L`esecuzione nei confronti della pubblica amministrazione

L’esecuzione forzata (nella forma dell’espropriazione presso terzi) nei
confronti della pubblica amministrazione: rassegna delle più rilevanti
questioni problematiche*
di Alessandro Auletta**
SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. Breve descrizione dell’evoluzione del sistema tra
esigenze di tutela del creditore ed esigenza di controllo dei flussi di spesa. 3.
Norme incidenti sullo svolgimento del processo esecutivo nei riguardi
dell’amministrazione. L’art. 14, comma 1, l. n. 669 del 1996: evoluzione ed ambito
applicativo. Cenni alla questione se tale norma sia applicabile alle società in house.
Le principali questioni problematiche: le azioni esperibili dal debitore e il regime
degli interventi. L’art. 14, comma 1-bis, l. n. 669 del 1996: le principali questioni
problematiche. 4. Norme incidenti sui soggetti dell’esecuzione: la disciplina della
tesoreria unica. Cenni all’ammissibilità del pignoramento sulle “anticipazioni di
cassa”. 5. Norme incidenti sull’oggetto dell’azione esecutiva. A) I vincoli di
indisponibilità derivanti da provvedimento amministrativo. Il “caso” delle aziende
sanitarie e degli enti locali: evoluzione della normativa. L’art. 159 TUEL: la
giurisprudenza costituzionale. Le principali questioni problematiche: quando si
perfeziona il vincolo di impignorabilità e da quando esso è opponibile ai creditori;
quale è la sede delle contestazioni relative alla cogenza di tale vincolo; come è
ripartito l’onere probatorio riguardo alle vicende del vincolo di indisponibilità. Cenni
alla individuazione ed alla latitudine dei poteri istruttori del Giudice. B) I vincoli di
indisponibilità posti direttamente dalla legge: 1) l’art. 1, d.l. n. 313 del 1993 (conv.
con modifiche in l. n. 460 del 1994), ovvero il c.d. pignoramento contabile (le
principali questioni problematiche); 2) l’art. 6, d.l. n. 263 del 2006, conv. in l. n. 290
del 2006 (sulla emergenza rifiuti in Campania); 3) l’art. unico, comma 1348, della l.
n. 296 del 2006; 4) L’art. 1, comma 24, l. n. 228 del 2012. C) Le “gestioni
liquidative”: 1) la procedura di dissesto degli Enti locali e i principi affermati dalla
giurisprudenza costituzionale; 2) la procedura di riequilibrio finanziario; 3) la
vicenda “Policlinico Umberto I”; 4) il “blocco” delle azioni esecutive riguardo alle
ASL site in Regioni commissariate al fine di garantire l’attuazione dei piani di
rientro. La genesi della norma. Le posizioni della giurisprudenza. La declaratoria di
incostituzionalità della normativa. 6. L’esecuzione forzata nei confronti
dell’amministrazione pubblica vista dalla prospettiva della CEDU: il “caso” legge
Pinto, tenuto anche conto delle novità introdotte dalla legge di stabilità per l’anno
2016.
1.
Introduzione.
Il tema della esecuzione coattiva dei crediti nei riguardi delle pubbliche
amministrazioni presenta numerosi risvolti problematici.
*
A supporto della sessione “L’esecuzione nei confronti della pubblica amministrazione” nell’ambito
del Corso di formazione “Il pignoramento presso terzi e l’esecuzione esattoriale”, anno 2016,
presso la Scuola Superiore della Magistratura.
**
Giudice presso il Tribunale di Napoli Nord in Aversa e dottore di ricerca in Diritto amministrativo
presso l’Università degli Studi di Napoli, Federico II.
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Guardando all’evoluzione del sistema dal punto di vista storico possono individuarsi
tre fasi:
A) la fase della sostanziale “irresponsabilità” delle pubbliche amministrazioni;
B) la fase della equiparazione dell’amministrazione debitrice al comune
debitore, sotto il profilo dell’estensione della garanzia patrimoniale;
C) la fase in cui, per effetto di una alluvionale produzione normativa (spesso di
difficile lettura), sono state individuate regole peculiari dell’esecuzione forzata
verso la pubblica amministrazione.
A sua volta, come segnalato in dottrina (Rossi, L’espropriazione presso terzi
di crediti e di cose della pubblica amministrazione, in Auletta F.,
Espropriazione presso terzi, Bologna, 2011, 259 e ss.), la specialità di questo
(variegato) corpus normativo si apprezza sotto tre distinti profili e
precisamente:
1) il profilo procedimentale (quali regole vanno seguite per agire
esecutivamente nei riguardi della p.a.?);
2) il profilo soggettivo (chi sono i soggetti dell’esecuzione forzata nei riguardi
delle pubbliche amministrazioni?);
3) il profilo oggettivo (quali beni – ed in particolare quali crediti – della p.a.
possono essere pignorati? Quali sono le tecniche utilizzate dal legislatore
per limitare la pignorabilità di crediti della p.a.?).
2. Breve descrizione dell’evoluzione del sistema tra esigenze di
tutela del creditore ed esigenza di controllo dei flussi di spesa.
Gli artt. 4 e 5 della legge abolitiva del contenzioso amministrativo (LAC) pongono
una serie di limiti ai poteri cognitori e decisori del Giudice ordinario con riguardo ai
casi in cui una delle parti processuali (ed in specie il convenuto) sia una pubblica
amministrazione.
Non è il caso di analizzare in questa sede in modo approfondito tali limiti, anche in
considerazione del fatto che, relativamente alle sentenze di condanna al
pagamento di somme di denaro, l’impostazione della dottrina e della giurisprudenza
è stata, fin da tempi remoti, quella di ritenere che “l’autorità giudiziaria (…) non può
emettere contro la pubblica amministrazione sentenze di condanna che abbiano un
contenuto diverso dal pagamento di una somma di denaro” (Falzone, Le
obbligazioni dello Stato, Milano, 1960, 406; in dottrina, sul tema v. inoltre Amorth,
Fondamento e limiti delle sentenze di condanna contro la pubblica
amministrazione, in FL, 1937; Malenotti, In tema di limiti della giurisdizione
ordinaria nei confronti della p.a., in GI, 1955; Montesano, La condanna nel
processo civile, anche tra privati e p.a., Napoli, 1957; Id., Processo civile e p.a.,
Napoli, 1960; in giurisprudenza, sulle pronunce adottabili dal GO in considerazione
delle limitazioni poste dagli artt. 4 e 5 LAC, v. Cass. n. 65 del 1954; n. 1239 del
1962; n. 1628 del 1965; n. 504 del 1970).
Con riferimento a questo tipo di condanna, infatti, non emergeva la ragione che
porta a restringere il campo delle sentenze adottabili dall’AGO nei riguardi della
pubblica amministrazione, sul presupposto che la lettera e la ratio della LAC
escludono l’ammissibilità di tutte quelle pronunce che determinino una “sostituzione
della volontà del giudice a quella dell’amministrazione soccombente” (Falzone, loc.
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ult. cit.; d’altro canto, va sottolineato che i tradizionali orientamenti limitativi con
riguardo alle pronunce ammissibili - beninteso al di fuori dell’ambito delle già
ammesse sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro: si pensi alla
materia possessoria – hanno subito, già da tempo, un forte ridimensionamento con
riguardo ai casi in cui la p.a. agisca iure privatorum o sine titulo. Lo ricorda Sandulli,
Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, II, 1246; in giurisprudenza v. Cass.
8.2.1957, n. 2414; 10.3.1965, n. 395; 3.2.1967, n. 303; 17.10.1977, n. 4423).
Malgrado la riconosciuta possibilità di ottenere sentenze di condanna al pagamento
di somme di denaro nei confronti di una p.a., per lungo tempo la Cassazione ha
escluso che, in ordine a tali decisioni, fosse ammissibile l’esercizio dell’azione
esecutiva nelle forme del Codice di rito, in quanto “la Pubblica Amministrazione non
può effettuare pagamenti di somme di denaro se non con l’osservanza del
procedimento previsto per l’emissione dei relativi mandati, in ordine al sollecito
svolgimento del quale il privato non vanta un diritto soggettivo” (Cass. 12.5.1971, n.
1352).
L’ulteriore conseguenza è che “prima dell’emissione del mandato non è
configurabile una mora dell’amministrazione comunale ad emetterlo. (…) Il
creditore è tutelato, contro un eventuale ingiustificato ritardo da parte dell’ente
pubblico, nell’espletamento dei prescritti adempimenti contabili, dalla possibilità di
ricorrere, in quanto portatore di un interesse legittimo, al Giudice amministrativo”
(Cass. 12.5.1971, n. 1352; il principio suesposto verrà superato da Cass.
8.11.1983, n. 6597).
D’altro canto, solo nel 1973 l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha ritenuto
che, per le sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro nei riguardi
della p.a., fosse esperibile il rimedio dell’ottemperanza1.
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Anche se in questa sede si vogliono specificamente analizzare le tecniche di tutela esecutiva nei
confronti della p.a. sperimentabili innanzi al GO, non sembra un fuor d’opera ripercorrere la ratio
decidendi della citata pronuncia della Plenaria, dacché la stessa contiene una serie di interessanti
spunti di riflessione, per molti versi ancora attuali. La sentenza in questione è idealmente scindibile
in tre parti: A) la ricostruzione storica del quadro ordinamentale, ove il Collegio si sofferma a
sottolineare che il rimedio dell’ottemperanza nasce con specifico riferimento all’esigenza di dare
esecuzione alle pronunce dell’Autorità giudiziaria ordinaria che avessero, incidentalmente,
disapplicato provvedimenti amministrativi illegittimi. Siccome, infatti, la LAC prevedeva un “divieto
di repressione dell’Autorità giudiziaria ordinaria” la previsione del rimedio in esame servì a
completare “il sistema delineato dalla legge abolitiva del contenzioso predisponendo gli strumenti
per rendere coercibile l’obbligo di ‘conformarsi al giudicato’, obbligo precedentemente lasciato
dalla legge del 1865 senza la previsione di strumenti coattivi per il suo adempimento”; B) la
individuazione degli orientamenti interpretativi riguardo all’ambito applicativo del rimedio in esame.
L’orientamento prevalente al tempo in cui si è pronunciata la Plenaria era nel senso di
circoscrivere l’ambito applicativo dell’azione di ottemperanza alla esecuzione di decisioni che
importassero l’adozione di provvedimenti autoritativi da parte della p.a., essendo del tutto preluso
al GO muoversi in un ambito coperto, vista la sussistenza di poteri discrezionali, dalla riserva di
amministrazione. Con riferimento alle pronunce di “mera” condanna, trattandosi di attuare un
obbligo adempitivo, non involgente l’adozione di atti autoritativi ma solo attività materiali o
l’adozione di meri atti, si riteneva ultroneo il rimedio in esame. Tuttavia, la Plenaria ritiene di
rivedere l’orientamento della giurisprudenza amministrativa prevalente, rilevando che, tanto
nell’uno quanto nell’altro caso, si tratta pur sempre di procurare l’attuazione di una decisione
giudiziaria rimasta ineseguita da parte dell’amministrazione. La circostanza che tale obbligo sia
coercibile anche nelle forme del processo esecutivo innanzi al GO non esclude la utilità
dell’ottemperanza, che si pone con il primo in rapporto di concorrenza e non di alternatività. Oltre
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La questione problematica, come si intende, non è quindi relativa alla possibilità di
ottenere la condanna della p.a. inadempiente al pagamento del dovuto quanto
piuttosto quella della concreta possibilità di eseguire tale pronuncia.
Nel 1979 si registra un significativo mutamento di giurisprudenza.
Le Sezioni Unite, con sentenza 13.7.1979, n. 4071, hanno affermato i seguenti
principi:
1) deve ritenersi applicabile “anche all’amministrazione dello Stato il canone
generale dell’esecuzione delle condanne pecuniarie contenuto nell’art. 2909
c.c., secondo cui il creditore, per conseguire quanto gli è dovuto, può far
espropriare i beni del debitore secondo le regole stabilite nel Codice di
procedura civile”;
2) ciò posto ci si chiede se le somme di denaro iscritte in capitoli di bilancio
come “crediti” della p.a. siano suscettibili di espropriazione forzata.
È importante notare che, per la prima volta, la Cassazione supera l’idea che
la questione relativa alla pignorabilità di somme sia una questione di
giurisdizione trattandosi di questione di merito (nella specie si trattava di
valutare se i crediti in questione fossero da considerare come canoni locatizi
o come canoni concessori);
3) il bilancio “proprio perché contempla tutte le entrate e tutte le uscite in una
visione globale non consente in alcun modo di collegare singole entrate (e
cioè determinate somme di denaro) a singole uscite (cioè all’espletamento di
determinati servizi); e pertanto non può essere considerato come fonte di un
vincolo di destinazione in senso tecnico di particolari somme, tale da sottrarle
all’azione espropriativa dei creditori dello Stato”;
4) la sussistenza di un corpus normativo speciale sulla contabilità di Stato non è
idoneo, di per sé, ad escludere che il pagamento imposto da una sentenza di
che alla luce dell’evoluzione del sistema, la Plenaria deduce la soluzione positiva da un preciso
dato normativo: la legge istitutiva dei Tar ha infatti previsto la possibilità per il GA di condannare la
p.a. al pagamento di somme di denaro (beninteso in materia di diritti rimessi alla propria
giurisdizione esclusiva) e, contestualmente, ha esteso il rimedio dell’ottemperanza – sorto, si
ripete, per consentire l’attuazione delle sole decisioni del GO – a quelle rese dai Tar e dal
Consiglio di Stato. Tra queste, chiaramente, sono comprese le pronunce recanti la condanna al
pagamento di somme, ragion per cui lo stesso rimedio deve ammettersi per le sentenze di
condanna del GO (solo se passate in giudicato); C) la individuazione degli strumenti concreti a
disposizione del GA quando provvede all’esecuzione di una pronuncia recante la condanna al
pagamento di somme. In questa parte la pronuncia è molto interessante anche perché mette in
evidenza quelli che, almeno nel contesto storico di riferimento, potevano essere i vantaggi
dell’azione di ottemperanza rispetto alla concorrente azione esecutiva innanzi al GO. Premesso
che in materia di ottemperanza i poteri del GA sono quelli tipici di una giurisdizione di merito
(eccezionale per il GA), “l’attività del giudice adito ex art. 27, n. 4 viene ad incidere di regola nella
fase di c.d. procedimentalizzazione della erogazione della spesa, vale a dire nella fase in cui
l’amministrazione è tenuta ad adottare una serie di atti diretti allo scopo di dare concreto
adempimento, con l’emanazione del mandato di pagamento, all’obbligazione pecuniaria”. Rispetto
a questa attività “l’esaurimento dei fondi di bilancio o la mancanza di disponibilità di cassa non
costituiscono legittima causa di impedimento all’esecuzione del giudicato, dovendo
l’amministrazione porre in essere tutte le iniziative necessarie per rendere possibile il pagamento,
procedendo alla liquidazione, alla formazione dei mandati, al reperimento dei fondi, salvo una
eventuale ragionevole rateazione dei pagamenti in relazione alle concrete disponibilità (…)”. Si
tratta di una affermazione molto significativa a fronte della coeva giurisprudenza della Cassazione
che affermava la indisponibilità delle somme iscritte “a credito” nel bilancio della p.a..
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condanna sia “un atto dovuto rispetto al quale all’amministrazione non
residua alcun margine di valutazione comparativa con un (non bene
identificato) interesse pubblico ad esso contrapposto. La situazione quindi è
radicalmente diversa da quella propria delle ipotesi in cui i pubblici poteri
determinano i propri comportamenti apprezzandone l’opportunità in vista
dell’interesse pubblico da perseguire, ma senza il vincolo di una sentenza
che quel comportamento imponga come dovuto”.
Il principio appena esposto va necessariamente letto alla luce della successiva
giurisprudenza costituzionale.
Si allude, in particolare, alla pronuncia n. 138 del 1981 della Corte Costituzionale.
Il Giudice delle leggi era chiamato a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale del
combinato disposto degli artt. 826, ult. comma, 828, ult. comma, 830, ult. comma,
c.c. alla cui stregua (secondo l’interpretazione all’epoca del tutto prevalente) deve
ritenersi che le somme iscritte nei bilanci preventivi della p.a. siano somme
inespropriabili in quanto “destinate ad un pubblico servizio” e quindi ricadenti nel
patrimonio indisponibile dello Stato.
L’orientamento tradizionale, spiega la Corte, era concepito a tutela
dell’indipendenza della amministrazione; indipendenza “che esige che il giudice
ordinario non abbia ad ingerirsi nella condotta degli affari amministrativi, così
influenzando i tempi e i modi di soddisfazione degli interessi pubblici da parte della
amministrazione stessa e quindi raggiungendo risultati praticamente uguali a quelli
propri degli atti amministrativi. Piena doveva rimanere la discrezionalità della P.A.
nell'uso delle proprie risorse patrimoniali, con la conseguenza che, pur ammessa la
possibilità di una condanna pecuniaria, la soddisfazione dei credito con l'azione
esecutiva incontrava il duplice limite dello stanziamento in bilancio della relativa
spesa e dell'emissione del titolo di spesa, ad ottenere il quale non vi sarebbe diritto
soggettivo, stante la discrezionalità della amministrazione nella scelta dei crediti da
soddisfare. Corollario di questa impostazione era che bastava l'iscrizione di somme
o di crediti pecuniari nei bilanci preventivi dello Stato o degli Enti pubblici per farli
qualificare ‘beni... destinati ad un pubblico servizio’ ex art. 828 ultimo comma del
codice civile, quindi inalienabili e correlativamente inespropriabili: sostenendosi, in
particolare, che la legge di approvazione del bilancio non vincola soltanto la P.A.,
ma opera anche nei confronti dei terzi”.
La Corte Costituzionale ha espresso i seguenti principi:
1) la pubblica amministrazione “ha una posizione di preminenza in base alla
Costituzione non in quanto soggetto ma in quanto esercita potestà
specificamente ed esclusivamente attribuitele nelle forme tipiche loro proprie.
In altre parole, è protetto non il soggetto, ma la funzione, ed è alle singole
manifestazioni della P.A. che è assicurata efficacia per il raggiungimento dei
vari fini pubblici ad essa assegnati. Per converso, al di fuori dell'esercizio
delle predette funzioni l'azione della P.A. rientra nella disciplina di diritto
comune e ove venga a ledere un diritto soggettivo, la potenzialità di tutela di
questo affidata al giudice ordinario è completa, incontrando il solo limite del
non potere costui sostituirsi all'amministrazione nell'emanare un atto né
condannarla ad emanarlo”;
2) l’individuazione dei beni “destinati ad un pubblico servizio” presuppone
l’accertamento della esistenza dei un vincolo di destinazione in tale senso;
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3) dalle disposizioni di legge in esame “non è, però, dato desumere alcun
criterio derogatorio rispetto alla regola generale per cui ‘il debitore risponde
dell'adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri’, ai
sensi dell'art. 2740 del codice civile, ed è soggetto alla espropriazione forzata
se non esegue spontaneamente il comando contenuto nella sentenza di
condanna (art. 2910 del codice civile). Tale regola vale anche per lo Stato e
gli Enti pubblici, mentre i limiti di pignorabilità dei loro beni patrimoniali vanno
individuati concretamente, in relazione alla natura o alla destinazione degli
specifici beni dei quali di volta in volta si chiede l'espropriazione, in
conformità della previsione, anch'essa di carattere generale, di cui al
secondo comma del citato art. 2740 del codice civile (ed analogicamente a
quanto disposto dagli artt. 514 e 545 del codice di procedura civile in tema di
impignorabilità di cose mobili o di crediti)”.
4) la non assoggettabilità all'esecuzione forzata delle somme di denaro o dei
crediti pecuniari dello Stato e degli Enti pubblici “può discendere soltanto dal
fatto che essi concorrano a formare il patrimonio indisponibile, e cioè, come
si è visto, dal fatto che essi siano vincolati ad un pubblico servizio ovvero, come, ad esempio, per i crediti tributari - che nascano dall'esercizio di una
potestà pubblica.
Per quanto qui specificatamente interessa, il denaro ed i crediti pecuniari,
traenti origine da rapporti di diritto privato, per la natura fungibile e
strumentale del denaro stesso, difficilmente possono ritenersi assoggettabili
a vincoli di destinazione, a meno che non siano destinati immediatamente,
nella loro individualità, ad un fine pubblico.
Il mero fatto della loro iscrizione nel bilancio preventivo non li può trasformare
in beni patrimoniali indisponibili, così da annullare la responsabilità
patrimoniale dello Stato e degli Enti pubblici. Invero il bilancio preventivo
costituisce strumento di attuazione dei programmi e crea un vincolo nei soli
confronti della P.A.; ma non può incidere sulla sostanza dei diritti soggettivi e
sottrarre il denaro alla responsabilità patrimoniale che opera per legge in una
sfera diversa. Il bilancio preventivo inoltre, in quanto contempla appunto la
previsione di tutte le entrate e di tutte le uscite in una visione globale, non
consente in alcun modo di collegare singole entrate (e cioè determinate
somme di denaro) a singole uscite (e cioè all'espletamento di determinati
servizi) e non può quindi essere considerato come un vincolo di destinazione,
in senso tecnico, di particolari somme”;
5) al contrario “proprio la impossibilità di correlare nell'ambito del bilancio
preventivo determinate somme di denaro o determinati crediti pecuniari a
specifiche voci di spesa, infirma in radice l'argomentazione qui considerata.
Inoltre consentire che la mancata previsione in bilancio degli oneri cui
l'Amministrazione deve sottostare in adempimento delle obbligazioni che le
competono, paralizzi il soddisfacimento del diritto del creditore consacrato in
una sentenza di condanna del giudice, non è neppure conforme ai principi
del buon andamento e della imparzialità dell'Amministrazione”.
La Corte Costituzionale sintetizza i principi suddetti ritenendo:
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a) che di fronte alla sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro la
posizione della p.a. non è diversa da quella di ogni altro debitore sicché
anche nei suoi confronti è esperibile l’esecuzione forzata per espropriazione;
b) i limiti di pignorabilità dei beni patrimoniali dello Stato o degli Enti pubblici
vanno individuati concretamente in relazione alla natura o alla destinazione
degli specifici beni di cui, di volta in volta, si chiede l’espropriazione;
c) la iscrizione nel bilancio preventivo dello Stato o dell’ente pubblico di somme,
di qualunque provenienza, o di crediti (salvo che questi non traggano origine
da rapporti di diritto pubblico, come i crediti tributari: Cass. 15.1.2003, n. 493;
5.5.2009, n. 10284; 17.12.2009, n. 26497) non può paralizzare l’azione
esecutiva, non potendo da essa desumersi un vincolo di destinazione in
senso tecnico idoneo a far ricomprendere tali somme o crediti nell’ambito del
patrimonio indisponibile;
d) rimane salva l’ipotesi che determinate somme o crediti siano vincolati con
apposita norma di legge al soddisfacimento di specifiche finalità pubbliche e
resta impregiudicata la questione sul se tale vincolo possa legittimamente
sorgere in modo diverso.
L’ultima precisazione è rilevante, perché prelude al successivo sviluppo del sistema
[supra lett. C)] nel senso di congegnare regimi peculiari (e talvolta molto diversi tra
loro) alla cui stregua, in virtù della legge o di un provvedimento adottato sulla base
della legge, le somme di pertinenza della p.a. possono essere “vincolate” ad uno
specifico servizio o ad una determinata finalità di interesse pubblico per tale via
restando sottratte all’aggressione esecutiva da parte dei creditori
dell’amministrazione stessa.
Come sottolineato in dottrina [Costantino, L’espropriazione forzata in danno delle
unità sanitarie e dei comuni (un altro capitolo di una storia infinita), in Riv. Trim.
Proc. Civ., 1993, 671 e ss.; più di recente Id., La tutela dei crediti verso le pubbliche
amministrazioni, in Riv. Dir. Proc., 2014, 2, 302] la parificazione della p.a. ad un
comune debitore sotto il profilo dell’estensione della garanzia patrimoniale
(parificazione realizzata grazie agli arresti giurisprudenziali prima citati) presenta
delle problematiche:
1) il processo civile, tanto quello di cognizione quanto quello di esecuzione, si
fondano sul principio dispositivo, ragion per cui la dichiarazione di
impignorabilità dei beni dipende, in linea generale, da una iniziativa
processuale del debitore esecutato da attuarsi nelle forme dell’opposizione
ex art. 615, comma 2, c.p.c. (ma vedi quanto sarà osservato infra): “la rigida
applicazione di questo strumento di tutela consentirebbe la espropriazione
anche dei beni elencati nell’art. 822 c.c.; può avvenire che gli amministratori
pubblici non resistano o resistano con scarsa efficacia alle pretese dei
creditori (…), ovvero si sottraggano, per il tramite del processo, alla
responsabilità derivante dallo spontaneo riconoscimento di una obbligazione”
(Costantino, La tutela dei crediti, cit.);
2) la regola per cui il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con
tutti i suoi beni presenti e futuri (art. 2740 c.c.) mal si attaglia alle
caratteristiche della pubblica amministrazione in quanto:
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i beni suscettibili di essere aggrediti con l’azione esecutiva non sono
“limitati” (o lo sono in una misura del tutto differente), così come
accade laddove si consideri il patrimonio limitato di un debitore privato;
ii)
si tratta di soggetti che non possono cessare la propria attività ed
essere sottoposti a procedure liquidative, così come accade per il
debitore privato (ma v. quanto notato appresso a proposito della
procedure “liquidative”).
La parificazione dello Stato e delle pubbliche amministrazioni ai debitori privati “ha
imposto, quindi, per un verso l’adeguamento in via interpretativa della disciplina
comune e, per altro verso, un controllo dei flussi di spesa” (Costantino, loc. ult. cit.).
Da quanto sopra rilevato possiamo trarre una prima conclusione: in materia di
esecuzione forzata (di crediti) nei confronti della p.a. vi sono due esigenze
contrapposte (tutela del creditore e tutela della “funzione” affidata alla p.a.) il cui
bilanciamento ha descritto un “movimento pendolare” dove si è data volta a volta
prevalenza all’una o all’altra delle suddette esigenze ovvero sono stati forgiati dei
nuovi strumenti esecutivi in deroga a quelli ordinari.
L’impressione che si ricava è che, a mano a mano che si è aggravata la crisi della
finanza pubblica, tali strumenti incidano in senso sempre più marcato sul diritto del
singolo creditore di agire in via esecutiva verso la pubblica amministrazione sua
debitrice.
Dopo la stagione “della parificazione”, si registra, in altri termini, una crescente
intensità dei limiti posti alle azioni esecutive di cui si tratta, al punto che il riequilibrio
del rapporto tra le suddette (contrapposte) esigenze è stato in taluni casi attuato
dalla Corte Costituzionale, laddove si è giudicata “intollerabile” la limitazione del
diritto del creditore di realizzare coattivamente la pretesa portata dal titolo.
La individuazione di strumenti incidenti, in senso limitativo, sulla pignorabilità di
crediti dell’amministrazione attiene per lo più all’area tematica descritta supra sub
C3) [ovvero l’analisi delle normative speciali incidenti sull’oggetto dell’esecuzione
forzata] onde se ne parlerà nella sede appropriata.
i)
3. Norme incidenti sullo svolgimento del processo esecutivo nei
riguardi dell’amministrazione. L’art. 14, comma 1, l. n. 669 del 1996:
evoluzione ed ambito applicativo. Cenni alla questione se tale
norma sia applicabile alle società in house. Le principali questioni
problematiche: le azioni esperibili dal debitore e il regime degli
interventi. L’art. 14, comma 1-bis, l. n. 669 del 1996: le principali
questioni problematiche.
Tra le norme incidenti sullo svolgimento del processo esecutivo (allorché a subirlo
sia una pubblica amministrazione o un ente pubblico non economico) presenta un
notevole interesse pratico – in ragione del suo esteso ambito applicativo – la
disposizione contenuta nell’art. 14, comma 1, d.l. n. 669 del 1996 e ss.mm..
Per quanto la norma abbia subito delle modifiche (anche significative) ne resta
inalterata la funzione di fondo.
La quale è individuata dalla Corte Costituzionale nei termini che seguono:
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a) in una prima occasione, il Giudice delle leggi era chiamato a valutare se la
mancata inclusione nell’ambito applicativo della norma degli enti pubblici
economici rappresentasse una ingiustificata disparità di trattamento.
Nel ritenere infondata la censura, la Corte (sentenza 23.4.1998, n. 142) ha
ritenuto che la ratio della disposizione andasse individuata in ciò che il
differimento dell’esecuzione forzata serve a garantire “uno spatium
adimplendi per l'approntamento dei mezzi finanziari occorrenti al pagamento
dei crediti azionati, persegue lo scopo di evitare il blocco dell'attività
amministrativa derivante dai ripetuti pignoramenti di fondi, contemperando in
tal modo l'interesse del singolo alla realizzazione del suo diritto con quello,
generale, ad una ordinata gestione delle risorse finanziarie pubbliche”;
b) in altra occasione, il Giudice remittente lamentava che l’onere di una nuova
notificazione del titolo ogni qualvolta si intenda procedere (ricavabile dalla
interpretazione della norma) avrebbe implicato “un indubbio svantaggio per il
creditore procedente ed un irragionevole privilegio a favore della Pubblica
Amministrazione esecutata, rispetto alla generalità dei debitori, violando così
il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.”.
La Corte Costituzionale (ordinanza 16.12.1998, n. 463), ricordata la propria
pregressa giurisprudenza, ha dichiarato la manifesta infondatezza della
questione siccome “la disposizione enunciata non deroga al principio di
unicità della notificazione del titolo esecutivo, non potendosi desumere tale
deroga né da una interpretazione testuale della disposizione de qua, non
soccorrendo nella stessa alcun elemento in tal senso, né dalla ratio legis, ben
potendo
l’esigenza,
richiamata
dal
remittente,
di
consentire
all’amministrazione un costante controllo sul debito portato dal titolo
esecutivo, essere adeguatamente soddisfatta, in caso di nuova esecuzione,
dalla necessaria notificazione di un nuovo atto di precetto”.
Alla luce della suddetta finalità – che giustifica la compatibilità della norma anche
con riguardo alla direttiva 2000/35 in materia di lotta contro i ritardi nel pagamento
delle transazioni commerciali: CGUE, 11.9.2007, n. 265 - non può sostenersi la
divisata omogeneità tra i soggetti ricompresi nell’ambito applicativo della
disposizione e quelli che ne restano esclusi.
In dottrina, in senso contrario, si è osservato che, questa essendo la ratio della
disposizione, il legislatore “sembra di certo aver ecceduto lo scopo, dacché il
riferimento nella formulazione letterale agli enti pubblici non economici involge
nell’ambito di operatività della disposizione soggetti che per il pagamento di somme
possono non adoperare lo strumentario della contabilità pubblica” [Rossi, op. cit.,
spec. 346, laddove si richiama la nutrita casistica giurisprudenziale, dal cui esame
emerge un profilo frastagliato dove soggetti molto diversi sono assoggettati alla
disposizione in esame, pur in mancanza, per alcuni di essi, del ritenuto
presupposto giustificativo del termine dilatorio – assicurare l’espletamento delle
procedure di contabilità pubblica occorrenti per provvedere al pagamento
spontaneo. Sono stati fatti rientrare nell’ambito applicativo della disposizione: l’ACI
(Trib. Napoli, 15 dicembre 2008), la Banca d’Italia (Cass. 12.4.2011, n. 8324), il
Consorzio Unico di Bacino per le province di Napoli e Caserta (ma la questione è
oggi controversa, stante il diverso orientamento del Tribunale di Napoli Nord)].
9
Anziché essere troppo ristretta, la compagine dei soggetti riguardati da tale norma
pare, invece, troppo estesa (pur nell’attuale formulazione), considerata la
eterogeneità dell’universo degli enti pubblici non economici e, in una chiave
evolutiva, dello stesso concetto di “pubblica amministrazione”.
Sulla nozione di “pubblica amministrazione” deve registrarsi, rispetto al passato, il
passaggio da una nozione “formale” ad una nozione “funzionale”.
Questo perché il concetto di pubblica amministrazione “in senso soggettivo” tende ad
assumere “contorni sfumati se non addirittura evanescenti” (T.A.R. lazio, Sez. IIIquater, 3 marzo 2008, n. 1938, citata da Clarich, Manuale di diritto amministrativo,
Bologna, 2015, spec. 317).
Nel corso del XX secolo infatti la pubblica amministrazione “ha assunto le sembianze di
una costellazione multilivello e policentrica di apparati” (Clarich, ibidem).
Come si diceva, sono numerosi i casi in cui si prescinde dalla circostanza che un
determinato ente sia, in senso formale, una pubblica amministrazione ai fini del relativo
assoggettamento, in relazione ad uno specifico profilo, ad una disciplina di marca
pubblicistica.
Si pensi a quanto accade in materia di diritto d’accesso agli atti, dove “si intende per
pubblica amministrazione tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato
relativamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o
comunitario” (art. 22, comma 1, lett. e, l. n. 241 del 1990).
D’altro canto che soggetti privati possano essere “preposti all’esercizio di attività
amministrative” è confermato anche da disposizioni di respiro generale ai fini:
1) del regime giuridico applicabile all’attività svolta da tali soggetti (limitatamente alla
parte di attività che qui interessa), come si evince dall’art. 1, comma 1-ter della
legge sul procedimento amministrativo, in forza del quale tali soggetti “assicurano il
rispetto dei principi di cui al comma 1 [vale a dire i principi cardinali dell’azione
amministrativa: etero-determinazione dei fini, economicità, efficacia, imparzialità,
pubblicità e trasparenza, n.d.s.] con un livello di garanzia non inferiore a quello cui
sono tenute le pubbliche amministrazioni in forza delle disposizioni di cui alla
presente legge”;
2) del riparto di giurisdizione, come si evince dall’art. 7, comma 2, c.p.a. alla cui
stregua “per pubbliche amministrazioni, ai fini del presente Codice, si intendono
anche i soggetti ad esse equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del
procedimento amministrativo”.
Queste disposizioni, si ripete, testimoniano la “trasformazione” della nozione di
pubblica amministrazione, ferma restando, però, la necessità di guardare alla singola
disciplina settoriale (che assoggetta queste entità alle regole del procedimento
amministrativo, con quanto ne consegue in punto di giurisdizione) per appurare se un
determinato soggetto avente forma privatistica possa essere equiparato, ai fini della
disciplina settoriale di cui si tratta, ad una pubblica amministrazione.
Per riprendere le parole di una perspicua e recente pronuncia pronuncia del Consiglio
di Stato (Cons. St., Sez. VI, 26.5.2015, n. 2660):
“al contrario, l’ordinamento si è ormai orientato verso una nozione funzionale e
cangiante di ente pubblico. Si ammette ormai senza difficoltà che uno stesso soggetto
possa avere la natura di ente pubblico a certi fini e rispetto a certi istituti, e possa,
10
invece, non averla ad altri fini, conservando rispetto ad altri istituti regimi normativi di
natura privatistica.
Questa nozione “funzionale” di ente pubblico, che ormai predomina nel dibattito
dottrinale e giurisprudenziale, ci insegna, infatti, che il criterio da utilizzare per tracciare
il perimetro del concetto di ente pubblico non è sempre uguale a se stesso, ma muta a
seconda dell’istituto o del regime normativo che deve essere applicato e della ratio ad
esso sottesa. Occorre, in altri termini, di volta in volta domandarsi quale sia la funzione
di un certo istituto, quale sia la ratio di un determinato regime “amministrativo” previsto
dal legislatore, per poi verificare, tenendo conto delle caratteristiche sostanziali del
soggetto della cui natura si controverte, se quella funzione o quella ratio richiedono
l’inclusione di quell’ente nel campo di applicazione della disciplina pubblicistica.
La conseguenza che ne deriva è, come si diceva, che è del tutto normale, per così dire
“fisiologico”, che ciò che a certi fini costituisce un ente pubblico, possa non esserlo ad
altri fini, rispetto all’applicazione di altri istituti che danno rilievo a diversi dati funzionali
o sostanziali.
Emblematica, in tal senso, è la figura dell’organismo di diritto pubblico, che è
equiparato sì all’ente pubblico quando aggiudica contratti (ed è sottoposto alla
disciplina amministrativa dell’evidenza pubblica), rimanendo, però, di regola, nello
svolgimento di altre attività, un soggetto che tendenzialmente opera secondo il diritto
privato”.
L’idea prevalente, quindi, è che la nozione di pubblica amministrazione vada oggi
desunta “induttivamente dalle leggi amministrative settoriali che pongono definizioni o
elenchi di enti e soggetti che rientrano nel loro campo di applicazione. Così può
accadere che alcuni enti o soggetti ricadano in più definizioni legislative e che pertanto
ad essi si applichino cumulativamente i regimi speciali pubblicistici posti dalle leggi
settoriali” (Clarich, ibidem).
Per esemplificare, i principali regimi speciali da considerare sono quelli relativi:
- al pubblico impiego;
- al procedimento amministrativo;
- ai contratti pubblici;
- al patto di stabilità.
D’altro canto, anche all’interno di ognuno di questi corpi normativi, la nozione di
pubblica amministrazione assume contorni differenti a seconda della particolare finalità
sottesa alla norma che si prende in considerazione.
E così, se ai fini della individuazione delle amministrazioni tenute al rispetto del Testo
unico sul pubblico impiego del 2001, i confini della “pubblica amministrazione” sono
estremamente ampi, comprendendo anche enti pubblici non economici, ai fini
dell’applicazione dell’art. 45, comma 3, TFUE – relativo alla libera circolazione dei
lavoratori, che è esclusa per chi svolga “impieghi nella pubblica amministrazione” – il
perimetro della nozione si restringe considerevolmente, atteso che la Corte di giustizia,
prescindendo dalle qualificazioni operate dal diritto interno (si pensi proprio all’art. 1,
comma 2, del TUPI), considera “pubblica amministrazione” solo il nucleo di apparati
che partecipano in modo diretto o indiretto all’esercizio di poteri pubblici e/o alla tutela
degli interessi generali dello Stato (onde vengono esclusi dall’ambito applicativo della
disposizione il personale delle aziende ospedaliere, gli insegnanti delle scuole, i lettori
di lingue nelle Università e, quindi, categorie di lavoratori che, nel diritto interno, sono
assoggettati alle regole speciali del TUPI).
11
Anche in materia di contratti pubblici si assiste ad una simile “relatività” delle nozioni, e
così:
- ai fini della individuazione dei soggetti tenuti al rispetto delle procedure evidenziali
a “regime ordinario” si adotta un criterio estensivo, visto che sono sottoposti a tale
regime, in quanto “amministrazioni aggiudicatrici”, “le amministrazioni dello Stato,
gli enti pubblici territoriali, gli enti pubblici economici e gli organismi di diritto
pubblico” (art. 3, comma 25, Codice dei contratti pubblici);
- ai fini della individuazione dei soggetti sottoposti al regime tipico dei “settori
speciali” (si tratta di un regime pur sempre pubblicistico ma meno “rigido”) si
individua la nozione diversa di “impresa pubblica”, nella quale sono incluse anche
imprese private titolari di “diritti esclusivi” (si pensi ad una società petrolifera
concessionaria del diritto di effettuare ricerche e estrarre idrocarburi).
E ancora, ai fini della soggezione al Patto di stabilità, si fa riferimento ai soggetti inseriti
in un elenco ISTAT aggiornato periodicamente, ma deve ritenersi (alla luce di quanto
sopra affermato) che l’inclusione di un ente in questo elenco non implichi la natura
pubblica tout court di tale soggetto quanto piuttosto solo la relativa equiparazione dello
stesso ad una p.a. ai limitati fini della soggezione alla specifica disciplina settoriale di
cui in questo caso si tratta.
La natura “cangiante” della nozione di pubblica amministrazione ed il suo carattere di
“figura a geometria variabile” a seconda del corpus normativo che si prenda in
considerazione è testimoniata da un caso molto interessante.
Si allude alla questione (a quanto consta non trattata dalla giurisprudenza di legittimità)
se una società in house sia o meno assoggettabile all’art. 14 d.l. n. 669 del 1996 in
ragione della sua “equiparazione” ad una pubblica amministrazione.
Volendo sintetizzare all’estremo un tema di notevole complessità ed attualità (anche in
considerazione delle disposizioni della direttiva 2014/24/UE che dovrebbero
ridisegnare i confini della nozione in senso estensivo, ricomprendendovi anche soggetti
che presentino, entro certi limiti, la partecipazione di capitali privati, mentre sono state
fissate delle soglie di rilevanza del c.d. oggetto dedicato diverse e più ampie di quelle
individuate dalla giurisprudenza nazionale, onde si è posta, con riferimento al CINECA,
la problematica della immediata applicabilità delle norme della direttiva non ancora
trasposta, problematica risolta in modo alterno dalla giurisprudenza e oggetto di un
provvedimento normativo ad hoc da parte del legislatore), l’in house providing è
ritenuta una forma di “autoproduzione” o comunque di erogazione di servizi pubblici
“direttamente” ad opera dell’amministrazione, attraverso strumenti “propri”.
Questa forma è alternativa alla esternalizzazione e la giurisprudenza amministrativa in
atto prevalente ha chiarito che non si tratta di regimi posti in rapporto di
regola/eccezione, ma semplicemente di regimi tra loro diversi e ricollegabili ad una
precisa scelta “strategica” della pubblica amministrazione che decide di gestire un
determinato servizio avvalendosi dell’una o dell’altra forma.
Ebbene, quando la p.a. decide di gestire un servizio in “autoproduzione”, può farlo
anche “servendosi” di una società di capitali, società che però, al di là della forma
privatistica, si configura come una longa manus della pubblica amministrazione in
quanto assoggettata ad un “controllo analogo” a quello che la stessa amministrazione
esercita sui propri organi od uffici.
In ragione della particolare conformazione del rapporto che lega la pubblica
amministrazione e la società in house, va esclusa, al di là del profilo formale, la alterità
12
dei soggetti e, quindi, si può procedere all’affidamento diretto (ossia senza gara) del
servizio.
Il soggetto affidatario è una longa manus della pubblica amministrazione, distinto da
essa solo sul piano formale ma ad essa completamente assoggettato quanto alla
definizione degli indirizzi aziendali.
La giurisprudenza ha, in queste ipotesi, ammesso l’affidamento diretto a società in
house, ma l’ha circoscritto entro limiti molto rigorosi. In specie, si è ritenuto che, per
aversi società in house (e quindi per ammettersi l’affidamento diretto), devono ricorrere
cumulativamente le seguenti condizioni:
1. il capitale della società deve essere interamente detenuto da un soggetto pubblico;
2. la società deve essere istituita con la finalità (che deve potersi rilevare dallo
Statuto) di svolgere la maggior parte della propria attività a favore
dell’amministrazione che partecipa in via totalitaria al relativo capitale (la
giurisprudenza individua questo limite “quantitativo” nel 90% dell’attività sociale, ma
come si è detto la normativa comunitaria di imminente attuazione prevede delle
soglie più basse);
3. il soggetto pubblico deve esercitare sulla società un controllo analogo a quello
esercitato sui servizi svolti in proprio (elemento “indiziato” dalla totale
partecipazione al capitale sociale da parte della p.a., ma da esso formalmente
distinto. Si pensi al caso, controverso, dell’in house c.d. frazionato: in questa
ipotesi, vari soggetti pubblici detengono il capitale azionario della società. Ebbene,
l’ente pubblico che detiene una partecipazione minoritaria non potrà procedere ad
affidamento diretto a favore della società in house difettando il requisito del
controllo analogo controllo esercitato, invece, da altro ente conferente che potrà
procedere all’affidamento diretto. Si pensi ancora al caso dell’in house c.d. a
cascata dove ente affidante e società affidataria sono sottoposti al comune
controllo – e quindi al controllo analogo – di un’altra amministrazione: il caso è
venuto in rilievo con riguardo agli affidamenti diretti da parte della Università di
Amburgo, interamente pubblica, ad una società privata con capitale detenuto da
vari Enti pubblici tra cui la città di Amburgo che controllava interamente la predetta
Università: cfr. CGUE, Sez. V, 8 maggio 2014, in causa C-15/13, Technische
Universitat).
Nondimeno quando una società in house si rivolge al mercato, anche solo al limitato
fine di dismettere una parte del capitale sociale a favore di investitori privati, è tenuta
ad osservare la regola della gara, in virtù dell’art. 3, comma 26, Codice dei contratti
pubblici, che delinea l’ambito soggettivo di applicazione della predetta regola
includendo tra i soggetti tenuti al suo rispetto, oltre alle pubbliche amministrazioni, gli
organismi di diritto pubblico, cui la società in house, quando assume la veste di
stazione appaltante, deve essere senz’altro ricondotta (Cons. St., Ad. Plen., 3.3.2008,
n. 1, su cui v. la nota di commento di Liguori, Acocella, in Foro amm. C.d.S., 2008, 3,
756).
È in questo caso, e limitatamente ai menzionati fini, che opera l’exequatur tra pubbliche
amministrazioni propriamente dette e soggetti che, dal punto di vista formale,
amministrazioni non sono, quantunque risultino alle stesse collegate in modo più
(società in house) o meno (società mista, a partecipazione pubblico-privata) intenso.
Diversamente opinando, alla pubblica amministrazione che intendesse affidare un
appalto senza svolgere una regolare gara sarebbe sufficiente costituire un soggetto
13
formalmente privato (come tale in tesi astratta sottratto alle regole dell’evidenza
pubblica) e delegarlo ad appaltare un certo lavoro o servizio, con conseguente
aggiramento della normativa pro-concorrenziale sopra ricordata.
Ebbene, tornando all’ambito applicativo dell’art. 14, d.l. n. 669 del 1996, quando il
debitore sia una società in house (pensiamo ad una società che gestisca, su
affidamento diretto del Comune, il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi
urbani), ci si chiede se il creditore debba rispettare o meno lo spatium deliberandi
previsto per il caso in cui il debitore sia una pubblica amministrazione in senso formale.
Alla luce di quanto sopra rilevato, a cioè alla luce della considerazione che “ciò che a
certi fini costituisce un ente pubblico, possa non esserlo ad altri fini, rispetto
all’applicazione di altri istituti che danno rilievo a diversi dati funzionali o sostanziali” (v.
ancora Cons. St., Sez. VI, n. 2660 del 2015, cit.), sembra preferibile concludere nel
senso che la “equiparazione” tra p.a. affidante e soggetto affidatario che giustifica
l’affidamento senza gara o che giustifica la necessità di includere le società in house
nella nozione di organismo di diritto pubblico, allorché le stesse si rivolgano al mercato
per individuare una controparte contrattuale, non possa essere automaticamente
trasposta al di fuori degli ambiti appena citati e, per quanto qui interessa, non si può da
essa inferire la automatica sottoposizione delle società in house alla disposizione
dell’art. 14 d.l. n. 669 del 1996.
In questo senso si è orientato il Tribunale di Napoli (sentenza 19.11.2014, in proc.
14619/2013, Giudice Abete) che ha così statuito:
“la qualificazione di un soggetto come società in house, se rileva ai fini prima descritti
(applicazione o meno delle regole in materia di procedure evidenziali) per
l’assoggettamento di queste soggettività ad un regime giuridico peculiare, non può
essere assunta come presupposto concettuale sulla scorta del quale estendere alla
società in house una regola specificamente dettata per la pubblica amministrazione (e
gli enti pubblici non economici), regola che, atteso il suo carattere eccezionale, risulta
insuscettibile di interpretazione analogica (art. 14, disp. prel. c.c.).
Lo spatium deliberandi previsto dal citato art. 14 costituisce, infatti, una sospensione
dell'efficacia del titolo esecutivo che fonda la sua ratio, affatto peculiare (e pertanto non
estensibile a casi diversi da quelli espressamente contemplati), nell’esigenza di
consentire alle pubbliche amministrazioni di completare le procedure preordinate al
pagamento di somme di denaro, procedure che sono rette da norme di contabilità
pubblica. Per questo motivo la notificazione di un atto di precetto in tale fase e la
relativa intimazione ad effettuare il pagamento in un momento in cui l'amministrazione
non è tenuta a procedere, deve ritenersi inutilmente effettuata.
Epperò nel caso della società in house la richiamata esigenza non sussiste, anche in
considerazione del fatto che la stessa, assumendo forma privatistica, agisce
principalmente secondo le norme di diritto comune”.
La questione, peraltro, rivela tutta la sua complessità se si pensa alla discussa
assoggettabilità delle società in house alle procedure fallimentari.
Ad esempio con riguardo a questa specifica problematica la Corte di Cassazione ha
adottato un approccio diverso da quello “disaggregato” che si è sopra proposto (sulla
scia della dottrina amministrativistica e della più recente giurisprudenza del Consiglio di
Stato).
Si legge infatti in Cass. 27.9.2013, n. 22209:
14
“Alla stregua delle considerazioni sin qui svolte, si può, in definitiva, concordare con
l'assunto della ricorrente, secondo cui non è possibile enucleare, in via descrittiva, uno
statuto unitario delle società in mano pubblica, le quali (come può accadere anche a
società a capitale interamente privato) sono assoggettate alle normative pubblicistiche
nei settori di attività in cui assume rilievo la natura pubblica dell'interesse perseguito,
da realizzare attraverso disponibilità finanziarie pubbliche, senza che per questo possa
predicarsene l'appartenenza ad un tertium genus, qualificabile come società- ente,
sottratto in foto al diritto comune.
Ciò che non può condividersi è invece il corollario che da tale premessa [OMISSIS]
intende trarre, che si sostanzia nell'affermazione che la verifica dell'applicabilità alle
società in mano pubblica di discipline di settore pubblico o privato, in difetto di
specifiche disposizioni normative, va compiuta di volta in volta, a seconda della materia
di riferimento ed in vista degli interessi tutelati dal legislatore. In tale ottica, per venire al
tema che in questa sede interessa, secondo la ricorrente non potrebbero essere
dichiarate fallite le società partecipate (fra le quali essa si annovera) aventi carattere
necessario per l'ente territoriale, ovvero quelle che svolgono un servizio pubblico
essenziale, la cui esecuzione continuativa e regolare verrebbe ad essere pregiudicata
dalla dichiarazione di fallimento”.
Del tema, com’è noto, si sono occupate anche le Sezioni Unite della Corte di
Cassazione seppure ai fini del riparto di giurisdizione.
In considerazione dell’atteggiarsi del “controllo analogo” come vera e propria forma di
“subordinazione gerarchica” la S.C. ha ritenuto di disattendere, con riferimento alle
società in house, l’orientamento tradizionale – in linea generale comunque confermato
– in tema di limiti della giurisdizione del giudice contabile nelle cause riguardanti la
responsabilità degli organi di società a partecipazione pubblica (v. in tema Cass. S.U.,
19.12.2009, n. 26806).
Gli amministratori della società in house - proprio perché preposti ad una struttura
equiparabile ad una articolazione interna della p.a. - sono avvinti alla medesima da un
vero e proprio rapporto di servizio e, non ponendosi una distinzione del patrimonio
dell’ente e della società sotto il profilo della titolarità ma solo sotto il diverso profilo della
separazione patrimoniale, il danno inferto al patrimonio della società affidataria ben
potrà essere considerato danno erariale.
Dal che taluno ha tratto argomento per ritenere che le Sezioni Unite abbiano escluso
l’assoggettabilità a fallimento delle società in house.
La giurisprudenza di merito successiva (Corte d’Appello di Napoli, 27.10.2015),
ponendosi la questione della esportabilità delle conclusioni cui è giunta la
giurisprudenza delle Sezioni Unite “in settori diversi rispetto a quello della
responsabilità erariale degli amministratori”, ha invece ritenuto di “accordare al
suesposto impianto motivazionale carattere settoriale e non sistematico”.
Tra i vari argomenti utilizzati a suffragio della tesi in questione (seguendo la quale il
Collegio conferma la pronuncia dichiarativa di fallimento di una società in house,
respingendo il reclamo ex art. 18 LF) assume rilievo quella che segue:
“non solo il riconoscimento ad un determinato soggetto della natura pubblicistica a certi
fini non ne importa automaticamente l’integrale sottoposizione alla disciplina dell’ente
pubblico, ma anche che, in caso di soggetto in house, può parlarsi solo in via
sostanziale di un rapporto di immedesimazione con l’amministrazione, risultando sul
piano formale comunque distinta la personalità giuridica (…).
15
Deve conseguentemente escludersi la possibilità di ritenere, sulla base delle
argomentazioni [svolte dalle S.U., n.d.s.], che le società in house siano escluse
dall’area della fallibilità”.
Chiarita la ratio della disposizione in esame, passiamo ad esaminare il contenuto
del primo comma.
Si prevede un termine dilatorio (originariamente di sessanta giorni e poi esteso a
centoventi) prima della cui scadenza l’esecuzione forzata nei confronti delle
amministrazioni e degli enti pubblici non economici non può essere iniziata.
La disposizione – come ricordato dalla dottrina (Auletta F., nota a Corte Cost.,
30.12.1998, n. 463, in Giur. civ., 1999, 1280) – nasce dalla estensione a tutti i
soggetti pubblici (fatta eccezione per gli enti pubblici economici) di una istanza
avanzata dall’INPS che chiedeva una “condizione di proponibilità” dell’azione
esecutiva sulla falsariga di quanto previsto per le azioni intraprese per ottenere il
risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli in quanto il difetto di
coordinamento tra le varie strutture territoriali dell’ente (in specie quella che si
occupava della fase amministrativo-contabile e quella che si occupava della fase
giurisdizionale) determinava la moltiplicazione delle azioni esecutive iniziate sulla
scorta di un medesimo titolo.
Nella sua versione originaria il primo comma della disposizione in esame così
prevedeva:
“1. Le amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici non economici completano le
procedure per l'esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi
efficacia esecutiva e comportanti l'obbligo di pagamento di somme di danaro entro il
termine di sessanta giorni dalla notificazione del titolo esecutivo. Prima di tale termine il
creditore non ha diritto di procedere ad esecuzione forzata nei confronti delle suddette
amministrazioni ed enti, nè possono essere posti in essere atti esecutivi”.
Tale versione della norma aveva posto vari problemi.
Ci si era chiesti, in specie, se durante la pendenza del termine in questione potesse
o meno essere intimato il precetto.
Aderendo alla tesi positiva, sul rilievo che il precetto è atto preliminare
all’esecuzione ed alla stessa prodromico, si è ritenuto che la inosservanza del
termine attenesse al quomodo dell’esecuzione, rilevando quindi come motivo di
opposizione agli atti esecutivi [in dottrina v. Vaccarella, Postilla (a proposito del
termine di efficacia del precetto), in Riv. esec. forz., 2000, 769; Storto,
L’espropriazione forzata nei confronti degli enti pubblici (con particolare riguardo
agli enti esercenti forme di previdenza ed assistenza obbligatorie) dopo l’intervento
urgente del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, ivi, 2003, 754; in giurisprudenza v.
Cass. 10.3.2003, n. 3530; Cass. 21.12.2001, n. 16143, su cui esprime perplessità
Tatangelo, Questioni attuali in tema di espropriazione forzata presso terzi, con
specifico riferimento all’espropriazione dei crediti della pubblica amministrazione,
ivi, 2003, 408 e ss., spec. 510].
Tuttavia, le successive modifiche della disposizione hanno portato a rivedere
siffatta impostazione (ma in senso contrario v. Storto, L’espropriazione forzata nei
confronti degli enti pubblici, con particolare riguardo agli enti esercenti forme di
16
previdenza ed assistenza obbligatorie dopo l’intervento urgente del d.l. 30.9.2003,
n. 269, in Riv. esec. forz., 2003, 751 e ss.. In particolare, secondo tale A. la
modifica dell’espressione per cui il creditore, prima del termine, “non ha diritto di
procedere ad esecuzione forzata” con l’espressione “non può procedere”
avvalorerebbe la tesi sostenuta dalla giurisprudenza prima citata. Vedi tuttavia infra
quanto ritenuto dalla giurisprudenza più recente).
In specie, per effetto del d.l. n. 269 del 2003 (conv. in l. n. 326 del 2003), la
disposizione è stata così novellata:
“1. Le amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici non economici completano le
procedure per l'esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi
efficacia esecutiva e comportanti l'obbligo di pagamento di somme di danaro entro il
termine di centoventi giorni dalla notificazione del titolo esecutivo. Prima di tale termine
il creditore non può procedere ad esecuzione forzata né alla notifica di atto di precetto”.
Da un lato, l’elevazione del termine a centoventi giorni ha la funzione di impedire la
contestuale notifica di titolo e precetto (prima ritenuta possibile anche tenuto conto
di quanto previsto dall’art. 481 c.p.c.) [Rossi, op. cit., 348]; dall’altro lato, è stato
definitivamente chiarito che il precetto non può essere notificato prima del decorso
del termine contemplato dalla norma (e questo anche al fine di non “caricare” la
p.a. di ulteriori costi: Storto, op. cit..).
In considerazione di quanto sopra, ed in specie alla luce del rilievo che la disciplina
in parola opera su un segmento della vicenda che è anteriore a quello delineato dal
combinato disposto degli artt. 479 e 482 c.p.c. (sull’intervallo di tempo che deve
intercorrere tra il precetto ed il pignoramento, funzionale a consentire al debitore di
evitare l’esecuzione forzata), si è ritenuto che il rispetto del termine in questione
rappresenta una condizione di ammissibilità dell’azione esecutiva.
In particolare, la giurisprudenza ha affermato che “il decorso del termine legale
diviene condizione di efficacia del titolo esecutivo, la cui inosservanza, per
l'inscindibile dipendenza del precetto dall'efficacia esecutiva del titolo che con esso
si fa valere, rende nullo il precetto intempestivamente intimato, con la conseguenza
che la relativa opposizione si traduce in una contestazione del diritto di procedere
all'esecuzione forzata e integra un’opposizione all'esecuzione ai sensi dell'art. 615,
comma 1, c.p.c., non concernendo solo le modalità temporali dell'esecuzione
stessa. Tale lettura della norma di cui all'art. 14 d.l. 31 dicembre 1996 n. 669 è
confermata dalla norma interpretativa introdotta con l'art. 44, comma 3 d.l.30
settembre 2003 n. 269, conv. in l. 24 novembre 2003 n. 326 con la quale è stato
sancito il divieto di procedere alla notifica del precetto prima del decorso del citato
termine” (Cass. 24.2.2011, n. 4498; 20.9.2006, n. 20330; più di recente, nel
medesimo senso, Cass. 23.2.2010, n. 4357; 26.3.2009, n. 7360; 17.9.2008, n.
23732; 11.7.2007, n. 15469; di recente v. Cass. 17.2.2015, n. 3133).
Da ciò si è evinta la rilevabilità d’ufficio della violazione del termine, con
conseguente dichiarazione di inammissibilità dell’azione esecutiva (Trib. Napoli,
25.9.2006; vedi anche T.A.R. Lazio, Roma, 24.1.2008, n. 531; T.A.R. Campania,
Napoli, 26.4.2011, n. 2288; in dottrina v. Rossi, op. cit., spec. 350. Vedi anche
Tatangelo, op. cit., 510, il quale ricava la soluzione positiva dalla disposizione
dell’art. 4, del d.m. 2.4.1997 – sostituito da un d.m. successivo - secondo cui “Le
17
tesorerie dello Stato, in caso di notifica di atti di pignoramento o sequestro contro
amministrazioni dello Stato, effettuano i relativi accantonamenti soltanto nei casi in
cui da tali atti esecutivi si desuma che il relativo titolo esecutivo è stato notificato
all'amministrazione esecutata e questa non ha provveduto al pagamento nel
termine di sessanta giorni di cui all'art. 14, comma 1, del decreto-legge 31
novembre 1996, n. 669, convertito nella legge 28 febbraio 1997, n. 30. Nel casi in
cui dagli atti esecutivi non possa desumersi quanto indicato nel comma precedente,
la tesoreria si astiene dall'eseguire l'accantonamento e nella dichiarazione di terzo
fa presente di non aver effettuato alcun accantonamento in quanto dall'atto di
pignoramento o sequestro non si desume che il relativo titolo esecutivo è stato
notificato all'amministrazione esecutata e che questa non ha provveduto al
pagamento nonostante sia scaduto il termine di sessanta giorni di cui all'art. 14,
comma 1, del decreto-legge 31 dicembre 1996, n. 669, convertito nella legge 28
febbraio 1997, n. 30”).
Altra questione trattata dalla giurisprudenza di merito e, più di recente, dalla Corte
di Cassazione è quella che concerne il rapporto tra la disposizione in esame e l’art.
654 c.p.c. che esclude, ai fini dell’esecuzione, la necessità di una nuova
notificazione del decreto ingiuntivo non ancora esecutivo.
Si è ritenuto da parte dell’una (P. Roma, 20.7.1999) e dell’altra (Cass. 26.11.2010,
n. 24078) che la disposizione contenuta nell’art. 14, d.l. n. 669 del 1996 va
interpretata “nel senso che ha imposto al creditore di detti soggetti, quando debba
procedere sulla base di un titolo esecutivo per il quale l’esecuzione è consentita da
una norma speciale (verso il debitore in genere) – come l’art. 654, secondo comma,
c.p.c. in tema di decreto ingiuntivo – senza previa notificazione del titolo, l’obbligo di
provvedervi, in deroga a tale norma speciale, di modo che solo da essa decorre il
termine dilatorio previsto per iniziare l’esecuzione e comunque per il precetto”.
La pronuncia della Cassazione, in specie, contiene una affermazione che sarà
ripresa dalla giurisprudenza successiva e cioè che
“la deroga che così si avalla alla previsione dell'art. 654, comma 2, ed ad altre
eventualmente presenti nell'ordinamento sempre nel senso di consentire
l'esecuzione senza previa notificazione del titolo, finisce allora per essere una
deroga che non è espressione della sopravvenienza di una lex posterior generalis come sarebbe stata se fosse stata introdotta (per assurdo) nel tessuto del codice
una nuova norma prevedente una notificazione del titolo esecutivo per due volte
con un intervallo temporale e ciò anche senza far salve norme dispositive altrimenti
- bensì è espressione della sopravvenienza di una nuova regolamentazione
speciale di uno specifico minisistema, quello dell'esecuzione contro le
amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici economici, costituente soltanto parte
della norma generale dell'art. 479 c.p.c.”.
con la conseguenza che
“Un contenuto precettivo di meno immediata percezione può, tuttavia, ritenersi
espresso dalla norma anche nel senso che, là dove l'ordinamento non prevedeva
prima di essa a carico del creditore la notificazione del titolo esecutivo formatosi nei
confronti del debitore e questo potesse essere rappresentato anche da
un'amministrazione dello Stato o da un ente pubblico economico, essa diventasse
per questi soggetti comunque necessaria, proprio per assicurare loro lo spatium
previsto dalla norma”.
18
Si discute, infine, sulla applicabilità della disposizione (e segnatamente del termine
dilatorio ivi previsto) di che trattasi agli interventi.
Al riguardo è opportuno fare una precisazione di fondo circa la “funzione”
dell’intervento nel processo esecutivo.
Si può infatti ritenere:
a) che lo stesso vada inteso alla stregua di un atto tendenzialmente assimilabile
a quello con cui il procedente dà avvio all’esecuzione;
b) che si tratti di una mera domanda di partecipazione alla distribuzione della
somma ricavata cui la legge collega il potere di svolgere atti di impulso della
procedura.
Ebbene, intendendo nel primo senso la funzione dell’intervento (come pare
preferibile alla luce della giurisprudenza della Cassazione, anche con riferimento al
“rapporto” tra l’azione esecutiva proposta dal procedente e di quella proposta
dall’interveniente, allorché si è ritenuto che il venir meno della prima – ad esempio
per rinuncia – non implica il venir meno della seconda2), si pone la questione se il
creditore che intenda intervenire in una procedura da altri intrapresa nei confronti
della p.a. debba preventivamente notificare alla stessa il titolo esecutivo ed
attendere il termine di 120 giorni prima di depositare l’intervento (mancando per
l’interveniente la necessità di intimare il precetto).
La dottrina (Rossi, op. cit., 352 e ss.) aveva ricavato la soluzione positiva, in ordine
ai soli interventi titolati, da quanto ritenuto, incidentalmente, dalla Corte
Costituzionale (sentenza 27.10.2006, n. 343): chiamata a pronunciarsi sul comma
1-bis della disposizione (che individua particolari regole di competenza per il
2
La questione è stata rimeditata alla luce delle profonde modifiche recate alla disciplina
dell’intervento nel processo esecutivo, e segnatamente agli artt. 499 e 500 c.p.c., dal d.l. n. 35 del
2005, conv. in l. n. 80 del 2005, in forza delle quali l’intervento nell’espropriazione da altri
intrapresa (che dà diritto a compiere atti di impulso della procedura stessa) è ristretto
tendenzialmente (cioè al di fuori dei casi in cui vi siano delle cause legittime di prelazione da
soddisfare) al creditore che vanti un titolo esecutivo, mentre per i creditori non muniti di titolo
esecutivo la partecipazione al processo esecutivo è affidata a meccanismi surrogatori ovvero
all’accantonamento delle somme per dare comunque modo ad essi di munirsi, medio tempore, di
un titolo esecutivo.
Come si diceva, la riferita riforma ha indotto a modulare il rapporto tra il titolo vantato dal creditore
procedente ed il titolo vantato dal creditore intervenuto in termini diversi dalla (in passato pacifica)
necessaria accessorietà del secondo rispetto al primo: in specie la questione se la caducazione
del titolo esecutivo originario importi la caducazione dell’intero processo esecutivo, anche laddove
vi siano dei creditori intervenuti sulla base di un autonomo titolo esecutivo, un tempo risolta in
senso affermativo (Cass. 13.2.2009, n. 3531), è stata da ultimo oggetto di ripensamento. Le
Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza 7.1.2014, n. 61) hanno affermato che “nel
processo di esecuzione, la regola secondo cui il titolo esecutivo deve esistere dall’inizio alla fine
della procedura, va intesa nel senso che essa presuppone non necessariamente la costante
sopravvivenza del titolo del creditore procedente, bensì la costante presenza di almeno un valido
titolo esecutivo che giustifichi la perdurante efficacia dell’originario pignoramento”.
A tale conclusione, la Suprema Corte è giunta sottolineando che in un sistema “che accoglie il
principio della par condicio creditorum e rifiuta il diritto di ‘priorità’ al creditore procedente (diritto
invece riconosciuto nel sistema tedesco), dal citato art. 500 c.p.c. deve farsi derivare che il
creditore intervenuto munito di titolo esecutivo si trova in una condizione paritetica a quella del
creditore procedente”, con la conseguenza che “una volta iniziato il processo in base ad un titolo
esecutivo esistente all’epoca, il processo può legittimamente proseguire, a prescindere dalle sorti
del titolo originario, se vi siano intervenuti creditori a loro volta muniti di valido titolo esecutivo
19
procedimento esecutivi intrapresi nei riguardi dell’INPS) la Corte ha ritenuto che
anche agli atti di intervento si applicassero le particolari regole di competenza
territoriale ivi previste, sull’assunto che l’intervento, al pari del pignoramento,
rappresenta una possibile declinazione dell’esercizio dell’azione esecutiva e deve
quindi ricevere il medesimo trattamento riservato all’azione esecutiva promossa dal
procedente.
Si proponeva, quindi, “una lettura estensiva – e costituzionalmente orientata – della
locuzione ‘procedere ad esecuzione forzata’ operata dal comma 1 dell’art. 14 e di
assoggettare anche l’intervento alla condizione temporale in esso stabilita, con un
doveroso adattamento per dir così ‘strutturale’: poiché l’intervento non richiede,
quale prodromo necessario, l’intimazione del precetto, il termine dilatorio dei
centoventi giorni va computato, a pena di inammissibilità dell’intervento, dalla
notifica del titolo esecutivo alla data di deposito dell’intervento, che è il momento in
cui viene in tale forma sperimentata l’azione esecutiva” (Rossi, op. cit., 354).
È questa – anche per ciò che concerne il riferito “adattamento strutturale” - la
soluzione seguita da Cass. 18.4.2012, n. 6087.
Al riguardo però una precisazione si impone.
Una lettura superficiale di tale pronuncia potrebbe indurci a ritenere che la
soluzione indicata dalla Cassazione valga indistintamente a seconda che
l’intervento sia fondato su un titolo esecutivo oppure no.
Invero, la vicenda scrutinata dalla S.C. aveva riguardo ad un intervento spiegato
nel vigore della disciplina previgente alle modifiche introdotte dalla d.l. n. 35 del
2005 (conv. in l. n. 80 del 2005) e dalla l. n. 263 del 2005, onde “in base a tale
disciplina previgente, era pacificamente consentito al creditore di dispiegare
intervento in ogni procedura esecutiva, anche se il suo credito non era recato da
titolo esecutivo: ed in tale regime non era prevista di norma alcuna immediata
verifica dei presupposti di ammissibilità dell'intervento - tra cui la certezza, liquidità
ed esigibilità del credito vantato - prima del momento della distribuzione, salvo che
non ne fosse sorta la necessità in tempo anteriore (come ad esempio in caso di
riduzione o conversione del pignoramento), tanto che si escludeva perfino l'onere
dell'interventore di produrre, prima di tali occasioni, i titoli o i documenti giustificativi
del credito azionato (tra le altre, Cass. 19 luglio 2005 n. 15219)”.
La Corte di Cassazione, quindi, pur ritenendo in astratto ammissibile l’intervento del
ricorrente (benché sine titulo) – e ciò sulla base della considerazione che lo stesso
fosse retto dalla disciplina previgente a quella sopravvenuta nelle more della
vicenda giudiziaria concreta -, ha ritenuto, sulla scorta delle motivazioni già indicate
dalla citata dottrina (sebbene con specifico riguardo agli interventi titolati), che gli
interventi siano sottoposti al rispetto del termine dilatorio di centoventi giorni.
Per gli interventi non titolati, quindi, il problema se gli stessi siano o meno soggetti
alla disciplina di cui all’art. 14 si pone ancora. E si pone con specifico riferimento ai
titolari di un credito pecuniario risultante da scritture contabili ex art. 2214 c.c..
Il Tribunale di Napoli, Sezione distaccata di Pozzuoli (15.7.2010), ha dubitato della
legittimità costituzionale dell’art. 499 c.p.c. nella parte in cui inibisce l’intervento non
titolato a soggetti diversi dagli imprenditori (si trattava nella specie di lavoratori) che
siano sprovvisti della documentazione attestante la verosimiglianza della pretesa.
Ai fini della rilevanza della questione il remittente ha giudicato ammissibile
l’intervento non titolato anche nei confronti della p.a. e, sulla scorta di questo
20
assunto, ha ritenuto ingiustificatamente privilegiata la posizione del
debitore/pubblica amministrazione.
La Corte Costituzionale (ordinanza 6.7.2011, n. 202) ha dichiarato la questione
inammissibile sottolineando che la disposizione che consente l’intervento non
titolato per crediti risultanti da scritture contabili ha natura eccezionale rispetto al
principio della par condicio creditorum e non può quindi essere applicata al di là dei
casi espressamente previsti.
Una parte della dottrina, invece, richiamando la pronuncia Cass. 26.11.2010, n.
24078, ha ritenuto che la creazione di “minisistema” implica la specialità della
disciplina contenuta nell’art. 14 “non solo dal punto di vista soggettivo (cioè per i
destinatari della statuizione) ma anche nello stabilire – con la notifica del titolo
esecutivo e il decorso del termine per l’adempimento – un incombente ineludibile
nelle procedure esecutive in danno della p.a., un’attività prodromica necessaria per
i creditori che intendano esperire l’azione esecutiva in tutte le sue possibili
modalità”, ovvero la previa notifica del titolo esecutivo (Rossi, op. cit., 358).
Ne consegue che ogni disposizione che ammette l’esperibilità dell’azione esecutiva
senza la previa notificazione di un titolo (v. pure l’art. 654 c.p.c. e, per quanto qui
interessa, l’art. 499 c.p.c. nella parte in cui ammette l’intervento non titolato fondato
sulle scritture contabili) si pone in contrasto con tale “minisistema” non potendo,
nell’ambito dello stesso, trovare applicazione.
Per mera completezza va analizzata la questione se la speciale disposizione in
esame trovi applicazione anche con riguardo al giudizio di ottemperanza (mentre la
questione dei rapporti tra le due forme di esecuzione, quella prevista dal Codice di
procedura civile e quella prevista dal Codice del processo amministrativo, ha
costituito oggetto di una rilevante pronuncia dell’Adunanza Plenaria3).
Sul punto, due sono le tesi che si contendono il campo:
1) l’orientamento prevalente è nel senso che il termine in questione si applichi
anche all’azione di ottemperanza in quanto, malgrado il testuale riferimento
all’esecuzione forzata, resta pur sempre necessario assicurare alla p.a. un
adeguato intervallo tra la richiesta di pagamento mediante la notifica del titolo
esecutivo e l’avvio della relativa procedura coattiva (T.A.R. Campania,
Napoli, Sez. VII, 16.12.2015, n. 5733; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I,
29.10.2015, n. 12256; Cons. St., Sez. IV, 7.4.2015, n. 1772, laddove si rileva
la “sostanziale identità di ratio con l’esecuzione forzata regolata dal c.p.c.,
trattandosi di istituti che, ancorché per vie diverse e con risultati diversi,
hanno ambedue ad oggetto l’adempimento di obbligazione pecuniaria
derivanti dall’ordine del giudice”);
3
Secondo Cons. St., Ad. Plen., 10.4.2012, n. 2, anche tenuto conto delle disposizioni del Codice
del processo amministrativo, laddove si prevede l’ottemperabilità, con riferimento ai provvedimenti
del GO, non solo delle sentenze passate in giudicato ma anche dei provvedimenti ad esse
equiparati, ha ritenuto che “l'ordinanza di assegnazione del credito resa ai sensi dell'art. 553 c.p.c.,
nell'ambito di un processo di espropriazione presso terzi, emessa nei confronti di una p.a. o
soggetto ad essa equiparato ai sensi del c. proc. amm., avendo portata decisoria (dell'esistenza e
ammontare del credito e della sua spettanza al creditore esecutante) e attitudine al giudicato, una
volta divenuta definitiva, per decorso dei termini di impugnazione, è suscettibile di esecuzione
mediante giudizio di ottemperanza.
21
2) quello che esclude la soggezione del giudizio di ottemperanza all’art. 14, sul
rilievo che tale norma ha carattere “eccezionale” e che quindi non può trovare
applicazione “oltre i tempi e i casi in essa considerati” (T.A.R. Lazio, Roma,
2.2.2015, n. 1844).
Rileva anche l’esame del comma 1-bis dell’art. 14 del d.l. n. 669 del 1996.
Nella versione introdotta nel 2000, per effetto della l. n. 388 – versione
completamente sopravanzata da una successiva novella -, la norma aveva previsto
che:
“Gli atti di pignoramento e sequestro devono essere a pena di nullità notificati presso la
struttura territoriale dell'ente pubblico nella cui circoscrizione risiedono i soggetti privati
interessati e contenere i dati anagrafici dell'interessato, il codice fiscale e il domicilio.
L'ente comunque risponde con tutto il patrimonio”.
Anche questa norma veniva introdotta per venire incontro alle difficoltà dell’Inps
nell’erogare tempestivamente le prestazioni indicate nelle sentenze di condanna.
Nell’ottica di realizzare pienamente quest’obiettivo (che avuto riguardo alla
primigenia formulazione della norma restava in parte non attuato visto che
prescrizione era relativa solo agli atti di pignoramento e non anche a quelli
precedenti) il legislatore, con il d.l. n. 269 del 2003, conv. in l. n. 326 del 2003, ha
previsto lo stesso regime anche per “gli atti introduttivi del processo di cognizione
[e] l’atto di precetto”4.
Con particolare riguardo al primo atto dell’esecuzione ed agli atti propedeutici, la
ratio della disposizione va colta nella esigenza di assicurare che il procedimento di
erogazione sia “gestito” dalla struttura territoriale dell’Ente (specialmente degli Enti
previdenziali rispetto ai quali la difficoltà si è concretamente posta) che abbia “in
carico” il rapporto.
Sempre per effetto della riforma del 2003 al comma 1-bis in esame è stato aggiunto
un nuovo alinea che così stabilisce:
“Il pignoramento di crediti di cui all'articolo 543 del codice di procedura civile promosso
nei confronti di Enti ed Istituti esercenti forme di previdenza ed assistenza obbligatorie
organizzati su base territoriale deve essere instaurato, a pena di improcedibilità
rilevabile d'ufficio, esclusivamente innanzi al giudice dell'esecuzione della sede
principale del Tribunale nella cui circoscrizione ha sede l'ufficio giudiziario che ha
emesso il provvedimento in forza del quale la procedura esecutiva è promossa. Il
pignoramento perde efficacia quando dal suo compimento è trascorso un anno senza
che sia stata disposta l'assegnazione. L'ordinanza che dispone ai sensi dell'articolo
553 del codice di procedura civile l'assegnazione dei crediti in pagamento perde
efficacia se il creditore procedente, entro il termine di un anno dalla data in cui è stata
emessa, non provvede all'esazione delle somme assegnate”.
4
Di modo che il tenore letterale del primo alinea della disposizione è oggi il seguente: Gli atti
introduttivi del giudizio di cognizione, gli atti di precetto nonché gli atti di pignoramento e sequestro
devono essere notificati a pena di nullità presso la struttura territoriale dell'Ente pubblico nella cui
circoscrizione risiedono i soggetti privati interessati e contenere i dati anagrafici dell'interessato, il
codice fiscale ed il domicilio.
22
È stata quindi introdotta – relativamente all’esecuzione intrapresa nei riguardi degli
Enti previdenziali – una particolare regola sulla competenza territoriale: il
pignoramento presso terzi “promosso” verso questi Enti deve essere “instaurato”
esclusivamente innanzi al G.E. della sede principale del Tribunale nella cui
circoscrizione ha sede l’Ufficio giudiziario che ha emesso il provvedimento in forza
del quale la procedura esecutiva è promossa.
La disposizione “deroga dunque al principio tradizionale, rispondente all’esigenza di
causare il minor disagio possibile al terzo [ma vedi oggi quanto previsto dall’art. 26bis c.p.c. in specie al secondo comma, n.d.s.] che non è parte del processo e
radica invece la competenza avendo riguardo alle sole esigenze organizzative del
debitore, con perfetta insensibilità alle eventuali variazioni nell’organizzazione su
base territoriale dei servizi di cassa”, con l’obiettivo “di consentire alla sede Inps
che ha gestito la fase giudiziale contenziosa di seguire anche quella esecutiva”
(Storto, op. cit., 756).
Particolari difficoltà interpretative pone invece la regola per cui “il pignoramento
perde efficacia quando dal suo compimento è trascorso un anno senza che sia
disposta l’assegnazione”.
Se si leggono le varie proposizioni del comma in esame in modo “sequenziale”
occorre ritenere che la disposizione attiene solo alle procedure riguardate dal
periodo antecedente (e quindi solo dalle procedure espropriative presso terzi
intraprese nei riguardi di Enti previdenziali) in quanto se si fosse voluto attribuire a
tale disposizione un ambito precettivo più ampio sarebbe stato necessario inserirla
in un comma a sé state. D’altro canto, a parte questo argomento “sintattico”,
depone nel senso anzidetto la considerazione che la disposizione, per il suo
carattere eccezionale, andrebbe interpretata in modo restrittivo.
È stato poi notato che la norma “con meccanismo assolutamente inedito nel nostro
ordinamento ricollega la perdita di efficacia di un atto di parte (…) ad una condotta
omissiva del giudice che non disponga tempestivamente l’assegnazione dei crediti
pignorati mediante la pronuncia della relativa ordinanza” (Storto, op. cit., 757).
La questione, a dire il vero, si poneva in un quadro normativo diverso, quale quello
anteriore alle riforme del 2005-2006 che – prima ancora delle riforme successive e
più recenti – hanno profondamente inciso sull’assetto regolatorio del procedimento
presso terzi: a quel tempo, infatti, non era prevista la limitazione oggi contemplata
dall’art. 546 c.p.c. (l’importo del credito precettato aumentato della metà) e la
Cassazione era orientata nel senso che “nell’esecuzione presso terzi di somme di
denaro o di prestazioni continuative di somme di denaro, oggetto del pignoramento
non è una quota pari al credito per il quale l’esecutante agisce in via esecutiva, ma
la somma unitaria o frazionata nel tempo di cui il terzo è debitore dell’esecutato”
(Cass. 22.4.1995, n. 4584; con nota di Acone; Cass. 29.1.1999, n. 798; Cass.
4.1.2000, n. 16. Su questo aspetto, vedi di recente Corte Cost., 22.12.2010, n. 368
secondo cui la previsione del limite al vincolo esecutivo del pignoramento
rappresenta il frutto di una scelta non incongrua né irragionevole del legislatore
nell’ottica dell’ottimale contemperamento dei diversi interessi in gioco: da un lato
23
l’interesse del creditore; dall’altro quello del debitore di non subire il “blocco totale”
delle somme di propria pertinenza detenute dal terzo5).
Alla luce del quadro normativo allora vigente e tenuto conto dell’orientamento della
giurisprudenza di legittimità, gli enti debitori correvano il rischio di veder bloccate
ingenti linee di credito a fronte di crediti azionati di importo inferiore, anche perché
– sempre tenuto conto del compendio normativo allora vigente – se si riteneva (ma
come abbiamo già rilevato si tratta di una vexata quaestio) che il momento
perfezionativo del pignoramento coincidesse con la dichiarazione del terzo o con
l’accertamento giudiziale del credito il termine annuale previsto da tale disposizione
decorreva da tale momento: il che portava alla sostanziale vanificazione della ratio
della disposizione, ovvero creare un regime di favore per gli enti previdenziali.
È diffusa in giurisprudenza – pur a fronte di un diverso quadro normativo – l’idea
che il pignoramento presso terzi costituisce una fattispecie complessa a formazione
progressiva che si perfeziona, non con la notificazione dell’atto, ma con
l’individuazione del suo oggetto, ovvero con la dichiarazione positiva del terzo o
con l’ordinanza che accerti l’esistenza del relativo obbligo verso il debitore (Cass.
9.3.2011, n. 5529; Cass. 23.3.2011, n. 6666); tuttavia, si ritiene che la notificazione
del pignoramento segna il momento iniziale dell’esecuzione ed il momento a partire
dal quale ogni atto dispositivo del bene o del credito pignorato è inopponibile al
creditore procedente (Cass. 9.3.2011, n. 5529) ed il momento a partire dal quale il
debitore è facultato a proporre l’opposizione agli atti esecutivi (Cass. 23.3.2011, n.
6666).
Considerato quanto sopra, e guardando al tenore letterale della disposizione (che
si riferisce al “compimento del pignoramento”), si può ritenere che il termine di un
anno decorra dalla notifica del pignoramento: è dubbio se, con riguardo al giudizio
endoesecutivo di accertamento, sia predicabile quella “interpretazione che
consideri la possibilità di ritenere sospeso il termine in questione fino alla
definizione del giudizio di accertamento” che taluno ipotizzava con riguardo alla
disciplina anteriore alle modifiche del 2012 (Storto, op. cit., 758).
Una ulteriore questione interpretativa si è pone con riguardo all’ultimo alinea del
comma in esame:
“L'ordinanza che dispone ai sensi dell'articolo 553 del codice di procedura civile
l'assegnazione dei crediti in pagamento perde efficacia se il creditore procedente, entro
il termine di un anno dalla data in cui è stata emessa, non provvede all'esazione delle
somme assegnate”.
5
A ben vedere si muove nella stessa logica, ed esprime l’idea che tale punto di equilibrio vada
ricercato diversamente, quando ad essere debitrice è una pubblica amministrazione, la futuribile
riforma che può ricavarsi dal disegno di legge n. 2953/A, all’esame del Parlamento, contenente
una delega legislativa per dettare (ulteriori) disposizioni per la efficienza del processo civile.
Tra le varie novità interessanti il processo esecutivo, tutte più o meno criticabili per ragioni che non
è possibile in questa sede approfondire, si segnala quella contenuta nell’art. 1, comma 2, lett. d), n.
1-quinquies relativa alla individuazione del valore del credito azionato nei confronti della pubblica
amministrazione al di sotto del quale il terzo deve accantonare una somma di denaro pari
all’importo precettato aumentato di tre volte. Si vuole cioè prevedere un “doppio binario” in
relazione alla entità della somma da “bloccare” a seconda dell’importo del credito precettato.
24
Ebbene, rilevato che ai sensi dell’art. 553 c.p.c. l’assegnazione avviene “salvo
esazione”, e che ai sensi dell’art. 2928 c.c. “il diritto dell’assegnatario verso il
debitore che ha subito l’espropriazione non si estingue che con la riscossione del
credito assegnato”, si dovrebbe a rigore sostenere che tutte le volte che, entro un
anno dalla data di emissione dell’ordinanza di cui si tratta, non intervenga il
pagamento da parte del terzo, l’ordinanza stessa perderebbe efficacia.
Tuttavia, è stata proposta una diversa interpretazione della norma secondo cui
sarebbe opportuno “sganciare il requisito dall’effettivo incasso del credito
assegnato, prendendo atto che la ratio dell’art. 2928 c.c. è diversa da (e per certi
versi opposta a) quella della norma oggi in esame e che, quindi, il termine ivi
previsto potrebbe ritenersi rispettato con la semplice attivazione di procedure
formali di riscossione, prescindendo dai tempi di realizzazione effettiva del diritto”
(Storto, op. cit., 760).
4. Norme incidenti sui soggetti dell’esecuzione: la disciplina della
tesoreria unica. Cenni all’ammissibilità del pignoramento sulle
“anticipazioni di cassa”.
Assodato che, in linea astratta, deve ammettersi l’azione esecutiva nei confronti
della pubblica amministrazione (sia pure con le particolarità di cui si è detto e di cui
si dirà), occorre fare un passo indietro ed analizzare il contesto in cui viene creato il
sistema della tesoreria unica.
Come rilevato dalla dottrina (Costantino, La tutela espropriativa contro la p.a.. Il
pignoramento di crediti in riferimento al sistema di tesoreria unica, in Mazzamuto, a
cura di, Processo e tecniche di attuazione dei diritti, II, Napoli, 1989, 967 e ss.)
mentre “il denaro esistente presso la sede dell’amministrazione può essere
materialmente appreso dagli organi dell’ufficio esecutivo e quindi da questi
trasferito al creditore procedente (…) il credito, invece, e in particolare i crediti
dell’amministrazione verso il proprio Tesoriere, sono destinati a circolare
esclusivamente in forza di mandati di pagamento, ai sensi degli artt. 325 r.d. 3
marzo 1934, n. 383 e 205, r.d. 12 febbraio 1911, n. 297”.
La deroga a tale disciplina generale – rileva la citata dottrina – è avvenuta in forza
di disposizioni eccezionali, quali l’art. 23, commi 6 e 7, d.l. n. 153 del 1980 e il d.m.
26 gennaio 1981 secondo cui l’espropriazione forzata del pubblico denaro si
compie mediante pignoramento presso gli uffici della Tesoreria dello Stato i quali
provvedono al pagamento mediante “vaglia del tesoro da estinguersi in conto
corrente postale intestato al creditore”.
Ai sensi dell’art. 40, l. n. 119 del 1981 il pubblico denaro va depositato presso la
Tesoreria dello Stato (quantomeno relativamente alle somme eccedenti il 12% delle
entrate previste dal bilancio di competenza), laddove le aziende e gli istituti di
credito che esercitano il servizio di tesoreria a favore degli enti pubblici sono tenuti
ad eseguire operazioni di incasso e pagamento con riguardo a somme di cui
materialmente non dispongono (secondo il regime dell’anticipazione di cassa).
Da tale quadro normativo conseguiva “che le aziende e gli istituti esercenti il
servizio di tesoreria per gli enti pubblici, citati innanzi al (…) Giudice dell’esecuzione
non solo non possono eseguire alcun pagamento ma non possono neppure
rendere una dichiarazione positiva ai sensi dell’art. 547 c.p.c.: essi devono indicare
25
quale depositario del pubblico danaro e debitore del soggetto passivo del processo
esecutivo la Tesoreria di Stato” (Costantino, op. ult. cit., 968).
Dopo una lunga serie di decreti non convertiti, la materia ha trovato nella l. 720 del
1984 la propria disciplina.
In specie, ai sensi dell’art. 1 della citata legge:
Fatti salvi gli effetti prodotti, gli atti e i provvedimenti adottati, nonché i rapporti giuridici
sorti sulla base dei decreti-legge 25 gennaio 1984, n. 5, 24 marzo 1984, n. 37, 24
maggio 1984, n. 153 e 25 luglio 1984, n. 372 , con decorrenza 30 agosto 1984, gli
istituti e le aziende di credito, tesorieri o cassieri degli enti e degli organismi pubblici di
cui alla tabella A annessa alla presente legge, effettuano, nella qualità di organi di
esecuzione degli enti e degli organismi suddetti, le operazioni di incasso e di
pagamento a valere sulle contabilità speciali aperte presso le sezioni di tesoreria
provinciale dello Stato. Le entrate proprie dei predetti enti ed organismi, costituite da
introiti tributari ed extratributari, per vendita di beni e servizi, per canoni, sovracanoni e
indennizzi, o da altri introiti provenienti dal settore privato, devono essere versate in
contabilità speciale fruttifera presso le sezioni di tesoreria provinciale dello Stato. Le
altre entrate, comprese quelle provenienti da mutui, devono affluire in contabilità
speciale infruttifera, nella quale devono altresì essere versate direttamente le
assegnazioni, i contributi e quanto altro proveniente dal bilancio dello Stato. Le
operazioni di pagamento sono addebitate in primo luogo alla contabilità speciale
fruttifera, fino all'esaurimento dei relativi fondi.
OMISSIS
Restava la (già accennata) criticità consistente in ciò, che le operazioni di
pagamento e incasso svolte dai tesorieri sono “a valere sulle contabilità speciali
aperte presso le sezioni di tesoreria provinciale dello Stato”, dal che consegue la
inconfigurabilità di un rapporto di credito-debito tra gli enti pubblici ed i rispettivi
tesorieri (che peraltro neanche detenevano materialmente le somme).
A tale inconveniente ha posto rimedio il legislatore con l’introduzione (ad opera del
d.l. n. 359 del 1987) dell’art. 1-bis della l. n. 720 del 1984, che, nella primigenia
formulazione, così prevedeva:
1. I pignoramenti ed i sequestri, a carico degli enti ed organismi pubblici di cui al primo
comma dell'articolo 1, delle somme affluite nelle contabilità speciali intestate ai predetti
enti ed organismi pubblici si eseguono, secondo il procedimento disciplinato al capo III
del titolo II del libro III del codice di procedura civile, con atto notificato all'azienda o
istituto cassiere o tesoriere dell'ente od organismo contro il quale si procede nonché al
medesimo ente od organismo debitore.
2. Il cassiere o tesoriere assume la veste del terzo ai fini della dichiarazione di cui
all'articolo 547 del codice di procedura civile e di ogni altro obbligo e responsabilità ed
è tenuto a vincolare l'ammontare per cui si procede nelle contabilità speciali con
annotazione nelle proprie scritture contabili.
3. In caso di pignoramenti o sequestri di entrate proprie degli enti ed organismi pubblici
di cui al primo comma dell'articolo 1 eseguiti anteriormente al versamento di queste in
contabilità speciale, il cassiere o tesoriere provvede ugualmente al dovuto versamento
nella contabilità speciale con annotazione del relativo vincolo.
26
4. Restano ferme le cause di impignorabilità, insequestrabilità ed incedibilità previste
dalla normativa vigente, nonché i vincoli di destinazione imposti, o derivanti dalla legge.
La dottrina ha sottolineato che “il significato derogatorio sotto questo aspetto della
disposizione in parola [è] in via di affievolimento a causa del progressivo e graduale
passaggio degli enti locali ad un sistema di tesoreria c.d. mista nel quale una parte
delle entrate (quelle tecnicamente definite come proprie, cioè non direttamente
provenienti o costituite da trasferimenti erariali) sono esonerate dal riversamento
nella tesoreria statale e sono invece detenute presso l’istituto cassiere o tesoriere
che quindi diviene depositario delle relative somme” (Rossi, op. cit., spec. 276-277
e nota 29 per i riferimenti normativi).
Alla stregua di tale dato normativo, quindi, il pignoramento poteva indifferentemente
colpire le somme di pertinenza dell’ente esecutato già affluite nelle contabilità
speciali quanto quelle incassate dal tesoriere ma da questi non ancora riversate
nelle suddette contabilità (Cass. 17.6.1988, n. 4136).
Sennonché il quadro normativo è mutato ulteriormente per effetto della
introduzione, nel tessuto del citato art. 1-bis, del comma 4-bis, che prevede:
“4- bis . Non sono ammessi atti di sequestro o di pignoramento ai sensi del presente
articolo presso le sezioni di tesoreria dello Stato e presso le sezioni decentrate del
bancoposta a pena di nullità rilevabile anche d'ufficio. Gli atti di sequestro o di
pignoramento eventualmente notificati non determinano obbligo di accantonamento da
parte delle sezioni medesime né sospendono l'accreditamento di somme nelle
contabilità intestate agli enti ed organismi pubblici di cui alla tabella A annessa alla
presente legge”.
A fronte della introduzione di tale norma si è posto il problema se la indicazione del
tesoriere quale terzo pignorato implichi l’impossibilità di aggredire crediti che l’ente
esecutato vanti verso diversi soggetti, anche di natura privatistica.
La giurisprudenza di merito appare prevalentemente orientata in senso negativo,
ossia nel senso che l’esecuzione presso terzi intrapresa nei riguardi di un terzo
diverso dal tesoriere debba essere dichiarata inammissibile, anche su rilievo
d’ufficio (Trib. Napoli, 12.12.2005).
In dottrina (Rossi, op. cit., 279 e ss.), peraltro, si ritiene che, fuori dal caso peculiare
in cui il debitore sia un Ente locale (o altro soggetto ricadente nell’ambito di
applicazione dell’art. 159 TUEL), la soluzione da preferire sia quella opposta.
Si rileva, da un lato, che la ratio della disciplina sulla tesoreria sia quella di garantire
una ordinata gestione della contabilità (e rispetto a tale ratio la rilevata
inammissibilità del pignoramento appare ultronea) e, dall’altro lato, che una lettura
costituzionalmente orientata del sistema dovrebbe condurre a ripudiare
orientamenti che portino ad estendere la portata applicativa di ostacoli o
impedimenti al pieno dispiegarsi del diritto di procedere in via esecutiva.
Ed anzi la circostanza che, relativamente agli Enti locali, siffatta possibilità sia
esclusa esplicitamente dalla norma, fa sorgere il dubbio che vi sia, anche per tale
aspetto, un vulnus all’art. 24 Cost. con conseguente auspicio di un “intervento della
Consulta che rimuova dall’ordinamento una condizione di (…) intollerabile sacrificio
del diritto di azione del creditore nei confronti della p.a.” (Rossi, op. cit., spec. 283).
27
Una questione complessa che può porsi nell’ipotesi di pignoramento presso terzi
nei confronti del tesoriere riguarda il caso in cui il rapporto di tesoreria sia gestito
secondo il regime dell’anticipazione di cassa.
Senza per adesso tenere in considerazione le ulteriori complicazioni che si
pongono nel caso specifico di rapporti assoggettati alla l. n. 780 del 1984 (ed ai
decreti attuativi che alla stessa si collegano), vanno preliminarmente sciolti due
nodi interpretativi:
1) quale sia il momento in cui si perfeziona il pignoramento;
2) quale tipo di posizione giuridica soggettiva vanta il debitore nei riguardi del
terzo allorché tra gli stessi intercorra un rapporto di anticipazione.
Con riguardo alla prima questione, si ricorderà che la dottrina e la giurisprudenza
sono divisi, in quanto:
a) secondo una prima tesi il pignoramento, ai fini della nascita di un vincolo di
indisponibilità delle somme, si perfeziona al momento della notifica dell’atto in
questione al debitore ed al terzo e, in particolare, la eventuale dichiarazione
negativa rileva come causa di caducazione di effetti già prodottisi (Verde,
Pignoramento in generale, in Enc. Dir., XXXIII, Milano, 1983, 770);
b) per altra impostazione l’insorgenza del vincolo presuppone la “specificazione”
delle somme di pertinenza del debitore detenute dal terzo il che avviene o
con la dichiarazione dello stesso terzo (nei limiti in cui la stessa sia positiva e
con riferimento all’importo dichiarato) ovvero con l’accertamento giudiziale
del diritto vantato dal debitore nei riguardi del terzo, con riferimento all’an
debeatur ed al quantum debeatur (Tarzia, L’oggetto del processo di
espropriazione, Milano, 1961, 315; Andrioli, Commento al Codice di
procedura civile, III, Napoli, 1964, 79-80, Vaccarella, Espropriazione presso
terzi, in Digesto civ., VIII, Torino, 1992, ad vocem; Colesanti, Pignoramento
presso terzi, in Enc. Dir., XXXIII, Milano 1983, 846);
c) la tesi che sembra essere seguita dalla giurisprudenza più recente è nel
senso che il pignoramento presso terzi integri una fattispecie a formazione
progressiva dove taluni effetti sono già ricollegabili alla notifica dell’atto di
pignoramento (come ad esempio l’obbligo di custodia in capo al terzo come
pure la inopponibilità al creditore pignorante degli atti dispositivi del credito –
si pensi al classico esempio della cessione volontaria del quinto), fermo
restando, però, che la specifica individuazione dell’oggetto del pignoramento
(che, se del caso, sarà oggetto del provvedimento di assegnazione) richiede
la dichiarazione del terzo o, quanto meno, l’accertamento (che può
conseguire anche alla non contestazione in presenza di una allegazione
sufficientemente specifica da parte del creditore) del relativo obbligo.
In definitiva, secondo la ricostruzione in atto prevalente in giurisprudenza, gli
effetti sostanziali del pignoramento si collegano al momento della notifica
dell’atto al debitore ed al terzo (Cass. 9.3.2011, n. 5529; Cass. 23.3.2011, n.
6666. Sul tema v. Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, V ed., Padova,
2015, spec. 1042 e ss.).
Collegata alla questione appena esaminata è quella della inopponibilità al creditore
pignorante non solo degli atti dispositivi, ma anche dei fatti estintivi verificatisi
28
successivamente alla notifica del pignoramento. In questo senso si esprime
chiaramente l’art. 2917 c.c..
Quest’ultima precisazione conduce alla individuazione del secondo ordine di
problemi sotteso alla fattispecie in esame, ossia quello relativo alla qualificazione
della posizione vantata dal debitore nei riguardi della banca quando tra l’uno e
l’altro sussista un rapporto di anticipazione di cassa riconducibile allo schema del
contratto di apertura di credito bancario.
In virtù di questo contratto la banca si impegna verso il cliente a “tenere a
disposizione” somme di denaro a favore di quest’ultimo (art. 1842 c.c.).
Si discute, quindi, se il cliente sia immediatamente creditore della somma (se sia
cioè titolare, rispetto alla anticipazione, di un diritto di godimento) ovvero se
l’impiego dell’anticipazione (art. 1843 c.c.) costituisca l’oggetto di un potere
dispositivo da molti qualificato in termini di diritto potestativo.
Ebbene, laddove tra il cliente e la banca sia convenuto che le somme rimesse a
favore del cliente vengano imputate prioritariamente a titolo di “rientro
dell’anticipazione”, ci si chiede, in definitiva, se tali rimesse, quando intervenute
dopo l’atto di pignoramento (e prima della dichiarazione), ricadano o meno nel
vincolo di indisponibilità che dal pignoramento promana.
Nel caso in cui il cliente sia un ente assoggettato al regime della tesoreria unica e
la banca, appunto, il tesoriere, la vicenda si complica ulteriormente considerato che
l’art. 4, d.m. 4.8.2009 (attuativo della legge sulla tesoreria unica) prevede che
“Le anticipazioni effettuate agli enti ed organismi pubblici dai tesorieri, nei limiti previsti
dalla normativa in vigore, in mancanza di disponibilita' non vincolate nelle contabilita'
speciali in essere presso la Tesoreria dello Stato, devono essere estinte, a cura dei
tesorieri, non appena siano acquisiti introiti non soggetti a vincolo di destinazione sul
conto corrente bancario intestato agli enti e organismi pubblici, ovvero entro il giorno
lavorativo successivo qualora gli introiti siano stati acquisiti sulla contabilita' speciale
presso la Tesoreria dello Stato”.
La giurisprudenza di merito, rispetto alla questione se le somme concesse in
anticipazione siano “colpite” dal pignoramento (quantunque dovrebbero, secondo il
citato decreto, essere utilizzate per il “rientro dall’anticipazione”), appare
prevalentemente orientata in senso affermativo.
Si v. al riguardo Trib. Napoli 12.4.2010/o.
La soluzione affermativa riposa sulla valorizzazione di elementi quali:
- la pignorabilità dei crediti “inesigibili” o eventuali;
- la constatazione che l’apertura di credito non crea un diritto dell’Ente alla
somma messa a disposizione della banca ma un “diritto potestativo” alla
richiesta di erogazione del fido;
- l’attrazione al vincolo pignoratizio di tutte le somme pervenute presso il
terzo successivamente al pignoramento.
Questa giurisprudenza viene criticata da una parte della dottrina (Pucciariello,
Espropriazione presso terzi e servizio di tesoreria: può essere apposto il vincolo ex
art. 543 c.p.c. sulla somma rimessa dalla Regione sul conto corrente assistito da
apertura di credito, in Riv. esec. forz., 2010, 963) dalla quale si osserva –
ricordando una più remota giurisprudenza in senso inverso - che l’accreditato ha la
29
disponibilità economica della somma ma non anche la disponibilità giuridica della
stessa con la conseguenza che l’assegnazione resterebbe subordinata alla mera
volontà del debitore esecutato e sarebbe, quindi, impossibile: “non è quindi
possibile sottoporre a pignoramento il credito futuro, eventuale e condizionato che
l’accreditato vanterà nei confronti della banca quando eserciterà, se lo vorrà, il
potere di esigere le somme messe a sua disposizione, perché la posizione giuridica
attiva non appare in questo momento dotata di capacità satisfattiva futura (P.
Monza, 3.3.1989).
A parere di questa dottrina, se la chiave di lettura della questione è offerta (in un
senso o nell’altro) dalla potestatività della posizione dell’accreditato, occorrerebbe
notare che il diritto potestativo è, di norma, non cedibile; inoltre, la somma
“anticipata” sarebbe impignorabile in quanto non solo temporaneamente inesigibile
ma in quanto non dovuta, essendo la relativa debenza collegata all’esercizio di un
diritto potestativo del debitore. Non vi sarebbe, quindi, una “condizione in senso
tecnico dal momento che il potere di disporre appare piuttosto un elemento
costitutivo del tipo contrattuale e dello schema economico-sociale del contratto di
riferimento: esso appare l’estrinsecazione del potere di determinare l’effetto nella
sfera giuridica della banca trasformando la disponibilità in godimento; costituisce
effetto (seppur eventuale) del contratto stesso, senza il quale non è luogo a parlarsi
del tipo contrattuale di riferimento, e quindi è l’attuazione dell’interesse primario
sotteso all’operazione tipica posta in essere” (Pucciariello, loc. ult. cit.).
In realtà, ad avviso della citata dottrina, il discorso non cambia di molto se si tiene
in considerazione la disposizione regolamentare che obbliga la banca ad utilizzare
le rimesse del cliente in primo luogo per il rientro dell’anticipazione.
Si rileva infatti che questa operazione ha funzione ripristinatoria e non solutoria e
che, pur se avesse quest’ultima funzione, si tratterebbe di una vicenda estintiva
non già del credito pignorato quanto piuttosto relativa “al diverso rapporto costituito
dall’accensione e utilizzazione del fido che non ha creato alcun credito – in senso
tecnico – del correntista” (Pucciariello, ibidem).
La esclusione dell’effetto dell’art. 2917 c.c. con riguardo al “pagamento” effettuato
per il rientro dell’anticipazione appare fondata su una argomentazione artificiosa
perché postula una distinzione tra il “rapporto di base” e quello “di anticipazione di
cassa” che non sembra sussistere nei fatti, laddove l’anticipazione non rappresenta
un rapporto ulteriore che si “somma” a quello di base ma soltanto un modo
d’essere di quest’ultimo.
5. Norme incidenti sull’oggetto dell’azione esecutiva. A) I vincoli
di indisponibilità derivanti da provvedimento amministrativo. Il
“caso” delle aziende sanitarie e degli enti locali: evoluzione della
normativa. L’art. 159 TUEL: la giurisprudenza costituzionale. Le
principali questioni problematiche: quando si perfeziona il vincolo di
impignorabilità e da quando esso è opponibile ai creditori; quale è
la sede delle contestazioni relative alla cogenza di tale vincolo;
come è ripartito l’onere probatorio riguardo alle vicende del vincolo
di indisponibilità. Cenni alla individuazione ed alla latitudine dei
30
poteri istruttori del Giudice. B) I vincoli di indisponibilità posti
direttamente dalla legge: 1) l’art. 1, d.l. n. 313 del 1993 (conv. con
modifiche in l. n. 460 del 1994), ovvero il c.d. pignoramento
contabile (le principali questioni problematiche); 2) l’art. 6, d.l. n.
263 del 2006, conv. in l. n. 290 del 2006 (sulla emergenza rifiuti in
Campania); 3) l’art. unico, comma 1348, della l. n. 296 del 2006; 4)
L’art. 1, comma 24, l. n. 228 del 2012. C) Le “gestioni liquidative”: 1)
la procedura di dissesto degli Enti locali e i principi affermati dalla
giurisprudenza costituzionale; 2) la procedura di riequilibrio
finanziario; 3) la vicenda “Policlinico Umberto I”; 4) il “blocco” delle
azioni esecutive riguardo alle ASL site in Regioni commissariate al
fine di garantire l’attuazione dei piani di rientro. La genesi della
norma. Le posizioni della giurisprudenza. La declaratoria di
incostituzionalità della normativa.
Come anticipato in apertura, a seguito della “parificazione” della pubblica
amministrazione al “comune debitore”, si è aperta una stagione caratterizzata da
una copiosa (e disorganica) produzione normativa volta a limitare, sotto vari profili e
con diverso livello di intensità, la possibilità del creditore di aggredire le somme di
denaro di cui la p.a. disponga presso il tesoriere.
A)
Si ricordano in primo luogo le disposizioni normative a mente delle quali la
“sottrazione” di determinate somme all’azione esecutiva del creditore si verifica in
virtù dell’adozione di un provvedimento amministrativo (adozione che avviene, ben
s’intende, sulla scorta di una norma di legge attributiva del relativo potere) che
“specifichi” le somme destinate ad una determinata finalità (già prevista in termini
generali dalla norma).
È quanto accade con riferimento alla ASL (un tempo USL) e con riferimento agli
enti locali.
Queste discipline hanno disegnato percorsi similari e, come si dirà, reciprocamente
interferenti.
Quanto alle USL, l’art. 1, comma 5, d.l. n. 9 del 1993, conv. con modifiche in l. n. 67
del 1993, nel suo originario tenore letterale, prevedeva:
“le somme dovute a qualsiasi titolo alle unità sanitarie locali e agli istituti di ricovero e
cura a carattere scientifico non sono sottoposte ad esecuzione forzata nei limiti degli
importi corrispondenti agli stipendi e alle competenze comunque spettanti al personale
dipendente o convenzionato, nonché nella misura dei fondi a destinazione vincolata
essenziali ai fini dell’erogazione dei servizi sanitari definiti con decreto del Ministro
della Sanità di concerto con il Ministro del tesoro da emanare entro due mesi dalla data
di entrata in vigore del presente decreto”.
Quanto agli Enti locali, l’art. 11, comma 1, d.l. n. 8 del 1993, conv. con modifiche in
l. n. 68 del 1993, nel suo originario tenore letterale, prevedeva:
31
“1. Non sono soggette ad esecuzione forzata le somme delle regioni, dei comuni, delle
province, delle comunità montane e dei consorzi fra enti locali destinate al pagamento
delle retribuzioni al personale dipendente e dei conseguenti oneri previdenziali per i tre
mesi successivi, al pagamento delle rate dei mutui scadenti nel semestre in corso,
nonché le somme specificamente destinate all'espletamento dei servizi locali
indispensabili quali definiti con decreto del Ministro dell'interno, di concerto con il
Ministro del tesoro, da emanarsi entro due mesi dalla data di entrata in vigore della
legge di conversione del presente decreto, a condizione che la giunta, con
deliberazione da adottarsi per ogni trimestre, quantifichi preventivamente gli
importi delle somme innanzi destinate e che dall'adozione della predetta delibera
la giunta non emetta mandati a titoli diversi da quelli vincolati, se non seguendo
l'ordine cronologico delle fatture così come pervenute per il pagamento o, se
non soggette a fattura, della data di deliberazione di impegno da parte dell'ente”.
Dal confronto tra le due normative si evince una asimmetria per ciò che concerne le
condizioni in presenza delle quali può operare il vincolo di impignorabilità: nel caso
degli enti locali si prevedeva la necessaria adozione di una delibera che
quantificasse gli importi destinati alle specifiche finalità indicate dalla legge e dal
decreto ministeriale e che tale delibera non fosse efficace in caso di emissione di
mandati di pagamento a titoli diversi da quelli vincolati, se fatta in violazione
dell’ordine cronologico.
Se ne è dedotto che la normativa in materia di USL si ponesse in contrasto con
l’art. 3 Cost. sia sotto il profilo della ragionevolezza che sotto il profilo della disparità
di trattamento:
- dal primo punto di vista, infatti, il creditore potrebbe vedersi opposta la
impignorabilità delle somme per vincolo di destinazione delle stesse al
servizio sanitario anche quando il suo stesso credito sia maturato in relazione
all’espletamento di una prestazione connessa a quel servizio o di altro
servizio;
- dal secondo punto di vista, il creditore delle USL disporrebbe di una tutela
deteriore rispetto a quella del creditore degli Enti locali in quanto, ai fini della
insorgenza del vincolo e della relativa efficacia, rileverebbe soltanto
l’adozione del decreto ministeriale richiamato dalla norma e quindi si darebbe
rilievo “esterno” (sotto il profilo della opponibilità ai creditori) ad un atto privo
di tale portata. Al contrario occorre una delibera che specifichi il vincolo di
destinazione con riguardo ad un determinato periodo di tempo. Diversamente
opinando, la destinazione delle somme al pagamento degli stipendi ovvero
all’erogazione di servizi sanitari essenziali è idonea a sottrarre le somme
all’esecuzione forzata promossa dai creditori senza bisogno di esibizione di
ordini specifici di pagamento e dei relativi mandati in data anteriore all’atto
introduttivo del processo esecutivo.
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 285 del 1995, ravvisando la disparità di
trattamento tra le due classi di creditori (quelli delle USL e quelli degli Enti locali) ha
dichiarato la incostituzionalità dell’art. 1, comma 5, d.l. n. 9 del 1993, “nella parte in
cui, per l’effetto della non sottoponibilità ad esecuzione forzata delle somme
destinate ai fini ivi indicati, non prevede la condizione che l’organo di
32
amministrazione dell’unità sanitaria locale, con deliberazione sa adottare ogni
trimestre, quantifichi preventivamente gli importi delle somme innanzi destinate e
che dall’adozione della predetta delibera non siano emessi mandati a titoli diversi
da quelli vincolati, se non seguendo l’ordine cronologico delle fatture così come
pervenute per il pagamento o, se non è prescritta fattura, dalla data della
deliberazione di impegno da parte dell’ente”.
Rileva segnalare che l’art. 35, comma 8, d.l. n. 66 del 2014 (conv. con modifiche in
l. n. 89 del 2014) ha modificato la norma in questione (oltre che per i profili
riguardanti la denominazione delle USL) nel senso che segue:
al comma 5 (…) alla fine, sono aggiunte le seguenti parole: “A tal fine l'organo
amministrativo dei predetti enti, con deliberazione adottata per ogni trimestre,
quantifica preventivamente le somme oggetto delle destinazioni previste nel primo
periodo.”
Una questione del tutto simile, in quanto in una certa misura speculare a quella
appena richiamata, ha riguardato l’art. 113 d.lgs. n. 77 del 1995 (come modificato
dal d.lgs. n. 36 del 1996 ed oggi abrogato dal TUEL) che ha previsto, relativamente
agli Enti locali, che:
“2. Non sono soggette ad esecuzione forzata, a pena di nullità rilevabile anche d'ufficio
dal giudice, le somme di competenza degli enti locali di cui all'art. 1, comma 2,
destinate a:
a) pagamento delle retribuzioni al personale dipendente e dei conseguenti oneri
previdenziali per i tre mesi successivi;
b) pagamento delle rate di mutui e di prestiti obbligazionari scadenti nel semestre in
corso;
c) espletamento dei servizi locali indispensabili.
3. Per l'operatività dei limiti all'esecuzione forzata di cui al comma 2 occorre che
l'organo esecutivo, con deliberazione da adottarsi per ogni semestre e notificata
al tesoriere, quantifichi preventivamente gli importi delle somme destinate alle
suddette finalità.
4. Le procedure esecutive eventualmente intraprese in violazione del comma 2 non
determinano vincoli sulle somme nè limitazioni del tesoriere”.
Con ordinanze di rimessione del Pretore di Napoli (Sezione distaccata di Pozzuoli)
e del Pretore di Catania è stata messa in dubbio la legittimità costituzionale di tale
normativa.
In particolare, avuto riguardo alla disciplina delle USL, come risultante a seguito
della pronuncia n. 285 del 1995 della Corte Costituzionale, il creditore di un ente
locale verrebbe a trovarsi in una posizione irragionevolmente deteriore rispetto a
quella del creditore di una USL in quanto mentre l'ente locale esecutato potrebbe,
agli effetti dell'impignorabilità (delle somme di sua pertinenza), limitarsi ad opporre
al creditore procedente la delibera di quantificazione delle somme destinate ai fini
indicati dal legislatore, la unità sanitaria locale sarebbe tenuta anche a provare che
dalla data di detta deliberazione non sono stati emessi - a titoli diversi da quelli
33
vincolati - mandati di pagamento se non seguendo uno specifico ordine
cronologico.
Ne consegue la violazione del principio di eguaglianza di cui all'art. 3 della
Costituzione.
Una ulteriore violazione dello stesso principio viene ravvisata dal rimettente nella
rilevabilità d'ufficio della nullità, sancita dal secondo comma della disposizione
denunciata, per effetto della quale il creditore di un ente locale, diversamente da
quello di una unità sanitaria locale, potrebbe veder frustrata la propria pretesa
esecutiva anche in mancanza di opposizione da parte del debitore esecutato.
Si osserva ancora che la ampiezza della tutela giurisdizionale del creditore
potrebbe dipendere da una scelta difensiva dell’Ente esecutato: se quest’ultimo non
proponga opposizione all’esecuzione per dedurre il vincolo di impignorabilità e
questo sia rilevato d’ufficio dal Giudice dell’esecuzione con ordinanza dichiarativa
della nullità del pignoramento, essendo in questo caso esperibile la sola
opposizione agli atti esecutivi, vi sarebbe la perdita di un grado di giudizio.
Merita qualche cenno anche la difesa svolta dall’Avvocatura dello Stato.
Si rileva, in particolare, che la sentenza n. 285 del 1995 avrebbe “integrato la
disciplina delle USL mediante un rinvio non recettizio alla disciplina degli Enti locali
e che, pertanto, la successiva modificazione di quest’ultima si estenderebbe
direttamente alla prima facendo venir meno la disparità di trattamento denunciata
dal ricorrente”, poiché a fronte del rinvio mobile la norma richiamata viene assorbita
da quella che la richiama non in modo “fisso” ma siccome tale norma “vive”
nell’ordinamento di appartenenza.
Volendo intendere invece il rinvio operato dalla pronuncia come un rinvio recettizio
ne discenderebbe una preclusione in capo al legislatore di modificare la normativa
“recepita”, e ciò esulerebbe dai poteri della Corte Costituzionale.
Al riguardo la Corte Costituzionale (sentenza 12-20.3.1998, n. 69) osserva:
“In proposito, una precisazione appare necessaria. Secondo quanto sostenuto
dall'Avvocatura dello Stato poiché la sentenza n. 285 del 1995 disporrebbe per le
unità sanitarie locali un rinvio non ricettizio alla disciplina degli enti locali, la
intervenuta modificazione di quest'ultima si comunicherebbe direttamente alle unità
sanitarie locali eliminando in radice la stessa possibilità di una qualsiasi diversità tra
le due discipline (e tra le due categorie di enti).
L'erroneità della tesi risiede nello stesso presupposto da cui muove, posto che il
riferimento ad un rinvio non ricettizio asseritamente operato con la più volte citata
sentenza non trova alcun conforto nella lettera e nel contenuto della stessa
sentenza.
Privo di fondamento è anche l'assunto della difesa erariale della immodificabilità
della disciplina delle unità sanitarie locali quale conseguenza per così dire
necessitata del carattere ricettizio del rinvio. È, infatti, evidente che una sentenza di
questa Corte non può in alcun caso comportare una limitazione della libertà del
legislatore diversa da quella rappresentata dall'osservanza della Costituzione.
Mentre va dunque ribadita la persistente diversità di disciplina tra unità sanitarie
locali ed enti locali, quel che si tratta di accertare è se tale diversità risulti o meno
conforme alla Costituzione”.
Partendo da tale premessa, e cioè che le normative in materia di USL e di Enti
locali sono differenti (questa volta perché la seconda implica un trattamento
34
deteriore del creditore rispetto alla prima), la Corte Costituzionale ritiene che siffatta
differenziazione sia irragionevole e quindi censurabile alla stregua dell’art. 3 Cost..
In particolare la Corte Costituzionale osserva:
“In proposito, attesa la identità delle questioni affrontate, debbono essere
richiamate le considerazioni svolte da questa Corte nella citata sentenza n. 285 del
1995 riguardo sia all'omogeneità delle due situazioni giuridiche (delle unità sanitarie
locali e degli enti locali) poste in confronto che alla irragionevole disparità di
trattamento in cui si traduce la diversità di disciplina di tali categorie di enti (e dei
rispettivi creditori). La norma denunciata accordando, come si è visto, ai soli enti
locali la possibilità di opporre l'impignorabilità di somme di denaro
indipendentemente dalla osservanza di un determinato ordine cronologico
nell'emissione di mandati a titoli diversi da quelli vincolati risulta immotivatamente
diversa da quella in vigore per le unità sanitarie locali ed in quanto tale lesiva del
principio costituzionale di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione.
Si deve, pertanto, far luogo ad una dichiarazione di incostituzionalità che, nei limiti
dell'ordinanza di rimessione, riconduca la disposizione denunciata in termini
corrispondenti alla disciplina prevista dall'art. 1, comma 5, del d.l. n. 9 del 1993,
convertito nella legge n. 67 del 1993, come risulta a seguito della sentenza di
questa Corte n. 285 del 1995”.
Ne è conseguita la dichiarazione dell’illegittimità costituzionale della norma
censurata “nella parte in cui non prevede che l'impignorabilità delle somme
destinate ai fini ivi indicati non opera qualora, dopo l'adozione da parte dell'organo
esecutivo della delibera semestrale di quantificazione preventiva degli importi delle
somme stesse, siano emessi mandati a titoli diversi da quelli vincolati, senza
seguire l'ordine cronologico delle fatture così come pervenute per il pagamento o,
se non è prescritta fattura, delle deliberazioni di impegno da parte dell'ente”.
Riguardo agli Enti locali va analizzata, oggi, la disciplina contenuta nell’art. 159
TUEL.
Per comodità del lettore si riporta il testo della disposizione:
1. Non sono ammesse procedure di esecuzione e di espropriazione forzata nei
confronti degli enti locali presso soggetti diversi dai rispettivi tesorieri. Gli atti esecutivi
eventualmente intrapresi non determinano vincoli sui beni oggetto della procedura
espropriativa.
2. Non sono soggette ad esecuzione forzata, a pena di nullità rilevabile anche d'ufficio
dal giudice, le somme di competenza degli enti locali destinate a:
a) pagamento delle retribuzioni al personale dipendente e dei conseguenti oneri
previdenziali per i tre mesi successivi;
b) pagamento delle rate di mutui e di prestiti obbligazionari scadenti nel semestre in
corso;
c) espletamento dei servizi locali indispensabili.
3. Per l'operatività dei limiti all'esecuzione forzata di cui al comma 2 occorre che
l'organo esecutivo, con deliberazione da adottarsi per ogni semestre e notificata al
tesoriere, quantifichi preventivamente gli importi delle somme destinate alle suddette
finalità.
35
4. Le procedure esecutive eventualmente intraprese in violazione del comma 2 non
determinano vincoli sulle somme nè limitazioni all'attività del tesoriere.
5. I provvedimenti adottati dai commissari nominati a seguito dell'esperimento delle
procedure di cui all'art. 37 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, e di cui all'art. 27,
comma 1, n. 4, del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, emanato con regio
decreto 26 giugno 1924, n. 1054, devono essere muniti dell'attestazione di copertura
finanziaria prevista dall'art. 151, comma 4, e non possono avere ad oggetto le somme
di cui alle lettere a ), b ) e c ) del comma 2, quantificate ai sensi del comma 3.
La disposizione rappresenta l’esito del tormentato iter normativo testé passato in
rassegna.
Malgrado ciò il legislatore aveva originariamente subordinato l’efficacia del vincolo
alla sola adozione e notifica al tesoriere della delibera di impignorabilità (senza far
alcun riferimento a situazioni che determinassero l’inefficacia di quel vincolo).
Di questo aspetto di è occupata Corte Cost., 18.6.2003, n. 211.
Ben presto, infatti, la giurisprudenza ha rilevato la sostanziale identità tra la
disposizione in esame e quella (contenuta nell’art. 113 d.lgs. n. 77 del 1995)
dichiarata incostituzionale diversi anni prima, sul rilievo che la stessa implicasse,
rispetto alla disciplina prevista per le USL (così come incisa, a sua volta, dalla
sentenza n. 285 del 1995), una ingiustificata disparità di trattamento quanto alle
condizioni di (in) efficacia del vincolo di impignorabilità.
È stato ancora rilevato che il tertium comparationis a suo tempo invocato è ancora
in vigore cosicché, pur volendo prescindere dal fatto che l’art. 159 TUEL abbia
sostanzialmente tradito la ratio decidendi della pronuncia riguardante l’art. 113 cit.,
continuerebbe a sussistere una ingiustificata disparità di trattamento tra il creditore
di una USL (frattanto diventata ASL) e quello di un Ente locale, visto che per il
primo e non per il secondo “l’impignorabilità sarebbe condizionata anche
all’osservanza, da parte dell’esecutato, di un determinato ordine nei pagamenti
relativi a titoli diversi da quelli vincolati”.
La Corte Costituzionale, dopo avere dichiarato inammissibile la questione relativa
alla previsione del rilievo ufficioso della impignorabilità (siccome nel giudizio a quo
la stessa era stata fatta valere dal debitore)6, ha ritenuto fondata la questione sopra
sinteticamente richiamata sostenendo:
“La norma impugnata, per la parte che interessa, riproduce, infatti, il testo dell'art.
113 del d.lgs. n. 77 del 1995 che, come si è ricordato, è stato dichiarato
costituzionalmente illegittimo con la sentenza n. 69 del 1998.
Questa Corte ebbe, allora, ad osservare che, stante la omogeneità delle situazioni
giuridiche riferibili, rispettivamente, alle unità sanitarie locali ed agli enti locali, del
tutto irragionevole risultava la disparità di trattamento della disciplina censurata
nella parte in cui disponeva la impignorabilità delle somme di danaro destinate alla
6
La Corte di Cassazione è tornata sull’argomento allorché si era nuovamente dubitato della
previsione del potere officioso del G.E., profilo che avrebbe rappresentato una intollerabile
asimmetria rispetto ad altre discipline similari ove tale potere non è contemplato. Nel rifuggire i
paventati dubbi di costituzionalità la Corte di Cassazione ha ritenuto che “l’impignorabilità quando
prevista per ragioni di pubblico interesse e cioè a tutela di un interesse pubblicistico è sempre
rilevabile d’ufficio, così elidendosi la rilevanza della mancata espressa previsione: Cass.
31.8.2011, n. 17873.
36
realizzazione degli scopi essenziali degli enti locali senza condizionarla, in
conformità a quanto previsto per le unità sanitarie locali, alla inesistenza di
pagamenti c.d. preferenziali e cioè effettuati da tali enti senza l'osservanza di un
determinato ordine cronologico.
Le medesime considerazioni si ripropongono con riferimento alla disciplina ora
impugnata.
Per effetto di essa, infatti, si determina, in violazione della garanzia della par
condicio creditorum, la identica, irragionevole, disparità di trattamento fra ente
locale ed azienda sanitaria, già dichiarata incostituzionale da questa Corte, nessun
rilievo avendo la circostanza - evidenziata dalla Avvocatura dello Stato - che
nell'ordinamento sanitario vigente le unità sanitarie locali siano state sostituite dalle
aziende sanitarie locali.
Per un verso, infatti, è applicabile a tali aziende la disciplina riguardante le unità
sanitarie contenuta nell'art. 1 del d.l. n. 9 del 1993, così come risultante a seguito
della sentenza n. 285 del 1995 di questa Corte, per altro verso, le aziende stesse
sono caratterizzate dagli stessi scopi propri delle unità sanitarie locali.
È, d'altra parte, significativo che la stessa immotivata diversità normativa
riscontrabile fra la disciplina applicabile agli enti locali e quella riferibile alle aziende
sanitarie si ripresenti, in maniera altrettanto ingiustificata, ove si confronti la prima
con l'art. 11, comma 1, del decreto-legge 18 gennaio 1993, n. 8 (Disposizioni
urgenti in materia di finanza derivata e di contabilità pubblica), tuttora in vigore
limitatamente alle esecuzioni in danno delle regioni, che prevede, quale condizione
per la non assoggettabilità ad esecuzione forzata delle somme di danaro delle
regioni, che non siano stati effettuati pagamenti, per titoli diversi da quelli vincolati,
se non seguendo l'ordine cronologico delle fatture o, in assenza di queste, delle
deliberazioni di impegno da parte dell'ente stesso.
Si deve, pertanto, fare luogo ad una dichiarazione di incostituzionalità della
disposizione denunciata negli stessi termini di cui alla citata sentenza n. 69 del
1998”.
Ciò detto è indispensabile chiarire:
a) quando si perfeziona il vincolo di impignorabilità e da quando esso è
opponibile ai creditori;
b) quale è la sede delle contestazioni relative alla cogenza di tale vincolo;
c) come sia ripartito l’onere probatorio riguardo alle vicende del vincolo di
indisponibilità.
Riguardo alla questione sub a), due sono le tesi che si contendono il campo (ed è
bene notare, sin da ora, che la condivisione dell’una o dell’altra importa
conseguenza applicative di rilievo):
i)
una parte della dottrina (Vaccarella, Impignorabilità di somme “vincolate”
dall’ente locale, in Riv. esec. forz, 2006, 3), ha ritenuto che il
perfezionamento del vincolo è subordinato ad una duplice condizione.
Segnatamente:
1) una condizione positiva, consistente nella adozione di una delibera di
quantificazione;
37
2) una condizione negativa, consistente nella mancata emissione di
mandati di pagamento a titolo diverso violativi dell’ordine cronologico
dei pagamenti.
ii)
per altra parte della dottrina (Rossi, op. cit., 2969) e per la giurisprudenza
(Cass. 16.9.2008, n. 23727; Cass. 27.5.2009, n. 12259; Cass. 21.2.2011,
n. 4207), invece, l’adozione della delibera implica di per sé la nascita del
vincolo mentre la emissione di mandati di pagamento a titolo diverso in
violazione dell’ordine cronologico delle fatture rileva come circostanza
(peraltro eventuale) che incide su un vincolo già perfetto.
Diversamente opinando, il perfezionamento del vincolo di impignorabilità
sarebbe “in continuo, mutevole divenire e privo di una sua collocazione
temporale precisa occorrendo a questo scopo sempre verificare per tutto il
tempo successivo all’approvazione della delibera (fatto positivo) la
mancata emissione di un mandato siffatto (fatto negativo)” [Rossi, ibidem].
In sintesi:
1) l’adozione della delibera è sufficiente ai fini del perfezionamento del
vincolo. Il diverso e successivo momento della notifica al tesoriere
incide solo sui “rapporti interni” tra questo e l’ente debitore, in quanto
solo dalla notifica della delibera di impignorabilità il tesoriere è tenuto a
“bloccare” le somme indicate in tale delibera.;
2) l’emissione di mandati di pagamento a titolo diverso è fatto estintivo del
vincolo;
3) il rispetto dell’ordine cronologico dei pagamenti per titoli diversi
rappresenta un fatto impeditivo del dispiegarsi dell’effetto estintivo
connesso all’emissione dei mandati di pagamento a titolo diverso.
Discussa è anche la questione della opponibilità del vincolo, che:
i)
per una prima impostazione è collegata all’adozione della delibera in data
anteriore alla fornitura, da parte del terzo, della dichiarazione di quantità.
Se quindi la delibera viene emanata dopo la notifica del pignoramento ma
prima della dichiarazione di quantità il vincolo dalla prima derivante
sarebbe opponibile al creditore.
Questa soluzione è stata seguita da una isolata pronuncia della Corte di
Cassazione (Cass. 27.1.2009, n. 1949);
ii)
per altra impostazione – che muove da una diversa ricostruzione della
fattispecie del pignoramento presso terzi e, su un piano pratico, dalla
motivata preoccupazione che, a seguire l’orientamento sub i), si darebbe
agli Enti locali una facile scappatoia per sottrarsi all’esecuzione (già)
promossa nei loro riguardi – è opponibile al creditore solo quella delibera
che sia stata adottata e munita di efficacia in data anteriore alla notifica
del pignoramento (Cass. 24.4.2008, n. 10654; Cass. 18.1.2000, n. 496).
È questa la soluzione preferibile.
Si ritiene che, da questo momento, il vincolo di impignorabilità operi nei riguardi di
tutti i creditori e cioè, in ipotesi, anche del creditore che vanti un diritto collegato ad
uno dei “titoli” di cui all’art. 159, comma 2, TUEL (ovvero ad esempio un credito di
lavoro o un credito collegato all’espletamento di prestazioni connesse ad un
servizio pubblico indispensabile).
38
A fronte di chi invoca la necessità di un intervento della Consulta (Rossi, op. cit.,
304), si colloca la posizione di quella dottrina (Costantino, L’espropriazione forzata
in danno delle unità sanitarie e dei Comuni, cit., spec. 868) che (sebbene con
riferimento – quanto agli enti locali - al quadro normativo previgente, ma il discorso
è valido anche con riferimento alle norme conferenti del TUEL) ha rilevato che “non
è inopportuno ricordare che, tra diverse possibili interpretazioni, l’interprete è tenuto
ad accogliere quella più aderente ai principi deducibili dalla Costituzione, mentre il
rilievo della illegittimità costituzionale costituisce l’ultima ratio alla quale occorre fare
ricorso, quanto né l’interpretazione letterale sé quella storica e sistematica si
rivelano idonee a conciliare la norma con i valori fondamentali dell’ordinamento”.
Si impone così una lettura costituzionalmente orientata alla cui stregua “le
limitazioni alla garanzia patrimoniale ed i vincoli di indisponibilità non sono
opponibili al personale dipendente o convenzionato e a coloro che vantano crediti
relativi alla erogazione dei servizi sanitari, per i quali la USL ha vincolato specifici
fondi”.
Riguardo alla questione prospettata supra sub b) [quale è la sede delle
contestazioni relative alla cogenza di tale vincolo], si registrano opinioni divergenti:
i)
alla stregua di una prima “nell’espropriazione forzata presso terzi,
l'eccezione che il credito verso il terzo non è assoggettabile ad
esecuzione forzata costituisce motivo di opposizione agli atti esecutivi e
non di opposizione all'esecuzione, trattandosi di contestazione attinente
non al diritto di procedere ad esecuzione forzata, ma alla procedibilità di
questa, ed alla stessa qualificazione occorre pervenire quando l'eccezione
riguardi il fatto che la dichiarazione resa dal terzo sia inficiata da errori, o
che la somma da assegnare non sia stata determinata correttamente. Tali
principi valgono anche quando il debitore (come nella fattispecie) sia un
ente locale che si sia avvalso del potere di destinare a finalità specifiche le
somme di sua competenza nei limiti indicati dall'art. 113 del d.lg. n. 77 del
1995 (modificato dall'art. 39 del d.lg. n. 336 del 1996 e riprodotto nell'art.
159, comma 2, del d.lg. n. 267 del 2000), con la conseguenza che le
contestazioni con le quali, sotto profili diversi, l'ente locale fa valere
ragioni concernenti il rispetto delle procedure di imposizione del vincolo di
indisponibilità sulle predette somme, comportante l'impignorabilità delle
stesse ad opera di terzi creditori, configurano motivi di opposizione agli
atti esecutivi” (Cass. 20.2.2006, n. 3655; più di recente v. Cass.
27.6.2014, n. 14639; contra Cass. 28.2.2006, n. 4507; Cass. 19.5.2003, n.
7761);
ii)
è invece più diffusa sia in dottrina (Rossi, op. cit., 306, con ulteriori
richiami; Tatangelo, op. cit., spec. 522) che in giurisprudenza (Cass.
11.1.2007, n. 387; Cass. 16.11.2005, n. 23084) l’idea che una simile
contestazione debba svolgersi nelle forme dell’opposizione all’esecuzione
in quanto attinente alla “pignorabilità” dei beni aggrediti (al riguardo si
segnala altresì Cass. 31.8.2011, n. 17878 che ha ritenuto ammissibile
l’opposizione agli atti esecutivi proposta contro l’ordinanza di
assegnazione per far valere la impignorabilità del credito ma solo nel caso
in cui il debitore abbia già contestato detta impignorabilità nelle forme
dell’opposizione all’esecuzione, contestazione ribadita al momento della
39
dichiarazione del terzo e non tenuta in considerazione nell’ordinanza di
assegnazione stessa);
iii)
per altra impostazione – a quanto consta del tutto minoritaria – “i vincoli di
indisponibilità (…) e le limitazioni alla garanzia patrimoniale (…) qualora
siano opposti dal terzo tesoriere e contestati dal creditore sono destinati
ad essere accertati esclusivamente nell’ambito del giudizio previsto
dall’art. 548 c.p.c.” (Costantino, op. ult. cit., 687).
Quest’ultima impostazione è criticata:
- in modo drastico da chi osserva che “contrariamente a quanto affermato
talvolta da alcuni giudici dell’esecuzione deve escludersi che [una simile
contestazione, n.d.s.] comporti una contestazione in merito alla dichiarazione
di quantità tale da giustificare l’instaurazione di un giudizio dell’obbligo del
terzo. A tale giudizio potrà farsi luogo esclusivamente nel caso in cui il
creditore non contesti l’operatività del vincolo, ma il contenuto della
dichiarazione di quantità, sostenendo, ad esempio, che contrariamente a
quanto dichiarato dal terzo esistono disponibilità di fondi in misura superiore
a quella degli importi vincolati” (Tatangelo, loc. ult. cit.; si tratta peraltro di una
posizione che riflette l’orientamento della giurisprudenza di legittimità
secondo cui sono estranee al giudizio di accertamento del terzo tutte le
questioni integranti la materia tipica delle opposizioni esecutive: Cass.
8.1.2004, n. 101; Cass. 12.3.2004, n. 5153; Cass. 27.1.2009, n. 1949; Cass.
4.10.2010, n. 20595);
- in modo più argomentato da chi (Rossi, op. cit., 306 e ss.):
1) in primo luogo valorizza i poteri officiosi del Giudice della esecuzione che,
in sintesi, troverebbero ragion d’essere nella particolare rilevanza degli
interessi sottesi alla apposizione del vincolo di indisponibilità. In specie,
nell’esercizio di tali poteri, il Giudice dell’esecuzione potrebbe, anche dopo
la fornitura da parte del terzo di “chiarimenti”, dichiarare con ordinanza la
improcedibilità ovvero la estinzione. In questo caso l’ordinanza resa dal
G.E. potrebbe essere gravata attraverso opposizione agli atti esecutivi
(Cass. 16.11.2005, n. 23084);
2) e in secondo luogo osserva che, laddove il G.E., utilizzando il proprio
potere officioso, risolva in senso sfavorevole al debitore questioni che
potevano essere trattate in sede di opposizione all’esecuzione ex art. 615,
comma 2, c.p.c., lo strumento di tutela che compete al debitore esecutato
sarebbe, pur sempre, quello della opposizione all’esecuzione in quanto “si
rimane nell’ambito della contestazione di procedere all’esecuzione forzata
o della pignorabilità dei beni” (come rilevato da Oriani, L’opposizione agli
atti esecutivi, Napoli, 1987, spec. 164).
In disparte quanto previsto dall’art. 548, ultimo comma, c.p.c. (che si riferisce ad
ipotesi diverse da quella qui passata in rassegna), va però richiamato il diverso
orientamento della Corte di Cassazione secondo cui il sindacato sulla legittimità
dell’ordinanza resa dal G.E. che statuisca sulla impignorabilità ex art. 159 TUEL si
attua in ogni caso – e cioè anche quando, a fronte del mancato rilievo officioso,
l’opposizione provenga dal debitore – nelle forme dell’opposizione agli atti
esecutivi: specificamente, il debitore utilizzerà questo strumento per impugnare
l’ordinanza di assegnazione (per esempio deducendo il mancato esercizio del
40
potere di rilievo officioso della impignorabilità delle somme), mentre il creditore
utilizzerà lo stesso strumento per impugnare l’ordinanza che – sul rilievo del
carattere impignorabile delle somme staggite – statuisca nel senso della
improcedibilità o della estinzione della procedura (Cass. 16.9.2008, n. 23727).
Questa impostazione è criticata dalla dottrina in commento sulla scorta di
argomenti di natura sistematica “ed appare, se paragonata all’altra soluzione,
improntata ad un minor rigore formale: mal si comprende, infatti, come la questione
di impignorabilità possa subire una sorta di mutazione genetica se fatta valere dopo
la pronuncia del G.E., divenendo da motivo (…) di opposizione all’esecuzione
ragione di opposizione agli atti esecutivi, con perdita ‘secca’ di un grado di giudizio
(Rossi, op. cit., spec. 321, ove vengono individuate della “esigenze di natura
pratica” che potrebbero giustificare il criticato orientamento. Essenzialmente, si
rileva da parte del citato A. che l’opposizione all’esecuzione potrebbe risolversi in
un’arma spuntata “per mancanza di uno spazio temporale che ne consenta la utile
proposizione, e vanificare così le possibilità di difesa contro un provvedimento in
thesi errato: ragioni senza dubbio apprezzabili ma che lasciano fermi gli aspetti di
criticità della ricostruzione innanzi rimarcati”) [v. anche Cass. 31.8.2011, n. 17878
che a determinate condizioni ammettete la proponibilità dei motivi relativi alla
impignorabilità in sede di opposizione agli atti esecutivi avverso la ordinanza di
assegnazione].
Ebbene, la tesi secondo cui le contestazioni relative alla esistenza ed alla latitudine
di un vincolo di impignorabilità potrebbero trovare collocazione nell’ambito
dell’accertamento (oggi endoesecutivo) dell’obbligo del terzo, allo stato del tutto
minoritaria, merita, forse, di essere riconsiderata.
Va infatti rilevato – pur nella piena consapevolezza che altro sono le contestazioni
rientranti nella disciplina dell’art. 615, comma 2, c.p.c. ed altro le contestazioni sulla
dichiarazione che possono dar luogo ad un accertamento del (contestato) rapporto
tra debitore e terzo - che:
- le modifiche intervenute negli ultimi anni sono nel senso di individuare dei
casi in cui il G.E. “conosce per eseguire” e probabilmente non è casuale, se
si tiene conto di quanto ritenuto da Cass. 16.9.2008, n. 23727, che l’ultima
modifica dell’art. 549 c.p.c. vada proprio nel senso di prevedere che
l’ordinanza con cui il Giudice dell’esecuzione chiude il giudizio endoesecutivo
di accertamento sommario dell’obbligo del terzo sia impugnabile nelle forme
e nei termini di cui all’art. 617;
- il confine tra i casi in cui il debitore contesti tout court che le somme sono
impignorabili (nel qual caso dovrebbe, stando alla tesi di cui sopra, esperire
l’opposizione ex art. 615, comma 2, c.p.c.) e i casi in cui si contesti una
“inesattezza” della dichiarazione, nel punto in cui sono additate come “libere
da vincoli” somme che non sono tali (nel qual caso, trattandosi di definire
innanzitutto l’ammontare esatto della disponibilità dell’Ente presso il
tesoriere, si verte nella materia disciplinata dall’art. 549 c.p.c.) può in
concreto rivelarsi labile ed incerto;
- la tutela offerta dall’art. 615, comma 2, c.p.c. può dimostrarsi meno efficace
di quella offerta (nell’ipotesi in cui si condividesse la conclusione in esame)
dall’art. 549 c.p.c.. Ed infatti, in un caso (e sempre che non sia intervenuta
l’ordinanza di assegnazione), il debitore potrebbe ottenere la sospensione
41
della procedura e non - a rigore (e salvo l’intervento officioso del Giudice) – la
liberazione delle somme pignorate; ciò che invece ben può accadere all’esito
del giudizio sommario di accertamento (nell’ambito del quale la rilevabilità
officiosa dei vincoli resta ammessa), laddove il G.E. si risolva nel senso che
della indisponibilità delle somme.
Oltretutto, aderendo a questa impostazione, il rimedio offerto
dall’ordinamento sarebbe il medesimo sia che lo invochi il creditore (ad
esempio deducendo la inefficacia in parte qua della delibera di
impignorabilità) sia che lo invochi il debitore e, ancora, sarebbe lo stesso il
rimedio “impugnatorio” concesso avverso l’ordinanza emanata dal G.E.
all’esito dell’accertamento endoesecutivo.
Il che potrebbe indurre a ritenere che il legislatore abbia inteso creare, con
riferimento alle questioni relative alla “impignorabilità” siccome evincibile dalla
dichiarazione di quantità o comunque ad essa connessa, un mini-sistema
che vive di regole proprie e parzialmente diverse rispetto a quelle generali in
tema di opposizioni.
Riguardo alla questione sub c) [ripartizione dell’onere probatorio riguardo alle
vicende del vincolo di indisponibilità], si sono susseguiti diversi orientamenti:
i)
l’orientamento più risalente (criticato in dottrina: Vaccarella,
Impignorabilità, cit., spec. 588 e ss.) addossava l’onere della prova al
creditore (Cass. 6.6.2006, n. 13263, secondo cui sul creditore procedente
grava l’onere di dimostrare “l’emissione di mandati di pagamento per titoli
diversi da quelli vincolati e senza seguire l’ordine indicato dalla legge”);
ii)
più di recente, invece, in ossequio al principio di vicinanza dell’onere della
prova, la giurisprudenza ha ritenuto che il creditore procedente che
intenda far valere l'inefficacia del vincolo di destinazione ha “l’onere di
allegare gli specifici pagamenti per debiti estranei eseguiti
successivamente alla delibera, mentre, in base al principio della vicinanza
della prova, spetta all’Ente locale provare che tali pagamenti sono stati
eseguiti in base a mandati emessi nel rispetto del dovuto ordine
cronologico” (Cass. 16.9.2008, n. 23727; Cass. 27.5.2009, n. 12259);
iii)
da ultimo, peraltro, la giurisprudenza ha fornito un notevole contributo al
fine di individuare le condizioni ricorrendo le quali si può dire che il
creditore abbia soddisfatto l’onere di allegazione su di lui gravante.
In una perspicua pronuncia, la S.C., condividendo l’impostazione di fondo della
giurisprudenza sub ii), ha precisato che il creditore assolve l’onere della prova
incombente su di lui adducendo “numerose circostanze di fatto”7 dalle quali sia
desumibile “il sospetto” (così testualmente) della sussistenza dell'indicata
condizione preclusiva (ossia la violazione dell’ordine cronologico dei pagamenti),
mentre è stato, per altro verso precisato che tale allegazione non è validamente
contrastata dalla produzione di una mera certificazione proveniente da uno degli
organi o uffici dell'ente, in quanto, nel processo civile, salvo specifiche eccezioni
previste dalla legge, nessuno può formare prove a proprio favore, tanto più che il
7
Si noti che, nella massima disponibile sulle principali banche dati in uso, il termine “numerose”
viene omesso.
42
giudice, specie a fronte dell'impossibilità per il creditore di fornire ulteriore prova,
può disporre consulenza tecnica di ufficio [Cass. 26.3.2012, n. 4820].
Siffatto orientamento appare maggiormente in linea con una ricostruzione della
vicenda (relativa alla operatività ed alla eventuale inefficacia dei vincoli ex art. 159
TUEL) secondo cui:
a) l’adozione ad opera degli organi esecutivi dell’ente pubblico di una delibera
periodica di quantificazione degli importi necessari ai fini ex lege previsti
rappresenta il fatto costitutivo del vincolo di indisponibilità;
b) l’emissione di mandati di pagamento per titoli diversi o estranei agli impieghi
protetti integra fatto estintivo degli effetti del vincolo e, pertanto, secondo il
parametro di cui all’art. 2697 c..c., riferibile al creditore procedente;
c) il rispetto dell’ordine cronologico da seguire per l’effettuazione dei pagamenti
dei titoli diversi va qualificato come fatto impeditivo dell’operare della vicenda
estintiva del vincolo di cui alla lett. b), quindi una circostanza ascrivibile
senz’altro all’Ente esecutato (in questi termini si v. Rossi, op. cit., 330).
Discende da quanto sopra, tenuto conto del principio della vicinanza della prova
(costantemente affermato in giurisprudenza non solo con riguardo alla materia di
cui si tratta), che:
i)
l’avvenuta emanazione del vincolo in maniera opponibile al ceto creditorio
della delibera di quantificazione delle somme deve essere allegata ed
asseverata dall’Ente locale che ne assume l’esistenza. Al riguardo, è
appena il caso di precisare che è inopponibile ai creditori soltanto la
delibera di quantificazione degli importi vincolati ex art. 159 TUEL adottata
e minuta di efficacia in data successiva all’ingiunzione formulata all’ente
debitore con la notifica dell’atto di pignoramento ex art. 543 c.p.c. (Cass.
24.4.2008, n. 10654);
ii)
il creditore procedente al fine di derivare l’inefficacia della delibera di
destinazione delle somme nei suoi confronti è tenuto ad allegare (ma non
già dimostrare) l’emissione di mandati di pagamento per debiti estranei
alle finalità protette. All’uopo la allegazione non può essere generica ma
va compiuta in modo specifico con l’esplicitazione degli elementi
determinanti per rendere inoperante il vincolo di indisponibilità (elementi
che devono essere plurimi): epoca del pagamento (successivo alla
delibera di impignorabilità), sua giustificazione causale (ascrivibile a
prestazioni esulanti dal novero dei servizi essenziali e quindi comportanti
l’impiego di somme per scopi diversi dalla destinazione impressa con la
delibera);
iii)
laddove il creditore assolva all’onere impostogli ricade sull’Ente esecutato
che voglia giovarsi del vincolo di impignorabilità provare che il pagamento
ex adverso dedotto è stato eseguito per servizi indispensabili vincolati con
la delibera oppure provare la corrispondenza cronologica dei mandati
emessi per titoli diversi da quelli vincolati all’ordine delle fatture pervenute
per il pagamento ovvero, quanto non sia prescritta fattura, alla sequenza
temporale delle deliberazioni di impegno di spesa.
Si discute circa i poteri istruttori del Giudice dell’esecuzione (a prescindere dalla
questione di quale sia la sede in cui gli stessi sono esercitati: v. supra) al fine di
43
accertare l’esistenza o (soprattutto) l’efficacia di un vincolo di indisponibilità ex art.
159 TUEL (ma il discorso vale tal quale anche per le ASL).
A parte il potere di richiedere “chiarimenti” al terzo, attesa la sua funzione di
ausiliario del Giudice (Cass. 18.12.1987, n. 9407), risulta, in specie, problematica
l’ammissibilità di un ordine di esibizione rivolto all’Ente esecutato con riferimento
alle determine e/o ai mandati di pagamento emessi in violazione della delibera di
impignorabilità, laddove prevedano impegni di spesa (o dispongano pagamenti) per
finalità estranee a quelle contemplate nella delibera di impignorabilità medesima
senza tener conto dell’ordine cronologico che è viceversa doveroso osservare (in
dottrina, v., in senso affermativo, Costantino, L’espropriazione forzata in danno
delle unità sanitarie e dei comuni, cit., spec. 694).
Sia consentito richiamare al riguardo una recente decisione del Tribunale di Napoli
Nord (resa nel contesto di una parentesi di accertamento ex art. 549 c.p.c.: v. quanto
sopra affermato circa le ragioni per le quali sarebbe questa la sede ove discutere della
sussistenza ma soprattutto dell’efficacia della delibera di impignorabilità - rectius: della
sussistenza di fatti estintivi del vincolo) con riferimento ad una ipotesi ove:
i)
l’allegazione del creditore circa l’avvenuta emissione di mandati di pagamento a
titolo diverso ed in violazione della delibera era limitata alla menzione di una
singola determina di spesa (di cui si indicavano gli “estremi” e la “causale”);
ii)
la mancata allegazione di elementi ulteriori - tali da sostanziare “il sospetto”
della sussistenza di circostanze di fatto dalle quali sia desumibile il sospetto
della sussistenza della condizione preclusiva – era ostacolata dal
comportamento neghittoso della p.a. esecutata la quale aveva oscurato il
proprio sito internet – e segnatamente la sezione dedicata alla pubblicazione
delle determine di spese;
A questo punto il Tribunale – pur consapevole dell’indirizzo della giurisprudenza di
merito che reputa inammissibile l’ordine di esibizione allorché i documenti di cui si
tratta siano ostensibili attraverso una istanza di accesso agli atti ex art. 22 e ss., l. n.
241 del 1990, ragion per cui il richiedente l’ordine di esibizione dovrebbe quanto meno
dimostrare di essersi attivato in tal senso, ma senza risultati – ha ritenuto che nella
specie fosse possibile ordinare alla p.a. l’esibizione delle determine di spesa e/o dei
mandati di pagamento relativi ad un certo periodo, successivo alla delibera di
impignorabilità.
In specie si è osservato:
“Tornando al thema probandum, e ritenuto che il Giudice possa, in astratto, avvalersi
dei mezzi istruttori disciplinati dal II Libro del Codice di rito, adattandoli al carattere
sommario della cognizione, in un ottica di “deformalizzazione” degli strumenti
processuali, si pone, in concreto, il problema dell’ammissibilità nel caso di che trattasi
dell’ordine di esibizione (modellato sulla falsariga di quello disciplinato dagli artt. 210 e
ss. c.p.c.).
Il Tribunale, infatti, non ignora l’orientamento (seguito da una cospicua giurisprudenza
di merito) secondo cui il Giudice non potrebbe ordinare l’esibizione di un atto alla
pubblica amministrazione se quello stesso atto sia ostensibile dall’interessato
(controparte dell’amministrazione in giudizio) attraverso lo schema previsto e
disciplinato dagli artt. 22 e ss. l. n. 241 del 1990 (Cass., 7.11.2003, n. 16713; Cass.,
27.6.2003, n. 10219).
44
Ora, a parte che a ben vedere le pronunce di legittimità citate usualmente a suffragio di
tale orientamento dalla giurisprudenza di merito attengono a casi parzialmente diversi
da quello qui esaminato (e comunque sembrano far salva la discrezionalità del
Giudice, dominus dell’istruttoria), vi è da fare una considerazione più approfondita
rispetto alla tipologia di atto della cui esibizione si tratta in questa sede.
Guardando alla natura di tale atto, infatti, si deve escludere ab imis la concorrenza del
potere dell’amministrazione di consentirne l’accesso (artt. 22 e ss. l. n. 241 del 1990) e
quello del Giudice di ordinarne l’esibizione.
Mentre questa concorrenza può ipotizzarsi (con discutibile priorità logica del potere
dell’amministrazione rispetto a quello del Giudice, per le ragioni prima accennate, e
non ulteriormente approfondite perché non necessario rispetto ai fatti di causa) nel
caso in cui si tratti di atti interni ad un procedimento amministrativo (onde
l’amministrazione deve mediare tra i diversi interessi in conflitto: quello del
richiedente alla ostensione dell’atto, quello “istruttorio” dell’amministrazione e quello di
eventuali terzi controinteressati) nel caso in esame la conclusione non può che
essere quella opposta.
Ed invero:
A) ai sensi dell’art. 124 TUEL (e ss. mm.): “1. Tutte le deliberazioni del comune e della
provincia sono pubblicate mediante pubblicazione all'albo pretorio, nella sede
dell'ente, per quindici giorni consecutivi, salvo specifiche disposizioni di legge. 2.
Tutte le deliberazioni degli altri enti locali sono pubblicate mediante pubblicazione
all’albo pretorio del comune ove ha sede l'ente, per quindici giorni consecutivi,
salvo specifiche disposizioni”;
B) ai sensi dell’art. 32, commi 1 e 5, l. n. 69 del 2009: (comma 1) “A far data dal 1º
gennaio 2010, gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti amministrativi
aventi effetto di pubblicità legale si intendono assolti con la pubblicazione nei propri
siti informatici da parte delle amministrazioni e degli enti pubblici obbligati. La
pubblicazione è effettuata nel rispetto dei princìpi di eguaglianza e di non
discriminazione, applicando i requisiti tecnici di accessibilità di cui all’articolo 11
della legge 9 gennaio 2004, n. 4. La mancata pubblicazione nei termini di cui al
periodo precedente è altresì rilevante ai fini della misurazione e della valutazione
della performance individuale dei dirigenti responsabili. (comma 5). A decorrere dal
1º gennaio 2011 e, nei casi di cui al comma 2, dal 1º gennaio 2013, le pubblicazioni
effettuate in forma cartacea non hanno effetto di pubblicità legale, ferma restando
la possibilità per le amministrazioni e gli enti pubblici, in via integrativa, di effettuare
la pubblicità sui quotidiani a scopo di maggiore diffusione, nei limiti degli ordinari
stanziamenti di bilancio”.
In base al congiunto operare di queste norme, in sintesi, il Comune deve attuare la
pubblicità delle delibere (anche di quelle che contengono un impegno di spesa)
attraverso la pubblicazione sul sito istituzionale.
D’altro canto, che una tale garanzia legale sussista è confermato dalla disposizione
dell’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 33 del 2013, secondo cui “Tutti i documenti, le
informazioni e i dati oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della normativa
vigente sono pubblici e chiunque ha diritto di conoscerli, di fruirne gratuitamente (…)”,
nonché da quella del successivo art. 5, comma 1, secondo cui “L’obbligo previsto dalla
normativa vigente in capo alle pubbliche amministrazioni di pubblicare documenti,
informazioni o dati comporta il diritto di chiunque di richiedere i medesimi, nei casi in
45
cui sia stata omessa la loro pubblicazione”; mentre il carattere sommario
dell’accertamento che si va compiendo in questa sede e le particolari esigenze di
speditezza che lo caratterizzano impongono di dare prioritariamente corso all’ordine
giudiziale di che trattasi (non essendovi, atteso l’obbligo legale di pubblicazione, alcuna
valutazione della p.a. che sia indebitamente compressa dal provvedimento del Giudice)
anziché assegnare all’interessato l’onere di presentare (come pure si potrebbe) una
istanza di “accesso civico” ai sensi del richiamato decreto”.
B)
In altri casi, il vincolo di indisponibilità sorge direttamente per effetto della
disposizione di legge.
Al riguardo occorre ricordare:
1)
l’art. 1, d.l. n. 313 del 1993 (conv. con modifiche in l. n. 460 del 1994) che, a
seguito di numerose modifiche, tese ad estenderne progressivamente l’ambito
applicativo, così prevede:
“1. I fondi di contabilità speciale a disposizione delle prefetture, delle direzioni di
amministrazione delle Forze armate e della Guardia di finanza, nonché le aperture di
credito a favore dei funzionari delegati degli enti militari, degli uffici o reparti della
Polizia di Stato, della Polizia penitenziaria e del Corpo forestale dello Stato, del
Dipartimento dell'Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei
prodotti agroalimentari e dei comandi del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, o del
Cassiere del Ministero dell'interno, comunque destinati a servizi e finalità di protezione
civile, di difesa nazionale e di sicurezza pubblica nonché di vigilanza, prevenzione
e repressione delle frodi nel settore agricolo, alimentare e forestale, al rimborso
delle spese anticipate dai comuni per l'organizzazione delle consultazioni elettorali,
nonché al pagamento di emolumenti e pensioni a qualsiasi titolo dovuti al personale
amministrato, non sono soggetti ad esecuzione forzata, salvo che per i casi
previsti dal capo V del titolo VI del libro I del codice civile, nonché dal testo unico
delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari
e pensioni dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, approvato con decreto
del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1950, n. 180.
2. I pignoramenti ed i sequestri aventi per oggetto le somme affluite nelle
contabilità speciali delle prefetture e delle direzioni di amministrazione ed a favore
dei funzionari delegati di cui al comma 1, si eseguono esclusivamente, a pena
di nullità rilevabile d'ufficio, secondo le disposizioni del libro III - titolo II - capo II del
codice di procedura civile con atto notificato al direttore di ragioneria
responsabile presso le prefetture o al direttore di amministrazione od al
funzionario delegato nella cui circoscrizione risiedono soggetti privati
interessati, con l'effetto di sospendere ogni emissione di ordinativi di pagamento
relativamente alle somme pignorate. Il funzionario di prefettura, o il direttore di
amministrazione o funzionario delegato cui sia stato notificato atto di pignoramento o
di sequestro, e' tenuto a vincolare l'ammontare, sempreché esistano sulla
contabilità speciale fondi la cui destinazione sia diversa da quelle indicate al
comma 1, per cui si procede con annotazione nel libro giornale; la notifica
rimane priva di effetti riguardo agli ordini di pagamento che risultino già
emessi.
46
3. Non sono ammessi atti di sequestro o di pignoramento ai sensi del presente
articolo presso le sezioni di tesoreria dello Stato a pena di nullità rilevabile anche
d'ufficio. Gli atti di sequestro o di pignoramento eventualmente notificati non
determinano obbligo di accantonamento da parte delle sezioni medesime né
sospendono l'accreditamento di somme nelle contabilità speciali intestate alle
prefetture ed alle direzioni di amministrazione ed in quelle a favore dei funzionari
delegati di cui al comma 1.
4. Viene effettuata secondo le stesse modalità stabilite nel comma 2 la notifica di ogni
altro atto consequenziale nei procedimenti relativi agli atti di pignoramento o di
sequestro”.
Si tratta del c.d. pignoramento contabile.
Come è stato rilevato (Rossi, op. cit., spec. 361) la norma prevede una
“impignorabilità ad efficacia soggettivamente relativa”: anche sui fondi e sulle
somme ex lege dichiarate impignorabili è infatti comunque garantita la possibilità
della espropriazione a tutela e per la soddisfazione di crediti qualificati dalla ragione
causale della pretesa ascrivibile (…) a crediti alimentari o di mantenimento derivanti
da separazione o divorzio tra i coniugi oppure ad emolumenti lato sensu retributivi
(…) spettanti ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni interessate”.
È stato osservato che “al di là delle ricadute concrete di tale previsione va
favorevolmente sottolineata la ratio sottesa alla norma, espressione di un
ponderato bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco: così alla impignorabilità
tesa a consentire il buon operato della p.a. si apporta una deroga a salvaguardia
dell’interesse privatistico alla realizzazione del credito” (Rossi, op. cit., 361).
Notevoli perplessità sono sorte, invece, in relazione al procedimento che la legge
disciplina con pretesa di esaustività tale da affrancarlo dagli schemi codicistici: “ne
risulta tratteggiato un procedimento esecutivo definibile come atipico e sui generis,
dacché in molti essenziali aspetti non soltanto differente ma addirittura originale ed
inedito rispetto ai paradigmi conosciuti dal codice di rito” (Rossi, op. cit., 363).
Le peculiarità interessano:
a) l’oggetto del pignoramento (le somme dichiarate non impignorabili affluite
nelle contabilità speciali dei soggetti indicati dal comma 1);
b) le modalità di effettuazione del pignoramento (il creditore, tramite l’Ufficiale
giudiziario, notifica il pignoramento al funzionario responsabile delle gestione
contabile dei fondi il quale provvede ad annotare sul libro giornale il vincolo
sulle somme per un importo pari all’entità del credito per cui si procede),
secondo un modello accostabile più all’espropriazione mobiliare presso il
debitore che non all’espropriazione forzata di crediti;
c) il luogo dell’esecuzione del pignoramento (il pignoramento va notificato al
“funzionario delegato nella cui circoscrizione risiedono i soggetti privati
interessati”);
d) l’effetto sostanziale del pignoramento (la sospensione degli ordinativi di
pagamento relativamente alle somme pignorate, simile se non identico al
vincolo di indisponibilità che consegue al pignoramento ordinario presso
terzi);
e) le conseguenze della violazione delle norme in questione (si prevede la
nullità – rilevabile d’ufficio – senza obbligo di accantonamento e senza
47
sospensione dell'accreditamento di somme nelle contabilità speciali intestate
alle prefetture ed alle direzioni di amministrazione ed in quelle a favore dei
funzionari delegati di cui al comma 1).
Il procedimento viene concepito come esclusivo, essendo preclusa al creditore la
praticabilità di altre azioni esecutive (ad esempio il pignoramento presso le sezioni
della tesoreria dello Stato).
Come si diceva, la norma ha suscitato perplessità e, per quanto qui interessa, ha
dato adito a dubbi di costituzionalità, che però sono stati fugati dal Giudice delle
leggi.
Il quale (sentenza 9.10.1998, n. 350) ha ravvisato la ratio della disposizione nella
esigenza di “adeguare la procedura di esecuzione forzata alle particolari modalità di
gestione contabile dei fondi”; ciò in quanto è “il funzionario direttamente
responsabile della gestione dei fondi di conoscerne l’ammontare e la disponibilità
come pure di verificare (…) se vi siano cause di impignorabilità”.
L’attività del funzionario – rileva la Corte Costituzionale - non involge alcuna
valutazione discrezionale, essendo questi tenuto a “vincolare l’ammontare
pignorato assumendone la correlativa responsabilità con atti non sottratti a verifica
o accertamento giudiziale”.
La soluzione fornita dalla Corte è stata fortemente criticata in quanto fondata su
argomentazioni che “anziché dissipare sembrano piuttosto alimentare perplessità
sulla compatibilità dell’istituto in rassegna con i principi supremi del nostro
ordinamento” (Rossi, op. cit., spec. 366, anche per i riferimenti alla giurisprudenza
di legittimità che “senza particolari approfondimenti” ha condiviso l’impianto
motivazionale della pronuncia in rassegna).
Chiarito, preliminarmente, che appare improprio l’intendimento del pignoramento
come diretto a colpire somme di denaro nella immediata disponibilità dell’Ente,
dovendosi al contrario ritenere che il rapporto tra l’Ente intestatario della contabilità
e la sezione della tesoreria dello Stato vada ricostruito in termini di rapporto di
credito/debito (tant’è vero che vi è la prassi di notificare il pignoramento di che
trattasi anche alla Banca d’Italia), è proprio dal confronto con il modello offerto dagli
artt. 543 e ss. c.p.c. che emergono le principali criticità del pignoramento c.d.
contabile, in specie per quanto attiene alla completa obliterazione di un (pur
eventuale) momento di controllo giudiziale circa la valutazione (interamente affidata
al funzionario) della esistenza e della pignorabilità delle somme giacenti sui fondi di
contabilità speciale.
Ed infatti “diversamente da quanto asserito – in maniera forse troppo frettolosa –
dalla Consulta, proprio la illustrata connotazione del procedimento preclude, ab
imis, al creditore la possibilità di stimolare un accertamento giurisdizionale
endoesecutivo sull’esistenza di beni asservibili all’esproprio” (Rossi, op. cit., 370),
ma anche una opposizione agli atti esecutivi (vista la mancanza di un atto
esecutivo impugnabile), e senza considerare che, pure nell’ipotesi in cui vi sia
l’astratta disponibilità delle somme sui fondi in questione, il provvedimento del
giudice - che non è l’assegnazione (da intendersi come cessione pro solvendo del
credito pignorato) – richiede come presupposto ineludibile per la sua concreta
attuazione l’emissione di un ordinativo di pagamento da parte del funzionario
responsabile, siccome, diversamente dal caso del pignoramento mobiliare presso il
debitore (cui la procedura in esame è indebitamente accostata dal punto di vista
48
disciplinare), le “cose” pignorate non sono nella materiale disponibilità del debitore
stesso.
2)
L’art. 6, d.l. n. 263 del 2006, conv. in l. n. 290 del 2006 che ha previsto la
impignorabilità delle risorse finanziarie destinate a fronteggiare l’emergenza rifiuti in
Campania.
3)
L’art. unico, comma 1348, della l. n. 296 del 2006 che ha aggiunto all’art. 1, l.
n. 266 del 2005 il comma 294-bis che così stabilisce:
“Non sono soggetti ad esecuzione forzata i fondi destinati al pagamento di spese per
servizi e forniture aventi finalità giudiziaria o penitenziaria, nonché le aperture di credito
a favore dei funzionari delegati degli uffici centrali e periferici del Ministero della
giustizia, degli uffici giudiziari e della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo e
della Presidenza del Consiglio dei ministri, destinati al pagamento di somme liquidate a
norma della legge 24 marzo 2001, n. 89, ovvero di emolumenti e pensioni a qualsiasi
titolo dovuti al personale amministrato dal Ministero della giustizia e dalla Presidenza
del Consiglio dei ministri”.
4)
L’art. 1, comma 24, l. n. 228 del 2012 che, oltre a modificare l’art. 294-bis
sopra citato, ha introdotto l’art. 294-ter secondo cui:
“Il comma 294-bis si applica anche ai fondi e alle contabilità speciali del Ministero
dell'economia e delle finanze destinati al pagamento di somme liquidate a norma della
legge 24 marzo 2001, n. 89”.
C)
Il legislatore ha poi sperimentato delle misure più drastiche che, pur nella
diversità delle singole disposizioni che le prevedono, possiamo raggruppare sotto la
dizione “gestioni liquidative”.
Il legislatore prevede la “sostituzione” dell’ente pubblico debitore al quale quindi è
consentita la prosecuzione della propria attività istituzionale mentre la liquidazione
dei creditori è demandata ad altri soggetti.
Anche in questo caso la normativa conferente è confusionaria e di difficile lettura.
Ha inoltre dato luogo a dei significativi interventi della Corte Costituzionale.
1)
La procedura c.d. di dissesto degli Enti locali è stata inizialmente disciplinata
dagli artt. 24 e 25, d.l. n. 66 del 1989.
A mente dell’art. 24 (che si riporta nella parte che qui specificamente interessa):
OMISSIS
5. L'ente è tenuto a convenire con i creditori, con atti formali, il piano di rateizzazione,
che deve trovare corrispondenza con quello approvato dal consiglio. L'ente è tenuto
ogni anno a stanziare in bilancio i relativi importi. A garanzia dei creditori i contributi
erariali ordinari e perequativi hanno vincolo di destinazione per il corrispondente valore
annuo e non possono essere distolti per altro titolo.
6. La richiesta del comune, dell'amministrazione provinciale e della comunità montana
per convenire con i creditori la rateizzazione comporta la sospensione della procedura
49
esecutiva eventualmente intrapresa, per il periodo di non meno di tre e non più di sei
mesi, sospensione che deve essere disposta dal giudice competente adito.
OMISSIS
Secondo l’art. 25 (che pure si riporta nella parte che qui specificamente interessa):
1. Le amministrazioni provinciali ed i comuni che si trovano in condizioni tali da non
poter garantire l'assolvimento delle funzioni e dei servizi primari, sono tenuti ad
approvare, con deliberazione dei rispettivi consigli, il piano di risanamento finanziario
per provvedere alla copertura delle passività già esistenti e per assicurare in via
permanente condizioni di equilibrio della gestione.
OMISSIS
10. Dalla deliberazione del piano di risanamento e fino alla emissione del decreto di
approvazione del piano stesso, sono sospesi i termini per la deliberazione del bilancio.
Nelle more, possono essere disposti impegni solo per le spese espressamente previste
dalla legge. La deliberazione del piano di risanamento sospende altresì le azioni
esecutive dei creditori dell'ente.
In un primo momento, quindi, la normativa prevedeva la semplice sospensione
delle azioni esecutive intraprese nei riguardi dell’ente.
Questa misura si rivelò però inidonea a consentire agli enti esecutati di sanare il
disavanzo visto che gli stessi non recuperavano la disponibilità delle somme
pignorate.
Per ovviare a questo inconveniente, già l’art. 12-bis, d.l. n. 6 del 1991 aveva
previsto, al comma 6 (introdotto dalla legge di conversione n. 80 del 1991), quanto
segue:
“6. La sospensione delle procedure esecutive stabilite al comma 6 dell'art. 24 ed al
comma 10 dell'art. 25 del decreto-legge 2 marzo 1989, n. 66, convertito, con
modificazioni, dalla legge 24 aprile 1989, n. 144, a seguito di richiesta di rateizzazione
dei debiti fuori bilancio o di procedura di dissesto, comporta la liberazione delle somme
delle quali si sia chiesto il sequestro e l'obbligo per gli enti di provvedere con le risorse
reperite a norma dell'art. 1- bis del decreto-legge 1° luglio 1986, n. 318, convertito, con
modificazioni, dalla legge 9 agosto 1986, n. 488”.
Successivamente, l’art. 21, d.l. n. 8 del 1993 ha previsto la estinzione delle
procedure con liberazione delle somme pignorate.
Rilevano, in particolare, le disposizioni contenute nei commi 1 e 3 della citata
disposizione (come modificate in sede di conversione).
“1. La deliberazione di dissesto di cui all'art. 25 del decreto-legge n. 66 del 1989, deve
essere obbligatoriamente adottata dal consiglio dell'ente locale ogni qualvolta non può
essere garantito l'assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili ovvero
esistono nei confronti dell'ente locale crediti liquidi ed esigibili di terzi ai quali non sia
stato fatto validamente fronte, nei termini, con i mezzi indicati all'art. 24 dal predetto
decreto-legge n. 66 del 1989 e successive modificazioni ed integrazioni, ovvero non
possa farsi fronte con le modalità previste all'art. 1- bis del decreto-legge 1° luglio
50
1986, n. 318, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 1986, n. 488.
L'omissione integra l'ipotesi di cui all'art. 39, comma 1, lettera a ), della legge n. 142 del
1990, con l'applicazione prioritaria della procedura di cui al comma 2 del medesimo art.
39. L'obbligo di deliberazione dello stato di dissesto si estende, ove ne ricorrano le
condizioni, al commissario comunque nominato ai sensi del comma 3 del citato art. 39
della legge n. 142 del 1990. La deliberazione non è revocabile e può essere adottata
solo se non è stato deliberato il bilancio per l'esercizio relativo. La deliberazione è
pubblicata per l'stratto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana”.
OMISSIS
“3. Il commissario o la commissione, di cui al comma 2, provvedono all'accertamento
della situazione debitoria a norma di legge e propongono il piano di estinzione. La
commissione di ricerca per la finanza locale cura l'istruttoria del piano, proponendone
l'approvazione, con eventuali modifiche o integrazioni, al Ministro dell'interno che vi
provvede con proprio decreto. In deroga ad ogni altra disposizione, dalla data di
deliberazione di dissesto i debiti insoluti non producono più interessi,
rivalutazioni monetarie od altro, sono dichiarate estinte dal giudice, previa
liquidazione dell'importo dovuto per capitale, accessori e spese, le procedure
esecutive pendenti e non possono essere promosse nuove azioni esecutive. Il
commissario o la commissione individuano l'attivo della liquidazione, accertando i
residui da riscuotere, i ratei di mutuo disponibili ed ogni attività non indispensabile da
alienare. Il commissario o la commissione hanno titolo ad acquisire entrate relative alla
gestione pregressa e ad alienare beni senza alcuna autorizzazione. All'attivo della
liquidazione lo Stato concorre con il ricavato di un mutuo -- da assumere in unica
soluzione con la Cassa depositi e prestiti dal commissario o dalla commissione, a
norme dell'ente locale -- il cui ammontare non può comunque superare l'importo
mutuabile determinato sulla base di una rata di ammortamento pari alle quote del
fondo investimenti rimaste accantonate a favore dell'ente locale incrementate di un
contributo statale. Detto contributo -- finanziato con il fondo di cui all'art. 4, comma 1,
lettere b ) e c ) -- è determinato nell'importo massimo pari a cinque volte la rispettiva
quota capitaria stabilita per gli enti dissestati dal citato art. 4. Il commissario o la
commissione hanno titolo a transigere vertenze in atto o pretese in corso. I debiti
vengono liquidati, a cura del commissario o della commissione, nei limiti della massa
attiva disponibile, entro i sei mesi successivi all'acquisizione del mutuo. Entro il termine
di un anno dall'approvazione del piano di estinzione da parte del Ministero dell'interno,
il commissario o la commissione sono tenuti a deliberare il rendiconto della gestione,
che è sottoposto all'esame del comitato regionale di controllo. Dopo l'approvazione del
piano di estinzione da parte del Ministro dell'interno non sono ammesse ulteriori
richieste di crediti di data anteriore alla decisione del comitato stesso. L'organo di
revisione dell'ente locale ha competenza sul riscontro della liquidazione”.
La normativa sopra citata ha subito, nel corso degli anni ’90, numerosi
rimaneggiamenti.
In primo luogo, vi è stata l’abrogazione per effetto dell’art. 123, d.lgs. n. 77 del
1995: 1) dell’art. 25, d.l. n. 66 del 1989; 2) del comma 6 dell’art. 12-bis del d.l. n. 6
del 1991; 3) dell’art. 21 del d.l. n. 8 del 1993.
In secondo luogo, questo stesso provvedimento normativo ha posto una nuova
disciplina che poi è stata sostanzialmente trasfusa negli artt. 248 e ss. TUEL.
51
Art. 248
OMISSIS
2. Dalla data della dichiarazione di dissesto e sino all'approvazione del
rendiconto di cui all'art. 256 non possono essere intraprese o proseguite azioni
esecutive nei confronti dell'ente per i debiti che rientrano nella competenza
dell'organo straordinario di liquidazione. Le procedure esecutive pendenti alla
data della dichiarazione di dissesto, nelle quali sono scaduti i termini per
l'opposizione giudiziale da parte dell'ente, o la stessa benchè proposta è stata
rigettata, sono dichiarate estinte d'ufficio dal giudice con inserimento nella
massa passiva dell'importo dovuto a titolo di capitale, accessori e spese.
3. I pignoramenti eventualmente eseguiti dopo la deliberazione dello stato di
dissesto non vincolano l'ente ed il tesoriere, i quali possono disporre delle
somme per i fini dell'ente e le finalità di legge.
4. Dalla data della deliberazione di dissesto e sino all'approvazione del rendiconto di
cui all'art. 256 i debiti insoluti a tale data e le somme dovute per anticipazioni di cassa
già erogate non producono più interessi nè sono soggetti a rivalutazione monetaria.
Uguale disciplina si applica ai crediti nei confronti dell'ente che rientrano nella
competenza dell'organo straordinario di liquidazione a decorrere dal momento della
loro liquidità ed esigibilità.
OMISSIS
Art. 252
OMISSIS
4. L'organo straordinario di liquidazione ha competenza relativamente a fatti ed atti di
gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell'anno precedente a quello dell'ipotesi di
bilancio riequilibrato e provvede alla:
a) rilevazione della massa passiva;
b) acquisizione e gestione dei mezzi finanziari disponibili ai fini del risanamento anche
mediante alienazione dei beni patrimoniali;
c) liquidazione e pagamento della massa passiva.
OMISSIS
Tralasciando la normativa che ha inciso, dopo il TUEL, sull’attuazione, dal punto di
vista finanziario, delle sopraesposte disposizioni, è stato rilevato che “da un divieto
assoluto e generalizzato di nuove procedure esecutive nei confronti dell’ente
dissestato si è passati al divieto di proseguire o intraprendere esecuzioni individuali
limitato ai debiti rientranti nella competenza dell’organo straordinario di
liquidazione” (Tatangelo, op. cit., spec. 527 e ss.).
La normativa passata in rassegna ed in specie quella degli anni ’90 è stata oggetto
– come anticipato - di rilevanti pronunce della Corte Costituzionale: tuttavia,
l’impianto motivazionale di queste pronunce può essere tenuto presente anche
nella lettura delle disposizioni del TUEL:
i)
Corte Cost., 21.4.1994, n. 149;
ii)
Corte Cost., 21.4.1994, n. 155;
iii)
Corte Cost., 16.6.1994, n. 242 (relativa specificamente al “blocco degli
interessi”).
52
Si riportano i passaggi salienti della pronuncia n. 149 del 1994:
“3.2. - Come risulta evidente dalla pur sommaria analisi della complessa struttura in cui essa si
articola, il risultato ultimo dell'intera procedura è quello di restituire l'ente all'espletamento delle sue
funzioni istituzionali in una situazione di ripristinato equilibrio finanziario.
4. - L'interferenza della procedura di liquidazione e risanamento con le (eventuali) procedure
esecutive individuali (che costituisce lo snodo più delicato al fine della valutazione delle censure di
costituzionalità) è risolta dall'art. 21 privilegiando lo svolgimento della prima secondo un'opzione
che (in termini più estesi) si ritrova anche nell'art. 51 legge fall.; infatti l'art. 21 prevede che in
deroga ad ogni altra disposizione, dalla data di deliberazione di dissesto i debiti insoluti non
producono più interessi, rivalutazioni monetarie od altro; inoltre, sono dichiarate estinte dal giudice,
previa liquidazione dell'importo dovuto per capitale, accessori e spese, le procedure esecutive
pendenti e non possono essere promosse nuove azioni esecutive. In particolare poi l'art. 5 del
regolamento prevede l'inserimento "d'ufficio" nella massa passiva dei debiti provenienti da
procedure esecutive in corso al momento della deliberazione di dissesto; analogamente il
successivo art. 6 include tali debiti tra quelli che legittimamente possono far parte della massa
passiva.
La finalità del legislatore appare chiaramente essere stata quella di deviare il soddisfacimento
forzoso del credito dalla (ordinaria) esecuzione individuale verso una (speciale) procedura
concorsuale di liquidazione ispirata (tra l'altro) al principio della par condicio creditorum.
5. - In questo contesto normativo va innanzi tutto esaminata la prima, più radicale, censura
espressa dal giudice rimettente.
Pur se sommaria ed ellittica, la allegazione dei parametri costituzionali evocati (artt. 2, 3, comma 2,
e 41 Cost.) consente di cogliere il contenuto essenziale della censura diretta a contestare in radice
l'assoggettabilità dell'ente locale alla procedura di liquidazione di cui all'art. 21 cit. Peraltro, per
coglierne la infondatezza, è sufficiente rilevare, da una parte, che non c'è contraddizione con la
natura pubblica e la posizione istituzionale dell'ente locale e, dall'altra, che la posizione dei
creditori (lungi dall'essere lesa) risulta sostanzialmente avvantaggiata.
Ed invero la evenienza che una esposizione debitoria particolarmente accentuata comprometta
l'espletamento dei servizi essenziali dell'ente rende piena ragione della predisposizione di una
procedura diretta al risanamento, e quindi alla normalizzazione finanziaria, dell'ente stesso, che,
ancorché "dissestato", non può cessare di esistere in quanto espressione di autonomia locale, che
costituisce un valore costituzionalmente tutelato; né tanto meno l'ente può essere condannato alla
paralisi amministrativa per una adombrata (dal giudice rimettente), ma in realtà insussistente,
intangibilità delle posizioni dei creditori. I cui diritti e segnatamente il diritto di iniziativa economica
(art. 41 Cost.), non risultano d'altro canto affatto lesi, se si tiene conto che la procedura di
liquidazione ex art. 21 cit. prevede la formazione della massa attiva, destinata a soddisfare i
creditori, in termini più favorevoli di una normale procedura esecutiva individuale: vi rientrano infatti
non solo tutto il ricavato della complessa attività di realizzo posta in essere dal commissario (così
come sopra già indicato), ma anche (e soprattutto) lo speciale mutuo concesso con onere a carico
dello Stato. Quindi complessivamente i creditori possono contare su disponibilità maggiori di quelle
che, in mancanza della procedura di liquidazione in esame, avrebbero potuto essere assoggettate
a procedure esecutive individuali. Che poi non di meno i crediti possano essere liquidati (e quindi
in concreto soddisfatti) "nei limiti della massa attiva disponibile" - come prevede l'art. 21 cit. - è
evenienza non affatto diversa da quella del comune rischio di inadempimento del debitore e di
incapienza di una qualsivoglia procedura esecutiva individuale; rischio che peraltro, nella
procedura ex art. 21 cit., risulta invece razionalizzato perché il pagamento avviene non già
53
secondo il (casuale e contingente) andamento delle singole procedure individuali, bensì nel
rispetto del canone della par condicio creditorum sicché il principio di eguaglianza, lungi dall'essere
violato come assume il giudice rimettente, è viceversa maggiormente attuato; rischio che - deve
aggiungersi - per altro verso è in tal caso bilanciato proprio dall'approntamento di maggiori
disponibilità finanziarie per il soddisfacimento dei crediti stessi (mentre costituisce mera questione
esegetica - rimessa all'interpretazione della giurisprudenza - quella della sorte della eventuale
parte non soddisfatta dei crediti ammessi).
6. - L'art. 21 cit. è stato poi censurato nella parte in cui - nel prevedere la suddetta forma di
procedura esecutiva - contempla che il giudice dell'esecuzione dichiari estinte le procedure
esecutive in corso "previa liquidazione dell'importo dovuto per capitale, accessori e spese" con
conseguente violazione del diritto d'azione del creditore procedente, i cui interessi nella procedura
amministrativa che viene attivata con la dichiarazione di dissesto non sono garantiti come nelle
procedure concorsuali previsti dalla legge fallimentare.
La censura costituisce uno sviluppo di quella appena esaminata ed essenzialmente si focalizza
sulla evidenziazione, e talora enfatizzazione, delle connotazioni differenziali della procedura di
liquidazione ex art. 21 cit. rispetto alle procedure concorsuali, differenze che ridonderebbero
soprattutto in violazione del diritto alla tutela giurisdizionale (artt. 24 e 113 Cost.) oltre che degli
altri parametri evocati (artt. 3 e 28 Cost.).
Orbene, una volta riconosciuta (al paragrafo che precede) in via di principio la possibilità che,
nell'ambito di un più complesso intervento diretto al risanamento dell'ente dissestato, si ponga in
essere una liquidazione concorsuale dei crediti ammessi, l'indagine richiesta dal giudice rimettente
si sposta sullo strumento tecnico-giuridico approntato a tal fine dal legislatore per verificarne
(essenzialmente) il rispetto del generalissimo principio della tutela giurisdizionale delle situazioni
soggettive, tutela che va riconosciuta non solo nella fase dell'accertamento giudiziale, ma anche
della concreta attuazione mediante esecuzione forzata. Deve innanzi tutto ribadirsi che, ove sorga
la esigenza di una procedura concorsuale, non necessariamente questa deve interamente
svolgersi nel contesto di un procedimento giurisdizionale sotto l'immediato e diretto controllo
dell'autorità giudiziaria, come nell'ipotesi del fallimento, ben potendo invece il legislatore prevedere
un procedimento amministrativo tanto più se sono coinvolti interessi pubblici, come nella specie
quello al risanamento dell'ente locale dissestato. Ciò di per sé solo non significa negazione della
giustiziabilità delle posizioni soggettive versate nella procedura di liquidazione e non comporta
vulnerazione di quel supremo principio dell'ordinamento costituzionale (sent. n. 18 del 1982 e n.
392 del 1992) che è il diritto alla tutela giurisdizionale, la quale non implica un'unica rigida tipologia
di procedura concorsuale.
Il nostro ordinamento d'altra parte già conosce ipotesi di procedure concursuali che si svolgono
inizialmente in ambito amministrativo, quali la liquidazione coatta amministrativa e
l'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. E questa Corte è già intervenuta
affermando, tra l'altro, che dal fatto che l'accertamento del passivo "si svolga a cura di un
commissario liquidatore, senza l'immediato intervento dell'autorità giudiziaria, diversamente da
quanto previsto per l'ordinaria procedura fallimentare, e che nel frattempo i singoli creditori trovino
limiti all'esperimento di azioni individuali, non deriva alcuna sostanziale violazione del precetto
costituzionale dell'art. 24, primo comma" (sent. n. 87 del 1969); e successivamente ha precisato
che "l'innegabile carattere amministrativo della liquidazione e la prevalente considerazione degli
interessi generali, nelle diverse fattispecie di liquidazione coatta amministrativa disciplinate dalla
legge, non comportano una riduzione dei controlli giurisdizionali tale da abbandonare alla
discrezionalità di apprezzamento del commissario liquidatore e dell'autorità amministrativa lo
svolgimento della procedura" (sent. n. 159 del 1975).
54
Nella specie, se è vero - come osserva il giudice rimettente - che l'art. 21 cit. non prevede speciali
mezzi di tutela giurisdizionale, ciò però non significa - né mai potrebbe significare - che l'attività
dell'organo di liquidazione sia sottratta alla ordinaria verifica giurisdizionale.
Viceversa rimane ferma la giurisdizione generale del giudice amministrativo in caso di atti illegittimi
oltre che quella del giudice ordinario in caso di lesione di diritti soggettivi ove ritenuti configurabili
nella procedura instaurata con la deliberazione dello stato di dissesto. Quindi c'è sempre un
giudice chiamato a verificare la legittimità della procedura di liquidazione, e la mancata menzione
di specifici mezzi processuali di tutela - mentre, secondo quanto già osservato, non può mai
essere intesa come radicale loro esclusione - potrà - ove intesa come implicita previsione
normativa di una tutela giudicata contenutisticamente non adeguata delle situazioni soggettive dei
creditori - in ipotesi rilevare, al fine di attivare la verifica di costituzionalità di tale tutela differenziata
e in tesi limitata alla giurisdizione generale di legittimità davanti al giudice amministrativo, soltanto
in eventuali giudizi promossi davanti all'una o all'altra giurisdizione ed aventi ad oggetto la
legittimità di singoli atti (compresi quelli di ammissione o di esclusione di crediti) della procedura
(sul punto cfr., sotto profili diversi, sent. 146/87 e sent. 251/89).
La catalogazione dei singoli punti differenziali della procedura di liquidazione ex art. 21 rispetto alle
altre procedure concursuali - puntualmente evidenziati dal giudice rimettente - non dà corpo, per
mera sommatoria, ad un autonomo e più radicale sospetto di illegittimità dell'arresto
dell'esecuzione individuale, ma rappresenta la ricognizione descrittiva (e quasi didascalica) delle
connotazioni caratteristiche dell'una e dell'altra procedura; non è il solo scostamento della
disciplina della procedura di liquidazione in esame dall'archetipo del fallimento (ripetutamente
richiamato dal giudice rimettente) a concretare un vizio di costituzionalità, come mostrano se non
altro le procedure della liquidazione coatta amministrativa e della amministrazione straordinaria,
della cui idoneità a comportare l'arresto delle esecuzioni individuali non si dubita. D'altra parte nella
procedura di liquidazione ex art. 21 cit. è possibile identificare quel nucleo essenziale ed
indefettibile delle procedure concursuali che è costituito dal presupposto dello stato di insolvenza
del debitore (o di altra analoga anomalia strutturale) e dalla formazione rispettivamente di uno
stato passivo e di una massa attiva per il soddisfacimento proporzionale dei crediti ammessi nel
rispetto della par condicio creditorum, mentre le più specifiche differenziazioni di disciplina, ove in
ipotesi prive di giustificazione, potrebbero - come già rilevato - radicare distinte questioni di
costituzionalità in quei giudizi nei quali di tale disciplina occorra fare applicazione. Viceversa nel
giudizio a quo l'art. 21 cit. viene in rilievo unicamente per il provvedimento di estinzione della
procedura esecutiva individuale.
In conclusione l'arresto della procedura esecutiva individuale (che conseguentemente si estingue)
non vulnera i parametri costituzionali evocati (e soprattutto gli artt. 24 e 113 Cost.) perché essendo previsto in favore dell'accesso ad una procedura di liquidazione che ha i tratti essenziali
di una procedura concorsuale - sussiste comunque il controllo giurisdizionale della legittimità di
ogni suo atto; mentre - come già si è detto - in questa sede non rilevano, ai fini della valutazione
della costituzionalità della disposizione che il giudice rimettente è chiamato ad applicare, i profili
differenziali di disciplina rispetto alle altre procedure concorsuali”.
La Corte, in definitiva, ha ritenuto che la previsione di una gestione liquidativa a
carattere amministrativo “non significa negazione della giustiziabilità delle posizioni
soggettive versate nella procedura di liquidazione e non comporta vulnerazione di
quel supremo principio dell’ordinamento costituzionale (…) che è il diritto alla tutela
giurisdizionale” (Corte Cost., 21.4.1994, n. 155).
55
Vero è che la Corte non ha individuato gli strumenti di tutela dei crediti nell’ambito
della procedura concorsuale amministrativa: “l’arresto della procedura esecutiva
individuale (...) non vulnera i parametri costituzionali (...) perché - essendo previsto
in favore di una procedura di liquidazione che ha i tratti essenziali di una procedura
concorsuale - sussiste comunque il controllo giurisdizionale della legittimità di ogni
suo atto”; “la mancata menzione di specifici mezzi processuali di tutela - (...) - potrà
- (...) - in ipotesi rilevare, al fine di attivare la verifica di costituzionalità di tale tutela
differenziata e in tesi limitata alla giurisdizione generale di legittimità del giudice
amministrativo” (Corte Cost., 21.4.1994, n. 155, richiamata in parte qua da Corte
Cost., 16.6.1994, n. 242).
2)
Si segnala ancora la recente introduzione degli artt. 243-bis e ss. TUEL
relativi alla “procedura di riequilibrio finanziario” cui possono accedere (comma
1) “i comuni e le province per i quali, anche in considerazione delle pronunce delle
competenti sezioni regionali della Corte dei conti sui bilanci degli enti, sussistano
squilibri strutturali del bilancio in grado di provocare il dissesto finanziario, nel caso
in cui le misure di cui agli articoli 193 e 194 non siano sufficienti a superare le
condizioni di squilibrio rilevate”.
Il successivo comma 4 prevede: Le procedure esecutive intraprese nei confronti
dell'ente sono sospese dalla data di deliberazione di ricorso alla procedura di
riequilibrio finanziario pluriennale fino alla data di approvazione o di diniego di
approvazione del piano di riequilibrio pluriennale di cui all'articolo 243-quater,
commi 1 e 3.
3)
In materia di gestioni liquidative va ricordata poi una rilevante pronuncia della
Corte Costituzionale, sulla vicenda “Policlinico Umberto I”, che ha dettato principi
applicati dalla stessa Corte anche in altri casi.
Si tratta di Corte Cost., 7.11.2007, n. 364.
La pronuncia interviene su un quadro normativo poco cristallino, che è opportuno
ricostruire per punti (riprendendo la sintesi svolta da Dalfino, in Foro it., 2007).
1) il d.l. n. 341 del 1999, convertito, con modificazioni, in l. n. 453 del 1999, ha
previsto che l’azienda policlinico Umberto I di Roma subentri all’omonima
azienda universitaria: “nei contratti in corso per la fornitura di beni e servizi
destinati all’assistenza sanitaria, per un periodo massimo di dodici mesi”; “nei
rapporti in corso, relativi alla gestione dell’assistenza sanitaria, con utenti,
autorità competenti e altre amministrazioni”; “nei contratti in corso per la
costruzione di strutture destinate ad attività assistenziali”; nel patrimonio
immobiliare dell’azienda sanitaria. Non, invece, nei rapporti “già esauriti”,
nonché in quelli concernenti gli appalti o le concessioni per opere pubbliche a
prevalente o esclusiva destinazione sanitaria (in ordine ai quali “l’azienda
policlinico Umberto I assume la qualità di sostituto processuale dell’università
La Sapienza di Roma nel contenzioso giudiziale ed extragiudiziale”). Inoltre,
l’art. 2, 2° comma, d.l. cit. ha previsto che dalla data di entrata in vigore del
decreto e per un periodo massimo di diciotto mesi: a1) non possono essere
intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti dell’azienda policlinico
Umberto I e dell’università La Sapienza per i debiti, assunti dall’omonima
azienda universitaria, relativi alla gestione dell’assistenza sanitaria; a2) le
56
procedure esecutive pendenti, per le quali sono scaduti i termini per
l’opposizione giudiziale da parte dell’azienda universitaria policlinico Umberto
I e dell’università La Sapienza, ovvero la stessa benché proposta, sia stata
rigettata, sono dichiarate estinte dal giudice, con inserimento, da parte del
commissario, nella massa passiva per l’importo dovuto a titolo di capitale,
accessori e spese; a3) i pignoramenti eventualmente eseguiti non hanno
efficacia e non vincolano l’azienda policlinico Umberto I, l’università La
Sapienza e il commissario; a4) i debiti insoluti non producono interessi né
sono soggetti a rivalutazione monetaria;
2) l’art. 8 sexies d.l. n. 136 del 2004, aggiunto dalla legge di conversione n. 186
del 2004, ha disposto che la successione prevista dal 1° comma dell’art. 2
d.l. n. 341 cit. “si interpreta nel senso che l’azienda policlinico Umberto I di
Roma succede nei contratti di durata in essere con la soppressa omonima
azienda universitaria esclusivamente nelle obbligazioni relative alla
esecuzione dei medesimi successiva alla data di istituzione della predetta
azienda policlinico Umberto I” (1° comma);
3) l’art. 7-quater d.l. 7/05, convertito, con modificazioni, in l. 43/05, ha stabilito
che i decreti ingiuntivi e le sentenze divenuti esecutivi dopo la data di entrata
in vigore del d.l. n. 341 cit., “sono inefficaci nei confronti dell’azienda
ospedaliera policlinico Umberto I, qualora gli stessi siano relativi a crediti
vantati nei confronti della soppressa omonima azienda universitaria per
obbligazioni contrattuali anteriori alla data di istituzione della predetta azienda
ospedaliera policlinico Umberto I”, secondo quanto disposto dall’art. 2, 1°
comma, d.l. n. 341 cit., come interpretato dall’art. 8-sexies d.l. n. 136 cit. (1°
comma); “i pignoramenti eventualmente intrapresi in forza dei titoli di cui al 1°
comma perdono efficacia e i giudizi di ottemperanza in base al medesimo
titolo pendenti sono dichiarati estinti anche d’ufficio” (2° comma); “nelle azioni
esecutive iniziate sui medesimi titoli di cui al 1° comma, alla soppressa
azienda universitaria policlinico Umberto I subentra il commissario” di cui al
3° comma dell’art. 2 d.l. n. 341 cit.
La Corte Costituzionale, nella citata pronuncia, ha dichiarato quest’ultima
disposizione incostituzionale osservando che
Le disposizioni denunciate vanno ben oltre tale normativa, analoga anche se non identica, come si
è detto, a quella dettata per gli enti locali in dissesto e molto simile a quella poi introdotta per
l'Ordine Mauriziano; esse sono dirette a travolgere provvedimenti definitivi ottenuti contro il
soggetto di nuova istituzione non in dissesto quale l'azienda Policlinico Umberto I, facendo
confluire anche i creditori di questo nell'ambito della procedura concorsuale instaurata per i crediti
fondati su titoli emessi nei confronti della cessata azienda universitaria. Nei riguardi di tali
disposizioni non sono pertinenti, quindi, le considerazioni di cui alle citate sentenze n. 155 del 1994
e n. 355 del 2006.
Non può infatti essere accolta la tesi della difesa del Policlinico Umberto I secondo la quale le
disposizioni censurate non travolgerebbero i giudicati, ma si limiterebbero a sostituire per la loro
esecuzione un tipo di procedimento ad un altro. Sul punto si rileva che i provvedimenti di cui viene
stabilita l'inefficacia sono stati emessi contro il suddetto Policlinico, mentre la procedura
concorsuale concerne la contabilità separata dei debiti e dei crediti della cessata azienda
universitaria, ossia un diverso centro d'imputazione dei rapporti. Le disposizioni in scrutinio, quindi,
57
incidono sul soggetto nei cui confronti sono stati emessi i provvedimenti e, di riflesso, sulla
realizzazione dei crediti in essi consacrati, sostituendo ad un soggetto in bonis, responsabile
secondo il regime sostanziale e processuale ordinario, un'entità diversa, nei cui confronti non è
assicurata ai creditori la piena realizzazione dei propri diritti.
4.- Una volta definito in tal modo il contenuto normativo delle disposizioni censurate, la Corte
ritiene che esse violino le attribuzioni costituzionali dell'autorità giudiziaria cui spetta la tutela dei
diritti (artt. 102 e 113 Cost.).
Infatti non vi è dubbio che l'emissione di provvedimenti idonei ad acquistare autorità di giudicato
costituisca uno dei principali strumenti per la realizzazione del suindicato compito.
Nel contempo, le disposizioni denunciate contrastano con gli artt. 3 e 24 Cost., in quanto in parte
vanificano i risultati dell'attività difensiva svolta, sulla cui definitività i creditori del Policlinico
Umberto I potevano fare ragionevole affidamento.
In simile ordine di idee questa Corte ha affermato, da un lato, che l'estinzione dei giudizi pendenti
può essere ritenuta costituzionalmente legittima qualora le norme che la stabiliscono incidano
anche sulla legge regolatrice del rapporto controverso, garantendo la sostanziale realizzazione dei
diritti in oggetto (sentenza n. 103 del 1995), dall'altro, che in materia non penale la legittimità di
leggi retroattive è condizionata dal rispetto di altri principi costituzionali e, in particolare, di quello
della tutela del ragionevole, e quindi legittimo, affidamento (ex plurimis, sentenze n. 446 del 2002 e
n. 234 del 2007). Anche se le disposizioni in scrutinio non possono essere definite retroattive in
senso tecnico, tuttavia esse, travolgendo provvedimenti giurisdizionali definitivi e incidendo sui
regolamenti dei rapporti in essi consacrati, finiscono per avere la stessa efficacia di norme
retroattive e per incontrare i medesimi limiti costituzionali per queste enunciati.
4)
Sempre nell’ambito del complesso rapporto tra “piani di risanamento” e azioni
esecutive individuali, viene in rilievo la vicenda del c.d. blocco delle azioni esecutive
riguardo agli enti sanitari situati in determinate Regioni d’Italia – vicenda che si è
conclusa con una “secca” pronuncia di incostizionalità da parte del Giudice delle
leggi (sul punto si v. Delle Donne, L’espropriazione nei confronti delle p.a. e la
rincorsa perenne del bilanciamento dei valori tra ragioni della finanza pubblica e
tutela del credito, in Riv. esec. forz., 2015, 559 e ss., la quale in particolare mette a
confronto il “caso” del blocco delle azioni con quello del Policlinico Umberto I –
sopra esaminato – e quello in parte simile dell’Ordine Mauriziano. Mentre in questi
ultimi casi, infatti, il legislatore aveva predisposto una fase di liquidazione
concorsuale per gestire le passività maturate ad una certa data e,
successivamente, vi aveva fatto rientrare anche i creditori che avevano contrattato
con il nuovo soggetto subentrato a quello “decotto” tradendo l’affidamento da questi
riposto sulla solvibilità della propria controparte ed incorrendo, per questa parte,
nelle censure di incostituzionalità, in quello appresso esaminato, il legislatore ha
operato la scelta “alquanto grossolana” del blocco delle azioni esecutive).
Per comprendere a pieno l’intricato quadro normativo è bene chiarire,
preliminarmente, che l’art. 1, comma 51, della l. n. 220 del 2010 ha previsto (sulla
scia di disposizioni similari contenute nella l. n. 191 del 2009 e nel d.l. n. 78 del
20108) un divieto temporaneo di esercizio o prosecuzione delle azioni esecutive
8
Al riguardo è importante notare che con la l. n. 191 del 2009 il legislatore aveva escluso la
possibilità di intraprendere o proseguire le azioni esecutive nei confronti delle aziende sanitarie
locali ed ospedaliere situate in Regioni che avevano sottoscritto piani di rientro del disavanzo
58
promosse nei riguardi degli enti del servizio sanitario al fine di garantire l’attuazione
dei piani di rientro previsti dalla l. n. 311 del 2004.
In specie, l’art. 1 di tale ultima legge, ai commi da 164 a 169, ha previsto:
a) che lo Stato concorra al ripiano dei disavanzi del SSN mediante un
finanziamento integrativo, strumentalmente teso a garantire l’obiettivo del
raggiungimento dell’equilibrio economico finanziario da parte delle Regioni
nel rispetto della garanzia della tutela della salute;
b) che l’accesso al finanziamento integrativo a carico dello Stato viene
subordinato alla stipula di una specifica intesa tra Stato e Regioni (intesa che
deve contemplare una serie di parametri normativamente determinati);
c) che, in caso di sussistenza di una situazione di squilibrio economicofinanziario, si impone alla Regioni l’adozione dei provvedimenti necessari con
la precisazione che, se l’amministrazione non provvede, si procede al
commissariamento ex l. n. 131 del 2003. In questo caso spetta al Presidente
della Regione, come commissario ad acta, l’approvazione del bilancio
consolidato del servizio sanitario regionale al fine di determinare il disavanzo
e di adottare i provvedimenti necessari al relativo ripianamento;
d) al verificarsi di queste condizioni la Regione procede ad una ricognizione
delle cause dello squilibrio ed elabora un programma operativo di
riorganizzazione, riqualificazione o di potenziamento del servizio. La
sottoscrizione dell’accordo è condizione necessaria per la riattribuzione alla
Regione interessata del maggiore finanziamento anche in maniera parziale e
graduale subordinatamente alla versifica della effettiva attuazione del
programma.
Discende da quanto sopra che il divieto di intraprendere o proseguire azioni
esecutive nei riguardi delle ASL presuppone:
1) che esse operino in ragioni commissariate secondo la procedura indicata
dall’art. 8, comma 1, l. n. 131 del 2003;
2) che siano predisposti piani di rientro dai disavanzi sanitari ai sensi della l. n.
311 del 2004;
3) che sia stata effettuata la ricognizione dei debiti di cui all’art. 11, comma 2,
del d.l. n. 78 del 2010.
Ciò premesso è utile riportare per intero la disposizione contenuta nell’art. 1,
comma 51, della l. n. 220 del 2010 (legge di stabilità per l’anno 2011):
“51. Al fine di assicurare il regolare svolgimento dei pagamenti dei debiti oggetto della
ricognizione di cui all'articolo 11, comma 2, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78,
sanitario. Il “blocco” delle azioni esecutive era previsto per la durata di un anno a partire
dall’entrata in vigore della legge e si prevedeva, inoltre, che i pignoramenti già eseguiti non
avessero efficacia nei confronti dei debitori e dei loro tesorieri che quindi potevano disporre dei
beni staggiti. In occasione della conversione del d.l. n. 194 del 2009 (l. n. 25 del 2010) il termine di
durata del blocco, ferme restando tutte le altre previsioni, fu ridotto da dodici mesi a due mesi. Ne
è conseguito che a decorrere dal 1° marzo 2010 era stato ripristinato il diritto dei creditori di agire
in via esecutiva. Tuttavia, a fronte della situazione di grave disagio finanziario regionale, il
legislatore è nuovamente intervenuto sul punto: con il d.l. n. 78 del 2010 è stata reintrodotta la
inibitoria delle azioni esecutive nei confronti delle aziende sanitarie fino al 31.12.2010. La
disposizione del 2010, però, differiva da quella precedentemente esaminata in ciò, che non
prevedeva lo svincolo dei beni sottoposti a pignoramento.
59
convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, nonché al fine di
consentire l'espletamento delle funzioni istituzionali in situazioni di ripristinato equilibrio
finanziario per le regioni già sottoposte ai piani di rientro dai disavanzi sanitari,
sottoscritti ai sensi dell'articolo 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, e
successive modificazioni, e già commissariate alla data di entrata in vigore della
presente legge, non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive,
anche ai sensi dell'articolo 112 del codice del processo amministrativo, di cui
all'allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, nei confronti delle
aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni medesime, fino al 31 dicembre
2012. I pignoramenti e le prenotazioni a debito sulle rimesse finanziarie trasferite
dalle regioni di cui al presente comma alle aziende sanitarie locali e ospedaliere
delle regioni medesime, ancorché effettuati prima della data di entrata in vigore
del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122
del 2010, sono estinti di diritto dalla data di entrata in vigore della presente
disposizione. Dalla medesima data cessano i doveri di custodia sulle predette
somme, con obbligo per i tesorieri di renderle immediatamente disponibili, senza
previa pronuncia giurisdizionale, per garantire l'espletamento delle finalita'
indicate nel primo periodo”.
Il testo sopra riportato è la risultante di diverse modifiche:
A) quelle apportate dall’art. 17, comma 4, lett. e), d.l. n. 98 del 2011, del
seguente tenore:
e) al comma 51 dell'articolo 1 della l. 13 dicembre 2010, n. 220, sono
apportate le seguenti modificazioni:
1) dopo le parole: “dalla legge 30 luglio 2010, n. 122,” sono inserite le
seguenti: “nonché al fine di consentire l'espletamento delle funzioni
istituzionali in situazioni di ripristinato equilibrio finanziario”;
2) nel primo e nel secondo periodo, le parole: “fino al 31 dicembre 2011”,
sono sostituite dalle seguenti: “fino al 31 dicembre 2012”;
B) quelle apportate dall’art. 6-bis, d.l. n. 158 del 2012, conv. con modifiche in l.
n. 198 del 2012, del seguente tenore:
2. All'articolo 1, comma 51, della legge 13 dicembre 2010, n. 220, e
successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al primo periodo, dopo le parole: “azioni esecutive” sono inserite le
seguenti: “, anche ai sensi dell'articolo 112 del codice del processo
amministrativo, di cui all'allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n.
104,” e le parole: “dicembre 2012” sono sostituite dalle seguenti: “dicembre
2013”;
b) il secondo periodo é sostituito dai seguenti: “I pignoramenti e le
prenotazioni a debito sulle rimesse finanziarie trasferite dalle regioni di cui al
presente comma alle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni
medesime, ancorché effettuati prima della data di entrata in vigore del
decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n.
122 del 2010, sono estinti di diritto dalla data di entrata in vigore della
presente disposizione. Dalla medesima data cessano i doveri di custodia
sulle predette somme, con obbligo per i tesorieri di renderle immediatamente
60
disponibili, senza previa pronuncia giurisdizionale, per garantire
l’espletamento delle finalità indicate nel primo periodo”.
Oltre alle proroghe ed alla estensione della disciplina al giudizio di ottemperanza
intrapreso innanzi al GA, rileva in specie la previsione che “i pignoramenti (…) sono
estinti di diritto” e che “cessano i doveri di custodia con obbligo per i tesorieri di
renderle immediatamente disponibili, senza previa pronuncia giurisdizionale, per
garantire l’espletamento delle finalità indicate nel primo periodo”.
Nella versione originaria, quanto a questo profilo, la disposizione si limitava a
prevedere:
“I pignoramenti e le prenotazioni a debito sulle rimesse finanziarie trasferite dalle
regioni di cui al presente comma alle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni
medesime, effettuati prima della data di entrata in vigore del decreto-legge n. 78 del
2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, non producono
effetti dalla suddetta data fino al 31 dicembre 2011 e non vincolano gli enti del
servizio sanitario regionale e i tesorieri, i quali possono disporre, per le finalità
istituzionali dei predetti enti, delle somme agli stessi trasferite durante il
suddetto periodo”.
Prima di analizzare la pronuncia della Corte Costituzionale sulla normativa di cui
sopra vanno chiarite:
1) la ratio della disciplina di cui si tratta;
2) le posizioni assunte, riguardo alla relativa interpretazione, dalla
giurisprudenza.
Quanto alla ratio la disciplina in esame – di non agevole lettura – va precisato che
la stessa riguarda le ASL site in quelle Regioni in cui il disavanzo della spesa
sanitaria abbia superato determinate soglie onde si è resa necessaria la
predisposizione di piani di rientro triennale con conseguente “blocco” delle azioni
esecutive promosse contro le ASL medesime.
Riguardo alle posizioni assunte dalla giurisprudenza, possiamo individuare tre
orientamenti.
A) L’orientamento seguito da alcuni Tar (prima che il legislatore intervenisse a
chiarire questo aspetto) è stato nel senso della non inclusione nell’ambito
applicativo della norma dell’azione per ottemperanza, con la conseguenza
che i creditori che scelgano (scegliessero) tale strumento non subirebbero
(avrebbero subito) il “blocco” previsto per quelli che abbiano (avessero)
optato per l’esecuzione forzata nelle forme del Codice di procedura civile.
Interessanti al riguardo sono le osservazioni svolte da T.A.R. Lombardia,
Milano, Sez. III, 1.8.2011, n. 2074.
Dopo avere operato una puntuale ricognizione del quadro normativo di
riferimento e dopo avere sottolineato che la disciplina in esame presenta dei
punti di frizione con la disciplina (di derivazione comunitaria) relativa alla lotta
contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, disciplina (non
applicabile direttamente ai fatti di causa, assoggettati ratione temporis alle
conferenti disposizioni della direttiva di riferimento) che attiene a tutti i tipi di
transazione commerciale a prescindere dal fatto che una delle parti del
rapporto sia una pubblica amministrazione, il Tar ravvisa la particolare
61
rilevanza della questione relativa alla individuazione di strumenti di tutela
effettivi in grado di procurare la realizzazione dei diritti di credito vantati verso
le ASL.
Ad avviso del Tar:
“In primo luogo occorre portare l'attenzione sulla ratio della disciplina nazionale preclusiva
delle azioni esecutive; ratio emergente dai presupposti di applicazione della normativa
nazionale di cui si tratta.
Il blocco delle azioni esecutive mira a consentire la realizzazione dei piani di rientro dai
disavanzi sanitari predisposti dalle regioni commissariate e diretti, non solo a ripristinare
l'equilibrio finanziario del settore sanitario, ma anche ad assicurare l'attuazione di un
processo di riorganizzazione e risanamento del servizio sanitario, nel quale si colloca la
previsione di un finanziamento integrativo a carico dello Stato (cfr. in particolare art. 11,
comma 2, del d.l. 2010, n. 78, nonché art. 11, comma 51, della legge 2010, n. 220 e art. 1,
commi 164, 169, 174, 180 della legge 2004, n. 311).
I piani di rientro e la loro attuazione devono assicurare che l'equilibrio economico e
finanziario venga conseguito garantendo la tutela della salute, nonché il mantenimento di
modalità di erogazione delle prestazioni sanitarie uniformi sul territorio nazionale e coerenti,
sul piano qualitativo e quantitativo, con i livelli essenziali di assistenza in materia sanitaria
(cfr. in particolare art. 1, comma 169, della legge 2004, n. 311).
L'obiettivo dell'attuazione dei piani di rientro e del contemporaneo mantenimento dei livelli
di assistenza, a tutela del fondamentale diritto alla salute, presuppone che
l'amministrazione conservi integri e nel loro complesso i beni strumentali e funzionali
all'erogazione delle prestazioni sanitarie, nonostante sia gravata da una situazione
debitoria tale da pregiudicarne l'equilibrio economico e finanziario e da giustificare un
finanziamento integrativo a carico dello Stato.
Tale esigenza si soddisfa escludendo che nei confronti delle aziende sanitarie, versanti
nelle condizioni economiche e finanziarie suindicate, possano essere attivate o completate
procedure esecutive che, al fine di soddisfare il creditore, consentano di aggredire i beni,
mobili ed immobili, di cui l'amministrazione si avvale per l'erogazione delle prestazioni del
servizio sanitario, sottraendoli alla loro destinazione funzionale.
Il riferimento attiene, pertanto, al processo di esecuzione in senso stretto, caratterizzato dal
pignoramento, che, da un lato, produce l'effetto giuridico di vincolare determinati beni del
debitore al soddisfacimento del creditore, dall'altro, è prodromico alla soddisfazione
coattiva del credito mediante l'assegnazione o la vendita, secondo la disciplina posta dagli
artt. 491 e seg. del c.p.c..
Insomma, il compimento di simili atti nei confronti delle A.S.L. versanti nelle condizioni
suindicate avrebbe l'effetto di sottrarre alla loro destinazione determinati beni funzionali
all'erogazione del servizio sanitario, con pregiudizio sia dell'obbiettivo del risanamento
economico e finanziario, nonché delle esigenze di riorganizzazione e di risanamento del
servizio sanitario, sia dell'esigenza di mantenere inalterati i livelli essenziali di assistenza.
Ecco, allora, che tanto l'art. 11, comma 2, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, quanto
l'art. 11, comma 51, della legge 2010, n. 220, nella parte in cui escludono la possibilità di
intraprendere o proseguire azioni esecutive nei confronti delle aziende sanitarie locali e
ospedaliere delle regioni commissariate e già sottoposte ai piani di rientro dai disavanzi
sanitari, sottoscritti ai sensi dell'articolo 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n.
311, vanno interpretati come preclusivi delle azioni esecutive in senso stretto, ossia delle
procedure di esecuzione forzata per espropriazione, che consentono al creditore di
62
soddisfarsi coattivamente sui beni del debitore mediante la vendita o l'assegnazione dei
beni medesimi, in quanto simili procedure ostacolano l'attuazione dei complessivi obiettivi,
di risanamento finanziario e di riorganizzazione, che connotano i piani di rientro e
pregiudicano il mantenimento dei livelli essenziali di assistenza nel settore sanitario.
Il dato letterale conforta tale interpretazione, atteso che, proprio l'art. 11, comma 51, della
legge 2010, n. 220, dopo avere precluso l'attivazione e la prosecuzione delle "azioni
esecutive" nei confronti delle A.S.L., disciplina le azioni esecutive già intraprese,
prevedendo che non producono effetti i "pignoramenti e le prenotazioni a debito sulle
rimesse finanziarie trasferite dalle regioni" alle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle
regioni medesime, effettuati prima della data di entrata in vigore del d.l. n. 78 del 2010.
Certo, l'inciso da ultimo considerato riguarda solo i pignoramenti e le prenotazioni a debito
sulle rimesse finanziarie effettuate dalla regione e non gli atti di esecuzione forzata per
espropriazione compiuti su altri beni strumentali all'erogazione del servizio sanitario, ma
resta fermo che, nel contesto complessivo della disposizione, la preclusione è riferita solo
ad atti tipici del processo di esecuzione forzata (il pignoramento, in particolare), mentre la
formula impiegata si spiega con l'esigenza, espressa dalla norma, di conservare al servizio
sanitario le somme versate dalla regione per l'erogazione del servizio medesimo, in modo
che gli enti del servizio sanitario regionale e i tesorieri possano continuare a "disporre, per
le finalità istituzionali dei predetti enti, delle somme agli stessi trasferite durante il suddetto
periodo".
In altre parole, con l'inciso in esame il legislatore ha dettato il regime di un particolare bene,
qual é il denaro versato dalla regione e destinato all'erogazione del servizio, al fine di
evitare che i pignoramenti e le prenotazioni a debito già effettuati ne ostacolino l'utilizzo per
lo scopo prestabilito.
Nondimeno, resta fermo che la norma, riferendosi espressamente solo al pignoramento e
alla prenotazione a debito, ha limitato la preclusione ai soli atti della procedura esecutiva in
senso stretto e sul piano sistematico ciò induce a riferire l'espressione "azioni esecutive"
proprio a questo tipo di procedura, atteso che, anche per i beni diversi dal denaro, ma
comunque strumentali allo svolgimento del servizio sanitario, sussiste l'esigenza di
preservarne la destinazione, sottraendoli alla soddisfazione coattiva del creditore,
destinazione compromessa dagli atti della procedura esecutiva per espropriazione.
Analoga esigenza non sorge rispetto al giudizio di ottemperanza, che, pertanto, non è
riconducibile alle "azioni esecutive" paralizzate dall'art. 11, comma 2, del decreto-legge 31
maggio 2010, n. 78 e dall'art. 11, comma 51, della legge 2010, n. 220.
Invero, mediante l'azione di ottemperanza esperita a tutela di una situazione creditoria ed,
in particolare, per la soddisfazione di una pretesa pecuniaria risultante da una sentenza
passata in giudicato del giudice ordinario o da un provvedimento giurisdizionale ad essa
equiparato, come il decreto ingiuntivo munito di formula esecutiva, il creditore non
aggredisce esecutivamente singoli beni sottraendoli alla loro destinazione funzionale e
vincolandoli alla soddisfazione della propria pretesa, ma ottiene che il giudice si sostituisca
all'amministrazione, direttamente o indirettamente per il tramite di un commissario ad acta,
nel compimento degli atti necessari per l'adempimento del debito.
Atti che consistono nel reperimento delle somme necessarie per la soddisfazione del
credito, eventualmente anche mediante il ricorso a finanziamenti, nei limiti consentiti dalla
legge, ma non nel pignoramento e nella successiva assegnazione o vendita di beni
determinati, che sono atti diretti a realizzare la conversione in denaro di beni determinati a
soddisfazione del creditore.
63
In altre parole, tale procedura non incide sui beni, mobili o immobili, che l'A.S.L. utilizza per
l'erogazione del servizio sanitario, né sulle somme che in base alla legge sono destinate
all'erogazione di tale servizio, sicché in relazione ad essa non viene in rilevo la necessità di
evitare che la tutela dei creditori dell'amministrazione possa pregiudicare l'attuazione degli
obiettivi di risanamento finanziario, di riorganizzazione e di mantenimento dei livelli
essenziali di assistenza nel settore sanitario che connotano i piani di rientro dai disavanzi
sanitari, alla cui attuazione è funzionale il blocco delle azioni esecutive.
In simili casi spetta all'organo giurisdizionale, o al commissario ad acta nominato dal primo,
il compimento degli atti necessari per la soddisfazione del credito azionato, senza intaccare
necessariamente beni strumentali al servizio sanitario nei termini suesposti.
Resta fermo che, in relazione alle peculiarità del caso concreto, possono verificarsi delle
fattispecie in cui l'ottemperanza risulta oggettivamente impossibile e ciò dipende dal fatto
che ogni giudizio di ottemperanza incontra il limite dell'oggettiva impossibilità, da
apprezzare caso per caso (cfr. in argomento a mero titolo esemplificativo Consiglio di
Stato, Ad. Plen., 29 aprile 2005, n. 2), ma tale circostanza non incide sull'ammissibilità della
relativa azione”.
A tale orientamento fa da riscontro quello di altri Tar che sono giunti a conclusioni opposte.
In specie, secondo T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez. I, 13.4.2011, n. 516:
“anche il rimedio dell’ottemperanza innanzi al giudice amministrativo rientri nell’ambito di
operatività della disposizione in esame nel caso in cui, come nella specie, trattasi
dell’esecuzione di sentenza di condanna disposta dall’A.G.O. Infatti, il giudizio di
ottemperanza assume la prospettazione di giudizio misto (di cognizione ed esecuzione al
contempo) nei soli casi in cui si tratta dell’esecuzione di sentenze del giudice
amministrativo, e non anche nel caso di sentenze del giudice ordinario”.
Ne consegue che
“la procedura in esame, qualificabile come “azione esecutiva” in senso proprio, peraltro
alternativa all’esecuzione di cui al codice di rito, resta assoggettata al termine di
sospensione previsto dalla legge 220/2010”.
Rileva notare che il legislatore è intervenuto sul punto, nel 2012, per chiarire
che il divieto di intraprendere o proseguire le azioni esecutive nei riguardi
delle ASL (nei casi previsti dall’art. 1, comma 51, l. n. 220 del 2010) è riferito
anche all’azione di ottemperanza disciplinata dagli artt. 112 e ss. c.p.a..
B) Per altro orientamento, il blocco previsto dalla normativa in esame
opererebbe solo in presenza di una effettiva predisposizione da parte delle
ASL dei piani di rientro e quindi solo subordinatamente alla concreta
individuazione dei debiti e delle modalità temporali della relativa
soddisfazione. In mancanza di tali piani, mancano le condizioni per applicare
la lex specialis ragion per cui le azioni esecutive possono in tal caso essere
intraprese senza limiti (Trib. Napoli, Sez. Pozzuoli, nn. 585 e 660).
C) L’ultimo orientamento è nel senso che l’art. 1, comma 51, l. n. 220 del 2010 si
pone in contrasto con la Costituzione.
64
Secondo i Giudici remittenti, pur nella varietà delle prospettazioni 9, la norma
ha l’effetto pratico di precludere la realizzazione del diritto di credito vantato
nei confronti delle ASL.
Osserva in specie il Tar Salerno che “ciò appare ancora più evidente ove si
consideri che la norma contestata ha reintrodotto la previsione secondo la
quale divengono del tutto inefficaci i pignoramenti eseguiti in data
antecedente l’entrata in vigore della legge e consente agli enti debitori di
rientrare nella piena disponibilità delle somme dovute ancorché pignorate.
Una norma della specie, incidendo retroattivamente su posizioni consolidate
per effetto di una procedura esecutiva giurisdizionale si pone in evidente
contrasto con il principio di effettività del diritto di difesa sancito dall’art. 24,
commi 1 e 2, Cost.”.
Viene anche in tale contesto evidenziata la discrasia tra la normativa in
esame e quella di cui al d.lgs. n. 231 del 2002: da un lato, vengono
congegnati strumenti volti a favorire la regolarità e la tempestività dei
pagamenti, dall’altro lato, si crea una “zona franca” in ragione di “presunte
superiori ragioni di finanza pubblica”.
Oltretutto, in questo caso, la deroga prevista a favore delle amministrazioni
assume contorni tanto più vessatori, in considerazione della circostanza che
“a parti invertite, ossia nei casi in cui sia l’amministrazione ad essere
creditrice, in particolare nel caso delle obbligazioni di natura fiscale e
previdenziale, il legislatore appronta un ben più efficace inventario di
strumenti esecutivi per forzare l’adempimento”.
Discenderebbe da ciò il contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost., sotto il profilo
della alterazione della parità delle parti in causa.
Infine, verrebbe in rilievo un contrasto con l’art. 41 Cost., poiché “il soggetto
imprenditore che intrattenga rapporti economici con le amministrazioni del
comparto sanità, non potendo fare affidamento sulla puntualità del suo
debitore nell’adempimento delle sue obbligazioni, non può programmare la
sua attività di impresa ed è costretto, onde far fronte alle proprie scadenze, a
ricorrere ad onerosi finanziamenti bancari”.
In altre ordinanze di rimessione – e segnatamente in quelle provenienti dal
Tribunale di Napoli – è stato inoltre sottolineato:
i)
da un lato, che è censurabile la discriminazione consistente nel diverso
trattamento normativo gravante sui creditori delle aziende sanitarie
ubicate in Regioni commissariate rispetto a quello applicabile ai
creditori delle analoghe aziende ubicate in altre Regioni e, per altro
verso, la più favorevole condizione in cui si trovano, rispetto alla
generalità delle aziende sanitarie, quelle ubicate nelle Regioni
commissariate, godendo di “una sorta di immunità totale
dall’espropriazione forzata correlata ad un mero status soggettivo”, non
potendosi, peraltro, escludere che, sebbene compresa in una Regione
9
Si tratta del Tar Campania, Salerno, che ha sollevato la q.l.c. di cui al testo con due ordinanze
del 7.9.2011 e una ordinanza dell’11.10.2011; del Tar Campania, Napoli, che ha sollevato la q.l.c.
con ordinanza del 10.12.2011; del Tribunale di Napoli che ha sollevato la q.l.c. con ordinanza del
14.12.2011; del Trib. di Napoli (sez. distaccata di Pozzuoli) che ha sollevato la q.l.c. con due
ordinanze del 12.11.2011 e del 24.5.2012.
65
commissariata, la singola azienda sanitaria, pur beneficiaria del blocco
dei pignoramenti, non sia in difficoltà finanziarie;
ii)
dall’altro lato, che siffatto privilegio appare ancor più ingiustificato ove
si consideri che le aziende sanitarie già beneficiano del più favorevole
regime di pignorabilità limitata dei loro beni stabilito dall'art. 1, comma
5, del decreto-legge 18 gennaio 1993, n. 9 (Disposizioni urgenti in
materia sanitaria e socio-assistenziale), convertito, con modificazioni,
dalla legge 18 marzo 1993, n. 67.
Prima di analizzare la pronuncia della Corte Costituzionale occorre meglio ricordare
le modifiche alla normativa in questione introdotte con il d.l. n. 158 del 2012 (sopra
riportate).
In specie rilevano le modifiche che hanno inciso sul secondo periodo della
disposizione (sul quale la Consulta ha “trasferito” le sollevate questioni di legittimità
costituzionale).
La disciplina – sopra indicata – ha prodotto (come rilevato dalla Corte
Costituzionale) l’approfondimento dei vulnera arrecati al principio di cui all’art. 24
Cost.: si allude alla disposizione che prevede la estinzione di diritto dei
pignoramenti (in luogo della precedente previsione per cui “i pignoramenti … non
producono effetti”), con conseguente ritorno delle somme staggite nella immediata
disponibilità del debitore esecutato, senza necessità di una pronuncia giudiziale,
“per garantire l’espletamento delle finalità indicate dal primo periodo”.
Effettivamente, la Corte Costituzionale, prima di entrare nel merito delle questioni
sottoposte al proprio esame, ha inteso valutare se la sopravvenienza normativa
implicasse la necessità di rimettere gli atti ai giudici a quibus affinché valutassero, a
loro volta, la perdurante rilevanza della questione; oppure se sussistessero i
presupposti per “trasferire” la questione originariamente proposta sulla norma come
successivamente modificata.
Il Giudice delle leggi (sentenza 12.7.2013, n. 186) si è orientato in quest’ultimo
senso.
In specie, ha osservato:
“(…) questa Corte che la possibilità di estensione anche alla nuova formulazione della norma
l'incidente di costituzionalità riposa nel fatto che lo ius novum inserito in questa, lungi dal
modificare sostanzialmente il contenuto precettivo della norma oggetto di dubbio, nel senso di
andare ad elidere od attenuare i punti di criticità segnalati dai rimettenti - salva ed impregiudicata
allo stato la fondatezza o meno delle doglianze provenienti dai giudici a quibus - rende, viceversa,
ancor più stridenti i punti di contrasto ipotizzati dai rimettenti.
Invero - premessa la indiscussa applicabilità ai giudizi a quibus della versione attualmente vigente
della norma censurata, trattandosi di innovazione riferibile ai processi esecutivi già in corso per i
quali, in entrambe le formulazioni, essa impone la cessazione del giudizio, elemento questo che
rende sicuramente tuttora rilevante il dubbio di costituzionalità avanzato dai giudici a quibus - rileva
questa Corte che, in sostanza, i rimettenti lamentano che, per effetto dell'art. 1, comma 51, della
legge n. 220 del 2010, non sia possibile porre in esecuzione i titoli esecutivi ottenuti, anche a
seguito del passaggio in giudicato di provvedimenti giurisdizionali, nei confronti delle aziende
sanitarie ed ospedaliere in quanto «non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive»
nei confronti di tali enti e in quanto i pignoramenti e le prenotazioni e debito già operate nei
confronti di tali soggetti sono inefficaci e non comportano vincoli a carico di tali enti.
66
3.3.- Risulta, quindi, di chiara evidenza che la innovazione legislativa introdotta, comportando non,
come nella precedente versione, la sola inefficacia dei pignoramenti e delle prenotazioni a debito
operate nel corso delle procedure esecutive in questione e la assenza di vincoli sui beni bloccati,
ma direttamente la loro estinzione di diritto e l'obbligo dei tesorieri degli enti sanitari di porre a
disposizione «senza previa pronuncia giurisdizionale» le somme già oggetto di pignoramento,
onde realizzare le finalità del risanamento finanziario, non apre nuovi profili valutativi rispetto alla
normativa precedente, prevedendo, semmai, contenuti normativi che, sia pur nel medesimo senso
orientati, estremizzano le soluzioni già presenti nella previgente disciplina”.
Chiarito quindi che la trasmissione degli atti ai Giudici a quibus avrebbe reso
ancora più evidente la lesione del diritto d’azione, perché il giudizio avrebbe
verosimilmente subito una ulteriore sospensione a fronte della ritenuta opportunità
di rimettere nuovamente gli atti alla Corte, la questione è stata ritenuta, nel merito,
fondata, con specifico riguardo all’art. 24 Cost. e con assorbimento degli ulteriori
profili di illegittimità costituzionale.
Ha osservato la Corte Costituzionale che:
“un intervento legislativo - che di fatto svuoti di contenuto i titoli esecutivi giudiziali conseguiti nei
confronti di un soggetto debitore - può ritenersi giustificato da particolari esigenze transitorie
qualora, per un verso, siffatto svuotamento sia limitato ad un ristretto periodo temporale (sentenze
n. 155 del 2004 e n. 310 del 2003) e, per altro verso, le disposizioni di carattere processuale che
incidono sui giudizi pendenti, determinandone l'estinzione, siano controbilanciate da disposizioni di
carattere sostanziale che, a loro volta, garantiscano, anche per altra via che non sia quella della
esecuzione giudiziale, la sostanziale realizzazione dei diritti oggetto delle procedure estinte
(sentenze n. 277 del 2012 e n. 364 del 2007).
Viceversa, la disposizione ora censurata, la cui durata nel tempo, inizialmente prevista per un
anno, già è stata, con due provvedimenti di proroga adottati dal legislatore, differita di ulteriori due
anni sino al 31 dicembre 2013, oltre a prevedere, nella attuale versione, la estinzione delle
procedure esecutive iniziate e la contestuale cessazione del vincolo pignoratizio gravante sui beni
bloccati ad istanza dei creditori delle aziende sanitarie ubicate nelle Regioni commissariate, con
derivante e definitivo accollo, a carico degli esecutanti, della spese di esecuzione già affrontate,
non prevede alcun meccanismo certo, quantomeno sotto il profilo di ordinate procedure
concorsuali garantite da adeguata copertura finanziaria, in ordine alla soddisfazione delle posizioni
sostanziali sottostanti ai titoli esecutivi inutilmente azionati.
(…) Va, altresì, considerata la circostanza che, con la disposizione censurata, il legislatore statale
ha creato una fattispecie di ius singulare che determina lo sbilanciamento fra le due posizioni in
gioco, esentando quella pubblica, di cui lo Stato risponde economicamente, dagli effetti
pregiudizievoli della condanna giudiziaria, con violazione del principio della parità delle parti di cui
all'art. 111 Cost.
4.4.- Non può, infine, valere a giustificare l'intervento legislativo censurato il fatto che questo possa
essere ritenuto strumentale ad assicurare la continuità della erogazione delle funzioni essenziali
connesse al servizio sanitario: infatti, a presidio di tale essenziale esigenza già risulta da tempo
essere posta la previsione di cui all'art. 1, comma 5, del decreto-legge 18 gennaio 1993, n. 9
(Disposizioni urgenti in materia sanitaria e socio assistenziale), convertito, con modificazioni, dalla
legge 18 marzo 1993, n. 67, in base alla quale è assicurata la impignorabilità dei fondi a
destinazione vincolata essenziali ai fini della erogazione dei servizi sanitari”.
67
6. L’esecuzione forzata nei confronti dell’amministrazione
pubblica vista dalla prospettiva della CEDU: il “caso” legge Pinto,
tenuto anche conto delle novità introdotte dalla legge di stabilità per
l’anno 2016.
Una recente decisione della CEDU ha riguardato le conseguenze del ritardo nella
esecuzione delle decisioni giudiziarie che accordino la “equa riparazione” ex lege n.
89 del 2001.
In particolare, i ricorrenti, avendo dovuto attendere un tempo compreso tra i 9 ed i
49 mesi per vedersi liquidate le somme riconosciute a titolo di riparazione per
irragionevole durata di un processo, hanno invocato l’intervento della Corte di
Strasburgo in relazione alla asserita violazione:
- dell’art. 6 CEDU, sotto il profilo della eccessiva durata dei processi esecutivi
volti a “concretizzare” la statuizione contenuta in una sentenza o altro titolo
idoneo;
- dell’art. 13 CEDU [motivo dichiarato irricevibile];
- dell’art. 46 CEUD;
- dell’art. 41 CEDU.
Preliminarmente è stata disattesa la eccezione “di rito” sollevata dal Governo
italiano consistente in ciò, che i ricorrenti non avrebbero esaurito le vie di ricorso
previste dal diritto interno prima di adire la Corte (e cioè nella specie proprio il
rimedio predisposto dalla l. Pinto).
Sul punto la CEDU è perentoria: “esigere dai ricorrenti una tale pratica per
lamentarsi della durata dell’esecuzione delle decisioni Pinto equivarrebbe a
chiudere i ricorrenti in un circolo vizioso in cui il cattivo funzionamento di un rimedio
li obbligherebbe a intentarne un altro. Una simile conclusione sarebbe irragionevole
e costituirebbe un ostacolo sproporzionato all’esercizio effettivo da parte dei
ricorrenti del loro diritto di ricorso individuale, così come definito all’articolo 34 della
Convenzione (v., in tal senso, Vaney c. Francia, n. 53946/00, § 53, 30 novembre
2004, mutatis mutandis, Kaić c. Croazia, n. 22014/04, § 32, 17 luglio 2008 e
Simaldone c. Italia, già cit., § 44)”.
Nel merito, il Governo ha rilevato che il termine di sei mesi occorrente a provvedere
al pagamento delle indennità ex lege Pinto (termine individuato da una costante
giurisprudenza della stessa CEDU come “ragionevole”) debba decorrere dalla
comunicazione alla p.a. da parte della Cancelleria o dalla notifica da parte del
ricorrente.
Inoltre, osserva il Governo italiano, il ritardo non ha leso i ricorrenti considerata la
maturazione di interessi moratori sulle somme riconosciute.
La Corte ha ritenuto:
A) sull’art. 6, innanzitutto, che “per quanto riguarda l’articolo 6 § 1, la Corte
ricorda che il diritto a un tribunale sancito da tale disposizione include il diritto
all’esecuzione di una decisione giudiziaria definitiva e obbligatoria e che
l’esecuzione di una sentenza deve essere considerata come facente parte
integrante del ‘processo’ ai sensi dell’articolo 6 (v., in particolare, Hornsby c.
Grecia, 19 marzo 1997, § 40 e segg., Recueil 1997 II; Metaxas c. Grecia, n.
8415/02, § 25, 27 maggio 2004). Poiché l’esecuzione costituisce la seconda
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fase del procedimento sul merito, il diritto rivendicato trova la propria
realizzazione effettiva solo al momento dell’esecuzione (v., tra le altre, le
sentenze Di Pede c. Italia e Zappia c. Italia, 26 settembre 1996,
rispettivamente §§ 22, 24, 26 e 18, 20, 22, Recueil 1996 IV; mutatis
mutandis, Silva Pontes c. Portogallo, 23 marzo 1994, § 33, serie A n. 286 A).
33. Nella sentenza Cocchiarella c. Italia già cit. (§§ 36-107), la Corte ha
preso in considerazione il ritardo nel pagamento del risarcimento «Pinto» allo
scopo di valutare il carattere adeguato e sufficiente della riparazione offerta
da questo rimedio per la violazione del diritto al «termine ragionevole».
Essendo padrona della qualificazione giuridica dei fatti di causa (v., in primo
luogo, Guerra e altri c. Italia, 19 febbraio 1998, § 44, Recueil 1998 I), la Corte
ritiene opportuno analizzare questo motivo di ricorso sotto il profilo del diritto
dei ricorrenti a un tribunale così come sancito dall’articolo 6 § 1 della
Convenzione, e in particolare dell’obbligo dello Stato ad uniformarsi a una
decisione giudiziaria esecutiva”.
Inoltre, “se è ammissibile che un’amministrazione possa avere bisogno
di un certo lasso di tempo per procedere ad un pagamento, nel caso
tuttavia di un ricorso risarcitorio volto a riparare le conseguenze della
durata eccessiva di procedimenti questo lasso di tempo non dovrebbe
generalmente superare sei mesi a decorrere dal momento in cui la
decisione che accorda il risarcimento diventa esecutiva”.
Ancora, “quanto agli argomenti del Governo relativi alla data da cui far partire
il calcolo di detto termine di sei mesi, è opportuno notare che la Corte ha già
rigettato questa tesi nella sentenza Simaldone (già cit., §§ 51 – 54) e non
vede alcun motivo per giungere a una conclusione diversa nella presente
causa. Pertanto, il termine di sei mesi per effettuare il pagamento decorre,
conformemente alla giurisprudenza Cocchiarella c. Italia, dalla data in cui la
decisione diventa esecutiva, ossia la data del deposito in cancelleria della
decisione Pinto”.
Infine, “per quanto riguarda l’argomento del Governo secondo il quale il
ritardo sarebbe stato compensato dal fatto di aver ottenuto degli interessi
moratori, la Corte ritiene che, considerata la natura della via di ricorso
interna, il versamento degli interessi non può essere considerato
determinante (v., mutatis mutandis, Simaldone c. Italia, già cit., § 63). La
Corte osserva ancora che il fatto di accordare interessi non comporta alcun
riconoscimento di violazione e non può riparare il danno morale che ne
deriva. Essa ricorda poi di aver stabilito che, nell’ambito del ricorso «Pinto»,
gli interessati non hanno l’obbligo di avviare una procedura di esecuzione (v.
Delle Cave e Corrado c. Italia, n. 14626/03, §§ 23-24, 5 giugno 2007, CEDU
2007 VI). Pertanto, la Corte non capisce bene in che modo il fatto che le
autorità nazionali abbiano liquidato ai ricorrenti le spese sostenute nell’ambito
di detta procedura possa compensare o rimediare alla violazione del diritto
degli interessati a un Tribunale”;
B) sull’art. 46 CEDU, va premesso che tale disposizione così prevede: “Le Alte
Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della
Corte sulle controversie nelle quali sono parti. 2. La sentenza definitiva della
Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione (...)”.
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Ebbene, ad avviso dei ricorrenti, malgrado la consolidata giurisprudenza
CEDU prima richiamata, il Governo italiano avrebbe reiteratamente omesso
di adottare misure adeguate a dare attuazione ai principi dalla stessa
giurisprudenza affermati.
Sul punto, la Corte rileva: “le conclusioni della Corte nella presente causa,
nonché il numero di cause, trattate o pendenti, riguardanti il ritardo nel
pagamento dei risarcimenti «Pinto», confermano l’esistenza di un problema
interno su vasta scala, ossia la difficoltà per le autorità italiane di garantire in
un numero considerevole di casi che detti risarcimenti saranno versati entro
un termine ragionevole che generalmente non dovrebbe essere superiore a
sei mesi dal momento in la decisione di accordare il risarcimento diventa
esecutiva”.
Dopo aver sciorinato dei dati statistici e dato atto delle diverse sollecitazioni
pervenute al Governo italiano affinché lo stesso predisponesse “le risorse di
bilancio necessarie allo scopo di evitare che la Corte si ritrovi ad affrontare la
stessa situazione, che l’ha già portata a prendere posizione sul problema
della lungaggine della giustizia italiana”, la Corte ha concluso nel senso che
“lo Stato italiano dovrebbe anzitutto ristabilire l’efficacia della via di ricorso
«Pinto», mettendo fine ai ritardi nel pagamento dei risarcimenti accordati dai
giudici aditi in virtù della legge «Pinto». Poiché tali ritardi derivano
probabilmente da una copertura di bilancio insufficiente, lo Stato dovrebbe
prevedere nel proprio bilancio uno stanziamento di fondi più importante al
fine di garantire l’esecuzione rapida delle decisioni rese ai sensi della legge
«Pinto» entro sei mesi a decorrere dal momento in cui esse diventano
esecutive”;
C) sull’art. 41 CEDU, la Corte ha ritenuto che “indipendentemente dalle
specificità legate a ciascun ricorso, i ricorrenti sono tutti allo stesso modo
vittime dell’incapacità delle autorità italiane di garantire il pagamento degli
indennizzi «Pinto» entro un termine compatibile con gli obblighi derivanti
dall’adesione dello Stato convenuto alla Convenzione dei diritti dell’uomo.
70. Alla luce di quanto precede e deliberando equamente, la Corte ritiene
opportuno accordare una somma forfettaria di 200 euro per ciascun ricorso in
riparazione del danno morale” (somma che, per inciso, è stata cumulata
agli interessi moratori).
Sulla questione “legge Pinto” giova segnalare le recenti modifiche introdotte dalla l.
stabilità per l’anno 2016 (l. n. 208 del 2015) [sulla “mini-riforma” della legge Pinto, si
veda, se si vuole, il mio breve commento su Il Denaro, 19.1.2016].
Per quanto specificamente interessa le questioni relative alle modalità ed ai tempi
di pagamento delle obbligazioni pecuniarie nascenti da una pronuncia ex lege
Pinto, va esaminato il nuovo art. 5-sexies di tale legge introdotto dal comma 777
lett. l) della l. stabilità citata.
Si prevede (comma 1) che ciascun avente diritto inoltri all’amministrazione debitrice
una “dichiarazione ai sensi degli artt. 45 e 46 d.p.r. n. 445 del 2000, attestante la
mancata riscossione di somme per il medesimo titolo, l’esercizio di azioni
giudiziarie per lo stesso credito, l’ammontare degli importi che l’amministrazione è
ancora tenuta a corrispondere, la modalità di riscossione prescelta (….)”.
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Altra novità è rappresentata dalla disposizione del quinto comma, a mente del
quale “L’amministrazione effettua il pagamento entro sei mesi dalla data in cui sono
integralmente assolti gli obblighi previsti ai commi precedenti. Il termine di cui al
periodo precedente non inizia a decorrere in caso di mancata, incompleta o
irregolare trasmissione della dichiarazione ovvero della documentazione di cui ai
commi precedenti”.
Quindi, il termine è di sei mesi, come rilevato dalla Corte, ma decorre
dall’assolvimento dell’inedito onere di autocertificazione da parte dell’avente diritto;
non sono stanziate nuove risorse per provvedere a tale pagamento (prevedendosi
solo che gli stessi possano avvenire mediante anticipazioni di tesoreria con
pagamento in conto sospeso […]).
Lasciando ad ognuno la valutazione se la norma sia rispettosa o meno dei dicta
della CEDU, rileva piuttosto sottolineare che il successivo comma 7 individua una
nuova disciplina di favore nell’esecuzione contro le p.a. in quanto:
7. Prima che sia decorso il termine di cui al comma 5, i creditori non possono
procedere all'esecuzione forzata, alla notifica dell'atto di precetto, ne' proporre ricorso
per l'ottemperanza del provvedimento.
Non è chiaro come questa disposizione si coordini con l’art. 14, d.l. n. 669 del 1996:
in altre parole, si tratta di stabilire se la disposizione sopra citata (a prescindere
dalla sua pressappochistica formulazione letterale, che lascia intendere che
l’azione in executivis sia un prius rispetto alla notifica del precetto e non il contrario)
rappresenti la fonte disciplinare “compiuta” della esecuzione (nei riguardi dello
Stato) per i crediti ex lege Pinto, dovendo la “esecuzione forzata” intendersi come il
“processo esecutivo nelle forme ordinarie” (in specie per quanto attiene alla notifica
del titolo – aspetto sul quale il legislatore della stabilità “tace clamorosamente” - e
del precetto), ovvero se il riferimento all’esecuzione forzata vada inteso come un
riferimento alle speciali forme che tale esecuzione deve assumere laddove il
debitore esecutato sia una p.a. (e quindi alle forme e soprattutto ai tempi di cui
all’art. 14 cit.).
Considerato quanto affermato dalla CEDU e considerato che l’amministrazione già
gode ai sensi del citato art. 5-sexies di un termine adimplendi di sei mesi prima che
possa iniziare l’esecuzione, sarebbe irrazionale ritenere che, in caso di infruttuoso
decorso del termine per il pagamento “spontaneo” (“sollecitato” con l’inoltro
dell’autocertificazione), occorra attendere un nuovo termine dilatorio, questa volta
perché previsto in via generale dall’art. 14, d.l. n. 669 del 1996, alla luce della
finalità di questa disposizione così come individuata dalla giurisprudenza
costituzionale.
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