SHORT NOTES SERIES - econpubblica

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Università Commerciale Luigi Bocconi
Econpubblica
Centre for Research on the Public Sector
SHORT NOTES SERIES
Plusvalenze e imposta societaria: spunti per una
riforma dell’Ires
Giampaolo Arachi
Short note n. 2
October 2006
www.econpubblica.unibocconi.it
:
Plusvalenze e imposta societaria: spunti per una riforma dell’Ires
Giampaolo Arachi
Università degli Studi di Lecce
Econpubblica – Università Bocconi, Milano
[email protected]
Ottobre 2006
Studio preparato per l’audizione presso la Commissione consultiva sull'imposizione fiscale delle
società, Roma 20 settembre 2006
1
Introduzione
Come recentemente notato da Desai (2006) negli ultimi decenni la letteratura
economica ha studiato estensivamente la tassazione dei guadagni in conto capitale
nell’ambito dell’imposizione personale trascurando quasi totalmente il trattamento
fiscale delle plus/minusvalenze con riferimento alle imposte societarie. Negli Stati
Uniti la scarsa attenzione ricevuta dall’argomento è probabilmente dovuta alla minore
diffusione dei gruppi societari (Morck 2003) e alla conseguente percezione di una
dimensione trascurabile del fenomeno.
Risulta difficile invece comprendere il relativo disinteresse per l’argomento da parte
degli studiosi europei sia per la maggiore rilevanza che i grandi gruppi societari hanno
nelle economie dell’Europa continentale sia per la recente ondata di riforme che ha
riguardato la tassazione delle plusvalenze realizzate in seguito alla cessione di
partecipazioni azionarie.
All’assenza di una adeguata riflessione teorica fa eco l’assenza di un modello di
riferimento nell’esperienza dei maggiori paesi industrializzati (Desai 2006, Desai e
Gentry 2003).
Questa nota illustra in termini generali i problemi che riguardano l’inserimento delle
plusvalenze nella base imponibile dell’imposta societaria cercando di evidenziare le
differenze rispetto alle questioni sollevate dal trattamento dei capital gains
nell’imposta personale. La prima parte discuterà in particolare la peculiarità relative al
trattamento fiscale delle plusvalenze su partecipazioni e analizzerà il modello della
participation exemption. L’analisi mostrerà come una adeguata valutazione di questo
istituto si debba inserire in un esame più ampio della neutralità dell’imposta rispetto
alle transazioni finanziarie. Si proporrà di conseguenza una breve rassegna dei
principali modelli di imposizione che garantiscono la neutralità del prelievo
evidenziano punti di forza e di debolezza. Nella seconda parte, le principali
conclusioni saranno utilizzate per trarre delle indicazioni di riforma dell’imposizione
societaria in Italia.
L’indagine sviluppata in questo studio si sofferma innanzitutto su questioni relative
alla coerenza interna delle diverse opzioni di tassazione dei capital gain, alla
semplicità amministrativa e alla solidità rispetto a strategie di elusione e di arbitraggio
fiscale. Vengono invece relativamente trascurati, soprattutto nella parte dedicata al
confronto di modelli alternativi di imposte societarie, i problemi riguardanti gli effetti
sul comportamento delle imprese e sul sistema economico. La letteratura su questi
temi è molto vasta e non è possibile riassumerne le principali conclusioni in maniera
esauriente nello spazio di questa breve nota.
2
Le peculiarità della tassazione dei capital gain nell’imposta societaria: la
doppia tassazione degli utili
I problemi relativi al trattamento fiscale delle plus/minusvalenze nell’ambito
dell’imposta personale sono stati oggetto di un ampio dibattito nella letteratura
economica. L’imposizione societaria pone però delle questioni specifiche che
risultano meno studiate. Per illustrare le peculiarità del trattamento delle
plus/minusvalenze in capo alle società è opportuno richiamare in primo luogo i temi
fondamentali della tassazione dei capital gains delle persone fisiche.
1
2.1
I capital gains nell’ambito dell’imposizione personale
La tassazione dei capital gains è uno dei campi in cui è più difficile trovare dei
modelli di riferimento cui ricondurre le esperienze dei principali paesi industrializzati.
In parte, ciò è dovuto all’esistenza di diversi orientamenti politici. Come osservato da
Messere et. al. (2003) nella loro analisi comparata dei sistemi fiscali nei paesi OECD,
è possibile suddividere i Paesi industrializzati in due grandi gruppi. Quelli che si
limitano a tassare i guadagni in conto capitale quando derivano da attività con un
presunto intento speculativo e quelli che, facendo riferimento ad una nozione di
reddito “comprehensive” di Haig-Simon, li considerano tendenzialmente equivalenti
al reddito ordinario o di capitale.
Tuttavia il continuo sviluppo dei mercati dei capitali, la loro crescente integrazione e
l’innovazione finanziaria ha reso sempre più evidente come le varie forme di
remunerazione degli investimenti (dalle categorie classiche – dividendi, interessi,
plusvalenze – a quelle più recenti come i rendimenti dei prodotti derivati) siano tra
loro economicamente equivalenti e che ogni distinzione prevista dalla normativa
fiscale sia inevitabilmente condannata ad essere compensata dall’aggiustamento
relativo dei prezzi delle attività o aggirata attraverso l’introduzione di nuovi strumenti
finanziari. Di conseguenza è sempre più diffuso il convincimento che sia necessario
sottoporre ad imposta i capital gains, anche quando non lo si ritiene necessario per
garantire l’equità del prelievo, al fine di evitare una progressiva erosione
dell’imposizione dei redditi di capitale attraverso pratiche elusive volte a trasformare
interessi e dividendi in flussi di pagamenti classificati dalla normativa come guadagni
in conto capitale.
Il vero problema è legato alle modalità di applicazione di tali imposte. La teoria
economica è concorde nel suggerire di applicare l’imposta sui capital gains al
momento della loro maturazione e di trattare simmetricamente guadagni e perdite
(concedendo in questo secondo caso la piena deducibilità dagli altri redditi). Tuttavia
la tassazione per maturazione è difficilmente applicabile nella realtà. Esiste
innanzitutto il problema di determinare le variazioni di valore nel periodo d’imposta
rilevante per quelle attività per le quali non esiste un ampio mercato. Inoltre
l’applicazione generalizzata della tassazione per maturazione potrebbe produrre
problemi di liquidità forzando alcuni investitori a cedere l’attività per poter pagare
l’imposta dovuta. Questi problemi spiegano perché quasi tutti i Paesi applichino le
imposte sui capital gain al momento della loro realizzazione e perché l’Italia, che più
di ogni altro paese ha tentato di seguire la via della tassazione sul maturato, ne abbia
limitato l’applicazione alle attività finanziarie trattate su mercati regolamentati nel
caso di patrimoni gestiti da intermediario.
La scelta alternativa di applicare l’imposta al momento della realizzazione dei capital
gain genera comunque un’ampia serie di problemi. Il limite fondamentale della
tassazione alla realizzazione è di lasciare al contribuente la scelta sul momento in cui
far emergere l’esistenza della plusvalenza o della minusvalenza. La conseguenza più
ovvia è la possibilità di differire nel tempo il pagamento dell’imposta sui guadagni
maturati che a sua volta produce il cosiddetto “lock in effect”. Il proprietario di una
attività che si è apprezzata in passato è chiamato a pagare l’imposta sul guadagno
realizzato solo se cede l’attività. Quindi nel caso in cui decida di continuare a detenere
l’attività, egli riceve implicitamente dallo Stato un prestito a tasso zero (pari
all’imposta che avrebbe pagato in caso di realizzazione) che resta investito nella
2
stessa attività. Di conseguenza, l’investitore potrebbe rinunciare a opportunità di
investimento alternative con rendimenti lordi attesi superiori per sfruttare il vantaggio
derivante dal differimento dell’imposta sul capital gain maturato. Se guadagni e
perdite realizzati ricevono un trattamento fiscale simmetrico, l’investitore ha al
contrario l’incentivo a realizzare subito le perdite, anche vendendo e riacquistando la
stessa attività, per ridurre le imposte da pagare compensando la perdita con altri
redditi o per vedersi riconoscere un credito.
Nello scenario più favorevole, il lock-in effect produce distorsioni nei livelli di
investimento e nella composizione del portafoglio provocando una perdita di gettito.
La perdita per l’erario può divenire particolarmente elevata nel caso in cui
l’incremento di valore del patrimonio sia differito sino alla morte e il trasferimento
agli eredi non sia considerato un evento di realizzazione.
La letteratura e l’esperienza dei maggiori Paesi industrializzati dimostrano tuttavia
che le conseguenze negative possono essere molto più gravi. In assenza di vincoli
amministrativi o di significativi costi di transazione e/o contrattuali, il contribuente ha
numerose strategie che consentono, attraverso la realizzazione selettiva delle perdite,
di ridurre sostanzialmente la base imponibile e l’imposta dovuta fino, al limite, ad
annullarla (Stiglitz 1985, Scholes et al. 2005).
2.2
I capital gains nell’imposta societaria
2.2.1
Il ruolo dell’imposta societaria
L’analisi del trattamento capital gains nell’ambito dell’imposta societaria non può
prescindere dall’interpretazione del ruolo di questa imposta nei moderni sistemi
tributari. Le principali motivazioni proposte per giustificare un prelievo sulle società
distinto dall’imposta personale che grava sui redditi dei soci possono essere così
riassunte (Bird 2002):
1) le società, in quanto entità legalmente separate da patrimoni dei loro soci,
possiedono una autonoma capacità contributiva e quindi sono tenute al
pagamento di un’imposta sul reddito analoga a quella prevista per le persone
fisiche;
2) l’imposta societaria grava sui profitti non distribuiti per evitare il differimento
dell’imposizione personale che si verificherebbe in assenza di una tassazione
dei guadagni in conto capitale al momento della loro maturazione;
3) l’imposta societaria mira a tassare le rendite ed i redditi percepiti da investitori
non residenti sul territorio nazionale;
4) l’imposta societaria è uno strumento per correggere alcuni fallimenti della
corporate governance (Desai et. al. 2006).
La struttura dei sistemi tributari europei è storicamente risultata coerente con le
motivazioni sub 2) e 3). In assenza di una efficace tassazione delle plusvalenze
azionarie alla maturazione, i soci di una società avrebbero la possibilità di differire
l’imposta semplicemente evitando la distribuzione dei dividendi. Inoltre, nel caso di
società a ristretta base azionaria, i soci che partecipano direttamente alla gestione
dell’impresa avrebbero la possibilità di differire anche le imposte sui loro redditi in
quanto amministratori, autoriducendosi i propri compensi per far crescere i profitti
non distribuiti. Il ruolo di contrasto al differimento dell’imposizione è evidenziato da
due caratteristiche tipiche del prelievo sui redditi societari. La prima è il diverso
3
trattamento fra debito e capitale proprio. Per i redditi generati in ambito societario e
classificati come interessi si applica solitamente l’approccio ET (esenzione
dall’imposta societaria, tassazione nell’ambito dell’imposta personale). Questi redditi
sono infatti distribuiti nel corso dell’esercizio e possono essere tassati nell’ambito
dell’imposta personale. Per i redditi classificati come utili si segue invece l’approccio
TT (tassazione sia a livello societario sia a livello personale).
La seconda caratteristica tipica delle imposte societarie è costituita dall’esistenza di
varie forme di coordinamento fra imposta societaria e imposta personale per evitare la
doppia tassazione dei profitti distribuiti. In Europa il metodo prevalente è stato sino a
pochi anni fa il credito d’imposta sui dividendi che consentiva di ottenere che sui
dividendi distribuiti gravasse esclusivamente l’imposta personale. Di conseguenza la
tassazione dei dividendi veniva ricondotta al modello ET, mentre la quasi totale
assenza di un’efficace tassazione delle plusvalenze portava gli utili non distribuiti al
modello TE (tassazione a livello societario esenzione dall’imposta personale).
L’obiettivo di tassare i redditi dei non residenti era reso esplicito dal fatto che il
credito d’imposta veniva generalmente riconosciuto (con eccezione della Francia)
esclusivamente ai residenti. A differenza delle imposte personali, l’imposta societaria
si configurava quindi, anche in presenza di trattati internazionali contro la doppia
imposizione, come imposta applicata secondo il principio della fonte o della
territorialità.
Negli ultimi anni, a seguito delle sentenze della Corte di Giustizia Europea e
dell’acuirsi del problema degli arbitraggi fiscali, si è assistito ad un progressivo
abbandono del meccanismo del credito d’imposta nei paesi Europei (pur con la
rilevante eccezione del Regno Unito). L’abbandono del meccanismo del credito
d’imposta non ha tuttavia portato ad un ripensamento radicale del ruolo assegnato
all’imposta societaria. La finalità di colpire i profitti non distribuiti e i redditi dei non
residenti è evidenziata dal fatto che quasi tutti i Paesi prevedono la parziale esclusione
dei dividendi dalla base imponibile dell’imposta personale.
Se l’obiettivo dell’imposta societaria è fondamentalmente quello di tassare i profitti
non distribuiti (per evitare che le persone fisiche possano differire le imposte
personali) e i redditi realizzati sul territorio nazionale da non residenti, ne deriva che
non sia rilevante la questione dell’equità (orizzontale e verticale) del prelievo fra
società.
2.2.2
Le plusvalenze su partecipazioni nel caso di utili non distribuiti
Questa osservazione ha delle conseguenze importanti con riferimento al trattamento
dei flussi finanziari fra società. Si consideri un semplice esempio: l’individuo A è
l’unico socio della società X che a sua volta possiede l’intero capitale della società Y.
Nel corso dell’anno la società Y produce un reddito di 100 che il socio A decide di
non percepire. Obiettivo dell’imposta societaria è di tassare il reddito di 100
garantendo il pagamento di una certa percentuale, supponiamo pari al 33%. Se non vi
sono pagamenti da Y a X, il risultato si ottiene direttamente con un’aliquota d’imposta
pari al 33%. Tuttavia se la società Y paga degli interessi o dei dividendi a X si pone la
questione se coordinare o meno la tassazione dei flussi finanziari fra le due imprese.
Nel caso di un pagamento di interessi la soluzione naturale appare quella della
deduzione da parte della società Y e dell’inclusione nella base imponibile della
società X. Se invece Y distribuisce dividendi ad X, e assumendo che le due società
4
siano entrambe residenti, la soluzione più semplice sembra quella della tassazione dei
profitti in capo ad Y e dell’esclusione dei dividendi dalla base imponibile di X.
Supponiamo ora che la società Y non distribuisca il reddito e che la società X ceda le
sue azioni in Y. In assenza di altre motivazioni che possano spiegare variazioni di
valore delle azioni di Y, X dovrebbe realizzare una plusvalenza di 77 (100 meno
l’imposta), pari al reddito netto prodotto ma non distribuito da Y. Come trattare
fiscalmente il guadagno in conto capitale realizzato da X? Dato che esso rappresenta
degli utili che hanno già scontato l’imposta presso la società Y, la risposta in prima
battuta più convincente è che esso debba essere considerato esente. Questa
conclusione appare ancora più solida se si considera il caso in cui la società Y
consegue una perdita di 100. Se il trattamento di perdite e guadagni è simmetrico la
perdita dà diritto ad un credito d’imposta per Y di 33 che porterebbe la perdita netta a
77 (di fatto nei sistemi reali le perdite possono essere utilizzate per compensare utili
futuri). Se i guadagni in conto capitale sulle partecipazioni fossero inseriti nella base
imponibile dell’imposta, concedendo simmetricamente la deducibilità delle perdite,
nel caso di cessione della partecipazione dovrebbe essere riconosciuta a X una perdita
di 77: la perdita di Y genererebbe così un doppio sconto fiscale. Occorre inoltre tener
presente che nel caso delle società il reddito è valutato generalmente secondo un
criterio di competenza. Questo significa che la società X potrebbe iscrivere a bilancio
la svalutazione delle partecipazioni di Y e quindi conseguire l’abbattimento
dell’imponibile anche senza necessità di cedere le azioni di Y (si veda la discussione
nella sezione 3).
Questi argomenti giustificano un caso di irrilevanza fiscale delle plusvalenze. La
stessa conclusione può essere estesa ad altre situazioni? L’autofinanziamento non è
l’unica fonte di variazione del valore delle partecipazioni. Tra le possibili cause è
opportuno ricordare anche:
a) il disallineamento fra il valore dei cespiti iscritto nei libri contabili ed il reale
valore economico degli stessi;
b) la ragionevole aspettativa dell’acquirente (perché in possesso di una migliore
tecnologia) di ottenere un rendimento maggiore del cedente dall’utilizzo dei
cespiti della società ceduta.
c) l’aspettativa dell’acquirente di poter cedere successivamente la partecipazione
ad un prezzo più alto.
E’ giustificabile l’esenzione delle plusvalenze (e la simmetrica indeducibilità delle
minusvalenze) in tutti questi casi?
2.2.3
Il disallineamento fra valori di libro e valutazione economica dei cespiti
Nel corso del tempo il valore dei cespiti iscritto nell’attivo del conto patrimoniale di
un società può divergere dal reale valore economico degli stessi per diversi motivi
come l’inflazione, l’iscrizione di ammortamenti superiori all’effettiva perdita di
valore dei cespiti, la variazione, non prevedibile al momento dell’acquisto, del valore
attuale dei redditi futuri generati dai cespiti.
Per quanto riguarda l’inflazione, sebbene le imposte si applichino in genere a basi
imponibili calcolate su base nominale non esistono motivi di ordine economico per
tassare una plusvalenza che rispecchia semplicemente la variazione del livello
generale dei prezzi.
5
Negli altri casi la plusvalenza non evidenzia l’esistenza di un reddito non tassato ma
un differimento del momento in cui il reddito prodotto dai cespiti viene riconosciuto.
Può essere utile a questo proposito ricorrere ad un esempio che nella sua semplicità
consente di chiarire le questioni fondamentali.
Si consideri dunque il caso in cui la partecipazione posseduta dalla società A
rappresenti il 100% del capitale della società B. Si assuma inoltre che la
partecipazione sia iscritta ad un costo esattamente uguale al valore delle
immobilizzazioni materiali di B e che B distribuisca integralmente i profitti ogni anno.
Supponiamo che dopo qualche anno i cespiti originari risultino interamente
ammortizzati e che vengano acquistati dei nuovi cespiti a questi identici (il costo dei
nuovi cespiti è sempre 100 in assenza di inflazione e di variazioni nella profittabilità
futura). Si assuma infine che i vecchi cespiti siano in realtà ancora utili nella
produzione e possano produrre dei redditi in futuro il cui valore attuale è pari a 10. La
società A decide di cedere la partecipazione in B ad un acquirente che è in grado di
ottenere dalla società B esattamente gli stessi risultati in termini economici che
avrebbe potuto ottenere A. Il prezzo di cessione della partecipazione sarà pari a 110 e
A realizzerà una plusvalenza di 10.
La plusvalenza si è generata perché gli ammortamenti iscritti in bilancio in passato
sono stati troppo elevati. Di conseguenza la plusvalenza evidenzia una non corretta
allocazione dei redditi durante la vita utile del bene: i redditi sono risultati sottostimati
in passato a causa degli ammortamenti troppo elevati e verranno sovrastimati in futuro
dato che il costo è già stato interamente ammortizzato. Se per semplicità ipotizziamo
che gli ammortamenti iscritti in bilancio coincidano con quelli rilevanti a fini fiscali,
possiamo anche concludere che vi è stato un differimento dell’imposta. Per attenuare
gli effetti del differimento si potrebbe ricorrere alla tassazione della plusvalenza.
Questo è in effetti ciò che avviene quando sono i cespiti ad essere ceduti direttamente.
In questo caso la differenza di valore fra il costo iscritto a bilancio non ancora
ammortizzato e il prezzo di cessione è assoggettato ad imposta. Tuttavia a fronte
dell’imposta pagata dal cedente il cessionario ottiene quote di ammortamento
calcolate sulla base del prezzo d’acquisto. L’effetto economico dell’operazione si
traduce in un anticipo dell’imposizione sui redditi futuri del cespite ceduto:
all’imposta pagata dal cedente sulla plusvalenza corrisponde una minore imposta
pagata in futuro dal cessionario che potrà portare in deduzione le maggiori quote di
ammortamento. Questo anticipo dell’imposta compensa, seppure parzialmente, il
differimento che si è verificato sino a quel momento.
Si può concludere che nel caso di cessione della partecipazione l’imponibilità della
eventuale plusvalenza dovrebbe essere collegata al riconoscimento del maggior valore
fiscale dei cespiti in capo all’acquirente1. La semplice tassazione della plusvalenza si
tradurrebbe invece in una doppia imposizione di un reddito che verrà tassato in capo
alla società ceduta.
1
Negli Stati Uniti il collegamento fra tassazione e riconoscimento dei maggiori valori fiscali è
riconosciuto da un’opzione prevista dalla sezione 338 del Tax Code. Se l’acquirente sceglie di
avvalersi di questa opzione (nel caso in cui acquisti l’80% del capitale della società target in un anno
attraverso modalità soggette a imposizione) ha la possibilità di rivalutare il valore dei cespiti della
società acquisita. All’imposizione sulla plusvalenza corrisponde quindi il riconoscimento dei maggiori
valori di ammortamento.
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2.2.4
Aumento di redditività
Consideriamo ora il caso in cui valori fiscali dei cespiti e valori economici coincidano
e che la plusvalenza si realizzi perché l’acquirente ha migliori prospettive di reddito
(perché più efficiente). In questo caso se il valore di acquisto è superiore al valore dei
cespiti la plusvalenza rappresenta un trasferimento di reddito dall’acquirente al
cedente. L’inserimento della plusvalenza nella base imponibile si traduce in un
anticipo dell’imposizione sul maggior reddito generato dalla società ceduta. Questo
anticipo verrà restituito come minore plusvalenza (al limite minusvalenza) quando
l’acquirente cederà a sua volta la partecipazione.
2.2.5
Speculazione
Resta infine da considerare il caso in cui la plusvalenza derivi da vendite speculative.
Se il soggetto A acquista ad un prezzo alto solo perché è convinto di poter rivendere a
B ad un prezzo ancora più alto perché B è a sua volta convinto di rivendere a C ad un
prezzo più alto, e così via, la plusvalenza manifesta un puro trasferimento di reddito
da chi alla fine riuscirà a rivendere il bene solo ad un prezzo più basso, realizzando
quindi una minusvalenza, a coloro che all’inizio della catena degli scambi hanno
realizzato una plusvalenza. Ancora una volta l’eventuale imposta pagata sulle
plusvalenze rappresenterebbe un anticipo che l’erario rimborserà quando l’ultimo
soggetto della catena speculativa realizzerà la minusvalenza. In generale non si
vedono motivi per un tale anticipo a meno che la partecipazione sia ceduta ad un
soggetto non residente. In questo caso infatti si verifica un aumento di reddito
complessivo per l’insieme delle società italiane (dato che la minusvalenza sarà
realizzata da un soggetto estero) che andrebbe assoggettato ad imposta inserendo le
plusvalenze nella base imponibile. Tuttavia, occorre tener conto che a fronte delle
maggiori entrate derivanti dalle plusvalenze realizzate da società italiane che cedono
le loro partecipazioni a società estere l’erario sconterebbe un minor gettito a causa del
riconoscimento delle minusvalenze realizzate da società italiane che hanno acquistato
le partecipazioni da società estere a prezzi rivelatisi poi troppo elevati.
3
Rivalutazioni e svalutazioni
A differenza delle persone fisiche, il reddito delle società è di solito valutato per
competenza. In linea teorica quindi le plusvalenze e/o minusvalenze su partecipazioni,
come anche le variazioni di valore delle poste dello Stato patrimoniale, dovrebbero
essere registrate nel momento in cui maturano, anche prima della realizzazione a
seguito della cessione dei titoli. Sebbene la tassazione per competenza venga spesso
indicata come una delle soluzioni concettualmente più soddisfacenti nell’ambito
dell’imposizione personale è importante sottolineare come l’applicazione di questo
approccio possa risultare rischiosa per il fisco qualora i titoli non siano scambiati su
mercati regolamentati e la loro valutazione debba necessariamente contenere degli
elementi di soggettività. Infatti, l’incentivo fiscale al riconoscimento delle perdite e al
differimento del riconoscimento dei guadagni in conto capitale diviene ancora più
forte in assenza dei costi legati alla cessione dei titoli.
Un forte indizio di una significativa distorsione fiscale nelle scelte di svalutazione
delle partecipazioni è offerto dai dati di bilancio delle imprese italiane degli ultimi
anni. Il grafico 1 riporta, per gli anni dal 1997 al 2005, la media del valore delle
svalutazioni di partecipazioni iscritte in bilancio come percentuale dell’attivo
7
dell’anno precedente. I dati sono stati estratti dal database AIDA che contiene bilanci
relativi a circa 560.000 società a partire dal 1995. Dal database sono state estratte le
società ancora attive il cui bilancio non consolidato è disponibile per tutti gli anni dal
1996 al 2005. Sono state eliminate le società che almeno in uno degli anni selezionati
risultavano avere patrimonio netto e ricavi non strettamente positivi riducendo il
campione a 24.304 società (di cui solo 7 quotate). Di queste solo 15.774 risultavano
avere delle partecipazioni iscritte in bilancio. Per ognuna di queste società è stato
calcolato il rapporto fra il valore delle svalutazioni nell’anno t ed il valore dell’attivo
nell’anno t-1. La media di questi valori anno per anno (eliminando le osservazioni
negative o maggiori di uno) è riportata nel grafico 1 (con l’asse delle ordinate
rappresentato in scala logaritmica). E’ evidente una decisa flessione del rapporto nel
2004, anno dell’entrata in vigore della riforma Ires, e uno ulteriore slittamento verso il
basso nel 2005.
Grafico 1: Svalutazioni in percentuale dell'attivo dell'anno precedente (medie annue)
Fonte: nostre elaborazioni su dati AIDA
Non è ovviamente possibile dedurre da questa semplice analisi grafica delle
conclusioni definitive sull’influenza del fattore fiscale sulla scelta di riconoscere delle
perdite di valore delle proprie partecipazioni in bilancio per una serie di motivi. In
primo luogo i criteri utilizzati per estrarre il campione non ne garantiscono la
rappresentatività rispetto all’universo delle società italiane (sono praticamente assenti
le società quotate). In secondo luogo i dati sono estremamente polarizzati con solo
circa mille imprese per anno che iscrivono delle svalutazioni (da qui il valore
particolarmente basso della media): di conseguenza la media è sensibile
all’inclusione/esclusione di società di grosse dimensioni e all’eventuale presenza di
errori nell’imputazione dei dati di bilancio nel database. In terzo luogo per verificare
la reale incidenza del fattore fiscale occorre un’analisi statistica ed econometrica
8
approfondita che tenti di isolare le variabili extra fiscali che hanno influenzato le
svalutazioni in questo arco temporale.
Tuttavia, in attesa di un’analisi statistica più accurata, il grafico 1 fornisce ulteriore
supporto, oltre all’evidenza aneddotica sull’utilizzo delle svalutazioni di
partecipazioni al fine di consentire la compensazione delle perdite nei gruppi
industriali, alla tesi che le svalutazioni siano state un importante strumento di
pianificazione fiscale.
Se si accetta questa tesi ne deriva che qualora si optasse per l’inclusione nella base
imponibile della variazione di valore delle partecipazioni sarebbe prudente derogare ai
principi generali della determinazione del reddito d’impresa e riconoscere fiscalmente
plusvalenze e minusvalenze solo nel momento in cui esse siano effettivamente
realizzate.
Occorre comunque riconoscere che la pianificazione fiscale a volte risponde a limiti
oggettivi delle imposte esistenti e prevedere i correttivi appropriati. Come già
ricordato, le svalutazioni sono state utilizzate in Italia per compensare guadagni e
perdite all’interno dei gruppi. E’ quindi del tutto coerente aver eliminato la
deducibilità fiscale delle svalutazioni nel momento in cui venivano introdotti gli
istituti del consolidato nazionale ed internazionale.
4
Tassazione delle plusvalenze su investimenti finanziari
Una volta illustrati gli argomenti che possono giustificare l’esenzione delle
plusvalenze su partecipazioni è necessario affrontare la questione se non sia
opportuno esentare dall’imposta societaria anche le altre plusvalenze.
Per i beni ammortizzabili la risposta è negativa. Il prezzo di acquisto in questo caso
rappresenta la base su cui calcolare gli ammortamenti a cui avrà diritto in futuro
l’acquirente. In assenza di una tassazione delle plusvalenze vi sarebbe l’ovvio
incentivo a gonfiare il prezzo di vendita per ottenere una maggiore riduzione
d’imposta. Come illustrato in precedenza, la tassazione delle plusvalenze elimina
questo incentivo rappresentando un anticipo del risparmio d’imposta generato dai
maggiori ammortamenti.
Passando a considerare gli investimenti in attività finanziarie, diverse dalle azioni, è
opportuno concentrarsi preliminarmente sulle obbligazioni emesse da altre società.
Come già rilevato in questo caso il trattamento fiscale degli interessi segue di solito
l’approccio ET (esenzione dall’imposta della societaria, tassazione dall’imposta
personale). Nel caso di flussi finanziari fra società l’approccio si traduce nella
deduzione degli interessi dal reddito della società finanziata e nella successiva
tassazione in capo alla società finanziatrice. Oltre alla speculazione, sono due le
motivazioni fondamentali che possono spiegare una variazione di valore delle
obbligazioni. La prima è una riduzione (aumento) della probabilità di insolvenza della
società emittente, dovuta ad esempio al manifestarsi di una redditività superiore
(inferiore) alle aspettative. In questo caso l’incremento (decremento) di valore delle
obbligazioni capitalizza (ammortizza) le maggiori (minori) cedole, e le minori
(maggiori) perdite in conto capitale, che ci si attende in futuro. Nel caso di maggiori
redditi futuri, essi saranno deducibili dall’imposta societaria e non saranno quindi
gravati dall’imposta. La seconda è una variazione dei tassi di mercato. In caso di
riduzione del livello dei tassi di interesse il valore delle obbligazioni a tasso fisso
aumenterà capitalizzando il maggior rendimento rispetto ai tassi di mercato. Questo
9
maggior rendimento, derivando da cedole deducibili è anch’esso al netto dell’imposta
societaria della società emittente.
In entrambi i casi quindi una eventuale plusvalenza andrebbe inserita nella base
imponibile dell’imposta della società finanziatrice.
5
La tassazione delle plusvalenze su partecipazioni
Le argomentazioni svolte nelle sezioni precedenti suggeriscono l’adozione di un
modello noto in Europa come “participation exemption” che prevede (con i limiti che
verranno fra poco richiamati) che i dividendi e le plus/minusvalenze su partecipazioni
non rientrino nella base imponibile dell’imposta societaria per evitare fenomeni di
doppia tassazione degli utili. Il modello “puro” della participation exemption pone
due ordini di problemi. Il primo nasce dal fatto che quando quest’istituto viene
applicato nella realtà occorre tener conto di una serie di circostanze che non sono
adeguatamente descritte dal semplicistico modello madre-figlia utilizzato nelle sezioni
precedenti. Ad esempio, la società partecipata potrebbe non aver pagato l’imposta sui
redditi perché residente all’estero in un paradiso fiscale. Il secondo ordine di problemi
deriva dal fatto che la participation exemption esaspera la distinzione fra debito ed
equity: il primo segue il modello ET il secondo quello TE. Nei moderni sistemi
industriali è tuttavia sempre più evidente come sia impossibile tracciare una linea di
demarcazione sicura sul piano economico fra le due forme di finanziamento delle
società. Ne derivano numerose possibilità di elusione e di distorsione delle scelte delle
imprese (Kleinbard 2005, Scholes et. al. 2005)
5.1
I limiti alla participation exemption
Nei Paesi dell’Unione Europea la participation exemption è di solito soggetta a due
serie di limitazioni (Cirrincione e Spinoso 2006a, 2006b). La prima comprende sia la
richiesta di un livello minimo di tassazione della controllata sia limitazioni sulla
forma giuridica e sulle attività da questa svolte. Queste restrizioni hanno l’obiettivo
comune di evitare che possano godere dell’esenzione i redditi derivanti da
partecipazioni in società che non hanno pagato un livello adeguato di imposizione o
perché residenti all’estero in paesi con imposte particolarmente basse o perché hanno
percepito redditi sottoposti a regimi privilegiati (società finanziarie o società non di
capitali trattate come entità trasparenti o società di comodo).
E’ opportuno tuttavia osservare che nel caso di partecipazioni in società estere il
semplice diniego della participation exemption non elimina i rischi di perdita di
gettito. Occorre infatti sempre ricordare che l’alternativa alla partecipation exemption
è di solito la tassazione delle plusvalenze e la simmetrica deducibilità delle
minusvalenze. Al pericolo di non tassazione dei redditi prodotti all’estero si
sostituisce quello della non tassazione dei redditi prodotti da società residenti e
trasferiti all’estero attraverso minusvalenze generate dalla cessione di partecipazioni
di collegate ad altre società estere del gruppo a prezzi artificialmente bassi. Il
differimento dell’imposta sui redditi emersi nei paradisi fiscali va quindi corretta con
la previsione di opportune CFC rules piuttosto che con la limitazione della
participation exemption.
Il secondo insieme di vincoli riguarda la richiesta di un minimo per l’ammontare della
partecipazione detenuta e/o di periodo di possesso. In questo caso la motivazione è di
evitare che le società forniscano un veicolo per differire l’imposta personale su
10
investimenti in azioni di tipo finanziario e/o speculativo. Per comprendere questo
punto occorre ricordare che in quasi tutti i paesi il modello di tassazione applicato ai
redditi delle azioni è quello della doppia tassazione TT (tassazione societaria e
tassazione personale). Di solito la doppia tassazione, che viene comunque mitigata nel
caso dei dividendi ed è fortemente attenuata per le plusvalenze, viene giustificata dalla
necessità di garantire una adeguata progressività dell’imposizione soprattutto nel caso
in cui la proprietà azionaria risulti relativamente concentrata. Se applicata
indistintamente a tutte le partecipazioni la tassazione personale potrebbe essere
differita effettuando i propri investimenti attraverso una società.
L’applicazione di questi vincoli si traduce tuttavia nella determinazione di soglie che
risultano economicamente arbitrarie e che concedono alle società la possibilità di
scegliere se farsi riconoscere l’esenzione o l’applicazione dell’imposta (soprattutto nel
caso di limiti temporali alla detenzione). Oltre all’ovvio risultato di spingere alla
realizzazione rapida delle minusvalenze per farsi riconoscere la deducibilità fiscale e
al posticipo delle cessioni in caso di plusvalenza, per evitare l’imposta, la differente
tassazione a seconda del periodo di detenzione determina sempre la possibilità di
costruire degli arbitraggi fiscali (Stiglitz 1985). L’esperienza italiana offre a proposito
un esempio istruttivo relativamente alle vicende che hanno portato in Italia
all’introduzione dei commi 3-bis, ter e quater nel TUIR, volte a contrastare il
cosiddetto dividend washing.
Si può quindi concludere che la ricerca di correttivi per chiudere possibili canali di
differimento dell’imposta aperti dall’applicazione della participation exemption si
traducono nella generalità dei casi nella previsione di vincoli che generano nuove
opportunità di elusione e di arbitraggio. Si deve valutare quindi l’opportunità di
ridurre le opportunità di differimento dell’imposta operando non sull’imposta
societaria ma piuttosto su quella personale attraverso l’introduzione dei correttivi
nella tassazione delle plusvalenze alla realizzazione. Sarà questo l’oggetto della
sezione 8.
6
La neutralità fra le varie forme di finanziamento
La sezione precedente ha illustrato come l’introduzione di regimi di tassazione
differenziati su redditi di capitale economicamente equivalenti (plusvalenze di breve
di lungo periodo) o fra soggetti (società domestiche e società residenti in paradisi
fiscali) genera inevitabilmente nuove opportunità di elusione e di arbitraggio.
La stessa conclusione può essere tratta nel caso della distinzione su cui si basa
l’approccio stesso della participation exemption, la distinzione fra debito ed equity.
Oltre alle pratiche elusive un’ampia letteratura ha documentato come la
discriminazione fra debito e azioni ha degli effetti sulle scelte di finanziamento e di
investimento delle imprese2 Inoltre queste distinzioni ostacolano lo sviluppo di nuove
forme contrattuali, ad esempio in Italia i titoli partecipativi introdotti dalla c.d. riforma
Vietti, non facilmente classificabili in una delle due categorie.
E’ quindi opportuno valutare modelli alternativi di imposizione volti a superare la
questa dicotomia.
2
Sull’Italia per gli effetti delle imposte societarie sulle scelte di finanziamento si veda Alworth e
Arachi (2001), Bontempi et. al. (2005a,b), Staderini (2001) mentre per gli effetti sugli investimenti
Arachi e Biagi (2005), Gennari et al. (2005).
11
In maniera molto semplificata è possibile affermare che l’attuale distinzione fra
modello ET per il debito e TE o TT per l’equity può essere superata o riportando
entrambi sotto lo schema ET oppure prevedendo per entrambi un modello TE o TT.
Ricadono nel primo caso la cash-flow tax proposta, fra gli altri, dal rapporto Meade
(1978), la proposta avanzata negli anni 90 dall’Institute of Fiscal Study, nota come
Allowance for corporate equiy (ACE), e introdotta in Italia (con qualche differenza
non sostanziale) nel 1997 dalla riforma Visco sotto l’acronimo di Dit, e la sua
evoluzione proposta negli Stati Uniti da E. Kleinbard (2005) sotto il nome di Cost of
capital allowance (COCA). Rientrano nella seconda prospettiva invece la
Comprehensive Business Income Tax (CBIT) proposta dal Dipartimento del Tesoro
(Department of Treasury, 1992) americano che le business tax sul valore aggiunto del
tipo Irap.
6.1
Deduzione del costo dell’equity: ACE, Dit e COCA
Numerose proposte per eliminare il trattamento differenziale fra debito ed equity si
rifanno al modello della “cash-flow tax” che prevede di calcolare la base imponibile
come differenza fra i ricavi e i costi, entrambi valutati per cassa, consentendo la
deducibilità immediata del costo dei beni di investimento (ed eliminando di
conseguenza la deduzione degli ammortamenti). La discriminazione fra fonti di
finanziamento viene eliminata in quelle versioni della proposta che prevedono
l’indeducibilità dei costi (fra cui gli interessi passivi) e la non tassazione dei proventi
delle transazioni finanziarie (modalità di tassazione nota nella letteratura, dopo il
rapporto Meade, come base di tipo R).
Nonostante il vasto interesse suscitato a livello accademico, soprattutto in relazione
alla capacità di eliminare ogni distorsione delle scelte di investimento, la tassazione
sul cash flow non è mai stata applicata in alternativa all’imposta societaria
tradizionale. La letteratura ha individuato una serie di problemi (che riguardano i costi
di adempimento, la vulnerabilità all’elusione, il coordinamento con l’imposizione
degli altri paesi per le multinazionali) (Sunley 1989) che possono in parte spiegare la
mancata adozione di tali proposte. Un’ulteriore fattore che può motivare lo scarso
successo del modello della cash-flow tax a livello societario è che quasi sempre è stata
associata a progetti di riforma che contemplavano il passaggio dal modello del reddito
comprehensive al modello del reddito consumo per l’imposta personale.
Nel corso degli anni ’90 sono state avanzate delle ulteriori proposte volte ad ottenere
effetti economicamente equivalenti alla cash flow tax rimanendo in un contesto più
simile alla tradizionale imposta sui redditi. Tra queste proposte la più nota è quella
formulata dall’Institute of Fiscal Study e nota come ACE (Allowance for corporate
equity). In estrema sintesi questo modello prevede di dedurre dalla base imponibile
dall’imposta societaria il costo dell’equity calcolato come prodotto del tasso privo di
rischio per il capitale investito nell’impresa. Il meccanismo dell’ACE è stato applicato
(con qualche variazione) in Austria, Brasile, Belgio (dal 2007) Croazia ed Italia,
anche se in questo ultimo caso è stato denominato Dual income tax (Dit).
Sostanzialmente i questi esperimenti hanno prodotto risultati positivi (Keen e King
2002) incentivando le imprese ad una maggiore capitalizzazione (Bontempi et al.
Staderini 2001) e a maggiori investimenti (Arachi e Biagi 2005, Staderini 2005).
Vanno tuttavia segnalate due caratteristiche del modello ACE - Dit che potrebbero
risultare problematiche in prospettiva. La prima riguarda lo sviluppo degli strumenti
12
finanziari ibridi non facilmente classificabili nelle due categorie di debito e azioni. Le
recenti riforme del diritto societario, anche in Italia con la riforma Vietti, cercano di
non ostacolare la diffusione di tali strumenti nella prospettiva di una maggiore
efficienza del mercato dei capitali. Il meccanismo ACE – Dit continua invece a
prevedere una differenziazione fra debito, con interessi interamente deducibili, e
azioni, con deducibilità del costo imputato. E’ plausibile ritenere che questa dicotomia
tenderà a penalizzare in alcuni casi nuovi strumenti finanziari, non concedendo né la
deducibilità di eventuali corrispettivi fissi simili agli interessi né quella di eventuali
corrispettivi commisurati agli utili. In altri casi invece si potrebbero manifestare casi
di doppia deduzione con la necessità di introdurre norme antiarbitraggio (già presenti
del resto anche nella normativa della Dit italiana). Sarebbe possibile ovviare a questo
limite del modello ACE – Dit seguendo l’approccio proposto negli Stati Uniti da E. D.
Kleinbard (Kleinbard 2006) . All’interno di una proposta complessiva di riforma
dell’imposizione societaria negli Stati Uniti, l’Autore propone di sostituire tutte le
deduzioni per i costi del finanziamento con un’unica deduzione calcolata
moltiplicando il tasso privo di rischio (esempio il tasso sui titoli di Stato) per il valore
complessivo degli asset dell’impresa. In altri termini si estende la logica sottostante al
modello ACE-Dit a tutti i mezzi di finanziamento dell’impresa.
La seconda caratteristica potenzialmente problematica dei modelli ACE-Dit o COCA
riguarda la compatibilità con la partecipation exemption e più in generale con un
modello di tassazione degli utili infrasocietari che preveda l’esclusione dei dividendi
percepiti dalla base imponibile dell’imposta societaria. Infatti lo schema sottostante a
questi metodi di calcolo della base imponibile dell’imposta societaria è ET: esenzione
in capo alla società che produce il reddito, tassazione in capo al socio che percepisce
il reddito3. Se il modello è ET o TT tutti i redditi finanziari percepiti dalla società
devono rientrare nella base imponibile. Se così non fosse si creerebbero opportunità di
arbitraggio fiscale in quanto le società potrebbero ottenere una deduzione sui
finanziamenti ricevuti per poi investire in attività esenti. In realtà tutti i modelli con un
costo imputato alle fonti di finanziamento hanno bisogno di ulteriori norme di
chiusura: occorre infatti assicurare che alla deduzione ottenuta sull’incremento dei
mezzi di finanziamento corrisponda un reddito tassabile. Nel caso della Dit Italiana
erano finalizzate a questo obiettivo le norme che non concedevano la deduzione agli
incrementi di capitale nella misura in cui vi era un aumento dei finanziamenti a
società controllate o controllanti e/o un aumento di altri titoli e valori mobiliari. Nel
caso del COCA la proposta prevede l’imputazione in capo al soggetto investitore di
un rendimento minimo, tassabile, calcolato moltiplicando il valore dell’attività
posseduta per il rendimento privo di rischio. E’ evidente che questo meccanismo crea
dei delicati problemi nel caso di investimenti realizzati da soggetti non residenti e da
entità esenti.
3
Più correttamente, il modello ET si applica relativamente al rendimento normale (il tasso privo di
rischio) prodotto dall’impresa e deducibile dal reddito imponibile. Sul rendimento che eccede il tasso
privo di rischio si ha doppia tassazione. Tuttavia, vi è un ampio consenso fra gli studiosi sul fatto che il
livello di tassazione del rendimento in eccesso non abbia effetti riguardo alle scelte fondamentali di
finanziamento e di investimento dell’impresa. Si veda a proposito la sezione 8.
13
6.2
Indeducibità dei costi di finanziamento: CBIT e Irap
Il riequilibrio fra debito e equity può essere ottenuto in via alternativa alle proposte
della sezione precedente prevedendo la non deducibilità di tutti i costi del
finanziamento. Un approccio di questo tipo è stato proposto originariamente dal
Dipartimento del Tesoro americano all’interno di una articolata proposta di riforma
sviluppata nel 1992 (Department of the Treasury 1992) nota come Comprehensive
income business tax (CBIT). La differenza principale con il modello della cash flow
tax risiede nel fatto che il costo dei beni di investimento continua ad essere deducibile
secondo un piano di ammortamento. La conseguenza economica fondamentale è che
in questo caso il rendimento del capitale risulta colpito dall’imposta societaria. I flussi
finanziari fra società assoggettate alla CBIT, rappresentando reddito già tassato, sono
esclusi dalla base imponibile dell’imposta. La CBIT è quindi perfettamente coerente
con il modello della participation exemption. Inoltre non concedendo alcuna
deduzione per gli oneri di finanziamento non è vulnerabile a strategie di elusione
attraverso le transazioni finanziarie.
Il modello CBIT è in realtà molto vicino ad un’altra famiglia di imposte, le business
tax sul valore aggiunto, di cui l’italiana Irap è l’esempio attualmente più rilevante nel
panorama internazionale. Come per la CBIT anche la base imponibile Irap non
contempla alcuna deduzione per gli oneri di finanziamento e risulta quindi neutrale
rispetto alle scelte di finanziamento. Tuttavia l’Irap si discosta dalla CBIT per due
differenze fondamentali. La prima, più evidente, consiste nel fatto che la base
imponibile Irap comprende, oltre ai profitti e al rendimento del capitale, anche i
redditi da lavoro pagati dall’impresa. La seconda è che per l’Irap risultano irrilevanti
tutti i guadagni su operazioni finanziarie, mentre nella CBIT solo quelli derivanti da
investimenti in altre entità già assoggettate alla CBIT. Quest’ultima differenza
potrebbe rivelarsi nella pratica molto rilevante.
Infatti, se da un lato un’imposta del tipo Irap elimina tutte le distinzioni artificiali
riguardo alle attività e passività finanziarie, con una notevole razionalizzazione
dell’imposta, dall’altro crea una nuova importante linea di separazione che può creare
nuove opportunità di elusione: quella fra transazioni reali e transazioni finanziarie.
Mentre le prime rientrano nella base imponibile le seconde ne sono totalmente
escluse. La letteratura ha individuato diverse strategie per ridurre il carico fiscale in
un contesto di questo tipo (Bradford 2005, McLure e Zodrow 1996, Zee 2006 ). Ad
esempio nella vendita di un bene durevole il venditore può proporre il bene ad un
prezzo più basso rispetto a quello di mercato a patto che l’acquirente sottoscriva un
contratto di finanziamento con un interesse elevato. Se l’interesse più elevato
compensa esattamente la riduzione di prezzo per l’acquirente, il venditore riesce a
ridurre la base imponibile (l’interesse non rientra nella base imponibile) a parità di
reddito.
7
Indicazioni per una riforma dell’imposta societaria in Italia
Le considerazioni svolte sino a questo momento possono essere utilizzate per tentare
di trarre delle indicazioni su possibili riforme dell’imposizione societaria in Italia. A
tal fine è opportuno distinguere fra un’ottica di breve ed una di medio periodo. Nella
prima verranno considerati quegli interventi che modificano alcuni aspetti della base
imponibile senza modificare l’impianto fondamentale dell’imposta, mentre nella
seconda si prenderanno in considerazione possibili modificazioni di modello. E’
14
importante sottolineare come le due visioni debbano essere necessariamente collegate.
Negli ultimi mesi si è molto insistito nel dibattito economico-polico sulla necessità di
evitare continue revisioni del regime fiscale delle imprese (così come è accaduto negli
ultimi anni con il succedersi delle riforme Visco e Tremonti) per consentire un
corretto disegno delle strategie aziendali e degli investimenti. Tuttavia, a mio avviso,
il problema cruciale non è stato generato dalla numerosità degli interventi legislativi
ma dal fatto che questi abbiano cercato di realizzare modelli di imposizione con
caratteristiche (e quindi effetti sulle scelte aziendali) completamente diverse. Da un
lato la riforma Visco, con l’obiettivo principale di ridurre le distorsioni nelle scelte di
finanziamento e ridurre il costo del capitale si è mossa verso un modello ET con
l’adozione di un modello ACE-Dit. Dall’altro la riforma Tremonti, con l’obiettivo
principale di razionalizzare l’imposizione dei gruppi societari e di chiudere delle
opportunità di arbitraggio, ha virato verso un’impostazione del tipo TE a livello
societario (e TT a livello personale) con l’eliminazione del credito d’imposta sui
dividendi, l’introduzione della participation exemption e di varie forme di consolidato
fiscale e tassazione per trasparenza.
E’ quindi fondamentale individuare in primo luogo un modello di medio periodo che
risulti sufficientemente razionale e condivisibile per poter rappresentare un
riferimento sicuro per un numero sufficientemente lungo di anni. Nel breve periodo
vanno realizzati aggiustamenti dell’esistente che risultino con questo coerenti.
Tuttavia, dato è opportuno invertire l’ordine espositivo e iniziare con l’esposizione
delle proposte di breve periodo dato che nella realtà italiana alcuni vincoli limitano il
campo delle scelte possibili.
7.1
Il breve periodo: la participation exemption
Come accade in numerosi Paesi europei anche in Italia la non rilevanza fiscale delle
plusvalenze/minusvalenze su partecipazioni è condizionata da una serie di vincoli che
riguardano la durata del possesso, la classificazione come immobilizzazioni
finanziarie, la residenza fiscale della società partecipata in uno Stato o territorio
diverso da quelli a regime fiscale privilegiato, l’esercizio da parte della società
partecipata di un’impresa commerciale. Inoltre con d.l. 203/2005, convertito dalla
legge 248/2005 è stata prevista la graduale riduzione della soglia d’esenzione delle
plusvalenze fino al 84% nel 2007 creando una asimmetria di trattamento con le
minusvalenze che restano indeducibili. L’effetto combinato di queste disposizioni,
tenendo anche conto della normativa anti dividend washing già richiamata nella
sezione 5.1, è quello di creare una casistica che prevede ben otto diverse fattispecie
con quattro differenti modalità di tassazione (Perris e Piazza, 2006).
Si è già illustrato nella sezione 5.1 come questi vincoli rappresentino uno strumento
poco efficace e fonte di ulteriori problemi in prospettiva. E’ quindi opportuno
riflettere su di un loro superamento che può avvenire o nel contesto di un
rafforzamento della participation exemption o di una sua abolizione. Tuttavia questa
seconda opzione è difficilmente praticabile. Abolito il credito d’imposta il
meccanismo più naturale per la tassazione dei dividendi infrasocietari è quello
dell’esenzione al 95%, già in vigore, in applicazione della direttiva UE «madrefiglia», per i dividendi di fonte comunitaria. Il modello TE per i dividendi richiede,
per le ragioni discusse nella sezione 2.2.2, la non rilevanza fiscale delle
plus/minusvalenze. E’ auspicabile quindi un intervento di riforma che nel breve
15
periodo ristabilisca la piena irrilevanza fiscale delle plus/minusvalenze su
partecipazione indipendentemente dalla durata del possesso e dal fatto che siano
iscritte nell’attivo circolante o nelle immobilizzazioni finanziarie.
7.2
Il medio periodo: verso la neutralità finanziaria
Se la scelta della participation exemption appare quasi obbligata alla luce dei vincoli
imposti dalle norme comunitarie, essa è sicuramente poco coerente con il disegno
complessivo dell’Ires. Come osservato nella sezione 6, la participation exemption
esaspera la distinzione fra partecipazioni, assoggettate allo schema TE, ed debito cui
l’imposta si applica secondo l’approccio ET. La tensione fra questi due approcci è
testimoniata dalle numerose norme che limitano la deducibilità degli interessi passivi
con la finalità di evitare arbitraggi fiscali tra i due regimi come il pro-rata
patrimoniale (art. 97 Tuir) ed il pro-rata di deducibilità (art. 96 Tuir). Da una
prospettiva più ampia è chiaro come sia proprio la difficoltà a sostenere questa
distinzione fra diverse tipologie di finanziamento che genera la necessità di norme
generali contro la capitalizzazione sottile (art. 98 Tuir).
Tenendo conto anche degli effetti economici negativi sulle scelte fondamentali delle
imprese prodotte dalla discriminazione del capitale proprio rispetto al debito, già
richiamate nella sezione 6, è opportuno riflettere sulle modalità di riequilibrio attuabili
nel medio periodo.
Dalla discussione condotta nella sezione precedente emergono due alternative: la
reintroduzione della Dit (nella sua versione originaria o in quella più generale del
modello COCA) e la progressiva sostituzione dell’Ires con l’Irap (nella sua forma
attuale o modificata verso il modello della CBIT).
Si è dimostrato come la seconda alternativa sia in teoria superiore nel garantire
uniformità di trattamento alle attività e passività finanziare delle imprese in maniera
coerente con la participation exemption. Occorre tuttavia ricordare che i due approcci
differiscono notevolmente riguardo i loro effetti economici (Bond 2000). Non essendo
possibile in questa sede un confronto esaustivo, è opportuno soffermarsi su quello che
viene indicato come il principale vantaggio teorico del modello ACE-Dit: la neutralità
rispetto alle scelte di investimento delle imprese. Contrariamente a quanto spesso
sostenuto da numerosi commentatori nel periodo di vigenza della Dit, questo
meccanismo (se applicato secondo lo schema ACE) lascia invariato il costo del
capitale dell’impresa, anche in presenza di ammortamenti fiscali che non
rappresentano correttamente la reale perdita di valore del bene, ed elimina ogni
discriminazione fra investimenti caratterizzati da un diverso livello di rischio. Al
contrario l’Irap (come la CBIT) fa aumentare il costo del capitale in misura che viene
influenzata dagli ammortamenti fiscali. Di conseguenza crea dei disincentivi
all’investimento che variano in relazione agli ammortamenti fiscali. Tuttavia questo
aspetto negativo è in parte mitigato dal fatto che un’imposta del tipo Irap, data la più
ampia base imponibile, richiede un’aliquota bassa. Nel contesto di una economia
aperta l’aliquota bassa produce degli ulteriori benefici in quanto riduce gli incentivi al
trasferimento di profitti verso controllate estere e alla delocalizzazione della
produzione.
Se si accetta la conclusione della non opportunità di un ritorno alla Dit, resta la scelta
fra Irap e una sua versione modificata, più vicina alla CBIT, con l’esclusione del
costo del lavoro dalla base imponibile. Questa scelta dipenderà dalla struttura
16
dell’imposta personale. Dato che la prospettiva più probabile per i redditi di capitale è
il consolidamento dell’applicazione di un’imposizione sostitutiva di tipo
proporzionale, sarà preferibile il modello CBIT se l’imposizione sui redditi da lavoro
avrà una struttura progressiva con aliquote marginali significativamente differenti da
quella applicata ai redditi di capitale. Infatti in questo caso la CBIT elimina
l’incentivo a percepire compensi sotto forma di profitti piuttosto che come redditi di
lavoro. L’Irap è invece preferibile se l’imposizione sui redditi da lavoro avrà una
struttura relativamente vicina alla proporzionalità con aliquote marginali non troppo
lontane da quelle applicate sul capitale. In questo scenario l’Irap garantirebbe non solo
la neutralità sulle scelte di finanziamento e di scelta dei fattori produttivi4, ma essendo
applicabile a tutte le tipologie di impresa, anche la neutralità rispetto alla forma
organizzativa.
Ovviamente una transizione dall’Ires all’Irap pone una serie di delicati problemi, (il
livello dell’aliquota, la redistribuzione del carico tributario fra imprese e fra fattori
produttivi, le correzioni da realizzare nei rapporti finanziari fra Amministrazioni
Centrali e Regioni, le eventuali correzioni da apportare all’imposta nel caso di una
condanna da parte della Corte di Giustizia Europea) che non è possibile qui analizzare
in maniera compiuta. A livello strutturale un’imposizione societaria basata su CBIT o
Irap pone due interrogativi sollevati nella sezione 6.2. Il primo riguarda la possibilità
di ridurre entro limiti accettabili le possibilità di arbitraggio che sfruttino il diverso
trattamento fra transazioni finanziarie e reali. Si tratta di un tema relativamente poco
studiato nella letteratura che dovrà essere oggetto della ricerca futura. Il secondo ha a
che vedere con il differimento delle imposte personali sui redditi finanziari realizzati
utilizzando come veicolo una società. Questo problema potrebbe trovare una
soluzione con un correttivo introdotto a livello dell’imposta personale. Lo stesso
correttivo potrebbe evitare il differimento dell’imposta che si realizza in alcuni casi di
plusvalenze societarie quando si applichi la participation exemption come illustrato
nella sezione 2.2.2. Più in generale, il correttivo potrebbe essere applicato ad ogni tipo
di plusvalenza realizzata da persone fisiche consentendo di razionalizzare
l’imposizione su tutte le forme di impiego del capitale, ad esempio gli immobili,
garantendo un significativo riequilibrio in termini di equità del prelievo. Per questi
motivi, il correttivo rappresenta una possibile riforma da introdurre nel breve periodo
(anche in vista di un accorpamento delle aliquote dell’imposta sostitutiva sui redditi
finanziari intorno al 20%) e verrà discussa nel dettaglio nella sezione seguente.
8
La correzione del differimento dell’imposta a livello personale: un
coefficiente di rettifica sui capital gain
La letteratura economica ha da tempo dimostrato come il lock-in effect, causato dal
differimento dell’imposta nel caso in cui le plusvalenze siano tassate solo nel
momento della loro realizzazione, può essere eliminato utilizzando dei correttivi che
rendano equivalente l’imposta pagata al momento della realizzazione a quella che il
4
In realtà l’Irap garantisce la neutralità rispetto alla scelta di impiego dei fattori produttivi solo se gli
ammortamenti fiscali coincidono con la reale perdita di valore dei cespiti. Dato che nella realtà questa
condizione non si realizza l’Irap produce incentivi (o disincentivi) differenziati all’impiego di diversi
cespiti. Contrariamente a quanto sostenuto da alcuni commentatori (Convenevole 2005) la non
deducibilità degli ammortamenti dalla base imponibile non rende l’imposta neutrale ma, al contrario,
crea un incentivo a sostituire capitale con lavoro.
17
contribuente avrebbe pagato se si fosse seguito il principio della maturazione. Questo
approccio è noto in letteratura come imposizione retrospettiva dei capital gains.
Nel caso in cui le variazioni di valore di un asset durante il periodo di detenzione
siano note è possibile prelevare un’imposta sul guadagno in conto capitale al
momento del realizzo che replica esattamente l’onere dell’imposta applicata secondo
la maturazione.
Per conseguire l’obiettivo è necessario valutare l’apprezzamento dell’asset nei vari
periodi fiscalmente rilevanti, calcolare l’imposta dovuta e capitalizzare queste imposte
“virtuali” fino al momento del realizzo utilizzando i tassi di rendimento interno al
netto d’imposta relativi ad ogni singolo periodo. Di fatto è il metodo utilizzato per
calcolare il cosiddetto “equalizzatore” in vigore nei primi mesi del 2001 sui proventi
dei fondi esteri armonizzati. Tuttavia proprio l’esperienza dell’equalizzatore del 2001
(che prevedeva tre diverse forme di equalizzatore) insegna che i meccanismi di
correzione devono essere semplici e applicabili anche ad attività di cui non si conosce
il sentiero di apprezzamento.
La letteratura economica ha tuttavia individuato dei meccanismi che consentono di
eliminare il lock-in effect senza necessità di conoscere l’intera storia degli andamenti
del prezzo di una particolare attività.
Le soluzioni si basano su un risultato fondamentale dell’analisi degli effetti delle
imposte sulle scelte di portafoglio. Il rendimento di ogni asset può essere scomposto
nel rendimento certo e in un extra-rendimento. La tassazione del rendimento in
eccesso rispetto al rendimento certo non modifica il benessere dell’investitore in
quanto questi ha la possibilità di controbilanciare gli effetti delle imposte con un
opportuna modificazione della composizione del portafoglio (a condizione che le
perdite siano pienamente riconosciute e determino una riduzione di imposta o un
credito nel periodo in cui si verificano).
Supponiamo che l’investitore abbia scelto di investire 100 in un titolo che garantisce
un rendimento certo del 10%. Egli investe anche altri 100 in un titolo rischioso che
rende il 20% nello stato del mondo favorevole (F) ma solo il 5% in quello sfavorevole
(S). L’investitore avrà dunque una ricchezza complessiva apri a 230 nello stato del
mondo favorevole e 215 in quello sfavorevole (vedi tabella 1). Immaginiamo ora che
si introduca un’imposta con aliquota del 10% che colpisca il rendimento in eccesso
rispetto al rendimento certo. Nello stato del mondo favorevole il nostro investitore
avrà ottenuto un extra rendimento pari a 10 e dovrà quindi versare 1 di imposta. Nello
stato del mondo favorevole ottiene invece un extra rendimento negativo di 5 e
riceverà quindi una riduzione d’imposta o un rimborso di 0.5. La sua ricchezza netta
sarà quindi pari a 229 nello stato F e 215,5 nello stato S.
Tabella 1
Investimento
Stato
iniziale
F
Titolo privo di 100
110
rischio
Titolo rischioso 100
120
Totale
230
Imposta
Stato
S
110
Stato F
Stato S
(netto imp.) (netto imp.)
110
110
105
215
119
229
105,5
215,5
1
0,5
18
L’investitore ha tuttavia la possibilità di lasciare invariata la ricchezza finale nei due
stati del mondo riducendo l’investimento sul titolo privo di rischio fino a 88,89 e
aumentandolo fino a 111,11 in quello rischioso. Come illustrato nella tabella 2 in
questo caso egli otterrebbe una ricchezza finale lorda di 231,11 nello stato del mondo
favorevole e di 214,44 nello stato del mondo sfavorevole. Al netto di imposta la sua
ricchezza tornerebbe ad essere 230 nello stato F e 215 nello stato S.
Se il risk pooling del settore privato è efficiente, una variazione delle imposte sul
rendimento in eccesso rispetto al rendimento certo non ha conseguenze reali
sull’economia e sul gettito dello Stato (Kaplow 1994)
Tabella 2
Investimento
iniziale
Titolo privo di 88,89
rischio
Titolo rischioso 111,11
Totale
Extra r.
Imposta
Stato
F
Stato
S
Stato F
(netto imp.)
Stato S
(netto imp.)
97,78
97,78
97,78
97,78
133,33
231,11
11,11
116,66
214,44
-5,55
132,22
230
117,22
215
1,11
-0,55
L’implicazione di questo risultato è che l’aggiustamento delle imposte al momento
della realizzazione dei guadagni può avvenire utilizzando non l’effettivo rendimento
dell’attività considerata ma il rendimento certo che l’investitore poteva garantirsi nei
periodi di possesso. Sulla base di questa intuizione Auerbach e Bradford (Auerbach
1991, Bradford 1995, Auerbach e Bradford 2004) hanno dimostrato che il lock-in
effect può essere eliminato da un’imposta che prenda come riferimento solo il prezzo
di acquisto e quello di vendita di un asset.
L’intuizione di questo approccio è la seguente. La dinamica del valore di un asset dal
prezzo di acquisto A0 al suo prezzo di vendita AS può essere approssimata
immaginando che l’asset si sia apprezzato al tasso di interesse privo di rischio. Sono
possibili due approssimazioni (indicate nella figura 1 dalla linea imputed) a seconda
che si parta dal valore dell’asset al tempo 0 e lo si capitalizzi o che si parta dal valore
finale al momento della sua cessione s, e lo si sconti tornando indietro nel tempo. Si
possono riconciliare le due proiezioni assumendo che in una data D il prezzo
dell’asset compia un salto.
I due autori dimostrano che il lock-in effect è eliminato se il contribuente viene
chiamato a pagare un’imposta calcolata sul percorso di apprezzamento imputato
capitalizzando le imposte “virtuali” in ogni periodo con il tasso di interesse privo di
rischio al netto dell’imposta. La data D in cui imputare il “salto” è irrilevante e
all’incremento di valore in data D può essere applicata un’aliquota diversa da quella
applicata al rendimento certo.
All’interno di questo schema generale è possibile individuare un metodo
relativamente semplice per correggere l’imposizione alla realizzazione eliminando il
lock-in effect.
19
Figura 1: Apprezzamento effettivo e imputato
Quando D coincide con s, si assume che l’asset si sia apprezzato secondo il tasso
privo di rischio fino alla vendita. Quindi il valore dell’asset a ridosso della vendita
sarà pari a (1+i)s A0. Per riconciliare questo valore con il valore effettivo di cessione
si assume che al momento della vendita ci sia stato un incremento/decremento di
valore pari a As - (1+i)sA0.
L’imposta dovuta può essere scomposta in due componenti. La prima è data dalla
somma delle imposte calcolate sugli incrementi di valore imputati negli s periodi e
capitalizzate fino a momento della cessione. Dato che l’incremento di valore in ogni
periodo è assunto pari al rendimento privo di rischio i, e che il tasso usato per
capitalizzare le imposte dovute in ogni periodo è i(1-t) questa componente è pari alle
imposte che si sarebbero pagate alla maturazione su i con aliquota t. Di conseguenza
questa componente può essere calcolata come differenza fra il valore di acquisto
capitalizzato al tasso lordo e lo stesso valore capitalizzato al tasso netto:
(1+i)s A0 - (1+i(1-t))s A0.
La seconda componente è l’imposta calcolata sulla differenza fra l’effettivo valore di
cessione ed il valore imputato dopo s periodi capitalizzando il valore d’acquisto al
tasso privo di rischio:
t [As - (1+i)sA0].
Complessivamente l’imposta da applicare al momento della cessione è pari a:
t [As - (1+i)sA0] + [(1+i)s - (1+i(1-t))s ] A0.
20
Questa somma può essere riscritta:
t (As -
[(1+i(1-t))s - (1-t) (1+i)s]
A0)
t
In altri termini è possibile eliminare il lock in effect applicando un coefficiente alla
base su cui calcolare il guadagno in conto capitale:
t (As - α(i,s,t)A0)
con
α(i,s,t) =
[(1+i(1-t))s - (1-t) (1+i)s]
t
Il coefficiente di correzione α dipende esclusivamente dal tasso di interesse privo di
rischio e dal periodo di detenzione del titolo5.
La figura 3 illustra i valori assunti dal coefficiente a al variare del periodo di
detenzione e del tasso di interesse privo di rischio assumendo un’aliquota del 20%.
Oltre alla facilità d’applicazione la correzione della plusvalenza realizzata secondo il
coefficiente α ha un ulteriore vantaggio. E’ possibile infatti correggere per gli effetti
dell’inflazione in maniera molto semplice: è sufficiente utilizzare il tasso di interesse
reale invece di quello nominale nel calcolo del coefficiente α.
Figura 2: Andamento del coefficiente di correzione α (i,s,t )
(aliquota t =20%)
1
0.5
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31
-0.5
i=2%
i=3%
i=4%
i=5%
-1
-1.5
Periodo di detenzione
5
Nel caso generale in cui il tasso privo di rischio cambia nel tempo occorrerà sostituire il termine (1+i)s
con
s −1
s −1
z =0
z =0
∏ (1 + iz ) e (1+i(1-t))s con ∏ (1 + iz (1 − t )) .
21
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