati - mandati di pagamento se non seguendo uno specifico ordine cronologico. Ne consegue la violazione del principio di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione. Una ulteriore violazione dello stesso principio viene ravvisata dal rimettente nella rilevabilità d'ufficio della nullità, sancita dal secondo comma della disposizione denunciata, per effetto della quale il creditore di un ente locale, diversamente da quello di una unità sanitaria locale, potrebbe veder frustrata la propria pretesa esecutiva anche in mancanza di opposizione da parte del debitore esecutato. Si osserva ancora che la ampiezza della tutela giurisdizionale del creditore potrebbe dipendere da una scelta difensiva dell’Ente esecutato: se quest’ultimo non proponga opposizione all’esecuzione per dedurre il vincolo di impignorabilità e questo sia rilevato d’ufficio dal Giudice dell’esecuzione con ordinanza dichiarativa della nullità del pignoramento, essendo in questo caso esperibile la sola opposizione agli atti esecutivi, vi sarebbe la perdita di un grado di giudizio. Merita qualche cenno anche la difesa svolta dall’Avvocatura dello Stato. Si rileva, in particolare, che la sentenza n. 285 del 1995 avrebbe “integrato la disciplina delle USL mediante un rinvio non recettizio alla disciplina degli Enti locali e che, pertanto, la successiva modificazione di quest’ultima si estenderebbe direttamente alla prima facendo venir meno la disparità di trattamento denunciata dal ricorrente”, poiché a fronte del rinvio mobile la norma richiamata viene assorbita da quella che la richiama non in modo “fisso” ma siccome tale norma “vive” nell’ordinamento di appartenenza. Volendo intendere invece il rinvio operato dalla pronuncia come un rinvio recettizio ne discenderebbe una preclusione in capo al legislatore di modificare la normativa “recepita”, e ciò esulerebbe dai poteri della Corte Costituzionale. Al riguardo la Corte Costituzionale (sentenza 12-20.3.1998, n. 69) osserva: “In proposito, una precisazione appare necessaria. Secondo quanto sostenuto dall'Avvocatura dello Stato poiché la sentenza n. 285 del 1995 disporrebbe per le unità sanitarie locali un rinvio non ricettizio alla disciplina degli enti locali, la intervenuta modificazione di quest'ultima si comunicherebbe direttamente alle unità sanitarie locali eliminando in radice la stessa possibilità di una qualsiasi diversità tra le due discipline (e tra le due categorie di enti). L'erroneità della tesi risiede nello stesso presupposto da cui muove, posto che il riferimento ad un rinvio non ricettizio asseritamente operato con la più volte citata sentenza non trova alcun conforto nella lettera e nel contenuto della stessa sentenza. Privo di fondamento è anche l'assunto della difesa erariale della immodificabilità della disciplina delle unità sanitarie locali quale conseguenza per così dire necessitata del carattere ricettizio del rinvio. È, infatti, evidente che una sentenza di questa Corte non può in alcun caso comportare una limitazione della libertà del legislatore diversa da quella rappresentata dall'osservanza della Costituzione. Mentre va dunque ribadita la persistente diversità di disciplina tra unità sanitarie locali ed enti locali, quel che si tratta di accertare è se tale diversità risulti o meno conforme alla Costituzione”. Partendo da tale premessa, e cioè che le normative in materia di USL e di Enti locali sono differenti (questa volta perché la seconda implica un trattamento 34 deteriore del creditore rispetto alla prima), la Corte Costituzionale ritiene che siffatta differenziazione sia irragionevole e quindi censurabile alla stregua dell’art. 3 Cost.. In particolare la Corte Costituzionale osserva: “In proposito, attesa la identità delle questioni affrontate, debbono essere richiamate le considerazioni svolte da questa Corte nella citata sentenza n. 285 del 1995 riguardo sia all'omogeneità delle due situazioni giuridiche (delle unità sanitarie locali e degli enti locali) poste in confronto che alla irragionevole disparità di trattamento in cui si traduce la diversità di disciplina di tali categorie di enti (e dei rispettivi creditori). La norma denunciata accordando, come si è visto, ai soli enti locali la possibilità di opporre l'impignorabilità di somme di denaro indipendentemente dalla osservanza di un determinato ordine cronologico nell'emissione di mandati a titoli diversi da quelli vincolati risulta immotivatamente diversa da quella in vigore per le unità sanitarie locali ed in quanto tale lesiva del principio costituzionale di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione. Si deve, pertanto, far luogo ad una dichiarazione di incostituzionalità che, nei limiti dell'ordinanza di rimessione, riconduca la disposizione denunciata in termini corrispondenti alla disciplina prevista dall'art. 1, comma 5, del d.l. n. 9 del 1993, convertito nella legge n. 67 del 1993, come risulta a seguito della sentenza di questa Corte n. 285 del 1995”. Ne è conseguita la dichiarazione dell’illegittimità costituzionale della norma censurata “nella parte in cui non prevede che l'impignorabilità delle somme destinate ai fini ivi indicati non opera qualora, dopo l'adozione da parte dell'organo esecutivo della delibera semestrale di quantificazione preventiva degli importi delle somme stesse, siano emessi mandati a titoli diversi da quelli vincolati, senza seguire l'ordine cronologico delle fatture così come pervenute per il pagamento o, se non è prescritta fattura, delle deliberazioni di impegno da parte dell'ente”. Riguardo agli Enti locali va analizzata, oggi, la disciplina contenuta nell’art. 159 TUEL. Per comodità del lettore si riporta il testo della disposizione: 1. Non sono ammesse procedure di esecuzione e di espropriazione forzata nei confronti degli enti locali presso soggetti diversi dai rispettivi tesorieri. Gli atti esecutivi eventualmente intrapresi non determinano vincoli sui beni oggetto della procedura espropriativa. 2. Non sono soggette ad esecuzione forzata, a pena di nullità rilevabile anche d'ufficio dal giudice, le somme di competenza degli enti locali destinate a: a) pagamento delle retribuzioni al personale dipendente e dei conseguenti oneri previdenziali per i tre mesi successivi; b) pagamento delle rate di mutui e di prestiti obbligazionari scadenti nel semestre in corso; c) espletamento dei servizi locali indispensabili. 3. Per l'operatività dei limiti all'esecuzione forzata di cui al comma 2 occorre che l'organo esecutivo, con deliberazione da adottarsi per ogni semestre e notificata al tesoriere, quantifichi preventivamente gli importi delle somme destinate alle suddette finalità. 35 4. Le procedure esecutive eventualmente intraprese in violazione del comma 2 non determinano vincoli sulle somme nè limitazioni all'attività del tesoriere. 5. I provvedimenti adottati dai commissari nominati a seguito dell'esperimento delle procedure di cui all'art. 37 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, e di cui all'art. 27, comma 1, n. 4, del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, emanato con regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, devono essere muniti dell'attestazione di copertura finanziaria prevista dall'art. 151, comma 4, e non possono avere ad oggetto le somme di cui alle lettere a ), b ) e c ) del comma 2, quantificate ai sensi del comma 3. La disposizione rappresenta l’esito del tormentato iter normativo testé passato in rassegna. Malgrado ciò il legislatore aveva originariamente subordinato l’efficacia del vincolo alla sola adozione e notifica al tesoriere della delibera di impignorabilità (senza far alcun riferimento a situazioni che determinassero l’inefficacia di quel vincolo). Di questo aspetto di è occupata Corte Cost., 18.6.2003, n. 211. Ben presto, infatti, la giurisprudenza ha rilevato la sostanziale identità tra la disposizione in esame e quella (contenuta nell’art. 113 d.lgs. n. 77 del 1995) dichiarata incostituzionale diversi anni prima, sul rilievo che la stessa implicasse, rispetto alla disciplina prevista per le USL (così come incisa, a sua volta, dalla sentenza n. 285 del 1995), una ingiustificata disparità di trattamento quanto alle condizioni di (in) efficacia del vincolo di impignorabilità. È stato ancora rilevato che il tertium comparationis a suo tempo invocato è ancora in vigore cosicché, pur volendo prescindere dal fatto che l’art. 159 TUEL abbia sostanzialmente tradito la ratio decidendi della pronuncia riguardante l’art. 113 cit., continuerebbe a sussistere una ingiustificata disparità di trattamento tra il creditore di una USL (frattanto diventata ASL) e quello di un Ente locale, visto che per il primo e non per il secondo “l’impignorabilità sarebbe condizionata anche all’osservanza, da parte dell’esecutato, di un determinato ordine nei pagamenti relativi a titoli diversi da quelli vincolati”. La Corte Costituzionale, dopo avere dichiarato inammissibile la questione relativa alla previsione del rilievo ufficioso della impignorabilità (siccome nel giudizio a quo la stessa era stata fatta valere dal debitore)6, ha ritenuto fondata la questione sopra sinteticamente richiamata sostenendo: “La norma impugnata, per la parte che interessa, riproduce, infatti, il testo dell'art. 113 del d.lgs. n. 77 del 1995 che, come si è ricordato, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza n. 69 del 1998. Questa Corte ebbe, allora, ad osservare che, stante la omogeneità delle situazioni giuridiche riferibili, rispettivamente, alle unità sanitarie locali ed agli enti locali, del tutto irragionevole risultava la disparità di trattamento della disciplina censurata nella parte in cui disponeva la impignorabilità delle somme di danaro destinate alla 6 La Corte di Cassazione è tornata sull’argomento allorché si era nuovamente dubitato della previsione del potere officioso del G.E., profilo che avrebbe rappresentato una intollerabile asimmetria rispetto ad altre discipline similari ove tale potere non è contemplato. Nel rifuggire i paventati dubbi di costituzionalità la Corte di Cassazione ha ritenuto che “l’impignorabilità quando prevista per ragioni di pubblico interesse e cioè a tutela di un interesse pubblicistico è sempre rilevabile d’ufficio, così elidendosi la rilevanza della mancata espressa previsione: Cass. 31.8.2011, n. 17873. 36 realizzazione degli scopi essenziali degli enti locali senza condizionarla, in conformità a quanto previsto per le unità sanitarie locali, alla inesistenza di pagamenti c.d. preferenziali e cioè effettuati da tali enti senza l'osservanza di un determinato ordine cronologico. Le medesime considerazioni si ripropongono con riferimento alla disciplina ora impugnata. Per effetto di essa, infatti, si determina, in violazione della garanzia della par condicio creditorum, la identica, irragionevole, disparità di trattamento fra ente locale ed azienda sanitaria, già dichiarata incostituzionale da questa Corte, nessun rilievo avendo la circostanza - evidenziata dalla Avvocatura dello Stato - che nell'ordinamento sanitario vigente le unità sanitarie locali siano state sostituite dalle aziende sanitarie locali. Per un verso, infatti, è applicabile a tali aziende la disciplina riguardante le unità sanitarie contenuta nell'art. 1 del d.l. n. 9 del 1993, così come risultante a seguito della sentenza n. 285 del 1995 di questa Corte, per altro verso, le aziende stesse sono caratterizzate dagli stessi scopi propri delle unità sanitarie locali. È, d'altra parte, significativo che la stessa immotivata diversità normativa riscontrabile fra la disciplina applicabile agli enti locali e quella riferibile alle aziende sanitarie si ripresenti, in maniera altrettanto ingiustificata, ove si confronti la prima con l'art. 11, comma 1, del decreto-legge 18 gennaio 1993, n. 8 (Disposizioni urgenti in materia di finanza derivata e di contabilità pubblica), tuttora in vigore limitatamente alle esecuzioni in danno delle regioni, che prevede, quale condizione per la non assoggettabilità ad esecuzione forzata delle somme di danaro delle regioni, che non siano stati effettuati pagamenti, per titoli diversi da quelli vincolati, se non seguendo l'ordine cronologico delle fatture o, in assenza di queste, delle deliberazioni di impegno da parte dell'ente stesso. Si deve, pertanto, fare luogo ad una dichiarazione di incostituzionalità della disposizione denunciata negli stessi termini di cui alla citata sentenza n. 69 del 1998”. Ciò detto è indispensabile chiarire: a) quando si perfeziona il vincolo di impignorabilità e da quando esso è opponibile ai creditori; b) quale è la sede delle contestazioni relative alla cogenza di tale vincolo; c) come sia ripartito l’onere probatorio riguardo alle vicende del vincolo di indisponibilità. Riguardo alla questione sub a), due sono le tesi che si contendono il campo (ed è bene notare, sin da ora, che la condivisione dell’una o dell’altra importa conseguenza applicative di rilievo): i) una parte della dottrina (Vaccarella, Impignorabilità di somme “vincolate” dall’ente locale, in Riv. esec. forz, 2006, 3), ha ritenuto che il perfezionamento del vincolo è subordinato ad una duplice condizione. Segnatamente: 1) una condizione positiva, consistente nella adozione di una delibera di quantificazione; 37 2) una condizione negativa, consistente nella mancata emissione di mandati di pagamento a titolo diverso violativi dell’ordine cronologico dei pagamenti. ii) per altra parte della dottrina (Rossi, op. cit., 2969) e per la giurisprudenza (Cass. 16.9.2008, n. 23727; Cass. 27.5.2009, n. 12259; Cass. 21.2.2011, n. 4207), invece, l’adozione della delibera implica di per sé la nascita del vincolo mentre la emissione di mandati di pagamento a titolo diverso in violazione dell’ordine cronologico delle fatture rileva come circostanza (peraltro eventuale) che incide su un vincolo già perfetto. Diversamente opinando, il perfezionamento del vincolo di impignorabilità sarebbe “in continuo, mutevole divenire e privo di una sua collocazione temporale precisa occorrendo a questo scopo sempre verificare per tutto il tempo successivo all’approvazione della delibera (fatto positivo) la mancata emissione di un mandato siffatto (fatto negativo)” [Rossi, ibidem]. In sintesi: 1) l’adozione della delibera è sufficiente ai fini del perfezionamento del vincolo. Il diverso e successivo momento della notifica al tesoriere incide solo sui “rapporti interni” tra questo e l’ente debitore, in quanto solo dalla notifica della delibera di impignorabilità il tesoriere è tenuto a “bloccare” le somme indicate in tale delibera.; 2) l’emissione di mandati di pagamento a titolo diverso è fatto estintivo del vincolo; 3) il rispetto dell’ordine cronologico dei pagamenti per titoli diversi rappresenta un fatto impeditivo del dispiegarsi dell’effetto estintivo connesso all’emissione dei mandati di pagamento a titolo diverso. Discussa è anche la questione della opponibilità del vincolo, che: i) per una prima impostazione è collegata all’adozione della delibera in data anteriore alla fornitura, da parte del terzo, della dichiarazione di quantità. Se quindi la delibera viene emanata dopo la notifica del pignoramento ma prima della dichiarazione di quantità il vincolo dalla prima derivante sarebbe opponibile al creditore. Questa soluzione è stata seguita da una isolata pronuncia della Corte di Cassazione (Cass. 27.1.2009, n. 1949); ii) per altra impostazione – che muove da una diversa ricostruzione della fattispecie del pignoramento presso terzi e, su un piano pratico, dalla motivata preoccupazione che, a seguire l’orientamento sub i), si darebbe agli Enti locali una facile scappatoia per sottrarsi all’esecuzione (già) promossa nei loro riguardi – è opponibile al creditore solo quella delibera che sia stata adottata e munita di efficacia in data anteriore alla notifica del pignoramento (Cass. 24.4.2008, n. 10654; Cass. 18.1.2000, n. 496). È questa la soluzione preferibile. Si ritiene che, da questo momento, il vincolo di impignorabilità operi nei riguardi di tutti i creditori e cioè, in ipotesi, anche del creditore che vanti un diritto collegato ad uno dei “titoli” di cui all’art. 159, comma 2, TUEL (ovvero ad esempio un credito di lavoro o un credito collegato all’espletamento di prestazioni connesse ad un servizio pubblico indispensabile). 38 A fronte di chi invoca la necessità di un intervento della Consulta (Rossi, op. cit., 304), si colloca la posizione di quella dottrina (Costantino, L’espropriazione forzata in danno delle unità sanitarie e dei Comuni, cit., spec. 868) che (sebbene con riferimento – quanto agli enti locali - al quadro normativo previgente, ma il discorso è valido anche con riferimento alle norme conferenti del TUEL) ha rilevato che “non è inopportuno ricordare che, tra diverse possibili interpretazioni, l’interprete è tenuto ad accogliere quella più aderente ai principi deducibili dalla Costituzione, mentre il rilievo della illegittimità costituzionale costituisce l’ultima ratio alla quale occorre fare ricorso, quanto né l’interpretazione letterale sé quella storica e sistematica si rivelano idonee a conciliare la norma con i valori fondamentali dell’ordinamento”. Si impone così una lettura costituzionalmente orientata alla cui stregua “le limitazioni alla garanzia patrimoniale ed i vincoli di indisponibilità non sono opponibili al personale dipendente o convenzionato e a coloro che vantano crediti relativi alla erogazione dei servizi sanitari, per i quali la USL ha vincolato specifici fondi”. Riguardo alla questione prospettata supra sub b) [quale è la sede delle contestazioni relative alla cogenza di tale vincolo], si registrano opinioni divergenti: i) alla stregua di una prima “nell’espropriazione forzata presso terzi, l'eccezione che il credito verso il terzo non è assoggettabile ad esecuzione forzata costituisce motivo di opposizione agli atti esecutivi e non di opposizione all'esecuzione, trattandosi di contestazione attinente non al diritto di procedere ad esecuzione forzata, ma alla procedibilità di questa, ed alla stessa qualificazione occorre pervenire quando l'eccezione riguardi il fatto che la dichiarazione resa dal terzo sia inficiata da errori, o che la somma da assegnare non sia stata determinata correttamente. Tali principi valgono anche quando il debitore (come nella fattispecie) sia un ente locale che si sia avvalso del potere di destinare a finalità specifiche le somme di sua competenza nei limiti indicati dall'art. 113 del d.lg. n. 77 del 1995 (modificato dall'art. 39 del d.lg. n. 336 del 1996 e riprodotto nell'art. 159, comma 2, del d.lg. n. 267 del 2000), con la conseguenza che le contestazioni con le quali, sotto profili diversi, l'ente locale fa valere ragioni concernenti il rispetto delle procedure di imposizione del vincolo di indisponibilità sulle predette somme, comportante l'impignorabilità delle stesse ad opera di terzi creditori, configurano motivi di opposizione agli atti esecutivi” (Cass. 20.2.2006, n. 3655; più di recente v. Cass. 27.6.2014, n. 14639; contra Cass. 28.2.2006, n. 4507; Cass. 19.5.2003, n. 7761); ii) è invece più diffusa sia in dottrina (Rossi, op. cit., 306, con ulteriori richiami; Tatangelo, op. cit., spec. 522) che in giurisprudenza (Cass. 11.1.2007, n. 387; Cass. 16.11.2005, n. 23084) l’idea che una simile contestazione debba svolgersi nelle forme dell’opposizione all’esecuzione in quanto attinente alla “pignorabilità” dei beni aggrediti (al riguardo si segnala altresì Cass. 31.8.2011, n. 17878 che ha ritenuto ammissibile l’opposizione agli atti esecutivi proposta contro l’ordinanza di assegnazione per far valere la impignorabilità del credito ma solo nel caso in cui il debitore abbia già contestato detta impignorabilità nelle forme dell’opposizione all’esecuzione, contestazione ribadita al momento della 39 dichiarazione del terzo e non tenuta in considerazione nell’ordinanza di assegnazione stessa); iii) per altra impostazione – a quanto consta del tutto minoritaria – “i vincoli di indisponibilità (…) e le limitazioni alla garanzia patrimoniale (…) qualora siano opposti dal terzo tesoriere e contestati dal creditore sono destinati ad essere accertati esclusivamente nell’ambito del giudizio previsto dall’art. 548 c.p.c.” (Costantino, op. ult. cit., 687). Quest’ultima impostazione è criticata: - in modo drastico da chi osserva che “contrariamente a quanto affermato talvolta da alcuni giudici dell’esecuzione deve escludersi che [una simile contestazione, n.d.s.] comporti una contestazione in merito alla dichiarazione di quantità tale da giustificare l’instaurazione di un giudizio dell’obbligo del terzo. A tale giudizio potrà farsi luogo esclusivamente nel caso in cui il creditore non contesti l’operatività del vincolo, ma il contenuto della dichiarazione di quantità, sostenendo, ad esempio, che contrariamente a quanto dichiarato dal terzo esistono disponibilità di fondi in misura superiore a quella degli importi vincolati” (Tatangelo, loc. ult. cit.; si tratta peraltro di una posizione che riflette l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui sono estranee al giudizio di accertamento del terzo tutte le questioni integranti la materia tipica delle opposizioni esecutive: Cass. 8.1.2004, n. 101; Cass. 12.3.2004, n. 5153; Cass. 27.1.2009, n. 1949; Cass. 4.10.2010, n. 20595); - in modo più argomentato da chi (Rossi, op. cit., 306 e ss.): 1) in primo luogo valorizza i poteri officiosi del Giudice della esecuzione che, in sintesi, troverebbero ragion d’essere nella particolare rilevanza degli interessi sottesi alla apposizione del vincolo di indisponibilità. In specie, nell’esercizio di tali poteri, il Giudice dell’esecuzione potrebbe, anche dopo la fornitura da parte del terzo di “chiarimenti”, dichiarare con ordinanza la improcedibilità ovvero la estinzione. In questo caso l’ordinanza resa dal G.E. potrebbe essere gravata attraverso opposizione agli atti esecutivi (Cass. 16.11.2005, n. 23084); 2) e in secondo luogo osserva che, laddove il G.E., utilizzando il proprio potere officioso, risolva in senso sfavorevole al debitore questioni che potevano essere trattate in sede di opposizione all’esecuzione ex art. 615, comma 2, c.p.c., lo strumento di tutela che compete al debitore esecutato sarebbe, pur sempre, quello della opposizione all’esecuzione in quanto “si rimane nell’ambito della contestazione di procedere all’esecuzione forzata o della pignorabilità dei beni” (come rilevato da Oriani, L’opposizione agli atti esecutivi, Napoli, 1987, spec. 164). In disparte quanto previsto dall’art. 548, ultimo comma, c.p.c. (che si riferisce ad ipotesi diverse da quella qui passata in rassegna), va però richiamato il diverso orientamento della Corte di Cassazione secondo cui il sindacato sulla legittimità dell’ordinanza resa dal G.E. che statuisca sulla impignorabilità ex art. 159 TUEL si attua in ogni caso – e cioè anche quando, a fronte del mancato rilievo officioso, l’opposizione provenga dal debitore – nelle forme dell’opposizione agli atti esecutivi: specificamente, il debitore utilizzerà questo strumento per impugnare l’ordinanza di assegnazione (per esempio deducendo il mancato esercizio del 40 potere di rilievo officioso della impignorabilità delle somme), mentre il creditore utilizzerà lo stesso strumento per impugnare l’ordinanza che – sul rilievo del carattere impignorabile delle somme staggite – statuisca nel senso della improcedibilità o della estinzione della procedura (Cass. 16.9.2008, n. 23727). Questa impostazione è criticata dalla dottrina in commento sulla scorta di argomenti di natura sistematica “ed appare, se paragonata all’altra soluzione, improntata ad un minor rigore formale: mal si comprende, infatti, come la questione di impignorabilità possa subire una sorta di mutazione genetica se fatta valere dopo la pronuncia del G.E., divenendo da motivo (…) di opposizione all’esecuzione ragione di opposizione agli atti esecutivi, con perdita ‘secca’ di un grado di giudizio (Rossi, op. cit., spec. 321, ove vengono individuate della “esigenze di natura pratica” che potrebbero giustificare il criticato orientamento. Essenzialmente, si rileva da parte del citato A. che l’opposizione all’esecuzione potrebbe risolversi in un’arma spuntata “per mancanza di uno spazio temporale che ne consenta la utile proposizione, e vanificare così le possibilità di difesa contro un provvedimento in thesi errato: ragioni senza dubbio apprezzabili ma che lasciano fermi gli aspetti di criticità della ricostruzione innanzi rimarcati”) [v. anche Cass. 31.8.2011, n. 17878 che a determinate condizioni ammettete la proponibilità dei motivi relativi alla impignorabilità in sede di opposizione agli atti esecutivi avverso la ordinanza di assegnazione]. Ebbene, la tesi secondo cui le contestazioni relative alla esistenza ed alla latitudine di un vincolo di impignorabilità potrebbero trovare collocazione nell’ambito dell’accertamento (oggi endoesecutivo) dell’obbligo del terzo, allo stato del tutto minoritaria, merita, forse, di essere riconsiderata. Va infatti rilevato – pur nella piena consapevolezza che altro sono le contestazioni rientranti nella disciplina dell’art. 615, comma 2, c.p.c. ed altro le contestazioni sulla dichiarazione che possono dar luogo ad un accertamento del (contestato) rapporto tra debitore e terzo - che: - le modifiche intervenute negli ultimi anni sono nel senso di individuare dei casi in cui il G.E. “conosce per eseguire” e probabilmente non è casuale, se si tiene conto di quanto ritenuto da Cass. 16.9.2008, n. 23727, che l’ultima modifica dell’art. 549 c.p.c. vada proprio nel senso di prevedere che l’ordinanza con cui il Giudice dell’esecuzione chiude il giudizio endoesecutivo di accertamento sommario dell’obbligo del terzo sia impugnabile nelle forme e nei termini di cui all’art. 617; - il confine tra i casi in cui il debitore contesti tout court che le somme sono impignorabili (nel qual caso dovrebbe, stando alla tesi di cui sopra, esperire l’opposizione ex art. 615, comma 2, c.p.c.) e i casi in cui si contesti una “inesattezza” della dichiarazione, nel punto in cui sono additate come “libere da vincoli” somme che non sono tali (nel qual caso, trattandosi di definire innanzitutto l’ammontare esatto della disponibilità dell’Ente presso il tesoriere, si verte nella materia disciplinata dall’art. 549 c.p.c.) può in concreto rivelarsi labile ed incerto; - la tutela offerta dall’art. 615, comma 2, c.p.c. può dimostrarsi meno efficace di quella offerta (nell’ipotesi in cui si condividesse la conclusione in esame) dall’art. 549 c.p.c.. Ed infatti, in un caso (e sempre che non sia intervenuta l’ordinanza di assegnazione), il debitore potrebbe ottenere la sospensione 41 della procedura e non - a rigore (e salvo l’intervento officioso del Giudice) – la liberazione delle somme pignorate; ciò che invece ben può accadere all’esito del giudizio sommario di accertamento (nell’ambito del quale la rilevabilità officiosa dei vincoli resta ammessa), laddove il G.E. si risolva nel senso che della indisponibilità delle somme. Oltretutto, aderendo a questa impostazione, il rimedio offerto dall’ordinamento sarebbe il medesimo sia che lo invochi il creditore (ad esempio deducendo la inefficacia in parte qua della delibera di impignorabilità) sia che lo invochi il debitore e, ancora, sarebbe lo stesso il rimedio “impugnatorio” concesso avverso l’ordinanza emanata dal G.E. all’esito dell’accertamento endoesecutivo. Il che potrebbe indurre a ritenere che il legislatore abbia inteso creare, con riferimento alle questioni relative alla “impignorabilità” siccome evincibile dalla dichiarazione di quantità o comunque ad essa connessa, un mini-sistema che vive di regole proprie e parzialmente diverse rispetto a quelle generali in tema di opposizioni. Riguardo alla questione sub c) [ripartizione dell’onere probatorio riguardo alle vicende del vincolo di indisponibilità], si sono susseguiti diversi orientamenti: i) l’orientamento più risalente (criticato in dottrina: Vaccarella, Impignorabilità, cit., spec. 588 e ss.) addossava l’onere della prova al creditore (Cass. 6.6.2006, n. 13263, secondo cui sul creditore procedente grava l’onere di dimostrare “l’emissione di mandati di pagamento per titoli diversi da quelli vincolati e senza seguire l’ordine indicato dalla legge”); ii) più di recente, invece, in ossequio al principio di vicinanza dell’onere della prova, la giurisprudenza ha ritenuto che il creditore procedente che intenda far valere l'inefficacia del vincolo di destinazione ha “l’onere di allegare gli specifici pagamenti per debiti estranei eseguiti successivamente alla delibera, mentre, in base al principio della vicinanza della prova, spetta all’Ente locale provare che tali pagamenti sono stati eseguiti in base a mandati emessi nel rispetto del dovuto ordine cronologico” (Cass. 16.9.2008, n. 23727; Cass. 27.5.2009, n. 12259); iii) da ultimo, peraltro, la giurisprudenza ha fornito un notevole contributo al fine di individuare le condizioni ricorrendo le quali si può dire che il creditore abbia soddisfatto l’onere di allegazione su di lui gravante. In una perspicua pronuncia, la S.C., condividendo l’impostazione di fondo della giurisprudenza sub ii), ha precisato che il creditore assolve l’onere della prova incombente su di lui adducendo “numerose circostanze di fatto”7 dalle quali sia desumibile “il sospetto” (così testualmente) della sussistenza dell'indicata condizione preclusiva (ossia la violazione dell’ordine cronologico dei pagamenti), mentre è stato, per altro verso precisato che tale allegazione non è validamente contrastata dalla produzione di una mera certificazione proveniente da uno degli organi o uffici dell'ente, in quanto, nel processo civile, salvo specifiche eccezioni previste dalla legge, nessuno può formare prove a proprio favore, tanto più che il 7 Si noti che, nella massima disponibile sulle principali banche dati in uso, il termine “numerose” viene omesso. 42 giudice, specie a fronte dell'impossibilità per il creditore di fornire ulteriore prova, può disporre consulenza tecnica di ufficio [Cass. 26.3.2012, n. 4820]. Siffatto orientamento appare maggiormente in linea con una ricostruzione della vicenda (relativa alla operatività ed alla eventuale inefficacia dei vincoli ex art. 159 TUEL) secondo cui: a) l’adozione ad opera degli organi esecutivi dell’ente pubblico di una delibera periodica di quantificazione degli importi necessari ai fini ex lege previsti rappresenta il fatto costitutivo del vincolo di indisponibilità; b) l’emissione di mandati di pagamento per titoli diversi o estranei agli impieghi protetti integra fatto estintivo degli effetti del vincolo e, pertanto, secondo il parametro di cui all’art. 2697 c..c., riferibile al creditore procedente; c) il rispetto dell’ordine cronologico da seguire per l’effettuazione dei pagamenti dei titoli diversi va qualificato come fatto impeditivo dell’operare della vicenda estintiva del vincolo di cui alla lett. b), quindi una circostanza ascrivibile senz’altro all’Ente esecutato (in questi termini si v. Rossi, op. cit., 330). Discende da quanto sopra, tenuto conto del principio della vicinanza della prova (costantemente affermato in giurisprudenza non solo con riguardo alla materia di cui si tratta), che: i) l’avvenuta emanazione del vincolo in maniera opponibile al ceto creditorio della delibera di quantificazione delle somme deve essere allegata ed asseverata dall’Ente locale che ne assume l’esistenza. Al riguardo, è appena il caso di precisare che è inopponibile ai creditori soltanto la delibera di quantificazione degli importi vincolati ex art. 159 TUEL adottata e minuta di efficacia in data successiva all’ingiunzione formulata all’ente debitore con la notifica dell’atto di pignoramento ex art. 543 c.p.c. (Cass. 24.4.2008, n. 10654); ii) il creditore procedente al fine di derivare l’inefficacia della delibera di destinazione delle somme nei suoi confronti è tenuto ad allegare (ma non già dimostrare) l’emissione di mandati di pagamento per debiti estranei alle finalità protette. All’uopo la allegazione non può essere generica ma va compiuta in modo specifico con l’esplicitazione degli elementi determinanti per rendere inoperante il vincolo di indisponibilità (elementi che devono essere plurimi): epoca del pagamento (successivo alla delibera di impignorabilità), sua giustificazione causale (ascrivibile a prestazioni esulanti dal novero dei servizi essenziali e quindi comportanti l’impiego di somme per scopi diversi dalla destinazione impressa con la delibera); iii) laddove il creditore assolva all’onere impostogli ricade sull’Ente esecutato che voglia giovarsi del vincolo di impignorabilità provare che il pagamento ex adverso dedotto è stato eseguito per servizi indispensabili vincolati con la delibera oppure provare la corrispondenza cronologica dei mandati emessi per titoli diversi da quelli vincolati all’ordine delle fatture pervenute per il pagamento ovvero, quanto non sia prescritta fattura, alla sequenza temporale delle deliberazioni di impegno di spesa. Si discute circa i poteri istruttori del Giudice dell’esecuzione (a prescindere dalla questione di quale sia la sede in cui gli stessi sono esercitati: v. supra) al fine di 43 accertare l’esistenza o (soprattutto) l’efficacia di un vincolo di indisponibilità ex art. 159 TUEL (ma il discorso vale tal quale anche per le ASL). A parte il potere di richiedere “chiarimenti” al terzo, attesa la sua funzione di ausiliario del Giudice (Cass. 18.12.1987, n. 9407), risulta, in specie, problematica l’ammissibilità di un ordine di esibizione rivolto all’Ente esecutato con riferimento alle determine e/o ai mandati di pagamento emessi in violazione della delibera di impignorabilità, laddove prevedano impegni di spesa (o dispongano pagamenti) per finalità estranee a quelle contemplate nella delibera di impignorabilità medesima senza tener conto dell’ordine cronologico che è viceversa doveroso osservare (in dottrina, v., in senso affermativo, Costantino, L’espropriazione forzata in danno delle unità sanitarie e dei comuni, cit., spec. 694). Sia consentito richiamare al riguardo una recente decisione del Tribunale di Napoli Nord (resa nel contesto di una parentesi di accertamento ex art. 549 c.p.c.: v. quanto sopra affermato circa le ragioni per le quali sarebbe questa la sede ove discutere della sussistenza ma soprattutto dell’efficacia della delibera di impignorabilità - rectius: della sussistenza di fatti estintivi del vincolo) con riferimento ad una ipotesi ove: i) l’allegazione del creditore circa l’avvenuta emissione di mandati di pagamento a titolo diverso ed in violazione della delibera era limitata alla menzione di una singola determina di spesa (di cui si indicavano gli “estremi” e la “causale”); ii) la mancata allegazione di elementi ulteriori - tali da sostanziare “il sospetto” della sussistenza di circostanze di fatto dalle quali sia desumibile il sospetto della sussistenza della condizione preclusiva – era ostacolata dal comportamento neghittoso della p.a. esecutata la quale aveva oscurato il proprio sito internet – e segnatamente la sezione dedicata alla pubblicazione delle determine di spese; A questo punto il Tribunale – pur consapevole dell’indirizzo della giurisprudenza di merito che reputa inammissibile l’ordine di esibizione allorché i documenti di cui si tratta siano ostensibili attraverso una istanza di accesso agli atti ex art. 22 e ss., l. n. 241 del 1990, ragion per cui il richiedente l’ordine di esibizione dovrebbe quanto meno dimostrare di essersi attivato in tal senso, ma senza risultati – ha ritenuto che nella specie fosse possibile ordinare alla p.a. l’esibizione delle determine di spesa e/o dei mandati di pagamento relativi ad un certo periodo, successivo alla delibera di impignorabilità. In specie si è osservato: “Tornando al thema probandum, e ritenuto che il Giudice possa, in astratto, avvalersi dei mezzi istruttori disciplinati dal II Libro del Codice di rito, adattandoli al carattere sommario della cognizione, in un ottica di “deformalizzazione” degli strumenti processuali, si pone, in concreto, il problema dell’ammissibilità nel caso di che trattasi dell’ordine di esibizione (modellato sulla falsariga di quello disciplinato dagli artt. 210 e ss. c.p.c.). Il Tribunale, infatti, non ignora l’orientamento (seguito da una cospicua giurisprudenza di merito) secondo cui il Giudice non potrebbe ordinare l’esibizione di un atto alla pubblica amministrazione se quello stesso atto sia ostensibile dall’interessato (controparte dell’amministrazione in giudizio) attraverso lo schema previsto e disciplinato dagli artt. 22 e ss. l. n. 241 del 1990 (Cass., 7.11.2003, n. 16713; Cass., 27.6.2003, n. 10219). 44 Ora, a parte che a ben vedere le pronunce di legittimità citate usualmente a suffragio di tale orientamento dalla giurisprudenza di merito attengono a casi parzialmente diversi da quello qui esaminato (e comunque sembrano far salva la discrezionalità del Giudice, dominus dell’istruttoria), vi è da fare una considerazione più approfondita rispetto alla tipologia di atto della cui esibizione si tratta in questa sede. Guardando alla natura di tale atto, infatti, si deve escludere ab imis la concorrenza del potere dell’amministrazione di consentirne l’accesso (artt. 22 e ss. l. n. 241 del 1990) e quello del Giudice di ordinarne l’esibizione. Mentre questa concorrenza può ipotizzarsi (con discutibile priorità logica del potere dell’amministrazione rispetto a quello del Giudice, per le ragioni prima accennate, e non ulteriormente approfondite perché non necessario rispetto ai fatti di causa) nel caso in cui si tratti di atti interni ad un procedimento amministrativo (onde l’amministrazione deve mediare tra i diversi interessi in conflitto: quello del richiedente alla ostensione dell’atto, quello “istruttorio” dell’amministrazione e quello di eventuali terzi controinteressati) nel caso in esame la conclusione non può che essere quella opposta. Ed invero: A) ai sensi dell’art. 124 TUEL (e ss. mm.): “1. Tutte le deliberazioni del comune e della provincia sono pubblicate mediante pubblicazione all'albo pretorio, nella sede dell'ente, per quindici giorni consecutivi, salvo specifiche disposizioni di legge. 2. Tutte le deliberazioni degli altri enti locali sono pubblicate mediante pubblicazione all’albo pretorio del comune ove ha sede l'ente, per quindici giorni consecutivi, salvo specifiche disposizioni”; B) ai sensi dell’art. 32, commi 1 e 5, l. n. 69 del 2009: (comma 1) “A far data dal 1º gennaio 2010, gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si intendono assolti con la pubblicazione nei propri siti informatici da parte delle amministrazioni e degli enti pubblici obbligati. La pubblicazione è effettuata nel rispetto dei princìpi di eguaglianza e di non discriminazione, applicando i requisiti tecnici di accessibilità di cui all’articolo 11 della legge 9 gennaio 2004, n. 4. La mancata pubblicazione nei termini di cui al periodo precedente è altresì rilevante ai fini della misurazione e della valutazione della performance individuale dei dirigenti responsabili. (comma 5). A decorrere dal 1º gennaio 2011 e, nei casi di cui al comma 2, dal 1º gennaio 2013, le pubblicazioni effettuate in forma cartacea non hanno effetto di pubblicità legale, ferma restando la possibilità per le amministrazioni e gli enti pubblici, in via integrativa, di effettuare la pubblicità sui quotidiani a scopo di maggiore diffusione, nei limiti degli ordinari stanziamenti di bilancio”. In base al congiunto operare di queste norme, in sintesi, il Comune deve attuare la pubblicità delle delibere (anche di quelle che contengono un impegno di spesa) attraverso la pubblicazione sul sito istituzionale. D’altro canto, che una tale garanzia legale sussista è confermato dalla disposizione dell’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 33 del 2013, secondo cui “Tutti i documenti, le informazioni e i dati oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della normativa vigente sono pubblici e chiunque ha diritto di conoscerli, di fruirne gratuitamente (…)”, nonché da quella del successivo art. 5, comma 1, secondo cui “L’obbligo previsto dalla normativa vigente in capo alle pubbliche amministrazioni di pubblicare documenti, informazioni o dati comporta il diritto di chiunque di richiedere i medesimi, nei casi in 45 cui sia stata omessa la loro pubblicazione”; mentre il carattere sommario dell’accertamento che si va compiendo in questa sede e le particolari esigenze di speditezza che lo caratterizzano impongono di dare prioritariamente corso all’ordine giudiziale di che trattasi (non essendovi, atteso l’obbligo legale di pubblicazione, alcuna valutazione della p.a. che sia indebitamente compressa dal provvedimento del Giudice) anziché assegnare all’interessato l’onere di presentare (come pure si potrebbe) una istanza di “accesso civico” ai sensi del richiamato decreto”. B) In altri casi, il vincolo di indisponibilità sorge direttamente per effetto della disposizione di legge. Al riguardo occorre ricordare: 1) l’art. 1, d.l. n. 313 del 1993 (conv. con modifiche in l. n. 460 del 1994) che, a seguito di numerose modifiche, tese ad estenderne progressivamente l’ambito applicativo, così prevede: “1. I fondi di contabilità speciale a disposizione delle prefetture, delle direzioni di amministrazione delle Forze armate e della Guardia di finanza, nonché le aperture di credito a favore dei funzionari delegati degli enti militari, degli uffici o reparti della Polizia di Stato, della Polizia penitenziaria e del Corpo forestale dello Stato, del Dipartimento dell'Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari e dei comandi del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, o del Cassiere del Ministero dell'interno, comunque destinati a servizi e finalità di protezione civile, di difesa nazionale e di sicurezza pubblica nonché di vigilanza, prevenzione e repressione delle frodi nel settore agricolo, alimentare e forestale, al rimborso delle spese anticipate dai comuni per l'organizzazione delle consultazioni elettorali, nonché al pagamento di emolumenti e pensioni a qualsiasi titolo dovuti al personale amministrato, non sono soggetti ad esecuzione forzata, salvo che per i casi previsti dal capo V del titolo VI del libro I del codice civile, nonché dal testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1950, n. 180. 2. I pignoramenti ed i sequestri aventi per oggetto le somme affluite nelle contabilità speciali delle prefetture e delle direzioni di amministrazione ed a favore dei funzionari delegati di cui al comma 1, si eseguono esclusivamente, a pena di nullità rilevabile d'ufficio, secondo le disposizioni del libro III - titolo II - capo II del codice di procedura civile con atto notificato al direttore di ragioneria responsabile presso le prefetture o al direttore di amministrazione od al funzionario delegato nella cui circoscrizione risiedono soggetti privati interessati, con l'effetto di sospendere ogni emissione di ordinativi di pagamento relativamente alle somme pignorate. Il funzionario di prefettura, o il direttore di amministrazione o funzionario delegato cui sia stato notificato atto di pignoramento o di sequestro, e' tenuto a vincolare l'ammontare, sempreché esistano sulla contabilità speciale fondi la cui destinazione sia diversa da quelle indicate al comma 1, per cui si procede con annotazione nel libro giornale; la notifica rimane priva di effetti riguardo agli ordini di pagamento che risultino già emessi. 46 3. Non sono ammessi atti di sequestro o di pignoramento ai sensi del presente articolo presso le sezioni di tesoreria dello Stato a pena di nullità rilevabile anche d'ufficio. Gli atti di sequestro o di pignoramento eventualmente notificati non determinano obbligo di accantonamento da parte delle sezioni medesime né sospendono l'accreditamento di somme nelle contabilità speciali intestate alle prefetture ed alle direzioni di amministrazione ed in quelle a favore dei funzionari delegati di cui al comma 1. 4. Viene effettuata secondo le stesse modalità stabilite nel comma 2 la notifica di ogni altro atto consequenziale nei procedimenti relativi agli atti di pignoramento o di sequestro”. Si tratta del c.d. pignoramento contabile. Come è stato rilevato (Rossi, op. cit., spec. 361) la norma prevede una “impignorabilità ad efficacia soggettivamente relativa”: anche sui fondi e sulle somme ex lege dichiarate impignorabili è infatti comunque garantita la possibilità della espropriazione a tutela e per la soddisfazione di crediti qualificati dalla ragione causale della pretesa ascrivibile (…) a crediti alimentari o di mantenimento derivanti da separazione o divorzio tra i coniugi oppure ad emolumenti lato sensu retributivi (…) spettanti ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni interessate”. È stato osservato che “al di là delle ricadute concrete di tale previsione va favorevolmente sottolineata la ratio sottesa alla norma, espressione di un ponderato bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco: così alla impignorabilità tesa a consentire il buon operato della p.a. si apporta una deroga a salvaguardia dell’interesse privatistico alla realizzazione del credito” (Rossi, op. cit., 361). Notevoli perplessità sono sorte, invece, in relazione al procedimento che la legge disciplina con pretesa di esaustività tale da affrancarlo dagli schemi codicistici: “ne risulta tratteggiato un procedimento esecutivo definibile come atipico e sui generis, dacché in molti essenziali aspetti non soltanto differente ma addirittura originale ed inedito rispetto ai paradigmi conosciuti dal codice di rito” (Rossi, op. cit., 363). Le peculiarità interessano: a) l’oggetto del pignoramento (le somme dichiarate non impignorabili affluite nelle contabilità speciali dei soggetti indicati dal comma 1); b) le modalità di effettuazione del pignoramento (il creditore, tramite l’Ufficiale giudiziario, notifica il pignoramento al funzionario responsabile delle gestione contabile dei fondi il quale provvede ad annotare sul libro giornale il vincolo sulle somme per un importo pari all’entità del credito per cui si procede), secondo un modello accostabile più all’espropriazione mobiliare presso il debitore che non all’espropriazione forzata di crediti; c) il luogo dell’esecuzione del pignoramento (il pignoramento va notificato al “funzionario delegato nella cui circoscrizione risiedono i soggetti privati interessati”); d) l’effetto sostanziale del pignoramento (la sospensione degli ordinativi di pagamento relativamente alle somme pignorate, simile se non identico al vincolo di indisponibilità che consegue al pignoramento ordinario presso terzi); e) le conseguenze della violazione delle norme in questione (si prevede la nullità – rilevabile d’ufficio – senza obbligo di accantonamento e senza 47 sospensione dell'accreditamento di somme nelle contabilità speciali intestate alle prefetture ed alle direzioni di amministrazione ed in quelle a favore dei funzionari delegati di cui al comma 1). Il procedimento viene concepito come esclusivo, essendo preclusa al creditore la praticabilità di altre azioni esecutive (ad esempio il pignoramento presso le sezioni della tesoreria dello Stato). Come si diceva, la norma ha suscitato perplessità e, per quanto qui interessa, ha dato adito a dubbi di costituzionalità, che però sono stati fugati dal Giudice delle leggi. Il quale (sentenza 9.10.1998, n. 350) ha ravvisato la ratio della disposizione nella esigenza di “adeguare la procedura di esecuzione forzata alle particolari modalità di gestione contabile dei fondi”; ciò in quanto è “il funzionario direttamente responsabile della gestione dei fondi di conoscerne l’ammontare e la disponibilità come pure di verificare (…) se vi siano cause di impignorabilità”. L’attività del funzionario – rileva la Corte Costituzionale - non involge alcuna valutazione discrezionale, essendo questi tenuto a “vincolare l’ammontare pignorato assumendone la correlativa responsabilità con atti non sottratti a verifica o accertamento giudiziale”. La soluzione fornita dalla Corte è stata fortemente criticata in quanto fondata su argomentazioni che “anziché dissipare sembrano piuttosto alimentare perplessità sulla compatibilità dell’istituto in rassegna con i principi supremi del nostro ordinamento” (Rossi, op. cit., spec. 366, anche per i riferimenti alla giurisprudenza di legittimità che “senza particolari approfondimenti” ha condiviso l’impianto motivazionale della pronuncia in rassegna). Chiarito, preliminarmente, che appare improprio l’intendimento del pignoramento come diretto a colpire somme di denaro nella immediata disponibilità dell’Ente, dovendosi al contrario ritenere che il rapporto tra l’Ente intestatario della contabilità e la sezione della tesoreria dello Stato vada ricostruito in termini di rapporto di credito/debito (tant’è vero che vi è la prassi di notificare il pignoramento di che trattasi anche alla Banca d’Italia), è proprio dal confronto con il modello offerto dagli artt. 543 e ss. c.p.c. che emergono le principali criticità del pignoramento c.d. contabile, in specie per quanto attiene alla completa obliterazione di un (pur eventuale) momento di controllo giudiziale circa la valutazione (interamente affidata al funzionario) della esistenza e della pignorabilità delle somme giacenti sui fondi di contabilità speciale. Ed infatti “diversamente da quanto asserito – in maniera forse troppo frettolosa – dalla Consulta, proprio la illustrata connotazione del procedimento preclude, ab imis, al creditore la possibilità di stimolare un accertamento giurisdizionale endoesecutivo sull’esistenza di beni asservibili all’esproprio” (Rossi, op. cit., 370), ma anche una opposizione agli atti esecutivi (vista la mancanza di un atto esecutivo impugnabile), e senza considerare che, pure nell’ipotesi in cui vi sia l’astratta disponibilità delle somme sui fondi in questione, il provvedimento del giudice - che non è l’assegnazione (da intendersi come cessione pro solvendo del credito pignorato) – richiede come presupposto ineludibile per la sua concreta attuazione l’emissione di un ordinativo di pagamento da parte del funzionario responsabile, siccome, diversamente dal caso del pignoramento mobiliare presso il debitore (cui la procedura in esame è indebitamente accostata dal punto di vista 48 disciplinare), le “cose” pignorate non sono nella materiale disponibilità del debitore stesso. 2) L’art. 6, d.l. n. 263 del 2006, conv. in l. n. 290 del 2006 che ha previsto la impignorabilità delle risorse finanziarie destinate a fronteggiare l’emergenza rifiuti in Campania. 3) L’art. unico, comma 1348, della l. n. 296 del 2006 che ha aggiunto all’art. 1, l. n. 266 del 2005 il comma 294-bis che così stabilisce: “Non sono soggetti ad esecuzione forzata i fondi destinati al pagamento di spese per servizi e forniture aventi finalità giudiziaria o penitenziaria, nonché le aperture di credito a favore dei funzionari delegati degli uffici centrali e periferici del Ministero della giustizia, degli uffici giudiziari e della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo e della Presidenza del Consiglio dei ministri, destinati al pagamento di somme liquidate a norma della legge 24 marzo 2001, n. 89, ovvero di emolumenti e pensioni a qualsiasi titolo dovuti al personale amministrato dal Ministero della giustizia e dalla Presidenza del Consiglio dei ministri”. 4) L’art. 1, comma 24, l. n. 228 del 2012 che, oltre a modificare l’art. 294-bis sopra citato, ha introdotto l’art. 294-ter secondo cui: “Il comma 294-bis si applica anche ai fondi e alle contabilità speciali del Ministero dell'economia e delle finanze destinati al pagamento di somme liquidate a norma della legge 24 marzo 2001, n. 89”. C) Il legislatore ha poi sperimentato delle misure più drastiche che, pur nella diversità delle singole disposizioni che le prevedono, possiamo raggruppare sotto la dizione “gestioni liquidative”. Il legislatore prevede la “sostituzione” dell’ente pubblico debitore al quale quindi è consentita la prosecuzione della propria attività istituzionale mentre la liquidazione dei creditori è demandata ad altri soggetti. Anche in questo caso la normativa conferente è confusionaria e di difficile lettura. Ha inoltre dato luogo a dei significativi interventi della Corte Costituzionale. 1) La procedura c.d. di dissesto degli Enti locali è stata inizialmente disciplinata dagli artt. 24 e 25, d.l. n. 66 del 1989. A mente dell’art. 24 (che si riporta nella parte che qui specificamente interessa): OMISSIS 5. L'ente è tenuto a convenire con i creditori, con atti formali, il piano di rateizzazione, che deve trovare corrispondenza con quello approvato dal consiglio. L'ente è tenuto ogni anno a stanziare in bilancio i relativi importi. A garanzia dei creditori i contributi erariali ordinari e perequativi hanno vincolo di destinazione per il corrispondente valore annuo e non possono essere distolti per altro titolo. 6. La richiesta del comune, dell'amministrazione provinciale e della comunità montana per convenire con i creditori la rateizzazione comporta la sospensione della procedura 49 esecutiva eventualmente intrapresa, per il periodo di non meno di tre e non più di sei mesi, sospensione che deve essere disposta dal giudice competente adito. OMISSIS Secondo l’art. 25 (che pure si riporta nella parte che qui specificamente interessa): 1. Le amministrazioni provinciali ed i comuni che si trovano in condizioni tali da non poter garantire l'assolvimento delle funzioni e dei servizi primari, sono tenuti ad approvare, con deliberazione dei rispettivi consigli, il piano di risanamento finanziario per provvedere alla copertura delle passività già esistenti e per assicurare in via permanente condizioni di equilibrio della gestione. OMISSIS 10. Dalla deliberazione del piano di risanamento e fino alla emissione del decreto di approvazione del piano stesso, sono sospesi i termini per la deliberazione del bilancio. Nelle more, possono essere disposti impegni solo per le spese espressamente previste dalla legge. La deliberazione del piano di risanamento sospende altresì le azioni esecutive dei creditori dell'ente. In un primo momento, quindi, la normativa prevedeva la semplice sospensione delle azioni esecutive intraprese nei riguardi dell’ente. Questa misura si rivelò però inidonea a consentire agli enti esecutati di sanare il disavanzo visto che gli stessi non recuperavano la disponibilità delle somme pignorate. Per ovviare a questo inconveniente, già l’art. 12-bis, d.l. n. 6 del 1991 aveva previsto, al comma 6 (introdotto dalla legge di conversione n. 80 del 1991), quanto segue: “6. La sospensione delle procedure esecutive stabilite al comma 6 dell'art. 24 ed al comma 10 dell'art. 25 del decreto-legge 2 marzo 1989, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 1989, n. 144, a seguito di richiesta di rateizzazione dei debiti fuori bilancio o di procedura di dissesto, comporta la liberazione delle somme delle quali si sia chiesto il sequestro e l'obbligo per gli enti di provvedere con le risorse reperite a norma dell'art. 1- bis del decreto-legge 1° luglio 1986, n. 318, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 1986, n. 488”. Successivamente, l’art. 21, d.l. n. 8 del 1993 ha previsto la estinzione delle procedure con liberazione delle somme pignorate. Rilevano, in particolare, le disposizioni contenute nei commi 1 e 3 della citata disposizione (come modificate in sede di conversione). “1. La deliberazione di dissesto di cui all'art. 25 del decreto-legge n. 66 del 1989, deve essere obbligatoriamente adottata dal consiglio dell'ente locale ogni qualvolta non può essere garantito l'assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili ovvero esistono nei confronti dell'ente locale crediti liquidi ed esigibili di terzi ai quali non sia stato fatto validamente fronte, nei termini, con i mezzi indicati all'art. 24 dal predetto decreto-legge n. 66 del 1989 e successive modificazioni ed integrazioni, ovvero non possa farsi fronte con le modalità previste all'art. 1- bis del decreto-legge 1° luglio 50 1986, n. 318, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 1986, n. 488. L'omissione integra l'ipotesi di cui all'art. 39, comma 1, lettera a ), della legge n. 142 del 1990, con l'applicazione prioritaria della procedura di cui al comma 2 del medesimo art. 39. L'obbligo di deliberazione dello stato di dissesto si estende, ove ne ricorrano le condizioni, al commissario comunque nominato ai sensi del comma 3 del citato art. 39 della legge n. 142 del 1990. La deliberazione non è revocabile e può essere adottata solo se non è stato deliberato il bilancio per l'esercizio relativo. La deliberazione è pubblicata per l'stratto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana”. OMISSIS “3. Il commissario o la commissione, di cui al comma 2, provvedono all'accertamento della situazione debitoria a norma di legge e propongono il piano di estinzione. La commissione di ricerca per la finanza locale cura l'istruttoria del piano, proponendone l'approvazione, con eventuali modifiche o integrazioni, al Ministro dell'interno che vi provvede con proprio decreto. In deroga ad ogni altra disposizione, dalla data di deliberazione di dissesto i debiti insoluti non producono più interessi, rivalutazioni monetarie od altro, sono dichiarate estinte dal giudice, previa liquidazione dell'importo dovuto per capitale, accessori e spese, le procedure esecutive pendenti e non possono essere promosse nuove azioni esecutive. Il commissario o la commissione individuano l'attivo della liquidazione, accertando i residui da riscuotere, i ratei di mutuo disponibili ed ogni attività non indispensabile da alienare. Il commissario o la commissione hanno titolo ad acquisire entrate relative alla gestione pregressa e ad alienare beni senza alcuna autorizzazione. All'attivo della liquidazione lo Stato concorre con il ricavato di un mutuo -- da assumere in unica soluzione con la Cassa depositi e prestiti dal commissario o dalla commissione, a norme dell'ente locale -- il cui ammontare non può comunque superare l'importo mutuabile determinato sulla base di una rata di ammortamento pari alle quote del fondo investimenti rimaste accantonate a favore dell'ente locale incrementate di un contributo statale. Detto contributo -- finanziato con il fondo di cui all'art. 4, comma 1, lettere b ) e c ) -- è determinato nell'importo massimo pari a cinque volte la rispettiva quota capitaria stabilita per gli enti dissestati dal citato art. 4. Il commissario o la commissione hanno titolo a transigere vertenze in atto o pretese in corso. I debiti vengono liquidati, a cura del commissario o della commissione, nei limiti della massa attiva disponibile, entro i sei mesi successivi all'acquisizione del mutuo. Entro il termine di un anno dall'approvazione del piano di estinzione da parte del Ministero dell'interno, il commissario o la commissione sono tenuti a deliberare il rendiconto della gestione, che è sottoposto all'esame del comitato regionale di controllo. Dopo l'approvazione del piano di estinzione da parte del Ministro dell'interno non sono ammesse ulteriori richieste di crediti di data anteriore alla decisione del comitato stesso. L'organo di revisione dell'ente locale ha competenza sul riscontro della liquidazione”. La normativa sopra citata ha subito, nel corso degli anni ’90, numerosi rimaneggiamenti. In primo luogo, vi è stata l’abrogazione per effetto dell’art. 123, d.lgs. n. 77 del 1995: 1) dell’art. 25, d.l. n. 66 del 1989; 2) del comma 6 dell’art. 12-bis del d.l. n. 6 del 1991; 3) dell’art. 21 del d.l. n. 8 del 1993. In secondo luogo, questo stesso provvedimento normativo ha posto una nuova disciplina che poi è stata sostanzialmente trasfusa negli artt. 248 e ss. TUEL. 51 Art. 248 OMISSIS 2. Dalla data della dichiarazione di dissesto e sino all'approvazione del rendiconto di cui all'art. 256 non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti dell'ente per i debiti che rientrano nella competenza dell'organo straordinario di liquidazione. Le procedure esecutive pendenti alla data della dichiarazione di dissesto, nelle quali sono scaduti i termini per l'opposizione giudiziale da parte dell'ente, o la stessa benchè proposta è stata rigettata, sono dichiarate estinte d'ufficio dal giudice con inserimento nella massa passiva dell'importo dovuto a titolo di capitale, accessori e spese. 3. I pignoramenti eventualmente eseguiti dopo la deliberazione dello stato di dissesto non vincolano l'ente ed il tesoriere, i quali possono disporre delle somme per i fini dell'ente e le finalità di legge. 4. Dalla data della deliberazione di dissesto e sino all'approvazione del rendiconto di cui all'art. 256 i debiti insoluti a tale data e le somme dovute per anticipazioni di cassa già erogate non producono più interessi nè sono soggetti a rivalutazione monetaria. Uguale disciplina si applica ai crediti nei confronti dell'ente che rientrano nella competenza dell'organo straordinario di liquidazione a decorrere dal momento della loro liquidità ed esigibilità. OMISSIS Art. 252 OMISSIS 4. L'organo straordinario di liquidazione ha competenza relativamente a fatti ed atti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell'anno precedente a quello dell'ipotesi di bilancio riequilibrato e provvede alla: a) rilevazione della massa passiva; b) acquisizione e gestione dei mezzi finanziari disponibili ai fini del risanamento anche mediante alienazione dei beni patrimoniali; c) liquidazione e pagamento della massa passiva. OMISSIS Tralasciando la normativa che ha inciso, dopo il TUEL, sull’attuazione, dal punto di vista finanziario, delle sopraesposte disposizioni, è stato rilevato che “da un divieto assoluto e generalizzato di nuove procedure esecutive nei confronti dell’ente dissestato si è passati al divieto di proseguire o intraprendere esecuzioni individuali limitato ai debiti rientranti nella competenza dell’organo straordinario di liquidazione” (Tatangelo, op. cit., spec. 527 e ss.). La normativa passata in rassegna ed in specie quella degli anni ’90 è stata oggetto – come anticipato - di rilevanti pronunce della Corte Costituzionale: tuttavia, l’impianto motivazionale di queste pronunce può essere tenuto presente anche nella lettura delle disposizioni del TUEL: i) Corte Cost., 21.4.1994, n. 149; ii) Corte Cost., 21.4.1994, n. 155; iii) Corte Cost., 16.6.1994, n. 242 (relativa specificamente al “blocco degli interessi”). 52 Si riportano i passaggi salienti della pronuncia n. 149 del 1994: “3.2. - Come risulta evidente dalla pur sommaria analisi della complessa struttura in cui essa si articola, il risultato ultimo dell'intera procedura è quello di restituire l'ente all'espletamento delle sue funzioni istituzionali in una situazione di ripristinato equilibrio finanziario. 4. - L'interferenza della procedura di liquidazione e risanamento con le (eventuali) procedure esecutive individuali (che costituisce lo snodo più delicato al fine della valutazione delle censure di costituzionalità) è risolta dall'art. 21 privilegiando lo svolgimento della prima secondo un'opzione che (in termini più estesi) si ritrova anche nell'art. 51 legge fall.; infatti l'art. 21 prevede che in deroga ad ogni altra disposizione, dalla data di deliberazione di dissesto i debiti insoluti non producono più interessi, rivalutazioni monetarie od altro; inoltre, sono dichiarate estinte dal giudice, previa liquidazione dell'importo dovuto per capitale, accessori e spese, le procedure esecutive pendenti e non possono essere promosse nuove azioni esecutive. In particolare poi l'art. 5 del regolamento prevede l'inserimento "d'ufficio" nella massa passiva dei debiti provenienti da procedure esecutive in corso al momento della deliberazione di dissesto; analogamente il successivo art. 6 include tali debiti tra quelli che legittimamente possono far parte della massa passiva. La finalità del legislatore appare chiaramente essere stata quella di deviare il soddisfacimento forzoso del credito dalla (ordinaria) esecuzione individuale verso una (speciale) procedura concorsuale di liquidazione ispirata (tra l'altro) al principio della par condicio creditorum. 5. - In questo contesto normativo va innanzi tutto esaminata la prima, più radicale, censura espressa dal giudice rimettente. Pur se sommaria ed ellittica, la allegazione dei parametri costituzionali evocati (artt. 2, 3, comma 2, e 41 Cost.) consente di cogliere il contenuto essenziale della censura diretta a contestare in radice l'assoggettabilità dell'ente locale alla procedura di liquidazione di cui all'art. 21 cit. Peraltro, per coglierne la infondatezza, è sufficiente rilevare, da una parte, che non c'è contraddizione con la natura pubblica e la posizione istituzionale dell'ente locale e, dall'altra, che la posizione dei creditori (lungi dall'essere lesa) risulta sostanzialmente avvantaggiata. Ed invero la evenienza che una esposizione debitoria particolarmente accentuata comprometta l'espletamento dei servizi essenziali dell'ente rende piena ragione della predisposizione di una procedura diretta al risanamento, e quindi alla normalizzazione finanziaria, dell'ente stesso, che, ancorché "dissestato", non può cessare di esistere in quanto espressione di autonomia locale, che costituisce un valore costituzionalmente tutelato; né tanto meno l'ente può essere condannato alla paralisi amministrativa per una adombrata (dal giudice rimettente), ma in realtà insussistente, intangibilità delle posizioni dei creditori. I cui diritti e segnatamente il diritto di iniziativa economica (art. 41 Cost.), non risultano d'altro canto affatto lesi, se si tiene conto che la procedura di liquidazione ex art. 21 cit. prevede la formazione della massa attiva, destinata a soddisfare i creditori, in termini più favorevoli di una normale procedura esecutiva individuale: vi rientrano infatti non solo tutto il ricavato della complessa attività di realizzo posta in essere dal commissario (così come sopra già indicato), ma anche (e soprattutto) lo speciale mutuo concesso con onere a carico dello Stato. Quindi complessivamente i creditori possono contare su disponibilità maggiori di quelle che, in mancanza della procedura di liquidazione in esame, avrebbero potuto essere assoggettate a procedure esecutive individuali. Che poi non di meno i crediti possano essere liquidati (e quindi in concreto soddisfatti) "nei limiti della massa attiva disponibile" - come prevede l'art. 21 cit. - è evenienza non affatto diversa da quella del comune rischio di inadempimento del debitore e di incapienza di una qualsivoglia procedura esecutiva individuale; rischio che peraltro, nella procedura ex art. 21 cit., risulta invece razionalizzato perché il pagamento avviene non già 53 secondo il (casuale e contingente) andamento delle singole procedure individuali, bensì nel rispetto del canone della par condicio creditorum sicché il principio di eguaglianza, lungi dall'essere violato come assume il giudice rimettente, è viceversa maggiormente attuato; rischio che - deve aggiungersi - per altro verso è in tal caso bilanciato proprio dall'approntamento di maggiori disponibilità finanziarie per il soddisfacimento dei crediti stessi (mentre costituisce mera questione esegetica - rimessa all'interpretazione della giurisprudenza - quella della sorte della eventuale parte non soddisfatta dei crediti ammessi). 6. - L'art. 21 cit. è stato poi censurato nella parte in cui - nel prevedere la suddetta forma di procedura esecutiva - contempla che il giudice dell'esecuzione dichiari estinte le procedure esecutive in corso "previa liquidazione dell'importo dovuto per capitale, accessori e spese" con conseguente violazione del diritto d'azione del creditore procedente, i cui interessi nella procedura amministrativa che viene attivata con la dichiarazione di dissesto non sono garantiti come nelle procedure concorsuali previsti dalla legge fallimentare. La censura costituisce uno sviluppo di quella appena esaminata ed essenzialmente si focalizza sulla evidenziazione, e talora enfatizzazione, delle connotazioni differenziali della procedura di liquidazione ex art. 21 cit. rispetto alle procedure concorsuali, differenze che ridonderebbero soprattutto in violazione del diritto alla tutela giurisdizionale (artt. 24 e 113 Cost.) oltre che degli altri parametri evocati (artt. 3 e 28 Cost.). Orbene, una volta riconosciuta (al paragrafo che precede) in via di principio la possibilità che, nell'ambito di un più complesso intervento diretto al risanamento dell'ente dissestato, si ponga in essere una liquidazione concorsuale dei crediti ammessi, l'indagine richiesta dal giudice rimettente si sposta sullo strumento tecnico-giuridico approntato a tal fine dal legislatore per verificarne (essenzialmente) il rispetto del generalissimo principio della tutela giurisdizionale delle situazioni soggettive, tutela che va riconosciuta non solo nella fase dell'accertamento giudiziale, ma anche della concreta attuazione mediante esecuzione forzata. Deve innanzi tutto ribadirsi che, ove sorga la esigenza di una procedura concorsuale, non necessariamente questa deve interamente svolgersi nel contesto di un procedimento giurisdizionale sotto l'immediato e diretto controllo dell'autorità giudiziaria, come nell'ipotesi del fallimento, ben potendo invece il legislatore prevedere un procedimento amministrativo tanto più se sono coinvolti interessi pubblici, come nella specie quello al risanamento dell'ente locale dissestato. Ciò di per sé solo non significa negazione della giustiziabilità delle posizioni soggettive versate nella procedura di liquidazione e non comporta vulnerazione di quel supremo principio dell'ordinamento costituzionale (sent. n. 18 del 1982 e n. 392 del 1992) che è il diritto alla tutela giurisdizionale, la quale non implica un'unica rigida tipologia di procedura concorsuale. Il nostro ordinamento d'altra parte già conosce ipotesi di procedure concursuali che si svolgono inizialmente in ambito amministrativo, quali la liquidazione coatta amministrativa e l'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. E questa Corte è già intervenuta affermando, tra l'altro, che dal fatto che l'accertamento del passivo "si svolga a cura di un commissario liquidatore, senza l'immediato intervento dell'autorità giudiziaria, diversamente da quanto previsto per l'ordinaria procedura fallimentare, e che nel frattempo i singoli creditori trovino limiti all'esperimento di azioni individuali, non deriva alcuna sostanziale violazione del precetto costituzionale dell'art. 24, primo comma" (sent. n. 87 del 1969); e successivamente ha precisato che "l'innegabile carattere amministrativo della liquidazione e la prevalente considerazione degli interessi generali, nelle diverse fattispecie di liquidazione coatta amministrativa disciplinate dalla legge, non comportano una riduzione dei controlli giurisdizionali tale da abbandonare alla discrezionalità di apprezzamento del commissario liquidatore e dell'autorità amministrativa lo svolgimento della procedura" (sent. n. 159 del 1975). 54 Nella specie, se è vero - come osserva il giudice rimettente - che l'art. 21 cit. non prevede speciali mezzi di tutela giurisdizionale, ciò però non significa - né mai potrebbe significare - che l'attività dell'organo di liquidazione sia sottratta alla ordinaria verifica giurisdizionale. Viceversa rimane ferma la giurisdizione generale del giudice amministrativo in caso di atti illegittimi oltre che quella del giudice ordinario in caso di lesione di diritti soggettivi ove ritenuti configurabili nella procedura instaurata con la deliberazione dello stato di dissesto. Quindi c'è sempre un giudice chiamato a verificare la legittimità della procedura di liquidazione, e la mancata menzione di specifici mezzi processuali di tutela - mentre, secondo quanto già osservato, non può mai essere intesa come radicale loro esclusione - potrà - ove intesa come implicita previsione normativa di una tutela giudicata contenutisticamente non adeguata delle situazioni soggettive dei creditori - in ipotesi rilevare, al fine di attivare la verifica di costituzionalità di tale tutela differenziata e in tesi limitata alla giurisdizione generale di legittimità davanti al giudice amministrativo, soltanto in eventuali giudizi promossi davanti all'una o all'altra giurisdizione ed aventi ad oggetto la legittimità di singoli atti (compresi quelli di ammissione o di esclusione di crediti) della procedura (sul punto cfr., sotto profili diversi, sent. 146/87 e sent. 251/89). La catalogazione dei singoli punti differenziali della procedura di liquidazione ex art. 21 rispetto alle altre procedure concursuali - puntualmente evidenziati dal giudice rimettente - non dà corpo, per mera sommatoria, ad un autonomo e più radicale sospetto di illegittimità dell'arresto dell'esecuzione individuale, ma rappresenta la ricognizione descrittiva (e quasi didascalica) delle connotazioni caratteristiche dell'una e dell'altra procedura; non è il solo scostamento della disciplina della procedura di liquidazione in esame dall'archetipo del fallimento (ripetutamente richiamato dal giudice rimettente) a concretare un vizio di costituzionalità, come mostrano se non altro le procedure della liquidazione coatta amministrativa e della amministrazione straordinaria, della cui idoneità a comportare l'arresto delle esecuzioni individuali non si dubita. D'altra parte nella procedura di liquidazione ex art. 21 cit. è possibile identificare quel nucleo essenziale ed indefettibile delle procedure concursuali che è costituito dal presupposto dello stato di insolvenza del debitore (o di altra analoga anomalia strutturale) e dalla formazione rispettivamente di uno stato passivo e di una massa attiva per il soddisfacimento proporzionale dei crediti ammessi nel rispetto della par condicio creditorum, mentre le più specifiche differenziazioni di disciplina, ove in ipotesi prive di giustificazione, potrebbero - come già rilevato - radicare distinte questioni di costituzionalità in quei giudizi nei quali di tale disciplina occorra fare applicazione. Viceversa nel giudizio a quo l'art. 21 cit. viene in rilievo unicamente per il provvedimento di estinzione della procedura esecutiva individuale. In conclusione l'arresto della procedura esecutiva individuale (che conseguentemente si estingue) non vulnera i parametri costituzionali evocati (e soprattutto gli artt. 24 e 113 Cost.) perché essendo previsto in favore dell'accesso ad una procedura di liquidazione che ha i tratti essenziali di una procedura concorsuale - sussiste comunque il controllo giurisdizionale della legittimità di ogni suo atto; mentre - come già si è detto - in questa sede non rilevano, ai fini della valutazione della costituzionalità della disposizione che il giudice rimettente è chiamato ad applicare, i profili differenziali di disciplina rispetto alle altre procedure concorsuali”. La Corte, in definitiva, ha ritenuto che la previsione di una gestione liquidativa a carattere amministrativo “non significa negazione della giustiziabilità delle posizioni soggettive versate nella procedura di liquidazione e non comporta vulnerazione di quel supremo principio dell’ordinamento costituzionale (…) che è il diritto alla tutela giurisdizionale” (Corte Cost., 21.4.1994, n. 155). 55 Vero è che la Corte non ha individuato gli strumenti di tutela dei crediti nell’ambito della procedura concorsuale amministrativa: “l’arresto della procedura esecutiva individuale (...) non vulnera i parametri costituzionali (...) perché - essendo previsto in favore di una procedura di liquidazione che ha i tratti essenziali di una procedura concorsuale - sussiste comunque il controllo giurisdizionale della legittimità di ogni suo atto”; “la mancata menzione di specifici mezzi processuali di tutela - (...) - potrà - (...) - in ipotesi rilevare, al fine di attivare la verifica di costituzionalità di tale tutela differenziata e in tesi limitata alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo” (Corte Cost., 21.4.1994, n. 155, richiamata in parte qua da Corte Cost., 16.6.1994, n. 242). 2) Si segnala ancora la recente introduzione degli artt. 243-bis e ss. TUEL relativi alla “procedura di riequilibrio finanziario” cui possono accedere (comma 1) “i comuni e le province per i quali, anche in considerazione delle pronunce delle competenti sezioni regionali della Corte dei conti sui bilanci degli enti, sussistano squilibri strutturali del bilancio in grado di provocare il dissesto finanziario, nel caso in cui le misure di cui agli articoli 193 e 194 non siano sufficienti a superare le condizioni di squilibrio rilevate”. Il successivo comma 4 prevede: Le procedure esecutive intraprese nei confronti dell'ente sono sospese dalla data di deliberazione di ricorso alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale fino alla data di approvazione o di diniego di approvazione del piano di riequilibrio pluriennale di cui all'articolo 243-quater, commi 1 e 3. 3) In materia di gestioni liquidative va ricordata poi una rilevante pronuncia della Corte Costituzionale, sulla vicenda “Policlinico Umberto I”, che ha dettato principi applicati dalla stessa Corte anche in altri casi. Si tratta di Corte Cost., 7.11.2007, n. 364. La pronuncia interviene su un quadro normativo poco cristallino, che è opportuno ricostruire per punti (riprendendo la sintesi svolta da Dalfino, in Foro it., 2007). 1) il d.l. n. 341 del 1999, convertito, con modificazioni, in l. n. 453 del 1999, ha previsto che l’azienda policlinico Umberto I di Roma subentri all’omonima azienda universitaria: “nei contratti in corso per la fornitura di beni e servizi destinati all’assistenza sanitaria, per un periodo massimo di dodici mesi”; “nei rapporti in corso, relativi alla gestione dell’assistenza sanitaria, con utenti, autorità competenti e altre amministrazioni”; “nei contratti in corso per la costruzione di strutture destinate ad attività assistenziali”; nel patrimonio immobiliare dell’azienda sanitaria. Non, invece, nei rapporti “già esauriti”, nonché in quelli concernenti gli appalti o le concessioni per opere pubbliche a prevalente o esclusiva destinazione sanitaria (in ordine ai quali “l’azienda policlinico Umberto I assume la qualità di sostituto processuale dell’università La Sapienza di Roma nel contenzioso giudiziale ed extragiudiziale”). Inoltre, l’art. 2, 2° comma, d.l. cit. ha previsto che dalla data di entrata in vigore del decreto e per un periodo massimo di diciotto mesi: a1) non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti dell’azienda policlinico Umberto I e dell’università La Sapienza per i debiti, assunti dall’omonima azienda universitaria, relativi alla gestione dell’assistenza sanitaria; a2) le 56 procedure esecutive pendenti, per le quali sono scaduti i termini per l’opposizione giudiziale da parte dell’azienda universitaria policlinico Umberto I e dell’università La Sapienza, ovvero la stessa benché proposta, sia stata rigettata, sono dichiarate estinte dal giudice, con inserimento, da parte del commissario, nella massa passiva per l’importo dovuto a titolo di capitale, accessori e spese; a3) i pignoramenti eventualmente eseguiti non hanno efficacia e non vincolano l’azienda policlinico Umberto I, l’università La Sapienza e il commissario; a4) i debiti insoluti non producono interessi né sono soggetti a rivalutazione monetaria; 2) l’art. 8 sexies d.l. n. 136 del 2004, aggiunto dalla legge di conversione n. 186 del 2004, ha disposto che la successione prevista dal 1° comma dell’art. 2 d.l. n. 341 cit. “si interpreta nel senso che l’azienda policlinico Umberto I di Roma succede nei contratti di durata in essere con la soppressa omonima azienda universitaria esclusivamente nelle obbligazioni relative alla esecuzione dei medesimi successiva alla data di istituzione della predetta azienda policlinico Umberto I” (1° comma); 3) l’art. 7-quater d.l. 7/05, convertito, con modificazioni, in l. 43/05, ha stabilito che i decreti ingiuntivi e le sentenze divenuti esecutivi dopo la data di entrata in vigore del d.l. n. 341 cit., “sono inefficaci nei confronti dell’azienda ospedaliera policlinico Umberto I, qualora gli stessi siano relativi a crediti vantati nei confronti della soppressa omonima azienda universitaria per obbligazioni contrattuali anteriori alla data di istituzione della predetta azienda ospedaliera policlinico Umberto I”, secondo quanto disposto dall’art. 2, 1° comma, d.l. n. 341 cit., come interpretato dall’art. 8-sexies d.l. n. 136 cit. (1° comma); “i pignoramenti eventualmente intrapresi in forza dei titoli di cui al 1° comma perdono efficacia e i giudizi di ottemperanza in base al medesimo titolo pendenti sono dichiarati estinti anche d’ufficio” (2° comma); “nelle azioni esecutive iniziate sui medesimi titoli di cui al 1° comma, alla soppressa azienda universitaria policlinico Umberto I subentra il commissario” di cui al 3° comma dell’art. 2 d.l. n. 341 cit. La Corte Costituzionale, nella citata pronuncia, ha dichiarato quest’ultima disposizione incostituzionale osservando che Le disposizioni denunciate vanno ben oltre tale normativa, analoga anche se non identica, come si è detto, a quella dettata per gli enti locali in dissesto e molto simile a quella poi introdotta per l'Ordine Mauriziano; esse sono dirette a travolgere provvedimenti definitivi ottenuti contro il soggetto di nuova istituzione non in dissesto quale l'azienda Policlinico Umberto I, facendo confluire anche i creditori di questo nell'ambito della procedura concorsuale instaurata per i crediti fondati su titoli emessi nei confronti della cessata azienda universitaria. Nei riguardi di tali disposizioni non sono pertinenti, quindi, le considerazioni di cui alle citate sentenze n. 155 del 1994 e n. 355 del 2006. Non può infatti essere accolta la tesi della difesa del Policlinico Umberto I secondo la quale le disposizioni censurate non travolgerebbero i giudicati, ma si limiterebbero a sostituire per la loro esecuzione un tipo di procedimento ad un altro. Sul punto si rileva che i provvedimenti di cui viene stabilita l'inefficacia sono stati emessi contro il suddetto Policlinico, mentre la procedura concorsuale concerne la contabilità separata dei debiti e dei crediti della cessata azienda universitaria, ossia un diverso centro d'imputazione dei rapporti. Le disposizioni in scrutinio, quindi, 57 incidono sul soggetto nei cui confronti sono stati emessi i provvedimenti e, di riflesso, sulla realizzazione dei crediti in essi consacrati, sostituendo ad un soggetto in bonis, responsabile secondo il regime sostanziale e processuale ordinario, un'entità diversa, nei cui confronti non è assicurata ai creditori la piena realizzazione dei propri diritti. 4.- Una volta definito in tal modo il contenuto normativo delle disposizioni censurate, la Corte ritiene che esse violino le attribuzioni costituzionali dell'autorità giudiziaria cui spetta la tutela dei diritti (artt. 102 e 113 Cost.). Infatti non vi è dubbio che l'emissione di provvedimenti idonei ad acquistare autorità di giudicato costituisca uno dei principali strumenti per la realizzazione del suindicato compito. Nel contempo, le disposizioni denunciate contrastano con gli artt. 3 e 24 Cost., in quanto in parte vanificano i risultati dell'attività difensiva svolta, sulla cui definitività i creditori del Policlinico Umberto I potevano fare ragionevole affidamento. In simile ordine di idee questa Corte ha affermato, da un lato, che l'estinzione dei giudizi pendenti può essere ritenuta costituzionalmente legittima qualora le norme che la stabiliscono incidano anche sulla legge regolatrice del rapporto controverso, garantendo la sostanziale realizzazione dei diritti in oggetto (sentenza n. 103 del 1995), dall'altro, che in materia non penale la legittimità di leggi retroattive è condizionata dal rispetto di altri principi costituzionali e, in particolare, di quello della tutela del ragionevole, e quindi legittimo, affidamento (ex plurimis, sentenze n. 446 del 2002 e n. 234 del 2007). Anche se le disposizioni in scrutinio non possono essere definite retroattive in senso tecnico, tuttavia esse, travolgendo provvedimenti giurisdizionali definitivi e incidendo sui regolamenti dei rapporti in essi consacrati, finiscono per avere la stessa efficacia di norme retroattive e per incontrare i medesimi limiti costituzionali per queste enunciati. 4) Sempre nell’ambito del complesso rapporto tra “piani di risanamento” e azioni esecutive individuali, viene in rilievo la vicenda del c.d. blocco delle azioni esecutive riguardo agli enti sanitari situati in determinate Regioni d’Italia – vicenda che si è conclusa con una “secca” pronuncia di incostizionalità da parte del Giudice delle leggi (sul punto si v. Delle Donne, L’espropriazione nei confronti delle p.a. e la rincorsa perenne del bilanciamento dei valori tra ragioni della finanza pubblica e tutela del credito, in Riv. esec. forz., 2015, 559 e ss., la quale in particolare mette a confronto il “caso” del blocco delle azioni con quello del Policlinico Umberto I – sopra esaminato – e quello in parte simile dell’Ordine Mauriziano. Mentre in questi ultimi casi, infatti, il legislatore aveva predisposto una fase di liquidazione concorsuale per gestire le passività maturate ad una certa data e, successivamente, vi aveva fatto rientrare anche i creditori che avevano contrattato con il nuovo soggetto subentrato a quello “decotto” tradendo l’affidamento da questi riposto sulla solvibilità della propria controparte ed incorrendo, per questa parte, nelle censure di incostituzionalità, in quello appresso esaminato, il legislatore ha operato la scelta “alquanto grossolana” del blocco delle azioni esecutive). Per comprendere a pieno l’intricato quadro normativo è bene chiarire, preliminarmente, che l’art. 1, comma 51, della l. n. 220 del 2010 ha previsto (sulla scia di disposizioni similari contenute nella l. n. 191 del 2009 e nel d.l. n. 78 del 20108) un divieto temporaneo di esercizio o prosecuzione delle azioni esecutive 8 Al riguardo è importante notare che con la l. n. 191 del 2009 il legislatore aveva escluso la possibilità di intraprendere o proseguire le azioni esecutive nei confronti delle aziende sanitarie locali ed ospedaliere situate in Regioni che avevano sottoscritto piani di rientro del disavanzo 58 promosse nei riguardi degli enti del servizio sanitario al fine di garantire l’attuazione dei piani di rientro previsti dalla l. n. 311 del 2004. In specie, l’art. 1 di tale ultima legge, ai commi da 164 a 169, ha previsto: a) che lo Stato concorra al ripiano dei disavanzi del SSN mediante un finanziamento integrativo, strumentalmente teso a garantire l’obiettivo del raggiungimento dell’equilibrio economico finanziario da parte delle Regioni nel rispetto della garanzia della tutela della salute; b) che l’accesso al finanziamento integrativo a carico dello Stato viene subordinato alla stipula di una specifica intesa tra Stato e Regioni (intesa che deve contemplare una serie di parametri normativamente determinati); c) che, in caso di sussistenza di una situazione di squilibrio economicofinanziario, si impone alla Regioni l’adozione dei provvedimenti necessari con la precisazione che, se l’amministrazione non provvede, si procede al commissariamento ex l. n. 131 del 2003. In questo caso spetta al Presidente della Regione, come commissario ad acta, l’approvazione del bilancio consolidato del servizio sanitario regionale al fine di determinare il disavanzo e di adottare i provvedimenti necessari al relativo ripianamento; d) al verificarsi di queste condizioni la Regione procede ad una ricognizione delle cause dello squilibrio ed elabora un programma operativo di riorganizzazione, riqualificazione o di potenziamento del servizio. La sottoscrizione dell’accordo è condizione necessaria per la riattribuzione alla Regione interessata del maggiore finanziamento anche in maniera parziale e graduale subordinatamente alla versifica della effettiva attuazione del programma. Discende da quanto sopra che il divieto di intraprendere o proseguire azioni esecutive nei riguardi delle ASL presuppone: 1) che esse operino in ragioni commissariate secondo la procedura indicata dall’art. 8, comma 1, l. n. 131 del 2003; 2) che siano predisposti piani di rientro dai disavanzi sanitari ai sensi della l. n. 311 del 2004; 3) che sia stata effettuata la ricognizione dei debiti di cui all’art. 11, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010. Ciò premesso è utile riportare per intero la disposizione contenuta nell’art. 1, comma 51, della l. n. 220 del 2010 (legge di stabilità per l’anno 2011): “51. Al fine di assicurare il regolare svolgimento dei pagamenti dei debiti oggetto della ricognizione di cui all'articolo 11, comma 2, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, sanitario. Il “blocco” delle azioni esecutive era previsto per la durata di un anno a partire dall’entrata in vigore della legge e si prevedeva, inoltre, che i pignoramenti già eseguiti non avessero efficacia nei confronti dei debitori e dei loro tesorieri che quindi potevano disporre dei beni staggiti. In occasione della conversione del d.l. n. 194 del 2009 (l. n. 25 del 2010) il termine di durata del blocco, ferme restando tutte le altre previsioni, fu ridotto da dodici mesi a due mesi. Ne è conseguito che a decorrere dal 1° marzo 2010 era stato ripristinato il diritto dei creditori di agire in via esecutiva. Tuttavia, a fronte della situazione di grave disagio finanziario regionale, il legislatore è nuovamente intervenuto sul punto: con il d.l. n. 78 del 2010 è stata reintrodotta la inibitoria delle azioni esecutive nei confronti delle aziende sanitarie fino al 31.12.2010. La disposizione del 2010, però, differiva da quella precedentemente esaminata in ciò, che non prevedeva lo svincolo dei beni sottoposti a pignoramento. 59 convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, nonché al fine di consentire l'espletamento delle funzioni istituzionali in situazioni di ripristinato equilibrio finanziario per le regioni già sottoposte ai piani di rientro dai disavanzi sanitari, sottoscritti ai sensi dell'articolo 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, e successive modificazioni, e già commissariate alla data di entrata in vigore della presente legge, non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive, anche ai sensi dell'articolo 112 del codice del processo amministrativo, di cui all'allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, nei confronti delle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni medesime, fino al 31 dicembre 2012. I pignoramenti e le prenotazioni a debito sulle rimesse finanziarie trasferite dalle regioni di cui al presente comma alle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni medesime, ancorché effettuati prima della data di entrata in vigore del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, sono estinti di diritto dalla data di entrata in vigore della presente disposizione. Dalla medesima data cessano i doveri di custodia sulle predette somme, con obbligo per i tesorieri di renderle immediatamente disponibili, senza previa pronuncia giurisdizionale, per garantire l'espletamento delle finalita' indicate nel primo periodo”. Il testo sopra riportato è la risultante di diverse modifiche: A) quelle apportate dall’art. 17, comma 4, lett. e), d.l. n. 98 del 2011, del seguente tenore: e) al comma 51 dell'articolo 1 della l. 13 dicembre 2010, n. 220, sono apportate le seguenti modificazioni: 1) dopo le parole: “dalla legge 30 luglio 2010, n. 122,” sono inserite le seguenti: “nonché al fine di consentire l'espletamento delle funzioni istituzionali in situazioni di ripristinato equilibrio finanziario”; 2) nel primo e nel secondo periodo, le parole: “fino al 31 dicembre 2011”, sono sostituite dalle seguenti: “fino al 31 dicembre 2012”; B) quelle apportate dall’art. 6-bis, d.l. n. 158 del 2012, conv. con modifiche in l. n. 198 del 2012, del seguente tenore: 2. All'articolo 1, comma 51, della legge 13 dicembre 2010, n. 220, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni: a) al primo periodo, dopo le parole: “azioni esecutive” sono inserite le seguenti: “, anche ai sensi dell'articolo 112 del codice del processo amministrativo, di cui all'allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104,” e le parole: “dicembre 2012” sono sostituite dalle seguenti: “dicembre 2013”; b) il secondo periodo é sostituito dai seguenti: “I pignoramenti e le prenotazioni a debito sulle rimesse finanziarie trasferite dalle regioni di cui al presente comma alle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni medesime, ancorché effettuati prima della data di entrata in vigore del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, sono estinti di diritto dalla data di entrata in vigore della presente disposizione. Dalla medesima data cessano i doveri di custodia sulle predette somme, con obbligo per i tesorieri di renderle immediatamente 60 disponibili, senza previa pronuncia giurisdizionale, per garantire l’espletamento delle finalità indicate nel primo periodo”. Oltre alle proroghe ed alla estensione della disciplina al giudizio di ottemperanza intrapreso innanzi al GA, rileva in specie la previsione che “i pignoramenti (…) sono estinti di diritto” e che “cessano i doveri di custodia con obbligo per i tesorieri di renderle immediatamente disponibili, senza previa pronuncia giurisdizionale, per garantire l’espletamento delle finalità indicate nel primo periodo”. Nella versione originaria, quanto a questo profilo, la disposizione si limitava a prevedere: “I pignoramenti e le prenotazioni a debito sulle rimesse finanziarie trasferite dalle regioni di cui al presente comma alle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni medesime, effettuati prima della data di entrata in vigore del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, non producono effetti dalla suddetta data fino al 31 dicembre 2011 e non vincolano gli enti del servizio sanitario regionale e i tesorieri, i quali possono disporre, per le finalità istituzionali dei predetti enti, delle somme agli stessi trasferite durante il suddetto periodo”. Prima di analizzare la pronuncia della Corte Costituzionale sulla normativa di cui sopra vanno chiarite: 1) la ratio della disciplina di cui si tratta; 2) le posizioni assunte, riguardo alla relativa interpretazione, dalla giurisprudenza. Quanto alla ratio la disciplina in esame – di non agevole lettura – va precisato che la stessa riguarda le ASL site in quelle Regioni in cui il disavanzo della spesa sanitaria abbia superato determinate soglie onde si è resa necessaria la predisposizione di piani di rientro triennale con conseguente “blocco” delle azioni esecutive promosse contro le ASL medesime. Riguardo alle posizioni assunte dalla giurisprudenza, possiamo individuare tre orientamenti. A) L’orientamento seguito da alcuni Tar (prima che il legislatore intervenisse a chiarire questo aspetto) è stato nel senso della non inclusione nell’ambito applicativo della norma dell’azione per ottemperanza, con la conseguenza che i creditori che scelgano (scegliessero) tale strumento non subirebbero (avrebbero subito) il “blocco” previsto per quelli che abbiano (avessero) optato per l’esecuzione forzata nelle forme del Codice di procedura civile. Interessanti al riguardo sono le osservazioni svolte da T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. III, 1.8.2011, n. 2074. Dopo avere operato una puntuale ricognizione del quadro normativo di riferimento e dopo avere sottolineato che la disciplina in esame presenta dei punti di frizione con la disciplina (di derivazione comunitaria) relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, disciplina (non applicabile direttamente ai fatti di causa, assoggettati ratione temporis alle conferenti disposizioni della direttiva di riferimento) che attiene a tutti i tipi di transazione commerciale a prescindere dal fatto che una delle parti del rapporto sia una pubblica amministrazione, il Tar ravvisa la particolare 61 rilevanza della questione relativa alla individuazione di strumenti di tutela effettivi in grado di procurare la realizzazione dei diritti di credito vantati verso le ASL. Ad avviso del Tar: “In primo luogo occorre portare l'attenzione sulla ratio della disciplina nazionale preclusiva delle azioni esecutive; ratio emergente dai presupposti di applicazione della normativa nazionale di cui si tratta. Il blocco delle azioni esecutive mira a consentire la realizzazione dei piani di rientro dai disavanzi sanitari predisposti dalle regioni commissariate e diretti, non solo a ripristinare l'equilibrio finanziario del settore sanitario, ma anche ad assicurare l'attuazione di un processo di riorganizzazione e risanamento del servizio sanitario, nel quale si colloca la previsione di un finanziamento integrativo a carico dello Stato (cfr. in particolare art. 11, comma 2, del d.l. 2010, n. 78, nonché art. 11, comma 51, della legge 2010, n. 220 e art. 1, commi 164, 169, 174, 180 della legge 2004, n. 311). I piani di rientro e la loro attuazione devono assicurare che l'equilibrio economico e finanziario venga conseguito garantendo la tutela della salute, nonché il mantenimento di modalità di erogazione delle prestazioni sanitarie uniformi sul territorio nazionale e coerenti, sul piano qualitativo e quantitativo, con i livelli essenziali di assistenza in materia sanitaria (cfr. in particolare art. 1, comma 169, della legge 2004, n. 311). L'obiettivo dell'attuazione dei piani di rientro e del contemporaneo mantenimento dei livelli di assistenza, a tutela del fondamentale diritto alla salute, presuppone che l'amministrazione conservi integri e nel loro complesso i beni strumentali e funzionali all'erogazione delle prestazioni sanitarie, nonostante sia gravata da una situazione debitoria tale da pregiudicarne l'equilibrio economico e finanziario e da giustificare un finanziamento integrativo a carico dello Stato. Tale esigenza si soddisfa escludendo che nei confronti delle aziende sanitarie, versanti nelle condizioni economiche e finanziarie suindicate, possano essere attivate o completate procedure esecutive che, al fine di soddisfare il creditore, consentano di aggredire i beni, mobili ed immobili, di cui l'amministrazione si avvale per l'erogazione delle prestazioni del servizio sanitario, sottraendoli alla loro destinazione funzionale. Il riferimento attiene, pertanto, al processo di esecuzione in senso stretto, caratterizzato dal pignoramento, che, da un lato, produce l'effetto giuridico di vincolare determinati beni del debitore al soddisfacimento del creditore, dall'altro, è prodromico alla soddisfazione coattiva del credito mediante l'assegnazione o la vendita, secondo la disciplina posta dagli artt. 491 e seg. del c.p.c.. Insomma, il compimento di simili atti nei confronti delle A.S.L. versanti nelle condizioni suindicate avrebbe l'effetto di sottrarre alla loro destinazione determinati beni funzionali all'erogazione del servizio sanitario, con pregiudizio sia dell'obbiettivo del risanamento economico e finanziario, nonché delle esigenze di riorganizzazione e di risanamento del servizio sanitario, sia dell'esigenza di mantenere inalterati i livelli essenziali di assistenza. Ecco, allora, che tanto l'art. 11, comma 2, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, quanto l'art. 11, comma 51, della legge 2010, n. 220, nella parte in cui escludono la possibilità di intraprendere o proseguire azioni esecutive nei confronti delle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni commissariate e già sottoposte ai piani di rientro dai disavanzi sanitari, sottoscritti ai sensi dell'articolo 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, vanno interpretati come preclusivi delle azioni esecutive in senso stretto, ossia delle procedure di esecuzione forzata per espropriazione, che consentono al creditore di 62 soddisfarsi coattivamente sui beni del debitore mediante la vendita o l'assegnazione dei beni medesimi, in quanto simili procedure ostacolano l'attuazione dei complessivi obiettivi, di risanamento finanziario e di riorganizzazione, che connotano i piani di rientro e pregiudicano il mantenimento dei livelli essenziali di assistenza nel settore sanitario. Il dato letterale conforta tale interpretazione, atteso che, proprio l'art. 11, comma 51, della legge 2010, n. 220, dopo avere precluso l'attivazione e la prosecuzione delle "azioni esecutive" nei confronti delle A.S.L., disciplina le azioni esecutive già intraprese, prevedendo che non producono effetti i "pignoramenti e le prenotazioni a debito sulle rimesse finanziarie trasferite dalle regioni" alle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni medesime, effettuati prima della data di entrata in vigore del d.l. n. 78 del 2010. Certo, l'inciso da ultimo considerato riguarda solo i pignoramenti e le prenotazioni a debito sulle rimesse finanziarie effettuate dalla regione e non gli atti di esecuzione forzata per espropriazione compiuti su altri beni strumentali all'erogazione del servizio sanitario, ma resta fermo che, nel contesto complessivo della disposizione, la preclusione è riferita solo ad atti tipici del processo di esecuzione forzata (il pignoramento, in particolare), mentre la formula impiegata si spiega con l'esigenza, espressa dalla norma, di conservare al servizio sanitario le somme versate dalla regione per l'erogazione del servizio medesimo, in modo che gli enti del servizio sanitario regionale e i tesorieri possano continuare a "disporre, per le finalità istituzionali dei predetti enti, delle somme agli stessi trasferite durante il suddetto periodo". In altre parole, con l'inciso in esame il legislatore ha dettato il regime di un particolare bene, qual é il denaro versato dalla regione e destinato all'erogazione del servizio, al fine di evitare che i pignoramenti e le prenotazioni a debito già effettuati ne ostacolino l'utilizzo per lo scopo prestabilito. Nondimeno, resta fermo che la norma, riferendosi espressamente solo al pignoramento e alla prenotazione a debito, ha limitato la preclusione ai soli atti della procedura esecutiva in senso stretto e sul piano sistematico ciò induce a riferire l'espressione "azioni esecutive" proprio a questo tipo di procedura, atteso che, anche per i beni diversi dal denaro, ma comunque strumentali allo svolgimento del servizio sanitario, sussiste l'esigenza di preservarne la destinazione, sottraendoli alla soddisfazione coattiva del creditore, destinazione compromessa dagli atti della procedura esecutiva per espropriazione. Analoga esigenza non sorge rispetto al giudizio di ottemperanza, che, pertanto, non è riconducibile alle "azioni esecutive" paralizzate dall'art. 11, comma 2, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 e dall'art. 11, comma 51, della legge 2010, n. 220. Invero, mediante l'azione di ottemperanza esperita a tutela di una situazione creditoria ed, in particolare, per la soddisfazione di una pretesa pecuniaria risultante da una sentenza passata in giudicato del giudice ordinario o da un provvedimento giurisdizionale ad essa equiparato, come il decreto ingiuntivo munito di formula esecutiva, il creditore non aggredisce esecutivamente singoli beni sottraendoli alla loro destinazione funzionale e vincolandoli alla soddisfazione della propria pretesa, ma ottiene che il giudice si sostituisca all'amministrazione, direttamente o indirettamente per il tramite di un commissario ad acta, nel compimento degli atti necessari per l'adempimento del debito. Atti che consistono nel reperimento delle somme necessarie per la soddisfazione del credito, eventualmente anche mediante il ricorso a finanziamenti, nei limiti consentiti dalla legge, ma non nel pignoramento e nella successiva assegnazione o vendita di beni determinati, che sono atti diretti a realizzare la conversione in denaro di beni determinati a soddisfazione del creditore. 63 In altre parole, tale procedura non incide sui beni, mobili o immobili, che l'A.S.L. utilizza per l'erogazione del servizio sanitario, né sulle somme che in base alla legge sono destinate all'erogazione di tale servizio, sicché in relazione ad essa non viene in rilevo la necessità di evitare che la tutela dei creditori dell'amministrazione possa pregiudicare l'attuazione degli obiettivi di risanamento finanziario, di riorganizzazione e di mantenimento dei livelli essenziali di assistenza nel settore sanitario che connotano i piani di rientro dai disavanzi sanitari, alla cui attuazione è funzionale il blocco delle azioni esecutive. In simili casi spetta all'organo giurisdizionale, o al commissario ad acta nominato dal primo, il compimento degli atti necessari per la soddisfazione del credito azionato, senza intaccare necessariamente beni strumentali al servizio sanitario nei termini suesposti. Resta fermo che, in relazione alle peculiarità del caso concreto, possono verificarsi delle fattispecie in cui l'ottemperanza risulta oggettivamente impossibile e ciò dipende dal fatto che ogni giudizio di ottemperanza incontra il limite dell'oggettiva impossibilità, da apprezzare caso per caso (cfr. in argomento a mero titolo esemplificativo Consiglio di Stato, Ad. Plen., 29 aprile 2005, n. 2), ma tale circostanza non incide sull'ammissibilità della relativa azione”. A tale orientamento fa da riscontro quello di altri Tar che sono giunti a conclusioni opposte. In specie, secondo T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez. I, 13.4.2011, n. 516: “anche il rimedio dell’ottemperanza innanzi al giudice amministrativo rientri nell’ambito di operatività della disposizione in esame nel caso in cui, come nella specie, trattasi dell’esecuzione di sentenza di condanna disposta dall’A.G.O. Infatti, il giudizio di ottemperanza assume la prospettazione di giudizio misto (di cognizione ed esecuzione al contempo) nei soli casi in cui si tratta dell’esecuzione di sentenze del giudice amministrativo, e non anche nel caso di sentenze del giudice ordinario”. Ne consegue che “la procedura in esame, qualificabile come “azione esecutiva” in senso proprio, peraltro alternativa all’esecuzione di cui al codice di rito, resta assoggettata al termine di sospensione previsto dalla legge 220/2010”. Rileva notare che il legislatore è intervenuto sul punto, nel 2012, per chiarire che il divieto di intraprendere o proseguire le azioni esecutive nei riguardi delle ASL (nei casi previsti dall’art. 1, comma 51, l. n. 220 del 2010) è riferito anche all’azione di ottemperanza disciplinata dagli artt. 112 e ss. c.p.a.. B) Per altro orientamento, il blocco previsto dalla normativa in esame opererebbe solo in presenza di una effettiva predisposizione da parte delle ASL dei piani di rientro e quindi solo subordinatamente alla concreta individuazione dei debiti e delle modalità temporali della relativa soddisfazione. In mancanza di tali piani, mancano le condizioni per applicare la lex specialis ragion per cui le azioni esecutive possono in tal caso essere intraprese senza limiti (Trib. Napoli, Sez. Pozzuoli, nn. 585 e 660). C) L’ultimo orientamento è nel senso che l’art. 1, comma 51, l. n. 220 del 2010 si pone in contrasto con la Costituzione. 64 Secondo i Giudici remittenti, pur nella varietà delle prospettazioni 9, la norma ha l’effetto pratico di precludere la realizzazione del diritto di credito vantato nei confronti delle ASL. Osserva in specie il Tar Salerno che “ciò appare ancora più evidente ove si consideri che la norma contestata ha reintrodotto la previsione secondo la quale divengono del tutto inefficaci i pignoramenti eseguiti in data antecedente l’entrata in vigore della legge e consente agli enti debitori di rientrare nella piena disponibilità delle somme dovute ancorché pignorate. Una norma della specie, incidendo retroattivamente su posizioni consolidate per effetto di una procedura esecutiva giurisdizionale si pone in evidente contrasto con il principio di effettività del diritto di difesa sancito dall’art. 24, commi 1 e 2, Cost.”. Viene anche in tale contesto evidenziata la discrasia tra la normativa in esame e quella di cui al d.lgs. n. 231 del 2002: da un lato, vengono congegnati strumenti volti a favorire la regolarità e la tempestività dei pagamenti, dall’altro lato, si crea una “zona franca” in ragione di “presunte superiori ragioni di finanza pubblica”. Oltretutto, in questo caso, la deroga prevista a favore delle amministrazioni assume contorni tanto più vessatori, in considerazione della circostanza che “a parti invertite, ossia nei casi in cui sia l’amministrazione ad essere creditrice, in particolare nel caso delle obbligazioni di natura fiscale e previdenziale, il legislatore appronta un ben più efficace inventario di strumenti esecutivi per forzare l’adempimento”. Discenderebbe da ciò il contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost., sotto il profilo della alterazione della parità delle parti in causa. Infine, verrebbe in rilievo un contrasto con l’art. 41 Cost., poiché “il soggetto imprenditore che intrattenga rapporti economici con le amministrazioni del comparto sanità, non potendo fare affidamento sulla puntualità del suo debitore nell’adempimento delle sue obbligazioni, non può programmare la sua attività di impresa ed è costretto, onde far fronte alle proprie scadenze, a ricorrere ad onerosi finanziamenti bancari”. In altre ordinanze di rimessione – e segnatamente in quelle provenienti dal Tribunale di Napoli – è stato inoltre sottolineato: i) da un lato, che è censurabile la discriminazione consistente nel diverso trattamento normativo gravante sui creditori delle aziende sanitarie ubicate in Regioni commissariate rispetto a quello applicabile ai creditori delle analoghe aziende ubicate in altre Regioni e, per altro verso, la più favorevole condizione in cui si trovano, rispetto alla generalità delle aziende sanitarie, quelle ubicate nelle Regioni commissariate, godendo di “una sorta di immunità totale dall’espropriazione forzata correlata ad un mero status soggettivo”, non potendosi, peraltro, escludere che, sebbene compresa in una Regione 9 Si tratta del Tar Campania, Salerno, che ha sollevato la q.l.c. di cui al testo con due ordinanze del 7.9.2011 e una ordinanza dell’11.10.2011; del Tar Campania, Napoli, che ha sollevato la q.l.c. con ordinanza del 10.12.2011; del Tribunale di Napoli che ha sollevato la q.l.c. con ordinanza del 14.12.2011; del Trib. di Napoli (sez. distaccata di Pozzuoli) che ha sollevato la q.l.c. con due ordinanze del 12.11.2011 e del 24.5.2012. 65 commissariata, la singola azienda sanitaria, pur beneficiaria del blocco dei pignoramenti, non sia in difficoltà finanziarie; ii) dall’altro lato, che siffatto privilegio appare ancor più ingiustificato ove si consideri che le aziende sanitarie già beneficiano del più favorevole regime di pignorabilità limitata dei loro beni stabilito dall'art. 1, comma 5, del decreto-legge 18 gennaio 1993, n. 9 (Disposizioni urgenti in materia sanitaria e socio-assistenziale), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 marzo 1993, n. 67. Prima di analizzare la pronuncia della Corte Costituzionale occorre meglio ricordare le modifiche alla normativa in questione introdotte con il d.l. n. 158 del 2012 (sopra riportate). In specie rilevano le modifiche che hanno inciso sul secondo periodo della disposizione (sul quale la Consulta ha “trasferito” le sollevate questioni di legittimità costituzionale). La disciplina – sopra indicata – ha prodotto (come rilevato dalla Corte Costituzionale) l’approfondimento dei vulnera arrecati al principio di cui all’art. 24 Cost.: si allude alla disposizione che prevede la estinzione di diritto dei pignoramenti (in luogo della precedente previsione per cui “i pignoramenti … non producono effetti”), con conseguente ritorno delle somme staggite nella immediata disponibilità del debitore esecutato, senza necessità di una pronuncia giudiziale, “per garantire l’espletamento delle finalità indicate dal primo periodo”. Effettivamente, la Corte Costituzionale, prima di entrare nel merito delle questioni sottoposte al proprio esame, ha inteso valutare se la sopravvenienza normativa implicasse la necessità di rimettere gli atti ai giudici a quibus affinché valutassero, a loro volta, la perdurante rilevanza della questione; oppure se sussistessero i presupposti per “trasferire” la questione originariamente proposta sulla norma come successivamente modificata. Il Giudice delle leggi (sentenza 12.7.2013, n. 186) si è orientato in quest’ultimo senso. In specie, ha osservato: “(…) questa Corte che la possibilità di estensione anche alla nuova formulazione della norma l'incidente di costituzionalità riposa nel fatto che lo ius novum inserito in questa, lungi dal modificare sostanzialmente il contenuto precettivo della norma oggetto di dubbio, nel senso di andare ad elidere od attenuare i punti di criticità segnalati dai rimettenti - salva ed impregiudicata allo stato la fondatezza o meno delle doglianze provenienti dai giudici a quibus - rende, viceversa, ancor più stridenti i punti di contrasto ipotizzati dai rimettenti. Invero - premessa la indiscussa applicabilità ai giudizi a quibus della versione attualmente vigente della norma censurata, trattandosi di innovazione riferibile ai processi esecutivi già in corso per i quali, in entrambe le formulazioni, essa impone la cessazione del giudizio, elemento questo che rende sicuramente tuttora rilevante il dubbio di costituzionalità avanzato dai giudici a quibus - rileva questa Corte che, in sostanza, i rimettenti lamentano che, per effetto dell'art. 1, comma 51, della legge n. 220 del 2010, non sia possibile porre in esecuzione i titoli esecutivi ottenuti, anche a seguito del passaggio in giudicato di provvedimenti giurisdizionali, nei confronti delle aziende sanitarie ed ospedaliere in quanto «non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive» nei confronti di tali enti e in quanto i pignoramenti e le prenotazioni e debito già operate nei confronti di tali soggetti sono inefficaci e non comportano vincoli a carico di tali enti. 66 3.3.- Risulta, quindi, di chiara evidenza che la innovazione legislativa introdotta, comportando non, come nella precedente versione, la sola inefficacia dei pignoramenti e delle prenotazioni a debito operate nel corso delle procedure esecutive in questione e la assenza di vincoli sui beni bloccati, ma direttamente la loro estinzione di diritto e l'obbligo dei tesorieri degli enti sanitari di porre a disposizione «senza previa pronuncia giurisdizionale» le somme già oggetto di pignoramento, onde realizzare le finalità del risanamento finanziario, non apre nuovi profili valutativi rispetto alla normativa precedente, prevedendo, semmai, contenuti normativi che, sia pur nel medesimo senso orientati, estremizzano le soluzioni già presenti nella previgente disciplina”. Chiarito quindi che la trasmissione degli atti ai Giudici a quibus avrebbe reso ancora più evidente la lesione del diritto d’azione, perché il giudizio avrebbe verosimilmente subito una ulteriore sospensione a fronte della ritenuta opportunità di rimettere nuovamente gli atti alla Corte, la questione è stata ritenuta, nel merito, fondata, con specifico riguardo all’art. 24 Cost. e con assorbimento degli ulteriori profili di illegittimità costituzionale. Ha osservato la Corte Costituzionale che: “un intervento legislativo - che di fatto svuoti di contenuto i titoli esecutivi giudiziali conseguiti nei confronti di un soggetto debitore - può ritenersi giustificato da particolari esigenze transitorie qualora, per un verso, siffatto svuotamento sia limitato ad un ristretto periodo temporale (sentenze n. 155 del 2004 e n. 310 del 2003) e, per altro verso, le disposizioni di carattere processuale che incidono sui giudizi pendenti, determinandone l'estinzione, siano controbilanciate da disposizioni di carattere sostanziale che, a loro volta, garantiscano, anche per altra via che non sia quella della esecuzione giudiziale, la sostanziale realizzazione dei diritti oggetto delle procedure estinte (sentenze n. 277 del 2012 e n. 364 del 2007). Viceversa, la disposizione ora censurata, la cui durata nel tempo, inizialmente prevista per un anno, già è stata, con due provvedimenti di proroga adottati dal legislatore, differita di ulteriori due anni sino al 31 dicembre 2013, oltre a prevedere, nella attuale versione, la estinzione delle procedure esecutive iniziate e la contestuale cessazione del vincolo pignoratizio gravante sui beni bloccati ad istanza dei creditori delle aziende sanitarie ubicate nelle Regioni commissariate, con derivante e definitivo accollo, a carico degli esecutanti, della spese di esecuzione già affrontate, non prevede alcun meccanismo certo, quantomeno sotto il profilo di ordinate procedure concorsuali garantite da adeguata copertura finanziaria, in ordine alla soddisfazione delle posizioni sostanziali sottostanti ai titoli esecutivi inutilmente azionati. (…) Va, altresì, considerata la circostanza che, con la disposizione censurata, il legislatore statale ha creato una fattispecie di ius singulare che determina lo sbilanciamento fra le due posizioni in gioco, esentando quella pubblica, di cui lo Stato risponde economicamente, dagli effetti pregiudizievoli della condanna giudiziaria, con violazione del principio della parità delle parti di cui all'art. 111 Cost. 4.4.- Non può, infine, valere a giustificare l'intervento legislativo censurato il fatto che questo possa essere ritenuto strumentale ad assicurare la continuità della erogazione delle funzioni essenziali connesse al servizio sanitario: infatti, a presidio di tale essenziale esigenza già risulta da tempo essere posta la previsione di cui all'art. 1, comma 5, del decreto-legge 18 gennaio 1993, n. 9 (Disposizioni urgenti in materia sanitaria e socio assistenziale), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 marzo 1993, n. 67, in base alla quale è assicurata la impignorabilità dei fondi a destinazione vincolata essenziali ai fini della erogazione dei servizi sanitari”. 67 6. L’esecuzione forzata nei confronti dell’amministrazione pubblica vista dalla prospettiva della CEDU: il “caso” legge Pinto, tenuto anche conto delle novità introdotte dalla legge di stabilità per l’anno 2016. Una recente decisione della CEDU ha riguardato le conseguenze del ritardo nella esecuzione delle decisioni giudiziarie che accordino la “equa riparazione” ex lege n. 89 del 2001. In particolare, i ricorrenti, avendo dovuto attendere un tempo compreso tra i 9 ed i 49 mesi per vedersi liquidate le somme riconosciute a titolo di riparazione per irragionevole durata di un processo, hanno invocato l’intervento della Corte di Strasburgo in relazione alla asserita violazione: - dell’art. 6 CEDU, sotto il profilo della eccessiva durata dei processi esecutivi volti a “concretizzare” la statuizione contenuta in una sentenza o altro titolo idoneo; - dell’art. 13 CEDU [motivo dichiarato irricevibile]; - dell’art. 46 CEUD; - dell’art. 41 CEDU. Preliminarmente è stata disattesa la eccezione “di rito” sollevata dal Governo italiano consistente in ciò, che i ricorrenti non avrebbero esaurito le vie di ricorso previste dal diritto interno prima di adire la Corte (e cioè nella specie proprio il rimedio predisposto dalla l. Pinto). Sul punto la CEDU è perentoria: “esigere dai ricorrenti una tale pratica per lamentarsi della durata dell’esecuzione delle decisioni Pinto equivarrebbe a chiudere i ricorrenti in un circolo vizioso in cui il cattivo funzionamento di un rimedio li obbligherebbe a intentarne un altro. Una simile conclusione sarebbe irragionevole e costituirebbe un ostacolo sproporzionato all’esercizio effettivo da parte dei ricorrenti del loro diritto di ricorso individuale, così come definito all’articolo 34 della Convenzione (v., in tal senso, Vaney c. Francia, n. 53946/00, § 53, 30 novembre 2004, mutatis mutandis, Kaić c. Croazia, n. 22014/04, § 32, 17 luglio 2008 e Simaldone c. Italia, già cit., § 44)”. Nel merito, il Governo ha rilevato che il termine di sei mesi occorrente a provvedere al pagamento delle indennità ex lege Pinto (termine individuato da una costante giurisprudenza della stessa CEDU come “ragionevole”) debba decorrere dalla comunicazione alla p.a. da parte della Cancelleria o dalla notifica da parte del ricorrente. Inoltre, osserva il Governo italiano, il ritardo non ha leso i ricorrenti considerata la maturazione di interessi moratori sulle somme riconosciute. La Corte ha ritenuto: A) sull’art. 6, innanzitutto, che “per quanto riguarda l’articolo 6 § 1, la Corte ricorda che il diritto a un tribunale sancito da tale disposizione include il diritto all’esecuzione di una decisione giudiziaria definitiva e obbligatoria e che l’esecuzione di una sentenza deve essere considerata come facente parte integrante del ‘processo’ ai sensi dell’articolo 6 (v., in particolare, Hornsby c. Grecia, 19 marzo 1997, § 40 e segg., Recueil 1997 II; Metaxas c. Grecia, n. 8415/02, § 25, 27 maggio 2004). Poiché l’esecuzione costituisce la seconda 68 fase del procedimento sul merito, il diritto rivendicato trova la propria realizzazione effettiva solo al momento dell’esecuzione (v., tra le altre, le sentenze Di Pede c. Italia e Zappia c. Italia, 26 settembre 1996, rispettivamente §§ 22, 24, 26 e 18, 20, 22, Recueil 1996 IV; mutatis mutandis, Silva Pontes c. Portogallo, 23 marzo 1994, § 33, serie A n. 286 A). 33. Nella sentenza Cocchiarella c. Italia già cit. (§§ 36-107), la Corte ha preso in considerazione il ritardo nel pagamento del risarcimento «Pinto» allo scopo di valutare il carattere adeguato e sufficiente della riparazione offerta da questo rimedio per la violazione del diritto al «termine ragionevole». Essendo padrona della qualificazione giuridica dei fatti di causa (v., in primo luogo, Guerra e altri c. Italia, 19 febbraio 1998, § 44, Recueil 1998 I), la Corte ritiene opportuno analizzare questo motivo di ricorso sotto il profilo del diritto dei ricorrenti a un tribunale così come sancito dall’articolo 6 § 1 della Convenzione, e in particolare dell’obbligo dello Stato ad uniformarsi a una decisione giudiziaria esecutiva”. Inoltre, “se è ammissibile che un’amministrazione possa avere bisogno di un certo lasso di tempo per procedere ad un pagamento, nel caso tuttavia di un ricorso risarcitorio volto a riparare le conseguenze della durata eccessiva di procedimenti questo lasso di tempo non dovrebbe generalmente superare sei mesi a decorrere dal momento in cui la decisione che accorda il risarcimento diventa esecutiva”. Ancora, “quanto agli argomenti del Governo relativi alla data da cui far partire il calcolo di detto termine di sei mesi, è opportuno notare che la Corte ha già rigettato questa tesi nella sentenza Simaldone (già cit., §§ 51 – 54) e non vede alcun motivo per giungere a una conclusione diversa nella presente causa. Pertanto, il termine di sei mesi per effettuare il pagamento decorre, conformemente alla giurisprudenza Cocchiarella c. Italia, dalla data in cui la decisione diventa esecutiva, ossia la data del deposito in cancelleria della decisione Pinto”. Infine, “per quanto riguarda l’argomento del Governo secondo il quale il ritardo sarebbe stato compensato dal fatto di aver ottenuto degli interessi moratori, la Corte ritiene che, considerata la natura della via di ricorso interna, il versamento degli interessi non può essere considerato determinante (v., mutatis mutandis, Simaldone c. Italia, già cit., § 63). La Corte osserva ancora che il fatto di accordare interessi non comporta alcun riconoscimento di violazione e non può riparare il danno morale che ne deriva. Essa ricorda poi di aver stabilito che, nell’ambito del ricorso «Pinto», gli interessati non hanno l’obbligo di avviare una procedura di esecuzione (v. Delle Cave e Corrado c. Italia, n. 14626/03, §§ 23-24, 5 giugno 2007, CEDU 2007 VI). Pertanto, la Corte non capisce bene in che modo il fatto che le autorità nazionali abbiano liquidato ai ricorrenti le spese sostenute nell’ambito di detta procedura possa compensare o rimediare alla violazione del diritto degli interessati a un Tribunale”; B) sull’art. 46 CEDU, va premesso che tale disposizione così prevede: “Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti. 2. La sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione (...)”. 69 Ebbene, ad avviso dei ricorrenti, malgrado la consolidata giurisprudenza CEDU prima richiamata, il Governo italiano avrebbe reiteratamente omesso di adottare misure adeguate a dare attuazione ai principi dalla stessa giurisprudenza affermati. Sul punto, la Corte rileva: “le conclusioni della Corte nella presente causa, nonché il numero di cause, trattate o pendenti, riguardanti il ritardo nel pagamento dei risarcimenti «Pinto», confermano l’esistenza di un problema interno su vasta scala, ossia la difficoltà per le autorità italiane di garantire in un numero considerevole di casi che detti risarcimenti saranno versati entro un termine ragionevole che generalmente non dovrebbe essere superiore a sei mesi dal momento in la decisione di accordare il risarcimento diventa esecutiva”. Dopo aver sciorinato dei dati statistici e dato atto delle diverse sollecitazioni pervenute al Governo italiano affinché lo stesso predisponesse “le risorse di bilancio necessarie allo scopo di evitare che la Corte si ritrovi ad affrontare la stessa situazione, che l’ha già portata a prendere posizione sul problema della lungaggine della giustizia italiana”, la Corte ha concluso nel senso che “lo Stato italiano dovrebbe anzitutto ristabilire l’efficacia della via di ricorso «Pinto», mettendo fine ai ritardi nel pagamento dei risarcimenti accordati dai giudici aditi in virtù della legge «Pinto». Poiché tali ritardi derivano probabilmente da una copertura di bilancio insufficiente, lo Stato dovrebbe prevedere nel proprio bilancio uno stanziamento di fondi più importante al fine di garantire l’esecuzione rapida delle decisioni rese ai sensi della legge «Pinto» entro sei mesi a decorrere dal momento in cui esse diventano esecutive”; C) sull’art. 41 CEDU, la Corte ha ritenuto che “indipendentemente dalle specificità legate a ciascun ricorso, i ricorrenti sono tutti allo stesso modo vittime dell’incapacità delle autorità italiane di garantire il pagamento degli indennizzi «Pinto» entro un termine compatibile con gli obblighi derivanti dall’adesione dello Stato convenuto alla Convenzione dei diritti dell’uomo. 70. Alla luce di quanto precede e deliberando equamente, la Corte ritiene opportuno accordare una somma forfettaria di 200 euro per ciascun ricorso in riparazione del danno morale” (somma che, per inciso, è stata cumulata agli interessi moratori). Sulla questione “legge Pinto” giova segnalare le recenti modifiche introdotte dalla l. stabilità per l’anno 2016 (l. n. 208 del 2015) [sulla “mini-riforma” della legge Pinto, si veda, se si vuole, il mio breve commento su Il Denaro, 19.1.2016]. Per quanto specificamente interessa le questioni relative alle modalità ed ai tempi di pagamento delle obbligazioni pecuniarie nascenti da una pronuncia ex lege Pinto, va esaminato il nuovo art. 5-sexies di tale legge introdotto dal comma 777 lett. l) della l. stabilità citata. Si prevede (comma 1) che ciascun avente diritto inoltri all’amministrazione debitrice una “dichiarazione ai sensi degli artt. 45 e 46 d.p.r. n. 445 del 2000, attestante la mancata riscossione di somme per il medesimo titolo, l’esercizio di azioni giudiziarie per lo stesso credito, l’ammontare degli importi che l’amministrazione è ancora tenuta a corrispondere, la modalità di riscossione prescelta (….)”. 70 Altra novità è rappresentata dalla disposizione del quinto comma, a mente del quale “L’amministrazione effettua il pagamento entro sei mesi dalla data in cui sono integralmente assolti gli obblighi previsti ai commi precedenti. Il termine di cui al periodo precedente non inizia a decorrere in caso di mancata, incompleta o irregolare trasmissione della dichiarazione ovvero della documentazione di cui ai commi precedenti”. Quindi, il termine è di sei mesi, come rilevato dalla Corte, ma decorre dall’assolvimento dell’inedito onere di autocertificazione da parte dell’avente diritto; non sono stanziate nuove risorse per provvedere a tale pagamento (prevedendosi solo che gli stessi possano avvenire mediante anticipazioni di tesoreria con pagamento in conto sospeso […]). Lasciando ad ognuno la valutazione se la norma sia rispettosa o meno dei dicta della CEDU, rileva piuttosto sottolineare che il successivo comma 7 individua una nuova disciplina di favore nell’esecuzione contro le p.a. in quanto: 7. Prima che sia decorso il termine di cui al comma 5, i creditori non possono procedere all'esecuzione forzata, alla notifica dell'atto di precetto, ne' proporre ricorso per l'ottemperanza del provvedimento. Non è chiaro come questa disposizione si coordini con l’art. 14, d.l. n. 669 del 1996: in altre parole, si tratta di stabilire se la disposizione sopra citata (a prescindere dalla sua pressappochistica formulazione letterale, che lascia intendere che l’azione in executivis sia un prius rispetto alla notifica del precetto e non il contrario) rappresenti la fonte disciplinare “compiuta” della esecuzione (nei riguardi dello Stato) per i crediti ex lege Pinto, dovendo la “esecuzione forzata” intendersi come il “processo esecutivo nelle forme ordinarie” (in specie per quanto attiene alla notifica del titolo – aspetto sul quale il legislatore della stabilità “tace clamorosamente” - e del precetto), ovvero se il riferimento all’esecuzione forzata vada inteso come un riferimento alle speciali forme che tale esecuzione deve assumere laddove il debitore esecutato sia una p.a. (e quindi alle forme e soprattutto ai tempi di cui all’art. 14 cit.). Considerato quanto affermato dalla CEDU e considerato che l’amministrazione già gode ai sensi del citato art. 5-sexies di un termine adimplendi di sei mesi prima che possa iniziare l’esecuzione, sarebbe irrazionale ritenere che, in caso di infruttuoso decorso del termine per il pagamento “spontaneo” (“sollecitato” con l’inoltro dell’autocertificazione), occorra attendere un nuovo termine dilatorio, questa volta perché previsto in via generale dall’art. 14, d.l. n. 669 del 1996, alla luce della finalità di questa disposizione così come individuata dalla giurisprudenza costituzionale. 71