Università Commerciale Luigi Bocconi Econpubblica Centre for Research on the Public Sector SHORT NOTES SERIES Plusvalenze e imposta societaria: spunti per una riforma dell’Ires Giampaolo Arachi Short note n. 2 October 2006 www.econpubblica.unibocconi.it : Plusvalenze e imposta societaria: spunti per una riforma dell’Ires Giampaolo Arachi Università degli Studi di Lecce Econpubblica – Università Bocconi, Milano [email protected] Ottobre 2006 Studio preparato per l’audizione presso la Commissione consultiva sull'imposizione fiscale delle società, Roma 20 settembre 2006 1 Introduzione Come recentemente notato da Desai (2006) negli ultimi decenni la letteratura economica ha studiato estensivamente la tassazione dei guadagni in conto capitale nell’ambito dell’imposizione personale trascurando quasi totalmente il trattamento fiscale delle plus/minusvalenze con riferimento alle imposte societarie. Negli Stati Uniti la scarsa attenzione ricevuta dall’argomento è probabilmente dovuta alla minore diffusione dei gruppi societari (Morck 2003) e alla conseguente percezione di una dimensione trascurabile del fenomeno. Risulta difficile invece comprendere il relativo disinteresse per l’argomento da parte degli studiosi europei sia per la maggiore rilevanza che i grandi gruppi societari hanno nelle economie dell’Europa continentale sia per la recente ondata di riforme che ha riguardato la tassazione delle plusvalenze realizzate in seguito alla cessione di partecipazioni azionarie. All’assenza di una adeguata riflessione teorica fa eco l’assenza di un modello di riferimento nell’esperienza dei maggiori paesi industrializzati (Desai 2006, Desai e Gentry 2003). Questa nota illustra in termini generali i problemi che riguardano l’inserimento delle plusvalenze nella base imponibile dell’imposta societaria cercando di evidenziare le differenze rispetto alle questioni sollevate dal trattamento dei capital gains nell’imposta personale. La prima parte discuterà in particolare la peculiarità relative al trattamento fiscale delle plusvalenze su partecipazioni e analizzerà il modello della participation exemption. L’analisi mostrerà come una adeguata valutazione di questo istituto si debba inserire in un esame più ampio della neutralità dell’imposta rispetto alle transazioni finanziarie. Si proporrà di conseguenza una breve rassegna dei principali modelli di imposizione che garantiscono la neutralità del prelievo evidenziano punti di forza e di debolezza. Nella seconda parte, le principali conclusioni saranno utilizzate per trarre delle indicazioni di riforma dell’imposizione societaria in Italia. L’indagine sviluppata in questo studio si sofferma innanzitutto su questioni relative alla coerenza interna delle diverse opzioni di tassazione dei capital gain, alla semplicità amministrativa e alla solidità rispetto a strategie di elusione e di arbitraggio fiscale. Vengono invece relativamente trascurati, soprattutto nella parte dedicata al confronto di modelli alternativi di imposte societarie, i problemi riguardanti gli effetti sul comportamento delle imprese e sul sistema economico. La letteratura su questi temi è molto vasta e non è possibile riassumerne le principali conclusioni in maniera esauriente nello spazio di questa breve nota. 2 Le peculiarità della tassazione dei capital gain nell’imposta societaria: la doppia tassazione degli utili I problemi relativi al trattamento fiscale delle plus/minusvalenze nell’ambito dell’imposta personale sono stati oggetto di un ampio dibattito nella letteratura economica. L’imposizione societaria pone però delle questioni specifiche che risultano meno studiate. Per illustrare le peculiarità del trattamento delle plus/minusvalenze in capo alle società è opportuno richiamare in primo luogo i temi fondamentali della tassazione dei capital gains delle persone fisiche. 1 2.1 I capital gains nell’ambito dell’imposizione personale La tassazione dei capital gains è uno dei campi in cui è più difficile trovare dei modelli di riferimento cui ricondurre le esperienze dei principali paesi industrializzati. In parte, ciò è dovuto all’esistenza di diversi orientamenti politici. Come osservato da Messere et. al. (2003) nella loro analisi comparata dei sistemi fiscali nei paesi OECD, è possibile suddividere i Paesi industrializzati in due grandi gruppi. Quelli che si limitano a tassare i guadagni in conto capitale quando derivano da attività con un presunto intento speculativo e quelli che, facendo riferimento ad una nozione di reddito “comprehensive” di Haig-Simon, li considerano tendenzialmente equivalenti al reddito ordinario o di capitale. Tuttavia il continuo sviluppo dei mercati dei capitali, la loro crescente integrazione e l’innovazione finanziaria ha reso sempre più evidente come le varie forme di remunerazione degli investimenti (dalle categorie classiche – dividendi, interessi, plusvalenze – a quelle più recenti come i rendimenti dei prodotti derivati) siano tra loro economicamente equivalenti e che ogni distinzione prevista dalla normativa fiscale sia inevitabilmente condannata ad essere compensata dall’aggiustamento relativo dei prezzi delle attività o aggirata attraverso l’introduzione di nuovi strumenti finanziari. Di conseguenza è sempre più diffuso il convincimento che sia necessario sottoporre ad imposta i capital gains, anche quando non lo si ritiene necessario per garantire l’equità del prelievo, al fine di evitare una progressiva erosione dell’imposizione dei redditi di capitale attraverso pratiche elusive volte a trasformare interessi e dividendi in flussi di pagamenti classificati dalla normativa come guadagni in conto capitale. Il vero problema è legato alle modalità di applicazione di tali imposte. La teoria economica è concorde nel suggerire di applicare l’imposta sui capital gains al momento della loro maturazione e di trattare simmetricamente guadagni e perdite (concedendo in questo secondo caso la piena deducibilità dagli altri redditi). Tuttavia la tassazione per maturazione è difficilmente applicabile nella realtà. Esiste innanzitutto il problema di determinare le variazioni di valore nel periodo d’imposta rilevante per quelle attività per le quali non esiste un ampio mercato. Inoltre l’applicazione generalizzata della tassazione per maturazione potrebbe produrre problemi di liquidità forzando alcuni investitori a cedere l’attività per poter pagare l’imposta dovuta. Questi problemi spiegano perché quasi tutti i Paesi applichino le imposte sui capital gain al momento della loro realizzazione e perché l’Italia, che più di ogni altro paese ha tentato di seguire la via della tassazione sul maturato, ne abbia limitato l’applicazione alle attività finanziarie trattate su mercati regolamentati nel caso di patrimoni gestiti da intermediario. La scelta alternativa di applicare l’imposta al momento della realizzazione dei capital gain genera comunque un’ampia serie di problemi. Il limite fondamentale della tassazione alla realizzazione è di lasciare al contribuente la scelta sul momento in cui far emergere l’esistenza della plusvalenza o della minusvalenza. La conseguenza più ovvia è la possibilità di differire nel tempo il pagamento dell’imposta sui guadagni maturati che a sua volta produce il cosiddetto “lock in effect”. Il proprietario di una attività che si è apprezzata in passato è chiamato a pagare l’imposta sul guadagno realizzato solo se cede l’attività. Quindi nel caso in cui decida di continuare a detenere l’attività, egli riceve implicitamente dallo Stato un prestito a tasso zero (pari all’imposta che avrebbe pagato in caso di realizzazione) che resta investito nella 2 stessa attività. Di conseguenza, l’investitore potrebbe rinunciare a opportunità di investimento alternative con rendimenti lordi attesi superiori per sfruttare il vantaggio derivante dal differimento dell’imposta sul capital gain maturato. Se guadagni e perdite realizzati ricevono un trattamento fiscale simmetrico, l’investitore ha al contrario l’incentivo a realizzare subito le perdite, anche vendendo e riacquistando la stessa attività, per ridurre le imposte da pagare compensando la perdita con altri redditi o per vedersi riconoscere un credito. Nello scenario più favorevole, il lock-in effect produce distorsioni nei livelli di investimento e nella composizione del portafoglio provocando una perdita di gettito. La perdita per l’erario può divenire particolarmente elevata nel caso in cui l’incremento di valore del patrimonio sia differito sino alla morte e il trasferimento agli eredi non sia considerato un evento di realizzazione. La letteratura e l’esperienza dei maggiori Paesi industrializzati dimostrano tuttavia che le conseguenze negative possono essere molto più gravi. In assenza di vincoli amministrativi o di significativi costi di transazione e/o contrattuali, il contribuente ha numerose strategie che consentono, attraverso la realizzazione selettiva delle perdite, di ridurre sostanzialmente la base imponibile e l’imposta dovuta fino, al limite, ad annullarla (Stiglitz 1985, Scholes et al. 2005). 2.2 I capital gains nell’imposta societaria 2.2.1 Il ruolo dell’imposta societaria L’analisi del trattamento capital gains nell’ambito dell’imposta societaria non può prescindere dall’interpretazione del ruolo di questa imposta nei moderni sistemi tributari. Le principali motivazioni proposte per giustificare un prelievo sulle società distinto dall’imposta personale che grava sui redditi dei soci possono essere così riassunte (Bird 2002): 1) le società, in quanto entità legalmente separate da patrimoni dei loro soci, possiedono una autonoma capacità contributiva e quindi sono tenute al pagamento di un’imposta sul reddito analoga a quella prevista per le persone fisiche; 2) l’imposta societaria grava sui profitti non distribuiti per evitare il differimento dell’imposizione personale che si verificherebbe in assenza di una tassazione dei guadagni in conto capitale al momento della loro maturazione; 3) l’imposta societaria mira a tassare le rendite ed i redditi percepiti da investitori non residenti sul territorio nazionale; 4) l’imposta societaria è uno strumento per correggere alcuni fallimenti della corporate governance (Desai et. al. 2006). La struttura dei sistemi tributari europei è storicamente risultata coerente con le motivazioni sub 2) e 3). In assenza di una efficace tassazione delle plusvalenze azionarie alla maturazione, i soci di una società avrebbero la possibilità di differire l’imposta semplicemente evitando la distribuzione dei dividendi. Inoltre, nel caso di società a ristretta base azionaria, i soci che partecipano direttamente alla gestione dell’impresa avrebbero la possibilità di differire anche le imposte sui loro redditi in quanto amministratori, autoriducendosi i propri compensi per far crescere i profitti non distribuiti. Il ruolo di contrasto al differimento dell’imposizione è evidenziato da due caratteristiche tipiche del prelievo sui redditi societari. La prima è il diverso 3 trattamento fra debito e capitale proprio. Per i redditi generati in ambito societario e classificati come interessi si applica solitamente l’approccio ET (esenzione dall’imposta societaria, tassazione nell’ambito dell’imposta personale). Questi redditi sono infatti distribuiti nel corso dell’esercizio e possono essere tassati nell’ambito dell’imposta personale. Per i redditi classificati come utili si segue invece l’approccio TT (tassazione sia a livello societario sia a livello personale). La seconda caratteristica tipica delle imposte societarie è costituita dall’esistenza di varie forme di coordinamento fra imposta societaria e imposta personale per evitare la doppia tassazione dei profitti distribuiti. In Europa il metodo prevalente è stato sino a pochi anni fa il credito d’imposta sui dividendi che consentiva di ottenere che sui dividendi distribuiti gravasse esclusivamente l’imposta personale. Di conseguenza la tassazione dei dividendi veniva ricondotta al modello ET, mentre la quasi totale assenza di un’efficace tassazione delle plusvalenze portava gli utili non distribuiti al modello TE (tassazione a livello societario esenzione dall’imposta personale). L’obiettivo di tassare i redditi dei non residenti era reso esplicito dal fatto che il credito d’imposta veniva generalmente riconosciuto (con eccezione della Francia) esclusivamente ai residenti. A differenza delle imposte personali, l’imposta societaria si configurava quindi, anche in presenza di trattati internazionali contro la doppia imposizione, come imposta applicata secondo il principio della fonte o della territorialità. Negli ultimi anni, a seguito delle sentenze della Corte di Giustizia Europea e dell’acuirsi del problema degli arbitraggi fiscali, si è assistito ad un progressivo abbandono del meccanismo del credito d’imposta nei paesi Europei (pur con la rilevante eccezione del Regno Unito). L’abbandono del meccanismo del credito d’imposta non ha tuttavia portato ad un ripensamento radicale del ruolo assegnato all’imposta societaria. La finalità di colpire i profitti non distribuiti e i redditi dei non residenti è evidenziata dal fatto che quasi tutti i Paesi prevedono la parziale esclusione dei dividendi dalla base imponibile dell’imposta personale. Se l’obiettivo dell’imposta societaria è fondamentalmente quello di tassare i profitti non distribuiti (per evitare che le persone fisiche possano differire le imposte personali) e i redditi realizzati sul territorio nazionale da non residenti, ne deriva che non sia rilevante la questione dell’equità (orizzontale e verticale) del prelievo fra società. 2.2.2 Le plusvalenze su partecipazioni nel caso di utili non distribuiti Questa osservazione ha delle conseguenze importanti con riferimento al trattamento dei flussi finanziari fra società. Si consideri un semplice esempio: l’individuo A è l’unico socio della società X che a sua volta possiede l’intero capitale della società Y. Nel corso dell’anno la società Y produce un reddito di 100 che il socio A decide di non percepire. Obiettivo dell’imposta societaria è di tassare il reddito di 100 garantendo il pagamento di una certa percentuale, supponiamo pari al 33%. Se non vi sono pagamenti da Y a X, il risultato si ottiene direttamente con un’aliquota d’imposta pari al 33%. Tuttavia se la società Y paga degli interessi o dei dividendi a X si pone la questione se coordinare o meno la tassazione dei flussi finanziari fra le due imprese. Nel caso di un pagamento di interessi la soluzione naturale appare quella della deduzione da parte della società Y e dell’inclusione nella base imponibile della società X. Se invece Y distribuisce dividendi ad X, e assumendo che le due società 4 siano entrambe residenti, la soluzione più semplice sembra quella della tassazione dei profitti in capo ad Y e dell’esclusione dei dividendi dalla base imponibile di X. Supponiamo ora che la società Y non distribuisca il reddito e che la società X ceda le sue azioni in Y. In assenza di altre motivazioni che possano spiegare variazioni di valore delle azioni di Y, X dovrebbe realizzare una plusvalenza di 77 (100 meno l’imposta), pari al reddito netto prodotto ma non distribuito da Y. Come trattare fiscalmente il guadagno in conto capitale realizzato da X? Dato che esso rappresenta degli utili che hanno già scontato l’imposta presso la società Y, la risposta in prima battuta più convincente è che esso debba essere considerato esente. Questa conclusione appare ancora più solida se si considera il caso in cui la società Y consegue una perdita di 100. Se il trattamento di perdite e guadagni è simmetrico la perdita dà diritto ad un credito d’imposta per Y di 33 che porterebbe la perdita netta a 77 (di fatto nei sistemi reali le perdite possono essere utilizzate per compensare utili futuri). Se i guadagni in conto capitale sulle partecipazioni fossero inseriti nella base imponibile dell’imposta, concedendo simmetricamente la deducibilità delle perdite, nel caso di cessione della partecipazione dovrebbe essere riconosciuta a X una perdita di 77: la perdita di Y genererebbe così un doppio sconto fiscale. Occorre inoltre tener presente che nel caso delle società il reddito è valutato generalmente secondo un criterio di competenza. Questo significa che la società X potrebbe iscrivere a bilancio la svalutazione delle partecipazioni di Y e quindi conseguire l’abbattimento dell’imponibile anche senza necessità di cedere le azioni di Y (si veda la discussione nella sezione 3). Questi argomenti giustificano un caso di irrilevanza fiscale delle plusvalenze. La stessa conclusione può essere estesa ad altre situazioni? L’autofinanziamento non è l’unica fonte di variazione del valore delle partecipazioni. Tra le possibili cause è opportuno ricordare anche: a) il disallineamento fra il valore dei cespiti iscritto nei libri contabili ed il reale valore economico degli stessi; b) la ragionevole aspettativa dell’acquirente (perché in possesso di una migliore tecnologia) di ottenere un rendimento maggiore del cedente dall’utilizzo dei cespiti della società ceduta. c) l’aspettativa dell’acquirente di poter cedere successivamente la partecipazione ad un prezzo più alto. E’ giustificabile l’esenzione delle plusvalenze (e la simmetrica indeducibilità delle minusvalenze) in tutti questi casi? 2.2.3 Il disallineamento fra valori di libro e valutazione economica dei cespiti Nel corso del tempo il valore dei cespiti iscritto nell’attivo del conto patrimoniale di un società può divergere dal reale valore economico degli stessi per diversi motivi come l’inflazione, l’iscrizione di ammortamenti superiori all’effettiva perdita di valore dei cespiti, la variazione, non prevedibile al momento dell’acquisto, del valore attuale dei redditi futuri generati dai cespiti. Per quanto riguarda l’inflazione, sebbene le imposte si applichino in genere a basi imponibili calcolate su base nominale non esistono motivi di ordine economico per tassare una plusvalenza che rispecchia semplicemente la variazione del livello generale dei prezzi. 5 Negli altri casi la plusvalenza non evidenzia l’esistenza di un reddito non tassato ma un differimento del momento in cui il reddito prodotto dai cespiti viene riconosciuto. Può essere utile a questo proposito ricorrere ad un esempio che nella sua semplicità consente di chiarire le questioni fondamentali. Si consideri dunque il caso in cui la partecipazione posseduta dalla società A rappresenti il 100% del capitale della società B. Si assuma inoltre che la partecipazione sia iscritta ad un costo esattamente uguale al valore delle immobilizzazioni materiali di B e che B distribuisca integralmente i profitti ogni anno. Supponiamo che dopo qualche anno i cespiti originari risultino interamente ammortizzati e che vengano acquistati dei nuovi cespiti a questi identici (il costo dei nuovi cespiti è sempre 100 in assenza di inflazione e di variazioni nella profittabilità futura). Si assuma infine che i vecchi cespiti siano in realtà ancora utili nella produzione e possano produrre dei redditi in futuro il cui valore attuale è pari a 10. La società A decide di cedere la partecipazione in B ad un acquirente che è in grado di ottenere dalla società B esattamente gli stessi risultati in termini economici che avrebbe potuto ottenere A. Il prezzo di cessione della partecipazione sarà pari a 110 e A realizzerà una plusvalenza di 10. La plusvalenza si è generata perché gli ammortamenti iscritti in bilancio in passato sono stati troppo elevati. Di conseguenza la plusvalenza evidenzia una non corretta allocazione dei redditi durante la vita utile del bene: i redditi sono risultati sottostimati in passato a causa degli ammortamenti troppo elevati e verranno sovrastimati in futuro dato che il costo è già stato interamente ammortizzato. Se per semplicità ipotizziamo che gli ammortamenti iscritti in bilancio coincidano con quelli rilevanti a fini fiscali, possiamo anche concludere che vi è stato un differimento dell’imposta. Per attenuare gli effetti del differimento si potrebbe ricorrere alla tassazione della plusvalenza. Questo è in effetti ciò che avviene quando sono i cespiti ad essere ceduti direttamente. In questo caso la differenza di valore fra il costo iscritto a bilancio non ancora ammortizzato e il prezzo di cessione è assoggettato ad imposta. Tuttavia a fronte dell’imposta pagata dal cedente il cessionario ottiene quote di ammortamento calcolate sulla base del prezzo d’acquisto. L’effetto economico dell’operazione si traduce in un anticipo dell’imposizione sui redditi futuri del cespite ceduto: all’imposta pagata dal cedente sulla plusvalenza corrisponde una minore imposta pagata in futuro dal cessionario che potrà portare in deduzione le maggiori quote di ammortamento. Questo anticipo dell’imposta compensa, seppure parzialmente, il differimento che si è verificato sino a quel momento. Si può concludere che nel caso di cessione della partecipazione l’imponibilità della eventuale plusvalenza dovrebbe essere collegata al riconoscimento del maggior valore fiscale dei cespiti in capo all’acquirente1. La semplice tassazione della plusvalenza si tradurrebbe invece in una doppia imposizione di un reddito che verrà tassato in capo alla società ceduta. 1 Negli Stati Uniti il collegamento fra tassazione e riconoscimento dei maggiori valori fiscali è riconosciuto da un’opzione prevista dalla sezione 338 del Tax Code. Se l’acquirente sceglie di avvalersi di questa opzione (nel caso in cui acquisti l’80% del capitale della società target in un anno attraverso modalità soggette a imposizione) ha la possibilità di rivalutare il valore dei cespiti della società acquisita. All’imposizione sulla plusvalenza corrisponde quindi il riconoscimento dei maggiori valori di ammortamento. 6 2.2.4 Aumento di redditività Consideriamo ora il caso in cui valori fiscali dei cespiti e valori economici coincidano e che la plusvalenza si realizzi perché l’acquirente ha migliori prospettive di reddito (perché più efficiente). In questo caso se il valore di acquisto è superiore al valore dei cespiti la plusvalenza rappresenta un trasferimento di reddito dall’acquirente al cedente. L’inserimento della plusvalenza nella base imponibile si traduce in un anticipo dell’imposizione sul maggior reddito generato dalla società ceduta. Questo anticipo verrà restituito come minore plusvalenza (al limite minusvalenza) quando l’acquirente cederà a sua volta la partecipazione. 2.2.5 Speculazione Resta infine da considerare il caso in cui la plusvalenza derivi da vendite speculative. Se il soggetto A acquista ad un prezzo alto solo perché è convinto di poter rivendere a B ad un prezzo ancora più alto perché B è a sua volta convinto di rivendere a C ad un prezzo più alto, e così via, la plusvalenza manifesta un puro trasferimento di reddito da chi alla fine riuscirà a rivendere il bene solo ad un prezzo più basso, realizzando quindi una minusvalenza, a coloro che all’inizio della catena degli scambi hanno realizzato una plusvalenza. Ancora una volta l’eventuale imposta pagata sulle plusvalenze rappresenterebbe un anticipo che l’erario rimborserà quando l’ultimo soggetto della catena speculativa realizzerà la minusvalenza. In generale non si vedono motivi per un tale anticipo a meno che la partecipazione sia ceduta ad un soggetto non residente. In questo caso infatti si verifica un aumento di reddito complessivo per l’insieme delle società italiane (dato che la minusvalenza sarà realizzata da un soggetto estero) che andrebbe assoggettato ad imposta inserendo le plusvalenze nella base imponibile. Tuttavia, occorre tener conto che a fronte delle maggiori entrate derivanti dalle plusvalenze realizzate da società italiane che cedono le loro partecipazioni a società estere l’erario sconterebbe un minor gettito a causa del riconoscimento delle minusvalenze realizzate da società italiane che hanno acquistato le partecipazioni da società estere a prezzi rivelatisi poi troppo elevati. 3 Rivalutazioni e svalutazioni A differenza delle persone fisiche, il reddito delle società è di solito valutato per competenza. In linea teorica quindi le plusvalenze e/o minusvalenze su partecipazioni, come anche le variazioni di valore delle poste dello Stato patrimoniale, dovrebbero essere registrate nel momento in cui maturano, anche prima della realizzazione a seguito della cessione dei titoli. Sebbene la tassazione per competenza venga spesso indicata come una delle soluzioni concettualmente più soddisfacenti nell’ambito dell’imposizione personale è importante sottolineare come l’applicazione di questo approccio possa risultare rischiosa per il fisco qualora i titoli non siano scambiati su mercati regolamentati e la loro valutazione debba necessariamente contenere degli elementi di soggettività. Infatti, l’incentivo fiscale al riconoscimento delle perdite e al differimento del riconoscimento dei guadagni in conto capitale diviene ancora più forte in assenza dei costi legati alla cessione dei titoli. Un forte indizio di una significativa distorsione fiscale nelle scelte di svalutazione delle partecipazioni è offerto dai dati di bilancio delle imprese italiane degli ultimi anni. Il grafico 1 riporta, per gli anni dal 1997 al 2005, la media del valore delle svalutazioni di partecipazioni iscritte in bilancio come percentuale dell’attivo 7 dell’anno precedente. I dati sono stati estratti dal database AIDA che contiene bilanci relativi a circa 560.000 società a partire dal 1995. Dal database sono state estratte le società ancora attive il cui bilancio non consolidato è disponibile per tutti gli anni dal 1996 al 2005. Sono state eliminate le società che almeno in uno degli anni selezionati risultavano avere patrimonio netto e ricavi non strettamente positivi riducendo il campione a 24.304 società (di cui solo 7 quotate). Di queste solo 15.774 risultavano avere delle partecipazioni iscritte in bilancio. Per ognuna di queste società è stato calcolato il rapporto fra il valore delle svalutazioni nell’anno t ed il valore dell’attivo nell’anno t-1. La media di questi valori anno per anno (eliminando le osservazioni negative o maggiori di uno) è riportata nel grafico 1 (con l’asse delle ordinate rappresentato in scala logaritmica). E’ evidente una decisa flessione del rapporto nel 2004, anno dell’entrata in vigore della riforma Ires, e uno ulteriore slittamento verso il basso nel 2005. Grafico 1: Svalutazioni in percentuale dell'attivo dell'anno precedente (medie annue) Fonte: nostre elaborazioni su dati AIDA Non è ovviamente possibile dedurre da questa semplice analisi grafica delle conclusioni definitive sull’influenza del fattore fiscale sulla scelta di riconoscere delle perdite di valore delle proprie partecipazioni in bilancio per una serie di motivi. In primo luogo i criteri utilizzati per estrarre il campione non ne garantiscono la rappresentatività rispetto all’universo delle società italiane (sono praticamente assenti le società quotate). In secondo luogo i dati sono estremamente polarizzati con solo circa mille imprese per anno che iscrivono delle svalutazioni (da qui il valore particolarmente basso della media): di conseguenza la media è sensibile all’inclusione/esclusione di società di grosse dimensioni e all’eventuale presenza di errori nell’imputazione dei dati di bilancio nel database. In terzo luogo per verificare la reale incidenza del fattore fiscale occorre un’analisi statistica ed econometrica 8 approfondita che tenti di isolare le variabili extra fiscali che hanno influenzato le svalutazioni in questo arco temporale. Tuttavia, in attesa di un’analisi statistica più accurata, il grafico 1 fornisce ulteriore supporto, oltre all’evidenza aneddotica sull’utilizzo delle svalutazioni di partecipazioni al fine di consentire la compensazione delle perdite nei gruppi industriali, alla tesi che le svalutazioni siano state un importante strumento di pianificazione fiscale. Se si accetta questa tesi ne deriva che qualora si optasse per l’inclusione nella base imponibile della variazione di valore delle partecipazioni sarebbe prudente derogare ai principi generali della determinazione del reddito d’impresa e riconoscere fiscalmente plusvalenze e minusvalenze solo nel momento in cui esse siano effettivamente realizzate. Occorre comunque riconoscere che la pianificazione fiscale a volte risponde a limiti oggettivi delle imposte esistenti e prevedere i correttivi appropriati. Come già ricordato, le svalutazioni sono state utilizzate in Italia per compensare guadagni e perdite all’interno dei gruppi. E’ quindi del tutto coerente aver eliminato la deducibilità fiscale delle svalutazioni nel momento in cui venivano introdotti gli istituti del consolidato nazionale ed internazionale. 4 Tassazione delle plusvalenze su investimenti finanziari Una volta illustrati gli argomenti che possono giustificare l’esenzione delle plusvalenze su partecipazioni è necessario affrontare la questione se non sia opportuno esentare dall’imposta societaria anche le altre plusvalenze. Per i beni ammortizzabili la risposta è negativa. Il prezzo di acquisto in questo caso rappresenta la base su cui calcolare gli ammortamenti a cui avrà diritto in futuro l’acquirente. In assenza di una tassazione delle plusvalenze vi sarebbe l’ovvio incentivo a gonfiare il prezzo di vendita per ottenere una maggiore riduzione d’imposta. Come illustrato in precedenza, la tassazione delle plusvalenze elimina questo incentivo rappresentando un anticipo del risparmio d’imposta generato dai maggiori ammortamenti. Passando a considerare gli investimenti in attività finanziarie, diverse dalle azioni, è opportuno concentrarsi preliminarmente sulle obbligazioni emesse da altre società. Come già rilevato in questo caso il trattamento fiscale degli interessi segue di solito l’approccio ET (esenzione dall’imposta della societaria, tassazione dall’imposta personale). Nel caso di flussi finanziari fra società l’approccio si traduce nella deduzione degli interessi dal reddito della società finanziata e nella successiva tassazione in capo alla società finanziatrice. Oltre alla speculazione, sono due le motivazioni fondamentali che possono spiegare una variazione di valore delle obbligazioni. La prima è una riduzione (aumento) della probabilità di insolvenza della società emittente, dovuta ad esempio al manifestarsi di una redditività superiore (inferiore) alle aspettative. In questo caso l’incremento (decremento) di valore delle obbligazioni capitalizza (ammortizza) le maggiori (minori) cedole, e le minori (maggiori) perdite in conto capitale, che ci si attende in futuro. Nel caso di maggiori redditi futuri, essi saranno deducibili dall’imposta societaria e non saranno quindi gravati dall’imposta. La seconda è una variazione dei tassi di mercato. In caso di riduzione del livello dei tassi di interesse il valore delle obbligazioni a tasso fisso aumenterà capitalizzando il maggior rendimento rispetto ai tassi di mercato. Questo 9 maggior rendimento, derivando da cedole deducibili è anch’esso al netto dell’imposta societaria della società emittente. In entrambi i casi quindi una eventuale plusvalenza andrebbe inserita nella base imponibile dell’imposta della società finanziatrice. 5 La tassazione delle plusvalenze su partecipazioni Le argomentazioni svolte nelle sezioni precedenti suggeriscono l’adozione di un modello noto in Europa come “participation exemption” che prevede (con i limiti che verranno fra poco richiamati) che i dividendi e le plus/minusvalenze su partecipazioni non rientrino nella base imponibile dell’imposta societaria per evitare fenomeni di doppia tassazione degli utili. Il modello “puro” della participation exemption pone due ordini di problemi. Il primo nasce dal fatto che quando quest’istituto viene applicato nella realtà occorre tener conto di una serie di circostanze che non sono adeguatamente descritte dal semplicistico modello madre-figlia utilizzato nelle sezioni precedenti. Ad esempio, la società partecipata potrebbe non aver pagato l’imposta sui redditi perché residente all’estero in un paradiso fiscale. Il secondo ordine di problemi deriva dal fatto che la participation exemption esaspera la distinzione fra debito ed equity: il primo segue il modello ET il secondo quello TE. Nei moderni sistemi industriali è tuttavia sempre più evidente come sia impossibile tracciare una linea di demarcazione sicura sul piano economico fra le due forme di finanziamento delle società. Ne derivano numerose possibilità di elusione e di distorsione delle scelte delle imprese (Kleinbard 2005, Scholes et. al. 2005) 5.1 I limiti alla participation exemption Nei Paesi dell’Unione Europea la participation exemption è di solito soggetta a due serie di limitazioni (Cirrincione e Spinoso 2006a, 2006b). La prima comprende sia la richiesta di un livello minimo di tassazione della controllata sia limitazioni sulla forma giuridica e sulle attività da questa svolte. Queste restrizioni hanno l’obiettivo comune di evitare che possano godere dell’esenzione i redditi derivanti da partecipazioni in società che non hanno pagato un livello adeguato di imposizione o perché residenti all’estero in paesi con imposte particolarmente basse o perché hanno percepito redditi sottoposti a regimi privilegiati (società finanziarie o società non di capitali trattate come entità trasparenti o società di comodo). E’ opportuno tuttavia osservare che nel caso di partecipazioni in società estere il semplice diniego della participation exemption non elimina i rischi di perdita di gettito. Occorre infatti sempre ricordare che l’alternativa alla partecipation exemption è di solito la tassazione delle plusvalenze e la simmetrica deducibilità delle minusvalenze. Al pericolo di non tassazione dei redditi prodotti all’estero si sostituisce quello della non tassazione dei redditi prodotti da società residenti e trasferiti all’estero attraverso minusvalenze generate dalla cessione di partecipazioni di collegate ad altre società estere del gruppo a prezzi artificialmente bassi. Il differimento dell’imposta sui redditi emersi nei paradisi fiscali va quindi corretta con la previsione di opportune CFC rules piuttosto che con la limitazione della participation exemption. Il secondo insieme di vincoli riguarda la richiesta di un minimo per l’ammontare della partecipazione detenuta e/o di periodo di possesso. In questo caso la motivazione è di evitare che le società forniscano un veicolo per differire l’imposta personale su 10 investimenti in azioni di tipo finanziario e/o speculativo. Per comprendere questo punto occorre ricordare che in quasi tutti i paesi il modello di tassazione applicato ai redditi delle azioni è quello della doppia tassazione TT (tassazione societaria e tassazione personale). Di solito la doppia tassazione, che viene comunque mitigata nel caso dei dividendi ed è fortemente attenuata per le plusvalenze, viene giustificata dalla necessità di garantire una adeguata progressività dell’imposizione soprattutto nel caso in cui la proprietà azionaria risulti relativamente concentrata. Se applicata indistintamente a tutte le partecipazioni la tassazione personale potrebbe essere differita effettuando i propri investimenti attraverso una società. L’applicazione di questi vincoli si traduce tuttavia nella determinazione di soglie che risultano economicamente arbitrarie e che concedono alle società la possibilità di scegliere se farsi riconoscere l’esenzione o l’applicazione dell’imposta (soprattutto nel caso di limiti temporali alla detenzione). Oltre all’ovvio risultato di spingere alla realizzazione rapida delle minusvalenze per farsi riconoscere la deducibilità fiscale e al posticipo delle cessioni in caso di plusvalenza, per evitare l’imposta, la differente tassazione a seconda del periodo di detenzione determina sempre la possibilità di costruire degli arbitraggi fiscali (Stiglitz 1985). L’esperienza italiana offre a proposito un esempio istruttivo relativamente alle vicende che hanno portato in Italia all’introduzione dei commi 3-bis, ter e quater nel TUIR, volte a contrastare il cosiddetto dividend washing. Si può quindi concludere che la ricerca di correttivi per chiudere possibili canali di differimento dell’imposta aperti dall’applicazione della participation exemption si traducono nella generalità dei casi nella previsione di vincoli che generano nuove opportunità di elusione e di arbitraggio. Si deve valutare quindi l’opportunità di ridurre le opportunità di differimento dell’imposta operando non sull’imposta societaria ma piuttosto su quella personale attraverso l’introduzione dei correttivi nella tassazione delle plusvalenze alla realizzazione. Sarà questo l’oggetto della sezione 8. 6 La neutralità fra le varie forme di finanziamento La sezione precedente ha illustrato come l’introduzione di regimi di tassazione differenziati su redditi di capitale economicamente equivalenti (plusvalenze di breve di lungo periodo) o fra soggetti (società domestiche e società residenti in paradisi fiscali) genera inevitabilmente nuove opportunità di elusione e di arbitraggio. La stessa conclusione può essere tratta nel caso della distinzione su cui si basa l’approccio stesso della participation exemption, la distinzione fra debito ed equity. Oltre alle pratiche elusive un’ampia letteratura ha documentato come la discriminazione fra debito e azioni ha degli effetti sulle scelte di finanziamento e di investimento delle imprese2 Inoltre queste distinzioni ostacolano lo sviluppo di nuove forme contrattuali, ad esempio in Italia i titoli partecipativi introdotti dalla c.d. riforma Vietti, non facilmente classificabili in una delle due categorie. E’ quindi opportuno valutare modelli alternativi di imposizione volti a superare la questa dicotomia. 2 Sull’Italia per gli effetti delle imposte societarie sulle scelte di finanziamento si veda Alworth e Arachi (2001), Bontempi et. al. (2005a,b), Staderini (2001) mentre per gli effetti sugli investimenti Arachi e Biagi (2005), Gennari et al. (2005). 11 In maniera molto semplificata è possibile affermare che l’attuale distinzione fra modello ET per il debito e TE o TT per l’equity può essere superata o riportando entrambi sotto lo schema ET oppure prevedendo per entrambi un modello TE o TT. Ricadono nel primo caso la cash-flow tax proposta, fra gli altri, dal rapporto Meade (1978), la proposta avanzata negli anni 90 dall’Institute of Fiscal Study, nota come Allowance for corporate equiy (ACE), e introdotta in Italia (con qualche differenza non sostanziale) nel 1997 dalla riforma Visco sotto l’acronimo di Dit, e la sua evoluzione proposta negli Stati Uniti da E. Kleinbard (2005) sotto il nome di Cost of capital allowance (COCA). Rientrano nella seconda prospettiva invece la Comprehensive Business Income Tax (CBIT) proposta dal Dipartimento del Tesoro (Department of Treasury, 1992) americano che le business tax sul valore aggiunto del tipo Irap. 6.1 Deduzione del costo dell’equity: ACE, Dit e COCA Numerose proposte per eliminare il trattamento differenziale fra debito ed equity si rifanno al modello della “cash-flow tax” che prevede di calcolare la base imponibile come differenza fra i ricavi e i costi, entrambi valutati per cassa, consentendo la deducibilità immediata del costo dei beni di investimento (ed eliminando di conseguenza la deduzione degli ammortamenti). La discriminazione fra fonti di finanziamento viene eliminata in quelle versioni della proposta che prevedono l’indeducibilità dei costi (fra cui gli interessi passivi) e la non tassazione dei proventi delle transazioni finanziarie (modalità di tassazione nota nella letteratura, dopo il rapporto Meade, come base di tipo R). Nonostante il vasto interesse suscitato a livello accademico, soprattutto in relazione alla capacità di eliminare ogni distorsione delle scelte di investimento, la tassazione sul cash flow non è mai stata applicata in alternativa all’imposta societaria tradizionale. La letteratura ha individuato una serie di problemi (che riguardano i costi di adempimento, la vulnerabilità all’elusione, il coordinamento con l’imposizione degli altri paesi per le multinazionali) (Sunley 1989) che possono in parte spiegare la mancata adozione di tali proposte. Un’ulteriore fattore che può motivare lo scarso successo del modello della cash-flow tax a livello societario è che quasi sempre è stata associata a progetti di riforma che contemplavano il passaggio dal modello del reddito comprehensive al modello del reddito consumo per l’imposta personale. Nel corso degli anni ’90 sono state avanzate delle ulteriori proposte volte ad ottenere effetti economicamente equivalenti alla cash flow tax rimanendo in un contesto più simile alla tradizionale imposta sui redditi. Tra queste proposte la più nota è quella formulata dall’Institute of Fiscal Study e nota come ACE (Allowance for corporate equity). In estrema sintesi questo modello prevede di dedurre dalla base imponibile dall’imposta societaria il costo dell’equity calcolato come prodotto del tasso privo di rischio per il capitale investito nell’impresa. Il meccanismo dell’ACE è stato applicato (con qualche variazione) in Austria, Brasile, Belgio (dal 2007) Croazia ed Italia, anche se in questo ultimo caso è stato denominato Dual income tax (Dit). Sostanzialmente i questi esperimenti hanno prodotto risultati positivi (Keen e King 2002) incentivando le imprese ad una maggiore capitalizzazione (Bontempi et al. Staderini 2001) e a maggiori investimenti (Arachi e Biagi 2005, Staderini 2005). Vanno tuttavia segnalate due caratteristiche del modello ACE - Dit che potrebbero risultare problematiche in prospettiva. La prima riguarda lo sviluppo degli strumenti 12 finanziari ibridi non facilmente classificabili nelle due categorie di debito e azioni. Le recenti riforme del diritto societario, anche in Italia con la riforma Vietti, cercano di non ostacolare la diffusione di tali strumenti nella prospettiva di una maggiore efficienza del mercato dei capitali. Il meccanismo ACE – Dit continua invece a prevedere una differenziazione fra debito, con interessi interamente deducibili, e azioni, con deducibilità del costo imputato. E’ plausibile ritenere che questa dicotomia tenderà a penalizzare in alcuni casi nuovi strumenti finanziari, non concedendo né la deducibilità di eventuali corrispettivi fissi simili agli interessi né quella di eventuali corrispettivi commisurati agli utili. In altri casi invece si potrebbero manifestare casi di doppia deduzione con la necessità di introdurre norme antiarbitraggio (già presenti del resto anche nella normativa della Dit italiana). Sarebbe possibile ovviare a questo limite del modello ACE – Dit seguendo l’approccio proposto negli Stati Uniti da E. D. Kleinbard (Kleinbard 2006) . All’interno di una proposta complessiva di riforma dell’imposizione societaria negli Stati Uniti, l’Autore propone di sostituire tutte le deduzioni per i costi del finanziamento con un’unica deduzione calcolata moltiplicando il tasso privo di rischio (esempio il tasso sui titoli di Stato) per il valore complessivo degli asset dell’impresa. In altri termini si estende la logica sottostante al modello ACE-Dit a tutti i mezzi di finanziamento dell’impresa. La seconda caratteristica potenzialmente problematica dei modelli ACE-Dit o COCA riguarda la compatibilità con la partecipation exemption e più in generale con un modello di tassazione degli utili infrasocietari che preveda l’esclusione dei dividendi percepiti dalla base imponibile dell’imposta societaria. Infatti lo schema sottostante a questi metodi di calcolo della base imponibile dell’imposta societaria è ET: esenzione in capo alla società che produce il reddito, tassazione in capo al socio che percepisce il reddito3. Se il modello è ET o TT tutti i redditi finanziari percepiti dalla società devono rientrare nella base imponibile. Se così non fosse si creerebbero opportunità di arbitraggio fiscale in quanto le società potrebbero ottenere una deduzione sui finanziamenti ricevuti per poi investire in attività esenti. In realtà tutti i modelli con un costo imputato alle fonti di finanziamento hanno bisogno di ulteriori norme di chiusura: occorre infatti assicurare che alla deduzione ottenuta sull’incremento dei mezzi di finanziamento corrisponda un reddito tassabile. Nel caso della Dit Italiana erano finalizzate a questo obiettivo le norme che non concedevano la deduzione agli incrementi di capitale nella misura in cui vi era un aumento dei finanziamenti a società controllate o controllanti e/o un aumento di altri titoli e valori mobiliari. Nel caso del COCA la proposta prevede l’imputazione in capo al soggetto investitore di un rendimento minimo, tassabile, calcolato moltiplicando il valore dell’attività posseduta per il rendimento privo di rischio. E’ evidente che questo meccanismo crea dei delicati problemi nel caso di investimenti realizzati da soggetti non residenti e da entità esenti. 3 Più correttamente, il modello ET si applica relativamente al rendimento normale (il tasso privo di rischio) prodotto dall’impresa e deducibile dal reddito imponibile. Sul rendimento che eccede il tasso privo di rischio si ha doppia tassazione. Tuttavia, vi è un ampio consenso fra gli studiosi sul fatto che il livello di tassazione del rendimento in eccesso non abbia effetti riguardo alle scelte fondamentali di finanziamento e di investimento dell’impresa. Si veda a proposito la sezione 8. 13 6.2 Indeducibità dei costi di finanziamento: CBIT e Irap Il riequilibrio fra debito e equity può essere ottenuto in via alternativa alle proposte della sezione precedente prevedendo la non deducibilità di tutti i costi del finanziamento. Un approccio di questo tipo è stato proposto originariamente dal Dipartimento del Tesoro americano all’interno di una articolata proposta di riforma sviluppata nel 1992 (Department of the Treasury 1992) nota come Comprehensive income business tax (CBIT). La differenza principale con il modello della cash flow tax risiede nel fatto che il costo dei beni di investimento continua ad essere deducibile secondo un piano di ammortamento. La conseguenza economica fondamentale è che in questo caso il rendimento del capitale risulta colpito dall’imposta societaria. I flussi finanziari fra società assoggettate alla CBIT, rappresentando reddito già tassato, sono esclusi dalla base imponibile dell’imposta. La CBIT è quindi perfettamente coerente con il modello della participation exemption. Inoltre non concedendo alcuna deduzione per gli oneri di finanziamento non è vulnerabile a strategie di elusione attraverso le transazioni finanziarie. Il modello CBIT è in realtà molto vicino ad un’altra famiglia di imposte, le business tax sul valore aggiunto, di cui l’italiana Irap è l’esempio attualmente più rilevante nel panorama internazionale. Come per la CBIT anche la base imponibile Irap non contempla alcuna deduzione per gli oneri di finanziamento e risulta quindi neutrale rispetto alle scelte di finanziamento. Tuttavia l’Irap si discosta dalla CBIT per due differenze fondamentali. La prima, più evidente, consiste nel fatto che la base imponibile Irap comprende, oltre ai profitti e al rendimento del capitale, anche i redditi da lavoro pagati dall’impresa. La seconda è che per l’Irap risultano irrilevanti tutti i guadagni su operazioni finanziarie, mentre nella CBIT solo quelli derivanti da investimenti in altre entità già assoggettate alla CBIT. Quest’ultima differenza potrebbe rivelarsi nella pratica molto rilevante. Infatti, se da un lato un’imposta del tipo Irap elimina tutte le distinzioni artificiali riguardo alle attività e passività finanziarie, con una notevole razionalizzazione dell’imposta, dall’altro crea una nuova importante linea di separazione che può creare nuove opportunità di elusione: quella fra transazioni reali e transazioni finanziarie. Mentre le prime rientrano nella base imponibile le seconde ne sono totalmente escluse. La letteratura ha individuato diverse strategie per ridurre il carico fiscale in un contesto di questo tipo (Bradford 2005, McLure e Zodrow 1996, Zee 2006 ). Ad esempio nella vendita di un bene durevole il venditore può proporre il bene ad un prezzo più basso rispetto a quello di mercato a patto che l’acquirente sottoscriva un contratto di finanziamento con un interesse elevato. Se l’interesse più elevato compensa esattamente la riduzione di prezzo per l’acquirente, il venditore riesce a ridurre la base imponibile (l’interesse non rientra nella base imponibile) a parità di reddito. 7 Indicazioni per una riforma dell’imposta societaria in Italia Le considerazioni svolte sino a questo momento possono essere utilizzate per tentare di trarre delle indicazioni su possibili riforme dell’imposizione societaria in Italia. A tal fine è opportuno distinguere fra un’ottica di breve ed una di medio periodo. Nella prima verranno considerati quegli interventi che modificano alcuni aspetti della base imponibile senza modificare l’impianto fondamentale dell’imposta, mentre nella seconda si prenderanno in considerazione possibili modificazioni di modello. E’ 14 importante sottolineare come le due visioni debbano essere necessariamente collegate. Negli ultimi mesi si è molto insistito nel dibattito economico-polico sulla necessità di evitare continue revisioni del regime fiscale delle imprese (così come è accaduto negli ultimi anni con il succedersi delle riforme Visco e Tremonti) per consentire un corretto disegno delle strategie aziendali e degli investimenti. Tuttavia, a mio avviso, il problema cruciale non è stato generato dalla numerosità degli interventi legislativi ma dal fatto che questi abbiano cercato di realizzare modelli di imposizione con caratteristiche (e quindi effetti sulle scelte aziendali) completamente diverse. Da un lato la riforma Visco, con l’obiettivo principale di ridurre le distorsioni nelle scelte di finanziamento e ridurre il costo del capitale si è mossa verso un modello ET con l’adozione di un modello ACE-Dit. Dall’altro la riforma Tremonti, con l’obiettivo principale di razionalizzare l’imposizione dei gruppi societari e di chiudere delle opportunità di arbitraggio, ha virato verso un’impostazione del tipo TE a livello societario (e TT a livello personale) con l’eliminazione del credito d’imposta sui dividendi, l’introduzione della participation exemption e di varie forme di consolidato fiscale e tassazione per trasparenza. E’ quindi fondamentale individuare in primo luogo un modello di medio periodo che risulti sufficientemente razionale e condivisibile per poter rappresentare un riferimento sicuro per un numero sufficientemente lungo di anni. Nel breve periodo vanno realizzati aggiustamenti dell’esistente che risultino con questo coerenti. Tuttavia, dato è opportuno invertire l’ordine espositivo e iniziare con l’esposizione delle proposte di breve periodo dato che nella realtà italiana alcuni vincoli limitano il campo delle scelte possibili. 7.1 Il breve periodo: la participation exemption Come accade in numerosi Paesi europei anche in Italia la non rilevanza fiscale delle plusvalenze/minusvalenze su partecipazioni è condizionata da una serie di vincoli che riguardano la durata del possesso, la classificazione come immobilizzazioni finanziarie, la residenza fiscale della società partecipata in uno Stato o territorio diverso da quelli a regime fiscale privilegiato, l’esercizio da parte della società partecipata di un’impresa commerciale. Inoltre con d.l. 203/2005, convertito dalla legge 248/2005 è stata prevista la graduale riduzione della soglia d’esenzione delle plusvalenze fino al 84% nel 2007 creando una asimmetria di trattamento con le minusvalenze che restano indeducibili. L’effetto combinato di queste disposizioni, tenendo anche conto della normativa anti dividend washing già richiamata nella sezione 5.1, è quello di creare una casistica che prevede ben otto diverse fattispecie con quattro differenti modalità di tassazione (Perris e Piazza, 2006). Si è già illustrato nella sezione 5.1 come questi vincoli rappresentino uno strumento poco efficace e fonte di ulteriori problemi in prospettiva. E’ quindi opportuno riflettere su di un loro superamento che può avvenire o nel contesto di un rafforzamento della participation exemption o di una sua abolizione. Tuttavia questa seconda opzione è difficilmente praticabile. Abolito il credito d’imposta il meccanismo più naturale per la tassazione dei dividendi infrasocietari è quello dell’esenzione al 95%, già in vigore, in applicazione della direttiva UE «madrefiglia», per i dividendi di fonte comunitaria. Il modello TE per i dividendi richiede, per le ragioni discusse nella sezione 2.2.2, la non rilevanza fiscale delle plus/minusvalenze. E’ auspicabile quindi un intervento di riforma che nel breve 15 periodo ristabilisca la piena irrilevanza fiscale delle plus/minusvalenze su partecipazione indipendentemente dalla durata del possesso e dal fatto che siano iscritte nell’attivo circolante o nelle immobilizzazioni finanziarie. 7.2 Il medio periodo: verso la neutralità finanziaria Se la scelta della participation exemption appare quasi obbligata alla luce dei vincoli imposti dalle norme comunitarie, essa è sicuramente poco coerente con il disegno complessivo dell’Ires. Come osservato nella sezione 6, la participation exemption esaspera la distinzione fra partecipazioni, assoggettate allo schema TE, ed debito cui l’imposta si applica secondo l’approccio ET. La tensione fra questi due approcci è testimoniata dalle numerose norme che limitano la deducibilità degli interessi passivi con la finalità di evitare arbitraggi fiscali tra i due regimi come il pro-rata patrimoniale (art. 97 Tuir) ed il pro-rata di deducibilità (art. 96 Tuir). Da una prospettiva più ampia è chiaro come sia proprio la difficoltà a sostenere questa distinzione fra diverse tipologie di finanziamento che genera la necessità di norme generali contro la capitalizzazione sottile (art. 98 Tuir). Tenendo conto anche degli effetti economici negativi sulle scelte fondamentali delle imprese prodotte dalla discriminazione del capitale proprio rispetto al debito, già richiamate nella sezione 6, è opportuno riflettere sulle modalità di riequilibrio attuabili nel medio periodo. Dalla discussione condotta nella sezione precedente emergono due alternative: la reintroduzione della Dit (nella sua versione originaria o in quella più generale del modello COCA) e la progressiva sostituzione dell’Ires con l’Irap (nella sua forma attuale o modificata verso il modello della CBIT). Si è dimostrato come la seconda alternativa sia in teoria superiore nel garantire uniformità di trattamento alle attività e passività finanziare delle imprese in maniera coerente con la participation exemption. Occorre tuttavia ricordare che i due approcci differiscono notevolmente riguardo i loro effetti economici (Bond 2000). Non essendo possibile in questa sede un confronto esaustivo, è opportuno soffermarsi su quello che viene indicato come il principale vantaggio teorico del modello ACE-Dit: la neutralità rispetto alle scelte di investimento delle imprese. Contrariamente a quanto spesso sostenuto da numerosi commentatori nel periodo di vigenza della Dit, questo meccanismo (se applicato secondo lo schema ACE) lascia invariato il costo del capitale dell’impresa, anche in presenza di ammortamenti fiscali che non rappresentano correttamente la reale perdita di valore del bene, ed elimina ogni discriminazione fra investimenti caratterizzati da un diverso livello di rischio. Al contrario l’Irap (come la CBIT) fa aumentare il costo del capitale in misura che viene influenzata dagli ammortamenti fiscali. Di conseguenza crea dei disincentivi all’investimento che variano in relazione agli ammortamenti fiscali. Tuttavia questo aspetto negativo è in parte mitigato dal fatto che un’imposta del tipo Irap, data la più ampia base imponibile, richiede un’aliquota bassa. Nel contesto di una economia aperta l’aliquota bassa produce degli ulteriori benefici in quanto riduce gli incentivi al trasferimento di profitti verso controllate estere e alla delocalizzazione della produzione. Se si accetta la conclusione della non opportunità di un ritorno alla Dit, resta la scelta fra Irap e una sua versione modificata, più vicina alla CBIT, con l’esclusione del costo del lavoro dalla base imponibile. Questa scelta dipenderà dalla struttura 16 dell’imposta personale. Dato che la prospettiva più probabile per i redditi di capitale è il consolidamento dell’applicazione di un’imposizione sostitutiva di tipo proporzionale, sarà preferibile il modello CBIT se l’imposizione sui redditi da lavoro avrà una struttura progressiva con aliquote marginali significativamente differenti da quella applicata ai redditi di capitale. Infatti in questo caso la CBIT elimina l’incentivo a percepire compensi sotto forma di profitti piuttosto che come redditi di lavoro. L’Irap è invece preferibile se l’imposizione sui redditi da lavoro avrà una struttura relativamente vicina alla proporzionalità con aliquote marginali non troppo lontane da quelle applicate sul capitale. In questo scenario l’Irap garantirebbe non solo la neutralità sulle scelte di finanziamento e di scelta dei fattori produttivi4, ma essendo applicabile a tutte le tipologie di impresa, anche la neutralità rispetto alla forma organizzativa. Ovviamente una transizione dall’Ires all’Irap pone una serie di delicati problemi, (il livello dell’aliquota, la redistribuzione del carico tributario fra imprese e fra fattori produttivi, le correzioni da realizzare nei rapporti finanziari fra Amministrazioni Centrali e Regioni, le eventuali correzioni da apportare all’imposta nel caso di una condanna da parte della Corte di Giustizia Europea) che non è possibile qui analizzare in maniera compiuta. A livello strutturale un’imposizione societaria basata su CBIT o Irap pone due interrogativi sollevati nella sezione 6.2. Il primo riguarda la possibilità di ridurre entro limiti accettabili le possibilità di arbitraggio che sfruttino il diverso trattamento fra transazioni finanziarie e reali. Si tratta di un tema relativamente poco studiato nella letteratura che dovrà essere oggetto della ricerca futura. Il secondo ha a che vedere con il differimento delle imposte personali sui redditi finanziari realizzati utilizzando come veicolo una società. Questo problema potrebbe trovare una soluzione con un correttivo introdotto a livello dell’imposta personale. Lo stesso correttivo potrebbe evitare il differimento dell’imposta che si realizza in alcuni casi di plusvalenze societarie quando si applichi la participation exemption come illustrato nella sezione 2.2.2. Più in generale, il correttivo potrebbe essere applicato ad ogni tipo di plusvalenza realizzata da persone fisiche consentendo di razionalizzare l’imposizione su tutte le forme di impiego del capitale, ad esempio gli immobili, garantendo un significativo riequilibrio in termini di equità del prelievo. Per questi motivi, il correttivo rappresenta una possibile riforma da introdurre nel breve periodo (anche in vista di un accorpamento delle aliquote dell’imposta sostitutiva sui redditi finanziari intorno al 20%) e verrà discussa nel dettaglio nella sezione seguente. 8 La correzione del differimento dell’imposta a livello personale: un coefficiente di rettifica sui capital gain La letteratura economica ha da tempo dimostrato come il lock-in effect, causato dal differimento dell’imposta nel caso in cui le plusvalenze siano tassate solo nel momento della loro realizzazione, può essere eliminato utilizzando dei correttivi che rendano equivalente l’imposta pagata al momento della realizzazione a quella che il 4 In realtà l’Irap garantisce la neutralità rispetto alla scelta di impiego dei fattori produttivi solo se gli ammortamenti fiscali coincidono con la reale perdita di valore dei cespiti. Dato che nella realtà questa condizione non si realizza l’Irap produce incentivi (o disincentivi) differenziati all’impiego di diversi cespiti. Contrariamente a quanto sostenuto da alcuni commentatori (Convenevole 2005) la non deducibilità degli ammortamenti dalla base imponibile non rende l’imposta neutrale ma, al contrario, crea un incentivo a sostituire capitale con lavoro. 17 contribuente avrebbe pagato se si fosse seguito il principio della maturazione. Questo approccio è noto in letteratura come imposizione retrospettiva dei capital gains. Nel caso in cui le variazioni di valore di un asset durante il periodo di detenzione siano note è possibile prelevare un’imposta sul guadagno in conto capitale al momento del realizzo che replica esattamente l’onere dell’imposta applicata secondo la maturazione. Per conseguire l’obiettivo è necessario valutare l’apprezzamento dell’asset nei vari periodi fiscalmente rilevanti, calcolare l’imposta dovuta e capitalizzare queste imposte “virtuali” fino al momento del realizzo utilizzando i tassi di rendimento interno al netto d’imposta relativi ad ogni singolo periodo. Di fatto è il metodo utilizzato per calcolare il cosiddetto “equalizzatore” in vigore nei primi mesi del 2001 sui proventi dei fondi esteri armonizzati. Tuttavia proprio l’esperienza dell’equalizzatore del 2001 (che prevedeva tre diverse forme di equalizzatore) insegna che i meccanismi di correzione devono essere semplici e applicabili anche ad attività di cui non si conosce il sentiero di apprezzamento. La letteratura economica ha tuttavia individuato dei meccanismi che consentono di eliminare il lock-in effect senza necessità di conoscere l’intera storia degli andamenti del prezzo di una particolare attività. Le soluzioni si basano su un risultato fondamentale dell’analisi degli effetti delle imposte sulle scelte di portafoglio. Il rendimento di ogni asset può essere scomposto nel rendimento certo e in un extra-rendimento. La tassazione del rendimento in eccesso rispetto al rendimento certo non modifica il benessere dell’investitore in quanto questi ha la possibilità di controbilanciare gli effetti delle imposte con un opportuna modificazione della composizione del portafoglio (a condizione che le perdite siano pienamente riconosciute e determino una riduzione di imposta o un credito nel periodo in cui si verificano). Supponiamo che l’investitore abbia scelto di investire 100 in un titolo che garantisce un rendimento certo del 10%. Egli investe anche altri 100 in un titolo rischioso che rende il 20% nello stato del mondo favorevole (F) ma solo il 5% in quello sfavorevole (S). L’investitore avrà dunque una ricchezza complessiva apri a 230 nello stato del mondo favorevole e 215 in quello sfavorevole (vedi tabella 1). Immaginiamo ora che si introduca un’imposta con aliquota del 10% che colpisca il rendimento in eccesso rispetto al rendimento certo. Nello stato del mondo favorevole il nostro investitore avrà ottenuto un extra rendimento pari a 10 e dovrà quindi versare 1 di imposta. Nello stato del mondo favorevole ottiene invece un extra rendimento negativo di 5 e riceverà quindi una riduzione d’imposta o un rimborso di 0.5. La sua ricchezza netta sarà quindi pari a 229 nello stato F e 215,5 nello stato S. Tabella 1 Investimento Stato iniziale F Titolo privo di 100 110 rischio Titolo rischioso 100 120 Totale 230 Imposta Stato S 110 Stato F Stato S (netto imp.) (netto imp.) 110 110 105 215 119 229 105,5 215,5 1 0,5 18 L’investitore ha tuttavia la possibilità di lasciare invariata la ricchezza finale nei due stati del mondo riducendo l’investimento sul titolo privo di rischio fino a 88,89 e aumentandolo fino a 111,11 in quello rischioso. Come illustrato nella tabella 2 in questo caso egli otterrebbe una ricchezza finale lorda di 231,11 nello stato del mondo favorevole e di 214,44 nello stato del mondo sfavorevole. Al netto di imposta la sua ricchezza tornerebbe ad essere 230 nello stato F e 215 nello stato S. Se il risk pooling del settore privato è efficiente, una variazione delle imposte sul rendimento in eccesso rispetto al rendimento certo non ha conseguenze reali sull’economia e sul gettito dello Stato (Kaplow 1994) Tabella 2 Investimento iniziale Titolo privo di 88,89 rischio Titolo rischioso 111,11 Totale Extra r. Imposta Stato F Stato S Stato F (netto imp.) Stato S (netto imp.) 97,78 97,78 97,78 97,78 133,33 231,11 11,11 116,66 214,44 -5,55 132,22 230 117,22 215 1,11 -0,55 L’implicazione di questo risultato è che l’aggiustamento delle imposte al momento della realizzazione dei guadagni può avvenire utilizzando non l’effettivo rendimento dell’attività considerata ma il rendimento certo che l’investitore poteva garantirsi nei periodi di possesso. Sulla base di questa intuizione Auerbach e Bradford (Auerbach 1991, Bradford 1995, Auerbach e Bradford 2004) hanno dimostrato che il lock-in effect può essere eliminato da un’imposta che prenda come riferimento solo il prezzo di acquisto e quello di vendita di un asset. L’intuizione di questo approccio è la seguente. La dinamica del valore di un asset dal prezzo di acquisto A0 al suo prezzo di vendita AS può essere approssimata immaginando che l’asset si sia apprezzato al tasso di interesse privo di rischio. Sono possibili due approssimazioni (indicate nella figura 1 dalla linea imputed) a seconda che si parta dal valore dell’asset al tempo 0 e lo si capitalizzi o che si parta dal valore finale al momento della sua cessione s, e lo si sconti tornando indietro nel tempo. Si possono riconciliare le due proiezioni assumendo che in una data D il prezzo dell’asset compia un salto. I due autori dimostrano che il lock-in effect è eliminato se il contribuente viene chiamato a pagare un’imposta calcolata sul percorso di apprezzamento imputato capitalizzando le imposte “virtuali” in ogni periodo con il tasso di interesse privo di rischio al netto dell’imposta. La data D in cui imputare il “salto” è irrilevante e all’incremento di valore in data D può essere applicata un’aliquota diversa da quella applicata al rendimento certo. All’interno di questo schema generale è possibile individuare un metodo relativamente semplice per correggere l’imposizione alla realizzazione eliminando il lock-in effect. 19 Figura 1: Apprezzamento effettivo e imputato Quando D coincide con s, si assume che l’asset si sia apprezzato secondo il tasso privo di rischio fino alla vendita. Quindi il valore dell’asset a ridosso della vendita sarà pari a (1+i)s A0. Per riconciliare questo valore con il valore effettivo di cessione si assume che al momento della vendita ci sia stato un incremento/decremento di valore pari a As - (1+i)sA0. L’imposta dovuta può essere scomposta in due componenti. La prima è data dalla somma delle imposte calcolate sugli incrementi di valore imputati negli s periodi e capitalizzate fino a momento della cessione. Dato che l’incremento di valore in ogni periodo è assunto pari al rendimento privo di rischio i, e che il tasso usato per capitalizzare le imposte dovute in ogni periodo è i(1-t) questa componente è pari alle imposte che si sarebbero pagate alla maturazione su i con aliquota t. Di conseguenza questa componente può essere calcolata come differenza fra il valore di acquisto capitalizzato al tasso lordo e lo stesso valore capitalizzato al tasso netto: (1+i)s A0 - (1+i(1-t))s A0. La seconda componente è l’imposta calcolata sulla differenza fra l’effettivo valore di cessione ed il valore imputato dopo s periodi capitalizzando il valore d’acquisto al tasso privo di rischio: t [As - (1+i)sA0]. Complessivamente l’imposta da applicare al momento della cessione è pari a: t [As - (1+i)sA0] + [(1+i)s - (1+i(1-t))s ] A0. 20 Questa somma può essere riscritta: t (As - [(1+i(1-t))s - (1-t) (1+i)s] A0) t In altri termini è possibile eliminare il lock in effect applicando un coefficiente alla base su cui calcolare il guadagno in conto capitale: t (As - α(i,s,t)A0) con α(i,s,t) = [(1+i(1-t))s - (1-t) (1+i)s] t Il coefficiente di correzione α dipende esclusivamente dal tasso di interesse privo di rischio e dal periodo di detenzione del titolo5. La figura 3 illustra i valori assunti dal coefficiente a al variare del periodo di detenzione e del tasso di interesse privo di rischio assumendo un’aliquota del 20%. Oltre alla facilità d’applicazione la correzione della plusvalenza realizzata secondo il coefficiente α ha un ulteriore vantaggio. E’ possibile infatti correggere per gli effetti dell’inflazione in maniera molto semplice: è sufficiente utilizzare il tasso di interesse reale invece di quello nominale nel calcolo del coefficiente α. Figura 2: Andamento del coefficiente di correzione α (i,s,t ) (aliquota t =20%) 1 0.5 0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 -0.5 i=2% i=3% i=4% i=5% -1 -1.5 Periodo di detenzione 5 Nel caso generale in cui il tasso privo di rischio cambia nel tempo occorrerà sostituire il termine (1+i)s con s −1 s −1 z =0 z =0 ∏ (1 + iz ) e (1+i(1-t))s con ∏ (1 + iz (1 − t )) . 21 Riferimenti bibliografici Alworth, J. 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