Dal Catalogo della Mostra a cura di Vittorio Marchis
Automobili nelle aiuole
Meglio le automobili nelle aiuole che i Missili in giardino. Questo era il titolo di un
fortunato romanzo degli anni della guerra fredda. Ora quei tempi sono lontani anche
se l’umana specie dei distruttori di sogni non si è ancora estinta. Le automobili,
quelle macchine che come i giocattoli viventi della Freccia azzurra di Gianni Rodari
diventano oggetto delle letterine a San Nicola o a Babbo Natale, non sono cose
irreali. In un mondo dominato dalla supremazia del virtuale, anche il più semplice
giocattolo di latta assume un significato “sostanziale” soprattutto perché lo si può
toccare. Troppo frastornati dai segnali che giungono a noi attraverso gli occhi e le
orecchie, abbiamo dimenticato come si toccano le cose. Eugenio Bolley non si è
lasciato sedurre dalle chimere mediatiche e anche chi ora scrive queste righe,
inevitabilmente con un dispositivo informatico deve continuamente constatare la
coerenza di questo saggio che non usa la posta elettronica e che alle e-mail
preferisce ricevere lettere inserite in buste di carta, affrancate con francobolli
variopinti, le quali, magari più lentamente, affrontano le avventure che le
trasportano dalla cassetta rossa delle Poste a una serie di sacchi e infine alla borsa
(sarà ancora di cuoio?) del postino. E così le Cars che ruggiscono sugli schermi
panoramici delle multisale dolby stereo, in quelle aiuole dell’ultimo baluardo della
Valle di Susa prima del traforo del Frejus, diventano fiammanti Dragster capaci di
sfrecciare solo nella quarta dimensione.
Non solo i bambini sanno giocare
L’ontogenesi riflette la filogenesi, recita un vecchio principio della biologia. In parole
più semplici: la vita di ogni essere, dalle cellule embrionali sino al completo
sviluppo, ripercorre nel suo piccolo l’intero processo evolutivo della specie a cui
appartiene. Se allora osserviamo un bimbo giocare allora dovremmo dedurre che
l’umanità all’inizio della storia non faceva altro che giocare. E poi? La confusione
aumenta. Perché se l’homo faber si trasforma in homo sapiens (oppure accade il
viceversa?) attraversando le esperienze dell’homo sacer, allora l’homo ludens dove
lo mettiamo? La risposta potrebbe essere che la vera conoscenza, la vera scienza,
viene dal gioco perché la vera essenza della nostra specie, al di là dell’imperativo
categorico della sopravvivenza, è la ricerca della felicità. Quella appunto che solo il
gioco, il vero gioco che gli inglesi e i francesi giustamente assimilano e confondono
con il fare musica. Purtroppo spesso ciò non accade perché qualcuno ci ha messo
in testa che le persone “serie” non giocano, ma ragionano, argomentano,
progettano, pianificano. E così accade che “così” va il mondo. Ma da qualche parte,
c’è ancora qualcuno che gioca la propria esistenza scoprendo nell’arte, nel contatto
con le cose, la bellezza e l’amore, senz’altro pensare che a giocare. E così il gioco
diventa il punto di partenza per voler bene anche a chi ci è alieno. Non solo i
bambini devono giocare.
Bolley epigono di Faussone
Tra i libri che bordeggiano lungo le coste delle pericolose costiere del saper fare e
della manualità, e che diventano portolani di apprendistati quasi stregoneschi,
vissuti nei garage e nei laboratori esiste, primo fra tutti, La chiave a stella, creatura
sublime di Primo Levi. Di certo mi si dirà che Primo Levi non ha inventato la chiave
Le macchine fantastiche di Bolley – 24 marzo/31 maggio 2011
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a stella, ma di certo ne ha inventato una malia letteraria da cui è difficile sfuggire. E
ciò capita anche a quanti di chiavi (a stella o inglesi) non sanno proprio nulla. Ma
invece Libertino Faussone le chiavi a stella le conosceva benissimo, e le usava con
maestria sui tralicci della cui struttura era il responsabile. Potrei affermare quasi con
certezza che Eugenio Bolley è un nipote di questo oscuro meccanico, oppure forse
è solo stato un suo apprendista, ma di certo ne ha imparato l’arte, o meglio la
poiesis, che poi dell’arte è la nonna. Nella terra dei Greci, tanti secoli fa il poietés,
prima di comporre versi modellava la creta, ora Eugenio Bolley prende in mano
cose d’ottone e d’acciaio (ma anche di altri metalli più preziosi) le unisce talora in
congiungimenti amorosi con essenze arboree stagionate e le trasforma in urogalli,
ma anche in altre carabattole giocose.
Milleottocento fori col trapano
Si racconta che un’estate la sostenibile pesantezza di una lamiera volle provare
l’ebbrezza del volo, ma consapevole della massa metallica di cui era fatta decise di
chiedere aiuto ai tarli, che nell’abetaia lì vicino avevano dato prova di sé traforando
come trine le strutture possenti di un tronco. Ma i tarli non vi riuscirono e allora
molte, anzi moltissime lune più tardi, con l’aiuto dell’acqua e del fuoco venne un
uomo che incominciò a forare, a forare, a forare… Il ricciolo di un viticcio era, con
l’andare delle stagioni, diventato metallico e di trucioli dorati – ma non erano d’oro –
si cosparse il battuto di terra che limitava il bordo settentrionale del prato,
mescolandosi con la segatura, E la sorte di questa materia - perché di materia si
trattava – fu misera e al tempo stesso nobilissima perché prese coscienza di essere
la sostanza della miriade di forellini, che sono il nulla, ma al contempo sono una
strana finestra sul mondo. A tutti piace guardare attraverso un foro perché lo
spiraglio di luce che lo attraversa è il ponte che unisce il noto con l’ignoto. Guardare
nel buco di una serratura è all’origine della curiosità, che è la base della scienza. Se
i buchi si moltiplicano, se i segnali con l’altro e con l’altrove diventano dieci, cento,
fino a milleottocento vuol dire che è vera curiosità. E chi ne permette l’esistenza, chi
li fabbrica sottraendo materia alla materia e aprendo i varchi verso l’ignoto, magari
in attesa che questo numero si moltiplichi ancora, ha davvero creato gli spazi per la
felicità degli altri.
Il ferro non serve solo per stirare
Stirare: un’azione casalinga che in inglese si dice ironing, senza ironia. Un’azione
femminile che la parità dei diritti ha trasferito all’altro sesso con altrettanto spirito di
uguaglianza, perché in ogni giudizio etico (o estetico) dipende dal punto di vista, dal
quale lo si guarda. Ma perché parlare di queste cose? Se un vecchio ferro da stiro
mette le ruote, se si veste di borchie cromate e di bulloni bruniti, allora ecco che la
magia lo avvolge e lo fa viaggiare (o volare) al di sopra delle nebbie che ora
avvolgono chi scrive e che azzarda queste considerazioni al buio perché – bisogna
dirlo – qui, in una carrozza ferroviaria che attraversa la umida pianura padana, non
si hanno gli elementi per avere la certezza che tra le macchine di questo poietés ci
sia anche un ferro da stiro volante, magari con un rotore sopra la testa e con alcune
pinne caudali che gli permettano di sguazzare non solo in acque poco profonde.
Quando si cavalca la fantasia, quando la si afferra per le orecchie e si lascia che ci
guidi oltre le frontiere del possibile può succedere anche questo. Ma la certezza che
anche questo, e molto altro, possa uscire dal workshop di Bardonecchia è reale,
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realissima. E poi, ricordiamolo, workshop vuol dire laboratorio, proprio come quel
LabOratorium che l’alchemico Khunrat frequentava, tra spirito e materia.
Mi girano le ventole
Nel 1988 Angelo Mistrangelo scriveva a proposito di Eugenio Bolley che “La
successione degli interventi è ora approdata alla "costruzione” di macchine del tutto
particolari, all'assemblaggio di reperti meccanici, alla definizione di un nuovo mondo
che si colloca al di là del mito della tecnologia avanzata, degli "oggetti"
normalmente impiegati dall'industria meccanica, del prodotto finito e perfettamente
funzionante, per consegnare alla nostra fantasia qualcosa di diverso, di insolito, di
misterioso.” - Mi girano le ventole - sembra gridare il carretto (di Tespi?) su cui si
esercita nella sua arte un equilibrista dalle lunghe gambe metalliche. E il bronzo?
Dov’è andato a finire? Legno e ottone, ghisa e bronzo, con qualche cucchiaio
d’argento e una noce di alluminio sembra quasi una ricetta futurista, ma qui di
quest’arte passata non c’è nulla perché tra gli urogalli e i sultani dalle lunghissime
gambe non c’è nulla di prosopopeico. Il bimbo vi scorge le immagini fantastiche
che si nascondono nei profili di una nube o nelle screpolature di un muro. Ma qui la
semplicità si rafforza nella concretezza della materia, dove il peso del metalli fa
sentire la gioia pesante del lavoro.
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