La marina mercantile del golfo di Napoli

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La marina mercantile del golfo di Napoli
Francesco D’Esposito e Biagio Passaro
Le cinque schede che seguono sono state pubblicate nel sito www.provincia.napoli.it, all’interno di una storia on-line
del Bicentenario della nascita della Provincia di Napoli, curata da Renata Di Lorenzo, © 2006-2007 Dipartimento di
Discipline Storiche "Ettore Lepore" dell'Università degli Studi di Napoli Federico II. Oltre ad alcune correzioni vi sono
state aggiunte delle foto.
La marineria del golfo di Napoli durante il Decennio francese
Già alla fine del XVIII secolo le comunità costiere appartenenti all’odierna provincia di Napoli sono
intensamente dedite alle attività marinare. Giuseppe Maria Galanti nella Descrizione geografica e
politica delle Sicilie (1786), pur deplorando le non floride condizioni della marineria mercantile del
Regno, scrive che «I luoghi dove si esercita, sono Napoli, Procida, Ischia, Torre del Greco, Castello
a mare, Sorrento, Vico-Equense, Positano, Conca e Vietri». Con il toponimo ‘Sorrento’, più che
all’antico centro urbano, l’intellettuale molisano intende riferirsi ai villaggi e casali del pianoro
tufaceo esterno alla città, costituenti oggi i comuni di Meta, Piano di Sorrento e Sant’Agnello.
Infatti, sull’onda della generale ripresa degli scambi nel Mediterraneo, gli abitanti delle zone
costiere del napoletano hanno un ruolo sempre maggiore nell’approvvigionamento della capitale e
si inseriscono saldamente sulle rotte che collegano l’Adriatico e lo Ionio al Tirreno. L’aumento
della domanda permette loro di specializzarsi nel trasporto dei prodotti agricoli nel sud Italia e del
Levante verso i porti di collegamento dell’Europa occidentale (Genova, Marsiglia, Cadige). In tal
modo riescono a fare concorrenza alle più affermate marinerie europee e spaziano in tutti i porti del
Mediterraneo, non disdegnando - quando le tradizionali potenze marittime sono impegnate a farsi
guerra - di uscire da Gibilterra per cercare di inserirsi nei lucrosi traffici col Nord Europa e con le
Antille. Gli esponenti più in vista della borghesia dei centri marittimi del golfo già a partire dal
XVIII secolo conseguono innegabili successi nel settore della navigazione commerciale, grazie alle
solide e capaci imbarcazioni costruite nei cantieri da spiaggia di Procida e della costiera sorrentina
ed alla qualità delle loro scuole nautiche. La promettente situazione della marineria della provincia
di Napoli non viene compromessa dalle complesse vicende dell’età napoleonica, le quali tuttavia ne
rallentano lo sviluppo. La guerra senza quartiere condotta dalla flotta britannica contro Napoli e
l’applicazione del blocco continentale portano quasi alla paralisi del commercio marittimo. In
compenso, però, gli stretti contatti con la progredita tecnologia marittima francese, come pure il
confronto e i contatti con gli inglesi, contribuiscono non poco ad allargare ed internazionalizzare la
mentalità degli operatori marittimi napoletani. Nel giro di pochi anni si fanno più rare le tipiche
imbarcazioni mediterranee (polacche, pinchi, tartane, marticane), mentre nei cantieri del golfo le
maestranze si cimentano con la costruzione di nuovi tipi di navi da carico: brigantini (brick) e
golette (schooner), di evidente derivazione atlantica. Inoltre durante i primi anni dell’età murattiana
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la guerra sul mare ha come teatro principale il controllo delle isole del Golfo, e così, sia la flotta
borbonica-siciliana che quella murattiana-napoletana si contendono i giovani sorrentini e procidani,
appartenenti alle famiglie di antica tradizione marinara; sono ritenuti, infatti, i più esperti nelle
manovre e molti faranno carriera come piloti e come ufficiali di rotta della Regia marina.
L’intensificarsi dei contatti culturali ed economici con gli ambienti d’oltralpe favorisce ancor più
l’affermarsi di innovazioni, senza più l’azione frenante della corte: viene riorganizzato il cantiere di
Castellammare fondato da Acton, si diffondono strumentazioni nautiche più precise, assieme all’uso
dei logaritmi per il calcolo del punto di navigazione e all’introduzione delle unità di misure
decimali e della tonnellata marittima. Infine, il settore della pesca del corallo, cui si dedicano gli
equipaggi di Torre del Greco con parecchie centinaia di feluche coralline risente positivamente
dell’inserimento in dinamiche politiche più ampie. Grazie agli accordi governativi con le reggenze
barbaresche e alla protezione garantita dalla flotta regia, i pescatori torresi possono spingersi senza
problemi fino sulle coste del Nord Africa, conquistando un ruolo di assoluto rilievo nel rifornire di
materia prima l’industria del lusso nell’Europa napoleonica. Nel Decennio francese, quindi, se non
è possibile un ampliamento della marina mercantile, si affermano e si consolidano le riforme,
proposte e avviate, già durante la prima età borbonica, dai personaggi di spicco dell’illuminismo
meridionale, che avevano dovuto affrontare l’indifferenza se non addirittura l’ostilità del sovrano e
dei suoi ministri. Valga come esempio, tra tanti, la stampa e la diffusione delle carte dell’Atlante
Marittimo del Regno, realizzato dal Rizzi Zannoni già nel 1785, su direttive di Ferdinando Galiani.
Inoltre vengono rivolte maggiori attenzioni alle scuole di formazione degli ufficiali della marina
mercantile, valorizzando l’esperienza oramai consolidata delle scuole nautiche del Piano di
Sorrento, che faranno da modello per tutto il regno.
I successi della marina mercantile napoletana nell’Ottocento preunitario
A partire dall’età della Restaurazione la marina mercantile del Regno delle Due Sicilie si afferma
definitivamente come una delle più vitali del Mediterraneo: dal 1818 al 1850 il numero delle
imbarcazioni si triplica e il tonnellaggio cresce due volte e mezzo, superando quello di tutte le altre
regioni italiane. Se l’incremento interessa molte province del Mezzogiorno per quanto attiene al
naviglio da pesca e di cabotaggio, che si esercita lungo le coste e nell’ambito dei mari limitrofi
(Tirreno, Adriatico e Ionio), solo le marinerie del golfo di Napoli e della Sicilia, attrezzate con
bastimenti d’altura, si inseriscono sulle più lunghe rotte mediterranee ed oceaniche.
Specchio della Marineria Mercantile dei Reali
Domini di qua del faro al 1 luglio 1833, in
“Annali civili del Regno delle Due Sicilie”, a. II,
fasc. VII., gennaio-febbraio 1834.
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Gli armatori napoletani nel 1833 controllano il 44% di tutta la flotta mercantile delle Due Sicilie (il
60% circa se si fa riferimento alle sole province continentali), e nel settore delle imbarcazioni di
stazza superiore alle 200 tonnellate, essi gestiscono il 94% del totale. Meta e l’isola di Procida
possiedono lo stesso numero di bastimenti atlantici (54) di tutta la Sicilia. Complessivamente sono
quasi 20.000 gli abitanti del golfo imbarcati come marinai su questa flotta, oltre agli addetti nei
cantieri navali e nelle numerose attività dell’indotto (maestri d’ascia, fabbri, calafati, velai, cordai).
La secolare dipendenza del commercio del Regno dal naviglio straniero (genovese, ma anche
francese, olandese, inglese e danese) proprio in questi anni viene ribaltata: oramai la flotta
mercantile meridionale trasporta una quota delle proprie esportazioni ed importazioni ben maggiore
di quella portata da altre bandiere. Inoltre i miglioramenti conseguiti sul piano delle costruzione
navali e dell’istruzione nautica mettono in grado gli equipaggi napoletani di far concorrenza alle
ben più agguerrite marinerie dell’epoca anche sulle redditizie rotte che collegano il mar Nero e il
Levante mediterraneo con il mar del Nord, con il Baltico e con i porti atlantici delle Americhe.
Protagonista di questa performance nel commercio marittimo a lunga distanza non è la capitale, la
cui popolazione sembra poco propensa alla dura vita sul mare, quanto piuttosto i vivaci centri
rivieraschi che s’affacciano sul golfo; si distinguono particolarmente Procida e i paesi della costiera
sorrentina (Vico Equense, Castellammare di Stabia e, soprattutto Meta e Piano di Sorrento); a Torre
del Greco la pesca e la lavorazione del corallo a metà secolo impiegano oltre 700 barche e quasi
5.000 marinai. Analogamente a quanto avviene a Genova e a Trieste, anche nel napoletano tra il
1818 e 1831 si costituiscono una decina di società di assicurazioni e cambi marittimi, allo scopo di
ripartire i rischi e reinvestire una parte dei profitti. Il valore delle azioni, in taluni casi, raddoppia,
ma l’insieme dei capitali non riesce a soppiantare la forza finanziaria delle altre società, italiane e
straniere che, appena si manifesta il vigoroso sviluppo della flotta meridionale, aprono
tempestivamente le loro filiali a Napoli.
Pianta del porto di Nisita (sic!) in “Annali civili del Regno
delle Due Sicilie”, a.XVIII, fasc. XXXV, settembre-dicembre
1838, pp. 5-25.
Non meno interessanti sono i precoci inizi della navigazione a vapore. Sicuramente, come altrove, è
il potere politico a incoraggiarne lo sviluppo, anche per ragioni militari e di prestigio. Proprio a
Napoli la navigazione a vapore fa la sua prima apparizione nel Mediterraneo con il varo nel 1818
del piroscafo Ferdinando I, che il 27 settembre 1818 comincia il viaggio che lo porta a Livorno,
Genova e Marsiglia. Tra le iniziative più durature vanno comunque segnalate la Società per
Navigazione del Golfo con tre vaporetti e la Compagnia di navigazione a vapore della Due Sicilie.
Quest’ultima, costituita come società per azioni sin dal 1840, incontra il favore dei grandi investitori
partenopei (nobili, banchieri e commercianti napoletani e stranieri) e al momento dell’unificazione
gestisce una discreta flotta di piroscafi: negli anni ’50, con ben 6 piroscafi, assicura i collegamenti
nel Tirreno (Genova e Marsiglia) ed in Adriatico (Trieste). Disavventure ed incidenti, unitamente ad
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un eccezionale aumento dei prezzi del carbone dovuto alla guerra di Crimea (1854-1855),
provocano una grave crisi all’assetto finanziario della Compagnia, di cui si viene a capo solo dopo
due anni di sacrifici. Intanto la marineria a vela del golfo, al suo apice, al servizio di francesi e
piemontesi per il trasporto delle truppe e dei rifornimenti nel mar Nero, accumula grosse fortune e
si inserisce nel lucroso traffico del grano russo verso la Gran Bretagna e gli Stati Uniti.
L’apogeo della vela e le difficoltà della navigazione a vapore
L’Unificazione italiana produce effetti di segno opposto sulla marina mercantile del golfo di Napoli.
La flotta velica vede rafforzato il ruolo acquistato nel commercio marittimo internazionale durante
il periodo borbonico e contribuisce – assieme a quella ligure – a porre l’Italia unita tra le prime
marine del mondo; al contrario viene compromesso e vanificato ogni ulteriore sviluppo
dell’armamento a vapore. La Compagnia di navigazione a vapore delle Due Sicilie, esclusa dalla
ripartizione delle linee postali sovvenzionate (1862), non riesce a reggere la concorrenza delle
società genovesi e palermitane e viene posta in liquidazione (1865).
Marina di Cassano a Piano di Sorrento, 1871-1872 ca. Il cantiere navale del cavaliere Aniello Castellano con
tre bastimenti in costruzione contemporaneamente. Fotografia, collezione privata.
L’armamento a vela del golfo, quindi, prosegue il suo vigoroso sviluppo grazie al saldo ancoraggio
della nuova compagine statale nel contesto internazionale. La crescente importanza assunta dal
Mediterraneo nelle rotte commerciali – l’apertura di Suez ne è un chiaro segnale – permette a
marinerie come quella napoletana, pur prive di significative quantità di merci proprie da immettere
nel mercato, di affermarsi accanto a quelle di più antica tradizione. Gli equipaggi mediterranei,
favoriti dalla forte domanda di noli per il trasporto di derrate alimentari e di materie prime verso le
aree industrializzate, grazie ad una gestione di tipo familiare, sono in grado di farlo a prezzi
assolutamente concorrenziali e con notevoli profitti. Gli operatori marittimi del golfo di Napoli sono
secondi solo ai genovesi: mentre nei porti liguri, intorno al 1861, operano oltre 400 grandi velieri
d’altura, nel golfo di Napoli la flotta d’altura supera abbondantemente le 200 unità. Nessun’altra
regione d’Italia dispone di un potenziale simile; negli anni a venire, pure in presenza di una
fortissima espansione ligure e con l’annessione del Veneto e dello Stato Pontificio, la quota di
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partecipazione della marineria napoletana non scenderà mai sotto il 15% del tonnellaggio
complessivo.
Brigantino a palo Carmela C., 597 tonnellate s.l., dell’armatore Francesco
Saverio Cacace di Meta, varato alla marina di Alimuri nel 1879,
costruttore Giuseppe Starita, detto Licignone. Fotografia del modello
realizzato da Giovanni Esposito nel 1967 (Museo Mario Maresca, Meta)
È l’età dell’oro della navigazione a vela e, come tutte le marinerie impegnate nella navigazione
oceanica, anche i centri marittimi della provincia di Napoli adottano il brigantino a palo, detto
“barco”, tra le 400 e le 600 tonnellate. Si tratta di un tre alberi con una grande superficie velica
mista, che rappresenta un felice compromesso tra capacità di carico, gestione economica e tecnica
di navigazione per le differenti condizioni di vento che si incontrano sulle rotte che collegano
l’Atlantico e il Mediterraneo.
Il brigantino a palo Thomas, ex Carlo, nel porto di Napoli a fine
Ottocento. 751 tonnellate s.l., varato a Castellammare di Stabia nel
1879, costruttore Giacomo Bonifacio, per conto dell’armatore e
commerciante internazionale di grano Mariano Cacace di Meta; dal
1896 armato dai Fratelli Trapani sempre di Meta ed infine, dal 1903,
da Tommaso Astarita. Fotografia, collezione privata.
I bastimenti realizzati nel golfo di Napoli si distinguono a tal punto, che a partire dal 1867
ottengono di essere registrati nella classe eccezionale di merito superiore del Bureau Veritas, il
Registro navale pubblicato a Parigi. I cantieri posti nelle marine di Procida, Alimuri (Meta), di
Cassano (Piano di Sorrento), di Castellammare di Stabia e, in misura minore, quella di Equa (Vico
Equense), in un ventennio varano alcune centinaia di grosse imbarcazioni (tra 300 e 500 tonnellate),
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anche su commessa di armatori liguri, siciliani e sudamericani. Comunque il 75% di queste
imbarcazioni è armato dai casati armatoriali della costiera sorrentina, numerosissimi in particolare
nel territorio del Piano, che assume i caratteri di una vera a propria comunità del mare: antiche
scuole nautiche per la formazione di ufficiali e costruttori, cantieri navali con tutti i mestieri
dell’indotto (maestri d’ascia, fabbri, velai, calafati), rigogliose società di assicurazioni, luoghi di
ritrovo per la gente di mare (come il Caffé Fariello a Meta, dove si contratta tutto ciò che serve per
le costruzioni e le campagne di navigazione), commercianti, organizzazioni assistenziali e
professionisti rinomati, come notai e giuristi, specializzati nelle questioni di diritto marittimo. Tra i
gruppi armatoriali un posto di rilievo spetta alla Ditta Ciampa di Sant’Agnello, la cui flotta è tra le
prime in Italia.
Il Genista, 1750 tonnellate di s.l., nave in ferro dell’armatore
metese Tommaso Astarita, in un porto del Nord Europa
prima del 1914. Fotografia, collezione privata.
Capitani e armatori, per accaparrarsi i carichi più remunerativi, contano su di una rete di familiari e
concittadini, che risiedono nei principali porti (Odessa, Genova, Marsiglia, Anversa, Brema,
Newcastle, Pietroburgo, Boston, New York), svolgendovi le più svariate mansioni legate al mondo
del commercio marittimo: agenti, sensali, commercianti, periti navali, assicuratori o altro.
Il Pilero, il rione “marittimo” di Napoli. Cartolina degli anni Venti
del Novecento. Cartolina d’epoca. Collezione privata
A Napoli il quartiere marinaro è il Piliero – ora cancellato dalle trasformazioni urbanistiche – dove
si concentrano le attività legate alla marineria. Vi vivono moltissime famiglie della costiera
sorrentina e delle isole del golfo, che normalmente “svernano” a Napoli per stare vicino ai loro
uomini impegnati nel multiforme pullulare di attività legate al porto, alla navigazione e al
commercio marittimo. L’epoca del massimo perfezionamento della navigazione a vela è anche
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l’ultima; a fine ‘800 la propulsione a vapore risolve i problemi tecnici, che l’avevano quasi
confinata al trasporto passeggeri. Il tramonto delle navi di legno e della propulsione eolica nel
trasporto marittimo è lento e diviene definitivo solo nei primi decenni del Novecento. L’ultimo
momento di gloria della vela è quella dei grandi scafi di ferro e acciaio armati con una possente
velatura, manovrata con argani a vapore, in grado di portare a prezzi molto bassi grandi quantità di
merci in qualsiasi parte del mondo. Sono giganti del mare, lunghi anche fino a cento metri e dalla
portata che oscilla tra 1.000 e 3.000 tonnellate di stazza lorda, tutti utili al carico, visto che non
hanno nella stiva apparato motore, né deposito di combustibile. In Italia riescono a dotarsene solo i
genovesi e i napoletani. Nel golfo di Napoli, dove operano per lo più ditte a base economica
familiare, solo pochi casati, tra i più solidi, ne acquistano circa trentacinque: i Lauro, i Cafiero, i
Califano, i Maresca, i Cacace, i D’Abundo, gli Scotto Lachianca. Cominciano i Ciampa, che dopo
averne preso uno in Gran Bretagna – seguiti da tutti gli altri – ne ordinano tre ai cantieri Ansaldo di
Sestri. Tommaso Astarita, invece, che ha costituito la «Società di Navigazione a Vela», arma ben
sette velieri di acciaio, acquistati usati sempre in Gran Bretagna. Tutti questi grandi velieri andranno
perduti durante la Grande guerra.
La modernizzazione dell’industria armatoriale napoletana tra le due guerre mondiali
Ai principi del Novecento l’età d’oro dei grandi velieri oceanici - orgoglio e ricchezza dei numerosi
casati armatoriali sorrentini e procidani - è definitivamente tramontata. Solo pochi imprenditori,
originari della costiera sorrentina, riescono ad acquistare i moderni mezzi di ferro e d’acciaio. Nel
compartimento marittimo del porto di Napoli, alla vigilia della Grande guerra, risultano iscritti solo
16 piroscafi da carico: 4, di nuova costruzione, della Ditta Ciampa e 6, acquistati di seconda mano,
di Tommaso Astarita. Quest’ultimo tra il 1917 e il 1922 ne costruisce altri 4, molto grandi, nel suo
nuovo cantiere della Bacini e Scali Napoletani. L’improvvisa scomparsa di Astarita e la messa in
liquidazione delle attività dei Ciampa stroncano in pochi anni le loro promettenti iniziative.
La
società
di
Bacini
e
Scali
Napoletani
(oggi
Cantieri
del
Mediterraneo).
Foto
pubblicitaria
del
1917.
Collezione
privata.
Nel frattempo l’emigrazione transoceanica, l’attività più lucrosa del porto partenopeo, è in mano a
società estere o del Nord Italia e i numerosi capitani sorrentini e procidani sono costretti ad
emigrare o a impiegarsi come dipendenti nelle compagnie di altre regioni. Infatti ancora nel 1925
tra i 26 grandi gruppi armatoriali italiani nessuno è napoletano e l'unico meridionale è pugliese.
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Tuttavia la vicenda della Flotta Lauro, una tra le più grandi imprese armatoriali del XX secolo,
costituisce la riprova che anche al Sud si è potuta sviluppare una tradizione imprenditoriale di
successo. Gli inizi risalgono al 1923: Achille Lauro, discendente da uno dei casati marinari di Piano
di Sorrento, acquista all’asta il piroscafo statunitense Lloyd (6 mila tonn. s.l.), ribattezzato Iris,
prima unità di una flotta il cui successo durerà ininterrottamente per oltre 80 anni. Tra gli operatori
internazionali c’è l’attesa di un rialzo del prezzo dei noli, scesi da 58 a 8 sterline (a tonnellata) in
seguito alla smobilitazione postbellica; invece, smentendo ogni aspettativa, crollano a 4 sterline nel
1925, mettendo in gravi difficoltà le società che si sono indebitate per intercettare la ripresa. Sia nel
resto d’Italia, che all’estero, tutti sono costretti a disarmare; nel golfo di Napoli, invece,
sull’esempio di Lauro e dei risultati da lui ottenuti, nasce una moderna generazione di imprenditori
del mare. Mentre le più antiche e prestigiose compagnie di navigazione italiane - Lloyd Triestino,
Lloyd Sabaudo, Navigazione Generale Italiana, Fratelli Cosulich – si avviano verso un inevitabile
declino, gli armatori napoletani cominciano a comprare e a far navigare i piroscafi che gli altri
svendono. Lauro riceve in comodato gratuito, e poi acquista, 6 piroscafi dalla Peirce e dalla Florio.
Achille Lauro. Fotografia, collezione privata.
Un ulteriore ribasso dei noli (nel 1931 sono a 3 sterline), effetto della crisi del ’29 e della quasi
paralisi degli scambi che ne consegue a livello mondiale, produce un’autentica ecatombe di navi.
Ma gli operatori marittimi del golfo di Napoli resistono. Il governo fascista acquisita il controllo
finanziario delle principali compagnie private italiane per salvare dal fallimento la quasi totalità
della flotta mercantile nazionale cosicché, quando i noli si stabilizzano e riprendono a salire (nel
1936 sono a 10 sterline), del grande armamento privato nazionale sono rimasti solo i Costa e Fassio.
Accanto a questi emerge un grande gruppo napoletano: la Flotta Lauro, che alla vigilia della guerra,
con 57 navi (c. 300 mila tonn., ben l’8,8% dell’intera flotta mercantile nazionale) - unica tra le
società private italiane - ordina la costruzione di due motocisterne, Fede e Lavoro, tra le più grandi
sino ad allora concepite. Il riconoscimento ufficiale dell’ascesa della Flotta Lauro e della crescita
degli armatori del Sud viene dalla costituzione del Sindacato Armatori dell'Italia Meridionale e
delle Isole: Lauro ne diviene presidente nel 1939 e nello stesso tempo è membro della giunta della
Federazione Nazionale Armatori, dove siede alla pari con i grandi concorrenti settentrionali. Anche
gli altri gruppi privati napoletani superano brillantemente la prova, e nel 1940 il comparto
napoletano, con 219 navi per 510.044 tonn., rappresenta il 15,2% del totale nazionale. Oltre alle
tante imprese a carattere familiare, allora con una o due imbarcazioni (vi compaiono nomi familiari
per il ruolo di rilievo che oggi hanno nello shipping: Luigi e Giovanni Aponte, Vincenzo Onorato,
Umberto D’Amato), non mancano imprese che hanno più navi di medie e grandi dimensioni: i
sorrentini Raffaele Romano, Angelo Scinnicariello e Agostino Lauro; un nutrito gruppo di torresi,
Gennaro Montella, Giuseppe Palomba e i fratelli Jacomino, Giovanni Bottiglieri e Raffaele Capano;
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Pasquale Mazzella procidano; Biagio Borriello e i fratelli Rizzuto, napoletani. A questi occorre
aggiungere la Span (Società Partenopea Anonima di Navigazione) e la Società Rimorchiatori
Napoletani; la prima, diretta da Giovanni Longobardo, con 12 imbarcazioni di piccole dimensioni,
specializzata nella navigazione di linea nel Golfo; la seconda con 8 rimorchiatori, favorita dai
grandi lavori di ammodernamento del porto, eseguiti in occasione della costruzione della nuova
stazione marittima. Per completare il quadro bisogna ricordare che Napoli è anche sede della società
Tirrenia, nata nel 1932 dalla fusione della Florio e della Citra, che con le sue 54 navi (per un totale
di circa 157.000 t. s.l.) rappresenta il secondo gruppo armatoriale della città, subito dopo Lauro.
L’affermazione dell’armamento napoletano a livello internazionale
L’impatto del secondo conflitto mondiale sull’armamento napoletano è disastroso. La guerra ha nel
Mediterraneo uno dei suoi principali teatri d’operazioni e Napoli, porto strategico per i collegamenti
con i territori d’oltremare, è particolarmente presa di mira dai bombardamenti aerei. Le distruzioni
delle infrastrutture portuali sono ingenti, ma a fine guerra le perdite di naviglio napoletano risultano
meno pesanti rispetto al dato nazionale (il 73% contro il 90% del tonnellaggio del 1940). Inoltre lo
scalo partenopeo si trova a svolgere il ruolo di principale snodo logistico: in un primo tempo per
l’affluire di rifornimenti, uomini e mezzi alle armate angloamericane impegnate per altri 20 mesi
sul fronte italiano, in seguito per lo sbarco degli aiuti statunitensi alle popolazioni liberate, infine, al
termine del conflitto, per riportare oltreoceano uomini e mezzi. Tutto ciò spiega perché gli operatori
marittimi della provincia di Napoli già ai primi di gennaio ‘44 costituiscono l’Associazione Italiana
Armatori Meridionali; i soci sono una cinquantina, quasi tutti provenienti dai tradizionali centri
marinari del golfo, e nel giro di pochi mesi mettono insieme una flotta mercantile di un centinaio
d’imbarcazioni, sebbene alcune siano molto vecchie e altre riparate alla meglio. Le occasioni non
mancano ed anche vecchie carrette del mare, costruite nell’800, vengono impiegate con profitto per
il trasporto degli ebrei europei verso la Palestina, facendo la spola tra Marsiglia, Napoli e Jaffa. Poi,
per rispondere alla crescente domanda di noli, vista la perdurante penuria di materie prime, si
giunge persino ad ordinare la costruzione di bastimenti di legno ai cantieri da spiaggia del golfo (per
esempio il Nino Bixio di Giovanni Longobardo e il San Michele di Mario Starita). I finanziamenti
del Piano Marshall (1948) consentono di rinforzare la flotta mercantile, grazie all’acquisto delle
famose Liberty, navi «soldato» di circa 7.000 tonnellate, costruite negli Usa e in Canada tra il ‘42 ed
il ‘44. Del primo stock di 50 concesse all’Italia, ai napoletani ne toccano una decina. La parte del
leone la fa Achille Lauro, che ne ottiene ben quattro, mentre le altre vanno a Lauro & Montella,
Scinnicariello, Mazzella, Raffaele Romano e Bottiglieri. Nello stesso tempo si provvede al recupero
di navi affondate durante la guerra e si comincia ad ordinarne altre nuove ai cantieri nazionali: le
prospettive di lavoro e di profitto sono buone grazie ai sintomi di una vivace ripresa produttiva a
livello mondiale. A prolungare la fase ascendente dei noli contribuisce lo scoppio della guerra di
Corea; infatti gli Usa, in difficoltà per l’intervento cinese, ricorrono a tutto il naviglio disponibile
per imbarcare rapidamente il materiale bellico, che ancora resta in Europa, e portarlo in Asia; dopo
l’armistizio del 1953, i prezzi dei noli rimangono ugualmente alti e remunerativi perché nel
frattempo, completata la ricostruzione, la produzione industriale italiana comincia a crescere a ritmo
accelerato per tutto il decennio, come pure l’interscambio tra l’economia nazionale e quella
mondiale. Il secondo dopoguerra, dunque, rappresenta per l’armamento napoletano la congiuntura
più favorevole che si sia mai presentata: già nel 1948 il tonnellaggio complessivo risulta quasi
raddoppiato (+88,9%) e continua a salire a ritmi sostenuti fino al 1952 e poi, più regolarmente, fino
al 1958. Cresce la dimensione delle navi tenute in esercizio; si affermano inoltre numerosi armatori
che, anche con solo due navi, ma di medie dimensioni, si affiancano al più ristretto gruppo di
armatori e società emersi nei due decenni precedenti. Per la prima volta nella storia dell’Italia unita
e in modo durevole, s’afferma nel Sud un ceto imprenditoriale che, utilizzando il mare come risorsa,
giunge a far concorrenza alle forze economiche del nord di più consolidate tradizioni marinare ed
armatoriali. È certamente un fenomeno comprensibile solo nel quadro dello sviluppo economico
dell’intero Paese, ma è innegabile che presenti elementi di novità e un grado di autonomia, che non
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è possibile disconoscere. Oltre ai più antichi casati armatoriali usciti vincitori nel difficile passaggio
dalla vela al vapore (Lauro, Cafiero-Scinnicariello, Montella, Longobardo, Romano, Bottiglieri)
cominciano ad inserirsi nel settore dello shipping altri operatori, originari delle isole o dei centri
marittimi del golfo, anch’essi eredi di antiche tradizioni familiari legate al mare, come – tanto per
citarne alcuni – i Mazzella, gli Onorato, gli Andalò, i D’Amato e i Grimaldi, figli, questi ultimi, di
una sorella di Achille Lauro. Ma a partire dal 1957 l’eccesso di offerta inverte la tendenza al rialzo
del prezzo dei noli; il protrarsi della crisi ben oltre il 1960, nel giro di un decennio, ridimensiona
notevolmente la flotta mercantile campana rispetto a quella nazionale e molti armatori sono costretti
al ritiro. A Napoli per le società di navigazione seguono decenni di faticosa resistenza (alla
concorrenza nazionale e internazionale) e di ristrutturazione (alla ricerca della migliore posizione)
in un mercato in profonda trasformazione. Resistono pure la Tirrenia, sostenuta dalla mano pubblica
per servizi di linea nel Mediterraneo e la Società Rimorchiatori Napoletani.
Giovanni Longobardo, armatore e direttore della Span e Renato Imbruglia, avvocato marittimista e
presidente di Navalpiccolo con Achille Lauro in visita ad un nuovo traghetto della Span, anni
Cinquanta. Fotografia, collezione privata.
Per la Flotta Lauro, al contrario, sono gli anni dell’apogeo: infatti giunge ad avere 50 navi, per oltre
un milione e 200 mila tonnellate, con 16.000 dipendenti, con un fatturato di oltre 200 miliardi, tale
da risultare la sola azienda privata meridionale di dimensioni mondiali. Si tratta di un impero
marittimo conosciuto in tutti i mari, ma la sua organizzazione aziendale, rimasta ferma al modello
iniziale, non è in grado di cogliere i cambiamenti (la rivoluzione dei container) e, dopo una serie di
investimenti sbagliati e di incidenti, nel 1981 fallisce. Completamente diverso l’esito per le altre
aziende, che proprio tra gli anni ’70 e ’80, pur conservando l’assetto di società familiari, anzi
proprio valorizzando le risorse umane interne al casato, si ristrutturano in funzione di una maggiore
elasticità per adattarsi alle profonde trasformazioni della geografia mondiale dello shipping che la
“rivoluzione” dei container si avvia a configurare. Non abbandonano i settori d’origine, ma
diversificano le attività con navi sempre più grandi e tecnicamente specializzate rispetto al tipo di
merce da trasportare (portacontainer, portarifuse, tank); rafforzano la presenza nel naviglio di
servizio (rimorchiatori, navi appoggio, posacavi, eccetera); delocalizzano le sedi e diversificano le
loro attività, consapevoli della dimensione nazionale e internazionale del sistema dei trasporti
marittimi; non abbandonano, però, l’ambiente dei piccoli centri marittimi del golfo di Napoli, dove
si sono formati, da cui traggono i quadri superiori della loro organizzazione e da cui attingono
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anche parte delle risorse finanziarie. Nel giro di un paio di decenni acquistano dimensione
internazionale e posizioni leader la Msc di Aponte, la Moby di Onorato, l’Augustea e le altre società
del gruppo Cafiero-Scinnicariello, i fratelli Grimaldi, i Bottiglieri, i D’Amato, i D’Amico, Ievoli, il
gruppo Deiulemar (Della Gatta, Iuliano, Lembo), la Gestioni Armatoriali di Coccia e Castaldi,
napoletani, in società con la famiglia Casadei-Bazzi di Ravenna. L’onda della mondializzazione,
che esse hanno saputo anticipare e al cui sviluppo danno un contributo notevole, permette loro di
diventare grandi società con decine e decine di navi nuove, con fatturati da capogiro. Uno dei fattori
di questa affermazione è il nuovo ruolo assunto, dopo secoli, dal Mediterraneo che, in meno di
vent’anni, raddoppia la quota annua di traffico mercantile marittimo mondiale che attraversa le sue
acque.
Con la riforma dei porti e la creazione del Registro Internazionale Navale alla fine degli anni ‘90, la
marina mercantile italiana torna ad essere tra le prime nel mondo, per efficienza, qualità ed età delle
navi, contribuendo in modo decisivo alla formazione del Pil e dei valori esportati e, soprattutto,
all’occupazione. A venticinque anni dalla morte di Achille Lauro e dal crollo del suo impero
marittimo, i gruppi armatoriali della provincia di Napoli, con oltre 500 navi, controllano il 40% del
tonnellaggio complessivo battente bandiera italiana, cui vanno aggiunte le quasi 300 navi della Msc
di Aponte, uno dei massimi leader mondiali nel settore delle portacontainer. Il porto di Napoli non è
rimasto escluso da questa crescita ed è diventato punto di riferimento delle rotte mercantili
provenienti dall’Asia Orientale e del movimento crocieristico mondiale. L’intero sistema della
navigazione e delle attività a terra connesse, occupa in tutta la provincia alcune decine di migliaia di
addetti e costituisce senz’altro uno dei suoi pochi poli di sviluppo economico e di occupazione.
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