Parrocchia di san Simpliciano – Ciclo di 5 incontri sul tema “Misericordia voglio, e non sacrificio” Verità e illusioni di una sintesi breve del vangelo tenuti da don Giuseppe Angelini, nei lunedì di ottobre/novembre 2015 1. Il vangelo della misericordia: soltanto consola, o anche converte? Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Signore passò davanti a lui proclamando: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione». (Es 34, 5-7) La misericordia è tutto? Il giubileo indetto da papa Francesco è dedicato al vangelo della misericordia. La Bolla di indizione Misericordiae Vultus, proprio all’inizio, incoraggia la concentrazione del messaggio cristiano tutto nei termini dell’annuncio della misericordia di Dio: Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre. Il mistero della fede cristiana sembra trovare in questa parola la sua sintesi. Essa è divenuta viva, visibile e ha raggiunto il suo culmine in Gesù di Nazareth. Il Padre, «ricco di misericordia» (Ef 2,4), dopo aver rivelato il suo nome a Mosè come « Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà » (Es 34,6), non ha cessato di far conoscere in vari modi e in tanti momenti della storia la sua natura divina. Nella «pienezza del tempo» (Gal 4,4), quando tutto era disposto secondo il suo piano di salvezza, Egli mandò suo Figlio nato dalla Vergine Maria per rivelare a noi in modo definitivo il suo amore. La concentrazione appare, lì per lì, convincente. Appare però anche problematica; non è subito ovvio come si possa conciliare la misericordia di Dio con il carattere esigente dei suoi comandamenti. Dio crea l’uomo non per sollevarlo da ogni pena, ma perché egli lo conosca, lo ami e lo serva in questa vita. Le pene poi – ed è questa una seconda difficoltà – entrano nel mondo in conseguenza della colpa; questa è la testimonianza concorde della tradizione biblica e del catechismo. La pena suprema è la morte, ed essa è entrata nel mondo per invidia del diavolo, dice la Sapienza (2, 24). Il tema della morte, il nesso tra morte e peccato, tra sofferenza in genere e peccato, tra guarigione e perdono, tra guarigione e conversione, sono di fatto elusi dalla predicazione. Spesso si dice addirittura che quel nesso sarebbe proprio soltanto dell’Antico Testamento; il Nuovo avrebbe superato la prospettiva mercenaria. La riduzione del cristianesimo alla misericordia non è forse il riflesso della sottesa riduzione della religione a risorsa di consolazione per un mondo senza speranza? Il nesso tra pena e peccato Se la pena fosse male soltanto perché fa male, e non perché punizione di una colpa, il rimedio potrebbe venire soltanto dal miracolo, senza necessità di conversione. Ma non è questo che dice il vangelo. La sofferenza non è soltanto male, non è il male assoluto. Papa Francesco dice che la Chiesa dev’essere un ospedale da campo. Ma si tratta solo di metafora, che va spiegata. Il rischio è che la Chiesa sia ridotta a Caritas. Che la misericordia sia ridotta come opere di misericordia corporale. Mentre tali opere sono davvero di misericordia soltanto a condizione che suscitino la fede nel Dio vicino. Le condizioni di miseria elencate sono un male perché suggeriscono che Dio non si cura di noi. Non la sofferenza è il male, ma il difetto di senso della sofferenza e il dubbio che essa accende a proposito dei sentimenti di Dio, e della sua esistenza. Per intendere la misericordia di Dio è indispensabile riconoscere questa sua fisionomia: Egli non si arrende al nostro peccato, alla fuga del figlio da casa, ma lo cerca senza stancarsi. Vuole con lui la comunione, che il peccato interrompe. Il peccato ha sempre questa fisionomia di fondo: cercare la vita in ciò che riempie la bocca e gli occhi, piuttosto che nell’obbedienza ai suoi comandamenti. Giusto è chi ha fame di giustizia ancor più che di pane. Ma in che cosa consiste la giustizia? Nella fede, dice san Paolo. La sofferenza è male perché spegne la fede. Il rimedio alla sofferenza è bene perché rende possibile il ritorno alla fede. Il rapporto tra sofferenza e peccato, tra felicità e giustizia, è da sempre oscuro nel pensiero. Ma l’oscurità del pensiero un tempo non pregiudicava la relativa chiarezza della vita; essa istruiva su quel rapporto più di quanto facessero i discorsi. Nella malattia si pregava, nella miseria e nella solitudine anche; la preghiera cambiava la qualità della sofferenza. Oggi non si prega più; la sofferenza minaccia di diventare il male assoluto. E il rimedio è cercato nella medicina, o nei maghi. Il nesso sciolto nella società del benessere La concentrazione del vangelo in termini di misericordia minaccia di sigillare la rimozione della questione morale. Il pericolo è di sempre, certo; ma nel nostro tempo è maggiore, appunto perché la cultura rimuove in maniera sistematica la forma morale del vivere. Il benessere è sostituito al bene come criterio supremo per giudicare del bene e del male. La concentrazione sulla figura di un Dio misericordioso, o sulla Chiesa come ospedale da campo, minaccia di sigillare la svolta umanitaria della nostra cultura. Di fatto la concentrazione suscita grandi consensi. Ma sono consensi sospetti. Viene il dubbio che la concentrazione sia suggerita proprio dalla qualità dei tempi che sia un “segno dei tempi”. Dobbiamo iscrivere la nostra riflessione sullo sfondo del tempo in cui viviamo. Dobbiamo chiederci quali circostanze propiziano l’accento sul registro misericordia. Vale per il tema misericordia un principio generale: il messaggio trasmesso dalla parola è stato garantito per secoli da una tradizione pratica, da un costume, assai più che dalla dottrina. Una precisa dottrina sulla misericordia non ha mai preso corpo nella scuola; non se ne sentiva il bisogno. Oggi invece la garanzia pratica della lingua è diventata languida; si è tentati di dire che addirittura non sussiste più. A motivo del difetto diventa urgente pensare l’idea di misericordia. Per pensare l’idea occorre ripensare molte altre verità, che un tempo apparivano ovvie. Occorre riaprire la riflessione di principio su aspetti del cristianesimo, e dell’umano in genere, di carattere fondamentale. La tesi di fondo Perché l’affermazione non suoni troppo vaga, anticipo una tesi. Quando la chiesa cattolica, e le società europee nel loro insieme, potevano contare su ethos condiviso, e dunque su un consenso morale proporzionalmente alto e preciso, anche l’appello alla misericordia assumeva senso proporzionalmente univoco e pertinente. Oggi quel consenso non sussiste più. Il difetto di tale consenso alimenta di fatto un processo di rimozione della stessa questione morale; non ci si chiede più che cosa è bene e che cosa è male, giusto o ingiusto. La rimozione si produce a livello di ricerca teorica, come anche a livello di vita pubblica. La rimozione nel pensiero La competenza teorica sulla morale era della filosofia. Nella sistemazione del pensiero tardo antico, ellenistico, la filosofia era distinta in tre capitoli, in ordine gerarchico: logica, fisica ed etica. L’etica era il capitolo supremo della coltivazione della sapienza. Da due secoli e più la filosofia ha sostanzialmente cancellato l’interrogativo morale dal registro dei suoi temi. Fissa in maniera molto incisiva le forme di una tale rimozione Theodor W. Adorno in un saggio scritto durante la seconda guerra mondiale, nel suo esilio negli Stati Uniti, Minima Moralia; il titolo fa il verso ai Magna Moralia di Aristotele, la Grande etica, opera meno conosciuta dell’Etica a Nicomaco. Nella dedica all’amico (Max Horkheimer) Adorno scrive: La triste scienza, di cui presento alcune briciole all’amico, si riferisce ad un campo proprio della filosofia, ma che, dopo le trasformazioni dei metodi di quest’ultima, è caduta in preda al disprezzo intellettuale, all’arbitrio sentenzioso, ed infine all’oblio: la dottrina della retta via. La “triste scienza” si oppone a La gaia scienza immaginata da Nietzsche (1882); il titolo è mutuato dalla lingua dei trovatori; allude a una sapienza danzante che, nelle intenzioni di chi la propone, si eleva al di sopra della morale. Adorno non pensa che si possa danzare sopra la morale; pensa invece che la dottrina sulla vita buona, e soprattutto la pratica sia divenuta ardua nel mondo presente; noi infatti non viviamo più in una società umana; gli aforismi del saggio illustrano l’alienazione di fondo di un mondo in cui «le potenze oggettive determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti»; è denunciata quella dissoluzione del soggetto, che diverrà tema quasi ossessivo della filosofia e della psicosociologia soltanto trent’anni dopo. Di innocenza e di colpa, di coscienza, di dovere e di piacere, delle forme morali del vivere in genere si occupano ormai soltanto psicologi e sociologi, non più i filosofi. Se ne occupano però, non come facevano i filosofi per chiarire la verità – oscura e tuttavia indubitabile – iscritta nelle forme immediate della coscienza morale, piuttosto per esorcizzare i disagi che da essa nascono. Delle forme morali dell’esperienza umana gli psicologi si occupano in prospettiva clinica. I filosofi si occupano al massimo della legge, ma intesa nell’ottica dei rapporti sociali, non in quella dei rapporti di prossimità. La legge diventa la regola della correttezza nello scambio tra soci, non l’articolazione dell’unico e supremo comandamento ne rapporto tra prossimi, quello di amare. La rimozione nella vita La rimozione degli intellettuali alimenta, e sotto altro profilo riflette, la rimozione a livello di vita sociale effettiva. Le categorie di buono o cattivo, virtù o di vizio, degno di lode o di disprezzo, appaiono ormai desuete. Le valutazioni dell’agire si producono in termini di utile o dannoso, serve o non serve. Ogni persona con problemi è invitato dal suo analista a occuparsi un po’ meno degli altri e un po’ più di sé. Non dice forse Gesù stesso che bisogna amare gli altri come se stessi? Se uno non ama prima se stesso non può amare gli altri. In questo contesto culturale l’appello alla misericordia minaccia di sancire la rimozione della questione morale. Sollevare dalla sofferenza è l’unico obiettivo. La misericordia di Dio invece si riferisce fondamentalmente al perdono dei peccati. Si esprime certo anche nella guarigione dalla malattia e nella liberazione dai nemici; ma questi due aspetti, strettamente legati tra loro, rimandano alla fine all’aspetto radicale del perdono dei peccati. Nelle forme correnti della predicazione la misericordia pare non riguardi mai il perdono; consiste semmai nel non nominare più il peccato, perché anche solo pronunciare la parola fa male, accresce la sofferenza. Il criterio del benessere non fa riferimento al legame con l’altro, alla conferma di tale legame al di là di ogni sua apparente interruzione; ma solo al sollievo. La guarigione come vangelo La considerazione attenta dei miracoli di Gesù nei vangeli ha di che correggere la concezione soltanto beneficiale della misericordia: La guarigione annuncia il vangelo perché annuncia il perdono dei peccati, e non perché restituisce la salute (leggi Mc 1, 40-45).