Libertà religiosa e diritti universali dell`uomo

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Libertà religiosa e diritti universali dell’uomo
d i S a lvat o r e A b b r u z z e s e
Libertà religiosa e diritti
universali dell’uomo
d i S a lvat o r e A b b r u z z e s e
NEL LUGLIO 1978 CONSEGUE, CON LODE, LA LAUREA IN SOCIOLOGIA PRESSO L’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI
ROMA DISCUTENDO UNA TESI SU “STORIA E INTERPRETAZIONE STORICA NELLA TEORIA DEL MUTAMENTO
SOCIALE DI K. MARX”. È DOCENTE DI SOCIOLOGIA GENERALE PRESSO L’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO
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L
L'opposizione tra religione e libertà rientra nei luoghi
comuni della cultura ma è un postulato per la sociologia
che dipende dalla riduzione della religione a lettura soggettiva del mondo
L’opposizione tra religione e libertà rientra nei luoghi comuni della cultura diffusa ma
si pone anche come una sorta di postulato per una larga parte della sociologia contemporanea1. Un simile postulato dipende dalla riduzione della religione a lettura del mondo, a
cultura specifica. Per la grande maggioranza dei sociologi un giudizio sulle culture, ed a
maggior ragione sulle religioni, non rientra nelle possibilità di questa disciplina: ogni giudizio, non potendo essere che soggettivo e culturalmente determinato, riduce l’analisi ad un
semplice resoconto etnografico degli usi e dei costumi.
Ciò spiega il suo imbarazzante silenzio nei confronti di veri e propri orrori su base
etnico-religiosa, là dove politica, cultura e religione sono tutte chiamate in causa e irrimediabilmente compromesse. Ancora oggi si assiste ad uno sbalorditivo silenzio dei sociologi nei confronti delle guerre etniche. Se si è stati pronti a scrivere saggi e manuali sulle guerre di liberazione dei popoli del terzo mondo, non si sa scrivere un rigo sulle criminali evoluzioni degli eventi a liberazione avvenuta. Ciò permette di comprendere anche il silenzio
della sociologia sulle religioni. Una volta ridotte a pura espressione culturale quest’ultime
sono “fuori portata” dalle analisi sociologiche: tutte le religioni si equivalgono e corrispondono “oggettivamente” ai contesti storici e culturali dalle quali provengono. Nulla autorizza a dire che i sacrifici umani siano peggiori di quegli animali e che una religione che si
impone con gli eserciti sia peggiore di una che si diffonda con l’impegno missionario. Il
“silente sociologi” intimato da Angelo Panebianco all’indomani dell’11 Settembre è arrivato pertanto come un schiaffo sulla comunità dei sociologi culturalisti, colpendo una costante incapacità di andare oltre le descrizioni sociografiche da un lato e l’analisi delle lotte tra
le èlites dall’altro. Quando il fondamentalismo della “oggettiva” guerra di liberazione dal
nemico americano scopriva un singolare modo di guadagnarsi il paradiso delle delizie,
tagliando la gola a delle hostess ed a dei piloti di aerei civili per poi precipitarsi su dei grattacieli e mietere qualche migliaio di vittime (i quali “oggettivamente” non sono martiri) la
comunità sociologica non poteva che rifugiarsi nelle amenità di Jean Baudrillard, secondo
il quale le torri gemelle si sarebbero “suicidate”.2
In realtà ciò che i sociologi non sembrano saper fare lo sa fare la gente comune di
ogni parte del pianeta quando distingue tra sanità e follia, tra morte e vita, tra amore e odio,
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tra rispetto e violenza, tra pace e guerra. Ed è anche per questo che dall’11 Settembre in
poi sono stati i politologi da un lato ed i filosofi dall’altro a dare le informazioni migliori ed
a fornire le analisi più adeguate. Per uscire da un simile impasse e restituire alla sociologia
la possibilità di venire fuori dalla sua inoperatività scientifica è necessario da un lato recuperare le culture sul piano dell’analisi razionale, mentre dall’altro è urgente individuare le
differenze cruciali tra religione e cultura.3 Rinviare la religione ad una semplice forma culturale significa infatti porre in ombra almeno due presenze che caratterizzano le religioni
monoteiste di liberazione-salvezza: a) quella di un’istituzione di salvezza e della conseguente istituzionalizzazione dei riti e delle pratiche che vi sono ricollegati; b) quella di una
rivelazione di tipo profetico; rivelazione che, per il peso decisivo della dimensione individuale lascia al contesto sociale una funzione di mera conferma.
La religione come legame libero
In realtà la religione non è solo una categoria interpretativa della realtà (cioè un’opera culturale di lettura e di messa in ordine del mondo). La religione è, in linea di principio, una relazione significativa con un’entità trascendente dalla quale conseguono obblighi
rituali (Robertson-Smith), ma anche e soprattutto legami sociali (Durkheim, Mauss), vincoli
e regole di vita civica (Tocqueville). Essa è pertanto un legame dal quale derivano una serie
rilevante di conseguenze sul piano sociale (Weber). Se passiamo ad analizzare la libertà,
questa appare come una condizione della persona, una modalità dell’esistenza
(Dahrendorf). Più precisamente, essa è la modalità essenziale dell’esistenza sociale e consiste non nell’assenza di legami, bensì nella possibilità di scelta consapevole dei legami soggettivamente significativi (libertà di). Nell’uomo la libertà è la condizione essenziale per la
scelta delle relazioni alle quali appartenere. Tra la religione, intesa come fonte di legami, e
la libertà, compresa come modalità di scelta tra i diversi legami proposti, c’è quindi un rapporto diretto: la prima è una proposta di gerarchia dei legami e quindi di messa in ordine
tra i legami socialmente significativi (Luckmann) mentre la seconda è lo scenario esistenziale dove la proposta si concretizza. In conclusione la libertà come modalità dell’esistenza è
essenzialmente libertà di costruire relazioni significative. Senza di essa tali relazioni sono
prive di significato, sono puri vincoli senza possibilità di scelta4. In pari modo la religione,
proprio in quanto proposta di legami significativi, ha bisogno della libertà come modalità
di adesione da parte dei soggetti. Altrimenti, come relazione imposta, la religione è semplicemente non significativa per il soggetto, non esprime assolutamente nulla della volontà
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di quest’ultimo, ma rinvia alle autorità che, di volta in volta, ne hanno imposto la scelta5.
Ma se le religioni esprimono, in linea di principio, la relazione che il soggetto stabilisce con una divinità dalla quale, come per tutti gli altri legami per lui significativi, gli derivano degli obblighi e degli stili di vita, allora, proprio in quanto relazioni specifiche, le religioni non sono affatto immuni da un giudizio di validità intrinseca: come le altre relazioni le
religioni possono essere sane o insane. Il rapporto con la divinità può scivolare nella patologia (come in molti psicodrammi sentimentali) o condurre ad una realizzazione della persona. Ed esattamente come i singoli soggetti possono giudicare della qualità di un legame
con i loro simili, in pari modo è loro possibile giudicare il legame con l’Altro. La religione, in
altri termini, non è affatto una semplice filosofia dello spirito, nella quale è possibile dire
tutto purchéa sia rigoroso e coerente sul piano logico, bensì costituisce una relazione giudicata e valutata con la stessa intelligenza con la quale il soggetto vive e valuta tutte le altre
relazioni che sono per lui significative.
Ovviamente vi sono almeno tre differenze decisive. La relazione con l’Altro conosce
una dimensione istituzionale (il rito), una dimensione sociale (il legame con gli altri creden-
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ti) ed una dimensione culturale (una modalità di concepire il mondo e la propria stessa esistenza) che non sono affatto presenti nella stessa misura, quindi anche nella stessa qualità,
presso i legami ordinari. La dimensione istituzionale, permette di iscrivere il legame in una
storia e crea una memoria che è vissuta dal soggetto come memoria identitaria, cioè come
una componente che gli permette di definirsi. È per tali motivi che intorno alle religioni si
produce un’istituzione che precisa i termini di questa relazione, ne fissa le ricadute sulla vita
quotidiana e quindi sui rapporti sociali che il soggetto intrattiene. Nasce, in altri termini, un
sapere che dai riti si estende ai contenuti. Si afferma un’interpretazione, tanto della realtà
esterna quanto della vita interiore.
Il legame con l’Altro conosce delle tappe e delle crescite, come ogni legame è un
cammino nel quale si incorre in scelte, trasformazioni ed errori. Le religioni, in qualche
modo, non solo operano delle razionalizzazioni nella relazione con l’Altro ma si verificano,
si trasformano, possono entrare in strade a volte profondamente diverse dalla matrice originaria e possono assumere anche tratti devianti. Proprio per questo è possibile certamente interrogarsi sulla loro qualità e soprattutto sulle loro conseguenze. È legittimo allora chiedersi a quali condizioni favoriscano la vita dell’uomo.
La sociologia, la stessa che paradossalmente oggi resta afona proprio per aver confuso la religione come semplice espressione culturale ed avere poi degradato quest’ultima
a mero risultato del condizionamento dei contesti storico-geografici ed economico-politici,
ha in realtà svolto nel passato analisi di grande ed immutata qualità scientifica. Non solo le
religioni sono state studiate in quanto si sono rivelate decisive nell’elaborazione delle categorie culturali, ma anche in quanto, poiché produttrici di legame sociale, si sono di fatto
poste alla base dei processi di civilizzazione in quanto tali.
Libertà e religione come condizioni di un’esistenza realizzata
La sociologia infatti, fin dai suoi esordi, al di là del linguaggio positivista che la caratterizzava, ha cercato implicitamente di rispondere alla domanda: a quali condizioni una
società moderna può essere capace di permettere una vita propriamente umana? A quali
condizioni gli uomini possono prosperare economicamente, garantendosi non solo le
migliori condizioni di vita per tutti, ma anche e soprattutto le migliori opportunità di realizzazione per ciascuno?
La società moderna, infatti, può ritrovarsi dinanzi a collettività senza legami significa-
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tivi né solidarietà condivise. Tale problema è apparso in diretta relazione con la constatazione del venir meno della religione - ma più in generale di qualsiasi riferimento al trascendente - proprio di una società strutturalmente legata alla razionalità mezzi-fini. Dietro il venir
meno delle religioni produttrici della coesione sociale (e l’affermarsi quindi della libertà dai
legami con Dio) i fondatori della sociologia hanno visto avanzare una libertà dai legami
sociali in quanto tali. Il mondo moderno che aveva disarticolato Stato e individuo
(Troeltsch), lascia quest’ultimo in una condizione di autonomia dai vincoli sociali, almeno
nella misura in cui viene meno una comunità che glieli proponeva concretamente. L’uomo
contemporaneo, vivendo in una società differenziata e segmentata (Durkheim) non vede
più con facilità gli altri per lui significativi: le diversità e le differenze hanno la meglio sulle
omogeneità e le affinità. I rischi di questa libertà dai legami che trascende in una libertà
dalle appartenenze, sono molteplici. Per Durkheim una simile situazione sfocia in una mancanza di regole che anziché arricchire l’individuo lo impoverisce. Per Tocqueville la libertà
dai legami significa la crisi della partecipazione alla società civile, il ritiro di ciascuno nel proprio universo personale e privato a favore di una delega sempre più estesa - e sempre più
pericolosa - ai poteri dello Stato.
Se le società hanno bisogno di solidarietà per poter sopravvivere, questa non si risolve solo nell’assicurazione di standard minimi di esistenza sociale assicurati a tutti, ma anche
nella condivisione di un progetto di qualità della vita nel quale tutti si riconoscano. Se la solidarietà appare come un risultato della coesione sociale, quest’ultima nasce dalla condivisione di esperienze comuni in un contesto di convivenza6. Una società può produrre coesione sociale solo nella misura in cui permette ai soggetti di potersi riconoscere in esperienze comuni ed intraprendere le iniziative che ne conseguono, cioè porre mano ad
opere7.
Tanto Durkheim quanto Tocqueville hanno affrontato questo tema portando due
contributi diversi e complementari. La religione, per Tocqueville, assicurando i principi
morali, forma la base culturale affinché la democrazia possa essere duratura e la solidarietà
possa far parte integrante delle attitudini diffuse e condivise8. A suo avviso, infatti, una volta
posto in condizioni di uguaglianza l’uomo è portato a disinteressarsi degli altri, non ha una
morale solidale se non a condizione di esservi educato fin dall’infanzia. La religione è quella istituzione che si assume la responsabilità di renderlo un essere morale. «È la democrazia
- scrive - e non il dispotismo ad avere bisogno di una fede»9. È la morale a rendere l’uomo
un cittadino pronto alla partecipazione ed alla condivisione delle responsabilità ed è la religione a fondare questa morale10.
Anche Durkheim vede affermarsi la perdita di solidarietà nella società moderna, ma
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la riconduce ad un processo di sviluppo sociale (la differenziazione conseguente alla divisione del lavoro) piuttosto che all’avvento della democrazia. Anche qui, in ultima analisi, gli
esiti sono gli stessi: sono i legami sociali che mancano. L’uomo lasciato a sé stesso (l’uomo
“libero da”) perde rapidamente le appartenenze per lui significative. La sua libertà, in realtà,
è un processo di disancoramento dalla comunità e di dissociazione dai doveri che questa
implica. Chiamatosi fuori da ogni impegno e da ogni legame questi finisce con il naufragare nella sua stessa ricerca di felicità. Ogni conquista - scrive in sostanza Durkheim - gli appare ben poca cosa rispetto a ciò che avrebbe potuto ancora raggiungere11.
Sia Tocqueville sia Durkheim rispondono in qualche modo al tema della vita realizzata introducendo una dinamica dell’appartenenza e del legame sociale dove la religione ha
costituito la forma originaria. Una vita realizzata è tale quando si spende dentro una solidarietà che si sviluppa intorno ad un progetto condiviso, dentro quindi una collettività solidale che è portatrice di uno stile di vita e di una norma morale. La lezione che proviene da
questi due autori classici, per il resto molto diversi tra di loro, si può riassumere nel principio secondo il quale un uomo è realizzato quando la sua libertà è parte piena di un progetto che questi condivide, percepisce come qualcosa di rispettabile, che va oltre la sua
stessa esistenza e lo lega ad una collettività per lui significativa.
La religioni possono avere un ruolo decisivo nella costruzione di un legame sociale
di questo tipo, del quale c’è tanta più necessità quanto più la società si differenzia. La relazione con l’Altro, produce inevitabilmente un universo di relazioni con i propri simili12. La
religione funziona essenzialmente come una vera e propria riformulazione dei legami preesistenti, realizzata coscientemente e liberamente dal soggetto. Ciò che colpisce nel legame
religioso, inteso qui come libertà di appartenere, è proprio la capacità di riappropriarsi dell’universo quotidiano come luogo di esperienza attiva. L’appartenere si coniuga così con il
fare, mentre la persona, libera di appartenere, si concepisce come un soggetto operante
dentro un disegno complessivo (un destino) del quale si sente parte. Il legame con l’Altro
genera quindi non solo una serie di legami soggettivamente significativi con gli altri (cioè
una compagnia) ma apre anche ad una rilettura della propria vita come progetto.
Libertà e religione come condizioni di un’esistenza realizzata
Se si può formulare un giudizio sulle religioni esattamente come si esprime un giudizio su qualsiasi altra forma di legame sociale significativo, ciò comporta l’adozione di principi assoluti e la liquidazione della scolastica del relativismo culturale. Non tutte le culture
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sono uguali, così come non tutte le religioni sono uguali. Esistono dei diritti umani alla vita
ed alla vita realizzata13. La stessa sociologia non è nata per redigere un lungo elenco di
sistemi socio-culturali, bensì per dire a quali condizioni la società può garantire una vita
degna dell’uomo come essere in relazione, cioè possa consentire all’uomo le migliori
opportunità possibili di realizzare i desideri etici di giustizia, ma anche quelli esistenziali di
espressione e di progettualità, che sono poi le conseguenze inevitabili del legame sociale.
Sì può dire che se il legame religioso appare come la prima e la più completa forma
di legame sociale - e non è infatti un caso come tutti i sociologi classici si siano ritenuti in
dovere di analizzarlo - è possibile stabilire anche le condizioni a partire dalle quali la religione viene meno a questa funzione.
La prima è data dal primato della forma magico-rituale. Una religione nella quale un
tale aspetto finisca per essere la nota dominante non produce, nei fatti, un legame reale
con l’Altro. Manca completamente la dimensione relazionale ed a questa è sostituito un
codice di comunicazione fondato essenzialmente sulla correttezza formale del rito. Anche
nel caso di riti collettivi la fondazione di un legame sociale vale solo come esperienza
momentanea ed entusiastica di un’appartenenza, non produce nessuna vita conseguente e
vive solo fino a quando il gruppo non rientrerà nell’habitus religioso della vita quotidiana
ordinaria.
La seconda condizione per la perdita del legame religioso è invece costituita dalla
negazione del valore dell’esperienza. La religione che non transita attraverso un’esperienza, si separa anche dal bisogno di ragionevolezza, trasformandosi così in una morale normativa, centrata unicamente sulla propria coerenza interna. Una religiosità della pura tradizione o della pura istituzione o della pura emozione, completamente priva di una razionalità che ne consenta l’accesso attraverso l’esperienza non produce legame sociale, né vita
sociale. Essa serve solo a riprodurre i miti fondatori dell’identità di gruppo ed il consenso
istituzionale.
Le religioni si annullano allora nella loro potenzialità di restituire il soggetto ad una
vita realizzata proprio quando, negando la verità dell’esperienza, schiacciano la persona in
una dimensione rituale e, in ultima istanza, sostanzialmente magica. Tanto il progetto, quanto il legame sociale che vi sono sottesi e ne costituiscono il ponte con la produzione di
società, diventano inutili e la mancanza di libertà ne costituisce la premessa essenziale. Una
volta negata l’esperienza (e la ragione che la elabora) l’individuo è di fatto depotenziato,
ogni sua adesione sarà di fatto formale, per certi versi, o entusiasticamente effimera per
altri, ma proprio per questo diverrà assolutamente inefficace sui diversi piani dell’esistenza.
Il legame frutto di un’adesione normativa - e quindi implicitamente vincolante e non libera
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- è di fatto inoperante sul piano sociale. Le relazioni che si producono per tale via non hanno
nessuna efficacia al di là dell’interesse meramente pratico dei singoli e delle istituzioni14.
Più in generale ancora, se il desiderio di legame è alla base dell’istinto sociale e dei
suoi sviluppi (dalla famiglia alla polis, alla nazione) e quello di opera è a fondamento di tutta
la produzione materiale, dalle edificazioni monumentali a quelle espressive ed artistiche,
ma anche alla base della produzione immateriale delle concezioni del mondo e della vita,
con le conseguenze di ordine pratico che ne sono scaturite soprattutto sul piano dell’agire
economico, una religione favorisce l’uomo quando risponde al suo desiderio di legame ed
a quello di opera. E poiché i legami si differenziano per la qualità della loro permanenza,
mentre le opere si gerarchizzano per la l’efficacia dei loro risultati, possiamo arrivare a dire
che le religioni sono tanto più favorevoli alla vita dell’uomo quanto più lo avviano alla produzione di legami sociali ampi e permanenti, così come esse sono tanto più efficaci alla vita
dell’uomo quanto più questi viene sollecitato a porre mano ad opere destinate a durare, a
principi di interpretazione dell’esistenza destinati ad alimentare stabilità e consolidamento
della propria identità. Una religione è quindi superiore ad un’altra quando apre i singoli credenti ad una rete più ampia di relazioni e li accompagna alla costruzione di iniziative sempre più durature ed efficaci per la realizzazione di un mondo sempre più umano: cioè con
sempre maggiori risposte al bisogno di legame ed a quello di opera. Al contrario, una religione nega la vita dell’uomo quando, contrastando la natura umana, pone vincoli ed ostacoli alla sua rete dei legami (ed è ciò che caratterizza sempre di più le derive settarie e manichee), ne preclude la realizzazione nella partecipazione ad iniziative comuni che edificano
una civiltà e danno senso ed orientamento alla propria esistenza, lo avvia non alla vita in
abbondanza, ma alla negazione della propria stessa esistenza, vietandogli l’accesso al più
umano dei desideri: quello di vivere.
Bibliografia
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Boudon (Raymond) Le sens des valeurs, Paris, PUF, 1999
Boudon (Raymond) The Poverty of relativism, Oxford, Bardwell, 2004
Comte-Sponville (André), Ferry (Luc), La sagesse des modernes, Paris, Laffont, 1998
Dahrendorf (Ralph), La libertà che cambia, Roma-Bari, Laterza, 1994.
Donati (Pierpaolo) Teoria relazionale della società, Milano, Angeli, 1991
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Durkheim (Emile) Les formes élémentaires de la vie religieuse, Paris, P.U.F. 1976
Durkheim (Emile) Le suicide, Paris, P.U.F. 1979.
Durkheim (Emile) “Le sentiment religieux à l’heure actuelle”, in Archives de Sociologie des Religions, n.27, janvierjuin 1969, 73-77.
Ferry (Luc) Qu-est-ce qu’une vie reussie, Paris, Laffont, 2003
Finkielkraut (Alain), La défaite de la pensée Paris, Gallimard, 1987.
Gluksmann (André) Dostoïevski à Manhattan, Paris, Laffont, 2002
Mauss (Marcel) Sociologie et Antropologie, Paris, P.U.F. , 1983.
Pera (Marcello), Ratzinger (Joseph), Senza radici, Milano, Mondadori, 2004.
Robertson-Smith, Lectures on the Religion of the Semities, Edimbourg, 1899.
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Weber (Max), Economia e Società, Cap.V°, Milano, Comunità, 1980.
Troeltsch (Ernst), “Lo spirito del mondo moderno” in L’essenza del mondo moderno, Napoli, Bibliopolis, 1977
Luckmann (Thomas), La religione invisibile, Bologna, Il Mulino,1970.
Note
1
Intendo con ciò tutta la tradizione sociologica che attribuendo un peso estremamente rilevante alle istitu-
zioni economiche, politiche e culturali, fa dell’azione del soggetto individuale una mera conseguenza delle
pressioni alle quali è sottoposto e quindi, sul piano analitico, gli nega ogni interesse che vada al di là della
semplice descrizione delle azioni compiute ignorando le ragioni che vi sono alla base.
2
«È accaduto - scrive Jean Baudrillard - che, molto logicamente e inesorabilmente, l’aumento esponenziale
della potenza esaspera la volontà di distruggerla. La prima è complice della volontà di distruzione operata
dalla seconda. Quando le due torri sono sprofondate si è avuta l’impressione che rispondessero all’autodistruzione degli aerei-suicidi con il loro stesso suicidio». Jean Baudrillard, L’esprit du terrorisme, Paris, Galilée,
2001, p.13.
3
Una tale operazione non può essere qui inaugurata che in forma dichiaratamente provvisoria, rinviando ad
analisi più dettagliate quanto qui si afferma in modo necessariamente schematico.
4 Non è un caso se il marxismo può assumere le vesti di una teoria sociologica solo dopo aver negato la libertà
dei legami sociali. L’intera antropologia marxiana, per fondarsi, deve postulare infatti un uomo senza possibilità di scelta, vincolato a dei rapporti materiali che gli preesistono “indipendentemente dalla sua volontà”,
cioè dalla sua libertà. Quest’ultima così, diviene una libertà radicale, eliminata dal presente storico concreto
e rinviata alla pienezza dei tempi come libertà dai rapporti materiali di produzione. Prima di una tale palingenesi non c’è società reale e nemmeno storia reale.
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Tutti i casi di coercizione del credo religioso, alla pari della coercizione irreligiosa, sono stati accompagnati
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da un sostanziale asservimento della religione al potere politico ed hanno fatto di ogni credo un semplice
instrumentum regni. Ovviamente per la coercizione religiosa valgono le stesse regole di quella politica: così
come un potere fondato sulla violenza, quindi sul terrore, non sopravvive al despota stesso, così una scelta
religiosa imposta ope legis non produce nessuna comunità reale di credenti.
6È
questa una delle considerazioni non secondarie che possiamo trarre dallo studio di Durkheim sulla dimen-
sione religiosa (Cfr. E. Durkheim, 1979)
7
Per Durkheim la forza che si sprigiona dai progetti condivisi costituisce un elemento decisivo nel percorso
di aggregazione sociale e di produzione di solidarietà civile. (E. Durkheim, 1969)
8
A. De Tocqueville, La democrazia in America, Vol.I, p. 42-43
9
Alexis de Tocqueville, op. cit, pp. 307-308.
10
Senza di questa la libertà da qualsiasi etica spinge l’individuo a disinteressarsi degli affari pubblici. Con il
disinteresse dei cittadini il potere può conoscere una libertà senza limiti, dando così vita al più raffinato dei
dispotismi: quello che si realizza con il consenso e la delega incosciente di tutti. Una democrazia senza morale (e una morale senza fondamenti religiosi) produce indifferenza civica e insensibilità politica, l’una e l’altra
avviano la democrazia verso il dispotismo.
11
E. Durkheim, Le suicide, Paris, P.U.F., 1979, p.274
12
Per molti versi, in accordo con quanto scrive Pier Paolo Donati, un soggetto senza relazioni che lo colle-
ghino ad altri e lo definiscano in rapporto ad un contesto finisce con l’essere una pura astrazione concettuale. (Cfr. Donati, 1991)
13
Al fine di comprendere quanto sia stato decisivo nella storia del pensiero filosofico il concetto di vita rea-
lizzata e come il cristianesimo come religione su base planetaria, abbia profondamente orientato la riflessione in tal senso è fondamentale il riferimento ad un eccellente testo di Luc Ferry Qu-est-ce qu’une vie reussie,
Paris, Laffont, 2003.
14
Va da sé come simili derive abbiano tanta più possibilità di affermarsi quanto più le singole società avver-
tano il senso i precarietà della propria esistenza sociale o comunque lo credano minacciato: l’irriggidimento
dottrinario che è alla base della negazione dell’esperienza ha sempre le proprie radici in una situazione di
minaccia radicale. Ciò spiega ad esempio il legame tra guerre di religione e lettura apocalittica sviluppatosi
nell’Europa del XVI° secolo, così come sempre la stessa percezione di minaccia (o la sua evocazione strumentale) spiega il successo delle correnti di pensiero terroristico nel conflitto arabo-israeliano: esempio scuola del legame tra violenza su motivazione religiose e presunta minaccia di estinzione etnico-politica.
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