il metodo fenomenologico-realista di bruno romano, edith stein

i-lex. Scienze Giuridiche, Scienze Cognitive e Intelligenza artificiale
Rivista quadrimestrale on-line: www.i-lex.it
Agosto 2010, numero 9
IL METODO FENOMENOLOGICO-REALISTA DI BRUNO
ROMANO, EDITH STEIN, ALEXANDRE KOJÈVE
ITINERARI PER UN CONFRONTO
G. Bernardini*, R. Andreoli*, C. Cecchetti*
Abstract: con il termine fenomenologia del diritto si indica, generalmente,
quella corrente filosofica che analizza il diritto in quanto ‘fenomeno’. Nonostante
Edmund Husserl venga considerato il padre fondatore della fenomenologia, altri
studiosi si sono dedicati a questo tema in periodi differenti, raggiungendo
risultati specificamente riferiti al diritto nell’ambito del realismo fenomenologico,
tra questi Adolf Reinach, Edith Stein – in Germania – ed Alexandre Kojève, in
Francia. Attualmente la fenomenologia del diritto trova un’intensa partecipazione
speculativa nell’opera di Bruno Romano che nell’Istituto di filosofia del diritto di
Roma ha avviato una riflessione sul diritto a partire anche dal realismo
fenomenologico.
Questo studio si pone come compito quello di mettere a confronto alcuni
aspetti dell’opera di Bruno Romano con quelli di Edith Stein e Alexandre Kojève,
cercando di cogliere i tratti in comune e gli aspetti di originalità nella riflessione
sul diritto.
1. Percorso di riflessione sullo Stato e sulla giustizia. Edith
Stein e Bruno Romano
Particolarmente significativa per una riflessione sul diritto ed oggetto
di numerose considerazioni è l’opera La legge del testo. Coalescenza di
logos e nomos1 di Bruno Romano che proprio per i caratteri di
approfondimento della testualità giuridica rinvia implicitamente alla
riflessione sulla struttura dello Stato come testo in formazione. Gli
intenti che hanno portato Romano all’interrogativo sul diritto come
testualità diventano più incisivi in Ricerca pura e ricerca applicata nella
formazione del giurista2 dove – a distanza di un decennio – indaga la
qualità del rapporto del giurista con le norme, dunque con il testo della
legge. Che tipo di ricerca muove il giurista? Una ricerca pura o
applicata? E il diritto che scaturisce da tale ricerca è un diritto puro o un
enunciato normativo ricorsivo?
Proprio il lavoro dei fenomenologi realisti conduce Romano a riflettere
sulla questione della ‘purezza’ collegata al fenomeno del diritto. In
particolare, si ritiene utile segnalare che il lavoro di Edith Stein Una
* Università 'Sapienza' di Roma.
1
B. ROMANO, La legge del testo. Coalescenza di logos e nomos, passim.
2
ID., Ricerca pura e ricerca applicata nella formazione del giurista, Torino, 2008.
Il metodo fenomenologico-realista di Bruno Romano
ricerca sullo Stato, confermando l’interesse scientifico di questa studiosa
per il diritto, attraverso il metodo fenomenologico-realista, non solo
analizza questioni specificamente filosofico-giuridiche ma affronta temi
propri delle scienze umane, in particolare la questione della differenza
tra diritto puro e diritto positivo.
D’altra parte, mentre Romano ravvisa nella comunità – luogo pubblico
di relazioni interpersonali – il lavoro specifico del legislatore e del
magistrato, Stein struttura l’idea del diritto nella compagine statale.
Come accennato, entrambi ritengono essenziale una discussione
sull’idea di diritto in un duplice senso: diritto puro e diritto positivo in
Stein; differenza nomologica intesa come rinvio degli enunciati normativi
ad una condizione ortonoma3, in Romano. Il diritto puro non va confuso
– secondo Stein – con la purezza normativa4: esso è lo stesso di ogni
tempo e presso tutti i popoli, si potrebbe affermare che è eterno e non
viene all’esistenza in un certo luogo geograficamente definito, ha una
struttura – secondo il lessico di Romano – universale ed incondizionata.
Il secondo, invece, si forma o entra in vigore attraverso atti liberi e può
avere molteplici espressioni5, in Romano esprime la configurazione di
‘diritti fondamentali’ cioè sedimentati in una costituzione materiale6, che
però acquistano valore giuridico attraverso l’esercizio della libertà della
scelta di ogni uomo nel riconoscimento reciproco (io-tu) inteso nel senso
di Buber7. Inoltre, il diritto puro diventa per Romano motivo di critica
laddove si trasforma in un paradigma incontaminato e disincarnato che
coincide con la norma fondamentale8.
Sia nell’opera di Romano che nello studio di Stein, la riflessione tocca
il delicato problema del concetto di giustizia. Secondo Stein le teorie che
fanno derivare lo Stato dagli individui ritengono che esso ‘favorisca il
loro sviluppo’ più di quanto avverrebbe se fossero isolati o vivessero in
comunità non organizzate statalmente, ecco perché è importante
sottolineare la convergenza degli atti in una struttura comunitaria come
quella statale. I diritti fondamentali per Romano, in quanto diretta
emanazione dello Stato o di una comunità sociale strutturata secondo
regole condivise, possono escludere la ricerca del giusto nel legale ma la
3
ID., Ortonomia della relazione giuridica, Roma, 1997.
4
ID., Due studi su forma e purezza del diritto, Torino, 2009, p. 34.
5
Cfr. E. STEIN, Una ricerca sullo Stato, Roma, 1999, p. 48.
6
Cfr. B. ROMANO, Diritti dell’uomo e diritti fondamentali. Vie alternative: Buber e
Sartre, Torino, 2009, p. 131 e ss.; p. 229 e ss.
100
7
M. BUBER, Il principio dialogico, Cinisello Balsamo, 1992, passim.
8
B. ROMANO, Due studi su forma e purezza del diritto, cit., p. 32.
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possono anche includere – nei casi in cui il riconoscimento non è solo
costatativo ma ‘è costituito’ dalla presenza dell’alterità – e in tal caso la
ricerca del giusto nella legalità trova la soluzione del rispetto dell’uomo
in quanto io9, attraverso “il riconoscimento costitutivo”10.
Il diritto richiede un soggetto legislatore per diventare diritto positivo
e l’attività peculiare dello Stato, identificata da Stein attraverso letture
specifiche, è quella legislativa, individuata secondo le caratteristiche
dell’imparzialità propria della terzietà legislativa. Per il realismo
fenomenologico, il ‘diritto’ non significa più, naturalmente, la pura
struttura del diritto, ma i puri stati-di-diritto realizzati concretamente
che incontrano la forma del diritto teorizzata da Romano come forma in
formazione.
La critica di Romano a Nietzsche11 è significativa per la messa in
discussione del formalismo giuridico e della stessa critica che Stein
rivolge al diritto puro inteso secondo la lezione husserliana e che trova
espressione in una purezza idealizzata come mero eidos. Nell’itinerario
percorso dalla riflessione nietzschiana “il cammino verso la
verità=qualità del giusto relazionarsi viene sostituito dal percorso
dell’utile biologico, ritenuto formativo della percezione […] Ogni ricerca
di una ‘misura giusta’, esprimibile nei diritti dell’uomo, appare in
Nietzsche priva di senso, perché si ritiene che una misura giusta possa
essere valutata solamente come ‘giusta percezione’ […] Una percezione
è detta giusta per Nietzsche se opera in modo bio-macchinale. La giusta
percezione viene ritenuta in Nietzsche senza senso e dunque si rende
privo di significato anche il più iniziale interrogarsi sulla giustizia, che
conferisce significato ai diritti dell’uomo”12.
Teoricamente, il desiderio di giustizia presente sia nell’opera di
Romano che in quella di Stein, per Nietzsche diventa un non senso, un
polo indifferenziato dal non giusto o ingiusto; la tesi proposta, discussa
ed argomentata da Romano è in direzione di una prospettiva in cui “il
desiderio di giustizia di un uomo è il debito di giustizia verso tutti gli
9
ID., Diritti dell’uomo e diritti fondamentali, cit., p. 53.
10
ID., Ortonomia della relazione giuridica, passim.
11
Si ricorda che la critica di Romano a Nietzsche si avvia sin dall’opera Soggetto
libertà e diritto per poi trovare riferimento e sviluppo pieno sia in Fondamentalismo
funzionale e nichilismo giuridico che in Scienza giuridica senza giurista.
12
B. ROMANO, Diritti dell’uomo e diritti fondamentali. Vie alternative: Buber e
Sartre, cit., p. 48, ma anche p. 85.
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uomini”13. In questo modo, la giustizia, incondizionata ed universale, si
annuncia nel rispettare questo “dovere dell’altro”14, vale a dire la
coesistenza nel debito non saldabile, formativo dell’uguaglianza di tutti
gli uomini nella relazione interpersonale, che è giusta perché ricerca il
senso ricevendo e rispettando le ipotesi degli altri e non imponendosi a
loro. Il debito che si forma in questo modello relazionale è un debito non
saldabile che Romano denomina ‘simbolico’: ascolto reciproco nel
discorso che si struttura come il diritto15. In questa ‘relazione-con-l'altro’
“l'uomo è liberato dal cadere in una immagine di se-stesso” poiché
“riceve una sollecitazione proveniente dall'altro che, nella sua reale
indifferenza, lo chiama alla risposta: il modello di questa relazione
chiamata-risposta è quello del riconoscimento universale ed
incondizionato, che è senso e fondamento della relazione giuridica”16.
Analogamente per Stein, se lo Stato sia ‘giusto’ o meno si stabilisce in
rapporto al fatto che il diritto positivo sia ‘diritto giusto’ o meno, cioè se
si accordi o no con il diritto puro il cui a priori è l’uomo, la relazione
interpersonale marcata dall’empatia come atto sociale17, la sfida in Stein
è proprio un ‘dovere universale di giustizia’. Infatti, in questo senso si
può affermare che l’idea di giustizia è legata al diritto puro.
Teoricamente è pensabile che non ci sarebbe nessuna infrazione del
diritto puro, se non ci fosse neppure uno Stato che lo ponesse in vigore,
perciò lo Stato non è condicio sine qua non della realizzazione della
giustizia: la sovranità come costituzione di un’entità comunitaria e la
libertà della singola persona sono inseparabilmente connesse nel limite
della responsabilità. Soltanto un organismo, che comprende in sé
persone libere, può dichiararsi sovrano o può manifestare praticamente
la sua sovranità, in Stein la sovranità non è – come in alcune teorie
contrattualistiche – personificata sul modello di J. Austin, in un contratto
da ‘dominanti e dominati’, anzi l’organizzazione statale è necessaria alla
comunità soltanto perché negli individui sono presenti tendenze che
minacciano la vita comunitaria, quindi la compagine statale assurge a
garanzia del rispetto degli a priori del diritto. La genesi dello Stato è in
una comunità, quella di popolo, come personalità produttrice di cultura,
13
Cfr. ID., Sistemi biologici e giustizia. Vita animus anima, Torino, 2009, p. 18,
ma anche p. 130.
14
Ivi, p. 19 e ss.
15
ID., Il diritto strutturato come il discorso, Roma, 1994.
16
ID., Soggettività diritto e postmoderno. Una interpretazione con Heidegger e
Lacan, Roma, 1988, p. 55.
17
102
E. STEIN, Il problema dell’empatia, Roma, 1986.
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che richiede un’organizzazione non soltanto perché ha bisogno della
protezione contro le tendenze disgregatrici ma anche perché la sua
specificità, come comunità che agisce e produce, rende necessario un
ordinamento giuridico stabile. Diversamente accade se la comunità non
può tener conto del singolo, come nel caso del popolo la cui dimensione
numerica è necessariamente più ampia. Allora sono necessarie istituzioni
che, per lo meno riguardo a determinati organi, rendono possibile una
visione generale dei bisogni e delle capacità della comunità ed è
indispensabile un ordinamento stabile per realizzare ciò che si vuole fare
comunitariamente. Concretezza di ordinamento e istituzioni competono
al diritto positivo: il valore dell’ordinamento non si commisura con una
convenzionale idea di giustizia, ma con lo sviluppo della vita comunitaria
in cui il nocciolo duro è rappresentato dal rapporto interpersonale il cui
imprinting è rappresentato dall’empatia (mettersi nei panni dell’altro)
come atto sociale dialogico. Al dialogo, inteso quale qualità delle
relazioni giuridiche, Romano dedica l’approfondimento teoretico della
giuridicità che mentre in Stein è rivolto alla comunità in quanto tale e
tanto più alla comunità di popolo, nell’opera di Romano, invece, spetta
alla formazione nel dialogo delle singole identità esistenziali che
confluiscono in una convenzione essenziale che sviluppa la virtù della
giustizia18.
Laddove Stein discute di comunità di popolo, Romano concentra
l’attenzione sulla terzietà determinante di legislatore-giudice-forza
pubblica, precisando che “il desiderio di terzietà giuridica è la volontà di
ricerca della giustizia ed il desiderio della trialità dialogica è la volontà di
ricerca della verità”19. Tutto ciò mira ad un’implicita critica alle teorie
contrattualistiche nelle tesi dimostrate in modo approfondito e con
continuo riferimento ai classici del pensiero che l’unica condizione per
poter esprimere e realizzare l’idea del giusto sia quella legata ad una
condizione di libertà-responsabilità in cui “la relazione di riconoscimento
tra gli uomini, che alimenta il costituirsi stesso dell’autocoscienza di
ciascuno, è l’inizio del diritto come regola del relazionarsi tra esseri
razionali finiti”20.
I cenni alle teorie del contrattualismo – inteso da Romano come
convenzione funzionale21 – non possono tralasciare alcuni riferimenti a J.
18
Cfr. ID., Una ricerca sullo Stato, cit., p. 48. B. ROMANO, Ortonomia della
relazione giuridica, cit., p. 289.
19
Cfr. B. ROMANO, Male ed ingiusto, Torino, 2009, p. 65 e ss.
20
ID., Ortonomia della relazione giuridica, cit., p. 271.
21
ID., Sulla visione procedurale del diritto, Torino, 2001.
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Il metodo fenomenologico-realista di Bruno Romano
Locke e J.-J. Rousseau che riflettono circa la natura umana, i diritti e
doveri dell’uomo e attraverso le loro tesi giustificano la necessità
dell’uomo di aggregarsi con i suoi ‘simili’. Per Locke, poiché gli uomini
sono nati uguali e indipendenti, è evidente che la vita in comune si
avvalga di questi due principi, dunque i motivi per cui gli uomini si
associano sono almeno tre: la legge e i diritti nello stato di natura sono
incerti, sottoposti a violazione e guerra da parte di coloro che non
vogliono riconoscerli. Allora gli uomini, per mezzo di un contratto, si
riuniscono in comunità e organizzano un corpo politico: lo Stato di
diritto, le cui leggi assumono la funzione di garantire i diritti della legge
naturale (libertà, proprietà, vita, salute). Per Rousseau l’uomo è
semplice, mite, felice, senza bisogno di organizzarsi socialmente o di
intraprendere azioni ostili nei confronti di altri. Poi, però, l’uomo si
corrompe attraverso la civiltà che, con il progresso delle scienze e delle
arti e con la nascita della proprietà, attiva la disuguaglianza e di
conseguenza l’infelicità. La critica di Stein a questo tipo di
contrattualismo aspira a considerare senza dubbio che la giustizia
formulata nelle leggi dello Stato è spesso colma di parzialità e di
iniquità, ma è necessario riflettere – attraverso il concetto di comunità –
sulla giustizia come giusto principio incarnato storicamente in una forma
come quella statale.
Se la giustizia consiste nel dare a ciascuno il suo, quale sarà la
conseguenza di tale giustizia? È da questa errata considerazione di se
stessi che proviene la massificazione del denaro nelle mani di pochi.
Nella retorica propaganda di una pretesa legalità, ci vediamo rimandati
ad una legalità sempre più formale, che altro non è che sostanziale
ingiustizia. La giustizia non è un adeguamento a dei codici, o ubbidienza
a tradizioni umane, ma consiste nel lasciare l’ascolto dell’altro –
l’empatia. Da tale riflessione si può ricollegare l’affermazione e le tesi di
Derrida, il quale, commentando lo scritto Davanti alla legge di Kafka,
ripropone la domanda “come giudicare?” ed osserva che “se i criteri
fossero semplicemente disponibili, se la legge fosse presente, là, davanti
a noi, non ci sarebbe giudizio. Ci sarebbe tutt’al più sapere, tecnica,
applicazione di un codice, apparenza di decisione, falso processo, o
ancora racconto, simulacro narrativo a proposito del giudizio. Non ci
sarebbe motivo di giudicare, di preoccuparsi del giudizio, non ci sarebbe
più da chiedersi: come giudicare?”22. Queste considerazioni mostrano
che il giudizio esige l’opera dell’interpretazione, descritta da Romano
22
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Cfr. J. DERRIDA, Pre-giudicati. Davanti alla legge, Roma, 1996, p. 79.
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come “un'arte creativa di un significato comunicabile”23, la quale apre un
intervallo di senso, determinando il distacco del giurista dall’opera
interpretata. “L'interpretazione presenta l'originalità di chi la pronuncia e
di chi ascolta le parole”24, che “sono un interpretarsi di chi le enuncia,
destinandole agli altri parlanti, che le ricevono per attivare il loro
interpretarsi. In questi due versanti dei soggetti dell'interpretazione si
alimentano sia il domandare, sia il rispondere, che si presentano nel
dialogo, assente nelle operazioni dei sistemi biologici, privi della parola
che, mediante l'intervallo di senso, si distanzia da quel che nomina”25.
2. ‘I diritti dell’io’
Nell’ultima opera di Romano26 la questione del dovere universale di
giustizia è incentrata sulla discussione del binomio diritti fondamentali e
diritti dell'uomo. I primi “sono il visibile mentre i secondi costituiscono
l'invisibile”27 poiché solo i diritti dell'uomo, “di cui è titolare l'Io unicouniversale”28, “presentano la dimensione della terzietà”29 e, dunque, non
possono essere elencati né positivizzati ma “sono inesauribilmente
ripresi nella ricerca della verità, intesa come la qualità delle relazioni
personali”30. In questa direzione, “il diritto non è altro che l'essere del
rapporto umano” e, per questo motivo, è necessario “trovare il diritto
non fuori di noi, ma in noi”31. I diritti dell’uomo, della persona sono
dunque i diritti dell’io che “sono considerati diritti della persona e non di
una condizione legata all’essere femminile o maschile”32. In questa
direzione, Stein dopo aver discusso della forma e del ruolo dello Stato,
cerca di promuovere e inserire il ruolo della donna nella società.
Nonostante il periodo profondamente dilaniato dal razzismo e dalla
sottomissione femminile, riscontra un nesso essenziale ed equivalente
tra uomo e donna, nobilitando quest’ultima a puro e vitale emblema.
23
Cfr. B. ROMANO, Sistemi biologici e giustizia, cit., p. 81.
24
Ivi, p. 81.
25
Ivi, p. 82 e ss.
26
B. Romano, Diritti dell’uomo diritto fondamentali, passim.
27
Cfr. ID., Diritti dell’uomo e diritti fondamentali. Vie alternative: Buber e
Sartre, cit., p. 50.
28
Ivi, p. 41.
29
Ivi, p. 37.
30
Ivi, p. 18.
31
Cfr. S. SATTA, Il mistero del processo, Milano, 1994, p. 45.
32
B. ROMANO, Ortonomia della relazione giuridica, cit., p. 148 e ss.
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Il metodo fenomenologico-realista di Bruno Romano
In Romano, le riflessioni sul tema della donna presentano una
connessione con la questione del riconoscimento interpersonale di tipo
costitutivo che attraversa l’intensa dimensione della ‘parità ontologica’
che lo conduce a non differenziare le relazioni intersoggettive né in base
al genere né tantomeno in base al censo o alla religione ecc. Questo non
significa che Romano non faccia sua la questione inerente ai problemi
educativi e formativi attraverso un’implicita analisi che invece Stein
conduce in modo manifesto e, a volte, enfatico esaminando in modo
congiunto – oltre al realismo fenomenologico – gli studi di psicologia,
antropologia, pedagogia e teologia, proponendo sempre una figura
femminile integrale e fortemente condizionante la società che,
nonostante l’equiparazione dei sessi, vive ancora seguendo canoni
maschili. Ma è importante comprendere come la questione femminile dia
adito alla discussione su una sorta di neutralità del diritto: il diritto non è
né femminile né maschile, appartiene all’uomo in quanto io, in quanto
persona. Ciò che rende peculiare lo studio di Stein La donna è la
conciliazione filosofica – anche sotto il profilo giuridico – dell’essere
umano, il quale, attraverso l’indagine fenomenologico-realista, spinge ad
una continua ricerca degli impulsi e delle tendenze umane, studiando la
persona nella sua singolarità, senza tralasciare l’universalità della sua
esistenza. Laddove la giuridicità interviene nella sua forma di diritto
generale ed astratto che rinvia alla sua universalità e incondizionatezza.
Correlata è dunque l’impronta antropologica, che, poggiando sulle
scienze dello spirito, avvicina la questione del soggetto titolare di diritti
nella sua interezza, essenziale per la formazione di una comunità, base
per la costruzione di un autentico Stato di diritto.
La piena consapevolezza che i diritti dell’uomo non sono declinabili al
femminile o al maschile comporta che anche l’opinione sociale, sebbene
facilmente volubile (essendo i giudizi del singolo influenzabili e
frequentemente orientati a canoni schematici), presenti un risvolto
importante in quanto “oggi è caratteristico che la diversità della donna
non è più considerata come inferiorità, ma come valore particolare
[…]”33.
Un punto centrale della questione è la trattazione di un’antropologia
‘duale’, in quanto Stein ritiene che: “[…] la specie uomo si articoli in due
specie: specie virile e specie muliebre, e che l'essenza dell'uomo, alla
quale nell'un caso e nell'altro nessun tratto può mancare, giunga in due
33
E. STEIN, La donna, il suo compito secondo la natura e la grazia, Roma,
1987, p. 165.
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modi diversi ad esprimere se stessa, e che solo l'intera struttura
dell'essenza renda evidente l'impronta specifica”34.
L’uomo e la donna sono esseri umani ed in ciò consiste la loro
uguaglianza, ma sono anche diversi in quanto “non solo il corpo è
strutturato in modo diverso, non sono differenti solo alcune funzioni
fisiologiche particolari, ma tutta la vita del corpo è diversa, il rapporto
dell'anima col corpo è differente, e nell'anima stessa è diverso il
rapporto dello spirito alla sensibilità, come rapporto delle potenze
spirituali tra loro”35. La donna ha “un ethos […] forma interiore, uno
stabile atteggiamento dell’anima”36, peculiare rispetto all’uomo e rivolto
verso compiti particolari; è dedita ad essere sia compagna di vita
dell’uomo che madre degli uomini per cui necessita di proprie
caratteristiche sia del corpo sia dell’anima.
Non deve cadere nelle inclinazioni, ossia quelle predisposizioni,
tendenze della natura umana, che macchiano la genuinità della natura
femminile. Oltre il suo compito ‘naturale’ di madre e moglie, ogni donna
può esercitare qualsiasi professione, anche se fortemente predisposta
per le arti di assistenza, che richiedono attributi prettamente femminili
come comprensione e premura. Possiede, come l’uomo, talenti naturali e
questi la rendono propensa per qualsiasi attività, anche quelle che
presentano “prerequisiti puramente oggettivi non in particolare sintonia
con le caratteristiche della femminilità e che perciò devono dirsi
specificamente maschili”37.
La distinzione dei ruoli e dei compiti dell’uomo e della donna sono
forniti anche nei passi della Genesi sul tema della vocazione dell’uomo e
della donna, in cui Stein con il termine Beruf (professione) si ricollega ad
una ‘chiamata’, ad un ethos professionale.
“Il fatto che l’uomo sia stato creato per primo, manifesta una certa
priorità d’ordine […] ma non si parla di dominio dell’uomo sulla donna:
ella viene detta compagna e aiuto […] essi collaboravano in perfetta
armonia di forze come un unico essere”38.
Secondo Stein, la presenza femminile è sempre necessaria perché
grazie alla sua natura ella è predisposta non solo a dare la vita ma
soprattutto a garantire lo sviluppo dei valori umani. L’educazione della
donna è trattata da Stein attraverso l’analisi di una doppia formazione,
34
Ivi, p. 204.
35
Ibidem.
36
Ivi, p. 49.
37
Ivi, p. 57.
38
Ivi, pp. 70 ss.
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Il metodo fenomenologico-realista di Bruno Romano
quella scientifica (lo studio) e quella spirituale che riguarda tutti i valori
e le esperienze della vita interiore. Ciò che risulta più importante è la
formazione dell’anima che “deve essere ampia, silenziosa, vuota di sé,
calda e luminosa”39, essendo caratteristica primaria dell’ethos femminile
la grande sensibilità spirituale. È fondamentale la maturità spirituale,
non quella corporale, “ciò che la donna deve essere per la sua vocazione
originaria, lo può diventare solo se alla formazione naturale che agisce
dall’interno si aggiunge anche la formazione della grazia”40.
3. La fenomenologia del diritto: Edith Stein, Alexandre Kojève,
Bruno Romano
Nel 1943 Alexandre Kojève, il ‘filosofo della domenica’ come egli
stesso amava definirsi, emigrato dalla Russia nel 1920, maestro di
numerosi intellettuali tra i quali J. Lacan e M. Merleau-Ponty, scrive
Linee di una fenomenologia del diritto, opera pubblicata solo
successivamente. Espone la sua concezione del diritto e della giustizia,
distaccandosi tanto da Hegel, laddove ritiene che attraverso la
fenomenologia si colga l’essere che ha bisogno del fenomeno per
mostrarsi, quanto da Husserl, il quale considera il diritto un oggetto puro
del pensiero nei confronti del quale rivolgersi in un atteggiamento di
pura contemplazione. Assumendo questa posizione si avvicina al
pensiero di Stein, sostenitrice di una visione realistica del mondo, non
potendosi, a suo giudizio, scindere il momento oggettivo da quello
soggettivo, a differenza della filosofia husserliana, impegnata a mettere
tra parentesi l’esistenza del mondo. Sia Stein che Kojève riconoscono,
con esiti diversi, che l'indagine sull’essere non può ridursi ad una pura
ricerca di significato perché rimarrebbe sul piano gnoseologico, ma,
mentre la prima analizza il fenomeno calandolo nella realtà, dalla quale
non può essere disgiunto, il secondo ritiene possibile descrivere
l’essenza dei fenomeni separandola dalle loro manifestazioni storicoempiriche e di conseguenza parlare, ad esempio, di fenomeni inadeguati
o inautentici, quando non portino a compimento o quando mascherino
l’essenza specifica del fenomeno in questione. La fenomenologia per
Kojève non può essere, ovviamente, uno studio storico-sociologico del
diritto ma metafisico ed ontologico41.
108
39
Ivi, p. 149.
40
Ivi, p. 140.
41
A. KOJÈVE, Linee di una fenomenologia del diritto, Milano, 1989, p. 10.
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Bernardini – Andreoli – Cecchetti
Nell’opera La legge del testo. Coalescenza di logos e nomos, Romano
nel capitolo Diritto e controfattualità discute dell’orientamento
giusfilosofico di Kojève. Ne condivide la costruzione laddove fa
riferimento ad una “relazione tra gli uomini”, ma, mentre Kojève
identifica il fenomeno diritto nell’intervento di un terzo, imparziale e
disinteressato, chiamato a dirimere la controversia tra due soggetti, a
giudicare il comportamento dell’uno lecito e dell’altro illecito sulla base
di un ideale di giustizia, in cui è racchiuso il diritto, il quale affonda le
sue radici nella giustizia aristocratica ed in quella borghese in una
continua evoluzione; nell’indagine fenomenologica del diritto intrapresa
ed approfondita da Romano, innanzitutto terzo non può essere il Signore
o lo Schiavo in cui il primo, disponendo dell’irresistibile forza, riuscirà ad
imporre i propri diritti, applicando il principio dell’uguaglianza e dando
origine ad un diritto in atto, mentre il secondo, non facendo parte del
gruppo politico esclusivo e basandosi sul principio dell’equivalenza,
produrrà un diritto in potenza. La terzietà di Romano – a differenza di
quella di Kojève – si innesta sulla trialità del discorso, in una parola sul
logos coalescente al nomos. Le posizioni antitetiche del Signore e dello
Schiavo in Kojève si sintetizzano nel Cittadino, nel momento in cui il
Signore riconosce lo Schiavo perché quest’ultimo, rifiutando la propria
condizione, accetta il rischio di lottare. In sintesi la linea kojèviana è
sempre in direzione di un passaggio dinamico verso un ruolo, uno status
– schiavo, servo, signore, cittadino. Per Romano l’unico status che
caratterizza il diritto in quanto tale è quello di essere umano che viene
prima di ogni condizione storica, sociale, morale ecc. Inoltre, la
dicotomia tra principio dell’uguaglianza e principio dell’equivalenza in
Kojève si dissolve per lasciare appunto spazio alla giustizia del cittadino,
fondata sull’equità, nella quale si esprime e si realizza la giustizia. Non
bisogna confondere l’uguaglianza con l’equità. Solo nella seconda si
realizza la giustizia del Cittadino, commistione di giustizia aristocratica e
borghese: la giustizia borghese e la giustizia aristocratica cessano di
essere assolute e oggettive; la giustizia del Cittadino diviene soggettiva
e relativa in quanto si rivolge ad un Terzo, il quale riterrà giusto ciò che
egli considera essere tale.
Il desiderio di terzietà, l'ansia di legittimazione e di giustizia
caratterizzano il pensiero di Romano diversamente dall’itinerario
intrapreso da Kojève. “Il desiderio di terzietà […] è sovratemporale e si
dilata oltre i confini del tempo”, ad esempio “in un gruppo può
manifestarsi nel rivolgersi al più anziano, a chi pertanto è più distante
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Il metodo fenomenologico-realista di Bruno Romano
dalle urgenze vitali e dunque valuta secondo principi che non sono di
parte e così hanno luce nel rispondere all'ansia d'imparzialità”42.
Come mai l'uomo è spinto a cercare la giustizia, perché si rivolge ad
un Terzo imparziale e disinteressato per ottenerla, che cos'è che genera
in lui la sofferenza per un giudizio ingiusto? La risposta è racchiusa nella
condizione stessa dell'uomo, il quale, a differenza degli altri esseri
animali e dei vegetali, agisce nella dimensione di un’anima e non di
un’impersonalità esecutiva (animus), manifesta non solo inclinazioni ma
anche intenzioni, dalle quali emergono le motivazioni che lo spingono a
scegliere di compiere determinati atti, dei quali egli è responsabile e
quindi imputabile, sottraendosi, così, allo scorrere impersonale degli
eventi per costruire la storia personale del proprio ‘io’ come identità
esistenziale.
Il singolo individuo “potrebbe stare a vedere i fatti vincenti,
assoggettandosi passivamente alla loro fattualità oppure pretendere
attivamente contro i fatti. In questa seconda direzione, si esercita la
pretesa giuridica, che attiva la controfattualità del diritto”43. “Ogni uomo
è soggetto di diritto perché è un qualcuno, non un qualcosa”44. Kojève
sottolinea che la fonte del diritto è nel desiderio antropògeno, vale a dire
nel “desiderio che ha ad oggetto un altro desiderio”45,rappresentato da
un altro soggetto desiderante. “Dal momento in cui appare un simile
desiderio (e diamo per presupposto che non possa apparire che in un
rappresentante della specie homo sapiens), l'uomo esiste in potenza.
Questo desiderio è l'uomo in potenza ed è la potenzialità dell'uomo.
Infatti l'uomo in atto non è altro che la realizzazione o la soddisfazione
(Befriedigung) di questo desiderio e questa realizzazione o soddisfazione
si effettua nell'azione e grazie all'azione che è prodotta da questo
desiderio. È quindi il desiderio antropògeno che rende uomo l'uomo; è il
desiderio antropògeno che, mediante l'azione che l'uomo pone in essere
per soddisfarlo, lo fa vivere ed evolvere in quanto essere umano”46.
L'uomo si distingue, quindi anche in Kojève, da ogni altro essere vivente
perché pretende di soddisfare un suo desiderio che non equivale al
‘sentimento semplice di sé’. Inevitabilmente, però, viene a scontrarsi
con altri ‘io’, i quali, a loro volta, esigono di soddisfare un proprio
desiderio. Da ciò scaturisce una lotta, per dirimere la quale le parti si
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42
Ivi, p. 149.
43
Cfr. B. ROMANO, Sistemi biologici e giustizia. Vita animus anima, cit., p. 137.
44
Ivi, p. 60.
45
A. KOJÈVE, Linee di una fenomenologia del diritto, cit., p. 225.
46
Ibidem.
i-lex, Agosto 2010, numero 9
Bernardini – Andreoli – Cecchetti
affidano al giudizio imparziale e disinteressato di un Terzo, pretendendo
che sia applicato il diritto. In questo si manifesta la pretesa giuridica,
con la quale “si esige la giustizia, irriducibile al formalismo della legalità,
che può appartenere ad ogni uso strumentale del diritto positivo, sino a
render più deboli i deboli, più oppressi gli oppressi”47. Essa trova la sua
origine nella qualità stessa dell'uomo, che è in grado di ascoltare e di
dialogare.
“Il dialogo ha come autori i singoli uomini, il loro se stesso, capace di
donare ascolto; non ha come autori i neuroni né le sinapsi, che certo
costituiscono la condizione vitale del dialogare, ma non dialogano, né
operano nella gratuità del donare accoglienza alla parola, che non è
destinata a qualcosa ma a qualcuno”48.
“L'io che pretende giustizia non è una entità neurobiologica, non è il
sé sinaptico, destinatario impossibile delle sentenze emesse dal
magistrato”49 in quanto solo l'uomo può impegnarsi nel pathos del
donare, “che appartiene all'identità esistenziale del singolo e non si
spiega 'scientificamente' come un sintomo della paura connessa dai
neurobiologi al mantenimento della vita”50. L'autorità giudiziaria, prima
di condannare o di assolvere, indaga ed interroga l'attore ed il
convenuto insieme ai relativi testimoni, aprendosi al dialogo e all'ascolto
dell'altro, poiché dinanzi a sé si presenta non un qualcosa ma un
qualcuno che pretende giustizia, attraverso la pronuncia di un giudice,
rappresentante quel Terzo imparziale e disinteressato, di cui discute
Kojève.
La critica di Romano si rivolge specificamente alla condizione duale
della relazione kojèviana perché nei Lineamenti la figura del terzo è
superveniens, numerica, fattuale. Proprio in considerazione di questo
Romano privilegia il ‘dialogo’ presente in Buber laddove in Kojève “c’è
una trialità perché un terzo agente si aggiunge ad una condizione di
dualità, ai due agenti già in interazione”51, quindi “descrive il diritto
senza mostrarne una ragione che sia interna all’originarsi dell’essere
l’uomo il soggetto parlante, senza mostrare […] nella ragione giuridica
una specificazione dell’essere uomo […]”52.
47
ID., Sistemi biologici e giustizia. Vita animus anima, cit. p. 58
48
Ivi, p. 60.
49
Ivi, p. 59.
50
Ivi, p. 60.
51
B. ROMANO, La legge del testo, cit., p. 111.
52
Ivi, p. 112.
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