“Gene mangia gene. Allegri attentati alla vita”.

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Venerdì 6 settembre a Gonnesa, per NurArcheoFestival, lo
spettacolo “Gene mangia gene. Allegri attentati alla vita”.
Venerdì 6 settembre 2013, alle ore 22.00, nell’ambito del NurArcheoFestival – Intrecci nei teatri di pietra, organizzato da Il
Crogiuolo in collaborazione con il Teatro del Sottosuolo tra l’Ogliastra ed il Sulcis Iglesiente, presso la piazzetta adiacente
scuola elementare, in pieno centro storico a Gonnesa, andrà in scena lo spettacolo “Gene mangia gene. Allegri attentati
alla vita” di e con Rita Atzeri, regia Mario Faticoni, produzione Il Crogiuolo.
“Gene mangia Gene” si propone come una riflessione caustica ironica e diventente sulla società dei
consumi: si parla di biotecnologie, manipolazioni genetiche, colossi industriali eticamente discutibili dalla
Coca – cola, alla Danone e alla Novartis, cellule staminali, acquisti sfrenati e via discorrendo.
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Lo
spettacolo sarà preceduto, ore 21.00, dalla presentazione
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del libro edito da AM/D, “Svegliatevi sardi!
New York 1978” Costantino Nivola intervistato da Mario Faticoni, saranno presenti l’autore, di seguito la
sua prefazione al libro, e il giornalista Massimiliano Messino:
«A Cagliari di ritorno dal viaggio a New York, dove avevo intervistato Costantino Nivola, Tuttoquotidiano, il giornale al
quale lavoravo, stava per chiudere; un giornalista senza giornale è come il gabbiano costretto a terra. Ma anche il teatro,
mestiere che devasta le esistenze, ebbe il suo ruolo: mi aspettavano tre convegni da organizzare e un Mackie Messer da
interpretare.
Ricordo questo per cercare di spiegare perché decido di pubblicare a trentacinque anni di distanza
un’intervista così preziosa.
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Devastante,
ma propizio teatro, comunque: senza
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il teatro non avrei incrociato in quell’agosto 1978 a
New York Costantino Nivola. Ero partito per motivi personali e forse il solo suo ruolo d’artista non
m’avrebbe portato fino a Long Island. L’incontro vero con lui, salvo quello che sapessi prima della sua
arte di scultore, era stato infatti teatrale, indiretto ma teatrale.
E aveva nome piazza Satta, a Nuoro, il suo gioiello.
Vi erano andati in scena tra il ’72 e il ’75 Gli occhi tristi di Guglielmo Tell, Quelli dalle labbra bianche e il
trionfo-epopea di Su connottu, rappresentato un anno dopo la scomparsa del suo autore, Romano Ruju,
impiegato del Comune di Nuoro che riuscì a essere grande poeta e drammaturgo, di cui era impossibile
non innamorarsi per la sua gioia creativa ed esistenziale, il suo amore per la poesia e il canto, la sua
fragilità di sognatore.
L’involucro di quella perla era Nuoro, in quegli anni tutto un pulsare di iniziative di artisti, intellettuali e
poeti, impregnata dell’aura de Il giorno del giudizio, oggetto di un numero monografico della rivista
Paragone.
Prendemmo tutti la febbre nuorese. In quelle recite estive scoprii piazza Satta e Costantino Nivola. Estati
sotto il segno di quello spazio magico, sotto il segno di Nivola. Giovani, in un clima ancora di entusiasmo e
speranze, cercavamo esempi etici. Non c’è occasione d’essere a Nuoro che non vada ancora oggi, come
un ragazzo innamorato, a trovare la bella.
La piazza parlava per lui, spazio libero della ricreazione, della fraternizzazione, dell’incontro, familiare
come una persona. Parlava anche del tradimento: mancavano quei negozietti, quei luoghi di lavoro
progettati intorno, che fanno di uno spazio una piazza, un luogo di vita. Ce ne accorgemmo col tempo e
ne fummo sempre più rattristati. Era consolante, almeno, vedere accovacciati sulle sue sculture gli
studenti con i loro zainetti, i ragazzi giocarci a pallone. Nell’intervista che segue, Nivola rimarca
amaramente quel tradimento.
Non potevo che andare a trovarlo, una volta sul suolo americano.
A distanza di anni e con il solo strumento dell’autoindagine, è difficile ricreare il clima di quella giornata.
Pur denso della nebbia del tempo, il ricordo va all’incontro fortunato tra due spiriti liberi, soli, in terreno
neutro, in un momento di fiducioso abbandono e sintonia, accomunati dalla passione e dall’urgenza di
esprimersi su temi sociali e culturali della propria terra e del proprio tempo, pur su piani diversi per ambiti
e qualità: un isolano grande artista umanista e un sardo-non sardo aspirante attore.
Era un periodo di fervido impegno sia in teatro che al giornale. Numerosi articoli critici verso il sistema
culturale e politico sardo, teatro ma anche emigrazione, lettura pubblica, passività delle istituzioni,
responsabilità degli intellettuali, fallimento della Rinascita, franchismo, golpe in Cile, la stessa crisi di
Tuttoquotidiano.
Non ebbi bisogno di fare domande articolate. Al suo bisogno d’intervento bastarono brevi accenni.
Nivola parla a dirotto, con passione e candore. Denuncia la mancata opera su Gramsci ad Ales,
l’infatuazione per la civiltà esterna, la superstrada rettilinea in stile olandese, il disamore dei sardi per la
propria terra, il tradimento della lingua, uno spirito ancora intriso di crudeltà, l’insensibilità estetica,
l’assenza di poesia, la sciatteria nel costruire, “ovili come porcili”, plastica al posto dei cesti, alberi
tagliati…
Ma la denuncia ha un tono dolce, sereno: “La loro non è ostilità, è indifferenza”. E quando dice “Vi fate
fare queste cose”, c’è sorriso, bontà, come dire: “Sbagliate, ma vi potete correggere, se volete”. Il viso è
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sereno,
la voce lieve, si è a tavola, si mangia.
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E non è la levità disincantata dell’emigrato. Altri emigrati non hanno questa voce; andate a sentire quella
del caro Giovanni Dettori1 nella sua casa piemontese, ci si può affilare un coltello. La voce di Nivola è di
un dolore distillato, voce paziente di un’esigua speranza, dell’uomo bambino che racconta Orani,
dell’uomo incantato dalla vita, che di notte si fonde con la sua terra sdraiato su un prato. Sentimento
sereno dettato dalla coscienza politica, dal modello di sviluppo desiderato:
“… una Sardegna agricola, pastorale, con un minimo di strutturazione industriale, una tecnologia di natura
indispensabile per alleviare la fatica dell’uomo, ma soprattutto un modo di vivere basato sull’accettazione
di modi di vita parsimoniosi ed economici”.
“Minimo”, “indispensabile”, “parsimonia”.
Si legge in queste parole del 1978 l’annuncio di quella resipiscenza economica, di quel non più
procrastinabile cambiamento, che riempie la comunicazione odierna. Concetti per nulla buttati lì a volare
sulle ali dell’utopia: li sorregge la coscienza: “L’uomo, messo nella condizione naturale, manifesta il suo
lato positivo”.
Forse a quest’uomo, come a tutti gli innovatori, la sua terra non ha dato tutto quello che meritava: “Ai
sardi ha fatto comodo immaginarmi come loro, un piccolo sardo”.
Al mio ritorno Tuttoquotidiano sta per chiudere.
Per anni rimangono inerti nel cassetto block notes e rullino fotografico, che contengono altre tracce del
viaggio americano, paesaggi, momenti di vita, interviste all’Italian Cultural Institute e all’editore
americano di Padre padrone di Gavino Ledda; e spettacoli, tra cui uno straordinario Andy Warhol’s last
love del gruppo ungherese Squat Theatre, il concerto del ritorno in America di Alan Stivell, quello di Zubin
Metha nella piana del Central Park allestita per metà picnic in campagna, per metà insediamento protervo
del territorio di pura marca americana, con tanto di recinzioni e bandiera; lo sparuto corteo comunista che
si annuncia con un flebile coro; l’incontro con alcuni studenti universitari iraniani, intelligenza sprizzante
gioia e comunicatività, accesa passione politica; la notizia dell’elezione di papa Luciani appresa in
metropolitana, e l’emozione nel trovare in libreria l’edizione americana di Morte di un commesso
viaggiatore di Miller rappresentato da noi del Cut solo undici anni dopo la prima mondiale.
In un soprassalto di professionalità ripresi quattro anni fa il block notes e stesi l’intervista per inserirla in
Tumulti quotidiani, il libro del mio giornalismo. Ma su consiglio di Gio Maria Bellu, Aldo Brigaglia, Vito
Biolchini e Giovanni Sanna la estrassi cercando di farne un libretto a parte. La sensibilità di AM&D, che
ringrazio, fa uscire oggi dal limbo e salva queste parole.
Mi sembra una testimonianza bella di quel tempo, di quell’uomo, della sua terra, del suo modo d’amarla
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virilmente,
anche profetica per l’oggi. Limiti e meriti
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del tempo che trascorre.
Sento l’orgoglio e la fortuna d’essere stato l’uomo giusto al momento giusto. Per avermi concesso allora
di esserlo, lo ringrazio.
Nivola morirà nel 1988, la moglie Ruth vent’anni dopo. Uno strano destino li accomuna: invitati in anni
diversi a Cagliari per l’inaugurazione delle opere al Consiglio regionale e per la grande mostra a Palazzo
Regio, entrambi, scomparsi pochi mesi prima, non poterono parteciparvi.
Quella coincidenza, quella fatale assenza, pensando al sentimento doloroso affiorato, pur pudicamente,
dall’intervista, mi sembrano oggi un misterioso, tacito rifiuto. Come se, dopo lo storico fallimento della
rinascita della terra amata, la fertilità legata a quelle sculture fosse rinnegata, ed esse, grembi mai più
fecondi, testimoni d’accusa, severe presenze postume.“ Nel letto di granturco c’è rimasto, dalla tua
parte, un solco senza seme”, fa dire, negli stessi anni, alla sua moglie dell’emigrato, Francesco Masala2,
altro artista deluso di Sardegna.
La Sardegna e l’arte. La Sardegna e il mare. È come se, da millenni, i soporosi vapori salini spiranti dal
mare soffocassero a terra il vento liberatorio e vitale, violentando l’anelito alla vita e all’azione, la
capacità fantastica e visionaria, lo slancio progettuale.
E la voce pur possente di alcuni suoi abitanti non superasse la coltre sciroccosa delle nuvole.
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