La noologia come critica delle immagini del pensiero: un contributo

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Giornale Critico di Storia delle Idee – 8/2012
La noologia come critica delle immagini del pensiero:
un contributo deleuziano alla Storia Critica delle Idee.
di Antonio Moretti
1. La noologia come prassi del pensiero; 2. L’immagine dogmatica del pensiero; 3. Genealogia e
Teoria delle forze; 4. La noologia come critica; 5. Sospensione della credulità.
1. La noologia come prassi del pensiero
Considerare il pensiero di Gilles Deleuze eminentemente legato alle sorti dei movimenti sociali,
culturali e politici cui è stato associato, limitarlo a ciò e valutarlo di conseguenza è un modo
malcelato di liquidarne il peso, la vastità e la capacità di affrontare a viso aperto la complessità delle
istanze storiche e filosofiche da cui prende avvio. Al contrario, questo essenziale legame che
l’opera di Deleuze intrattiene col proprio tempo, legame che finora «ha reso difficile una
considerazione oggettiva della sua opera»1, è il sintomo di una concezione attiva, creatrice e al
contempo caustica e critica della filosofia, che va più propriamente individuata come pratica o
attività filosofica. Occorre quindi subito porre l’accento, in accordo al suo pensiero della
sperimentazione e dell’immanenza, su come ogni aspetto dell’esistenza sia direttamente politico
«non perché la politica s’infiltri in ogni ambito, ma perché l’esplicarsi della vita, nella totalità delle
sue manifestazioni, ha sempre a che fare con processi che sono o di assoggettamento o di
liberazione»2.
Ed è proprio in tal senso, secondo un’istanza originariamente e primariamente pratica, che va
riconsiderata la tematica de l’image de la pensée, l’immagine del pensiero. Essa nasce come una
tematica al contempo gnoseologica e genealogica, che non rappresenta la classica ricerca filosofica
del «metodo, ma qualcosa di più profondo, sempre presupposto, un sistema di coordinate, di
dinamismi, di orientamenti: appunto pensare e «orientarsi nel pensiero»»3, ma che al contempo è
«come il presupposto della filosofia, la precede. E questa volta non si tratta di una comprensione
non filosofica, ma di una comprensione pre-filosofica»4 cui fanno capo tutte le istanze affettive e i
presupposti impliciti che determinano il modo in cui ciascun pensatore risponde alla domanda
«che cosa significa pensare?»; pertanto, «solo mettendo in luce queste immagini è possibile
determinare le condizioni della filosofia»5 come condizioni effettive, genealogiche, non
trascendentali.
Lo studio delle immagini del pensiero attraversa trasversalmente l’opera deleuziana, per quanto in
maniera sottaciuta, mai apertamente dichiarata nei testi. Soltanto in un’intervista, Deleuze
ammetterà:
è l’oggetto vero di Differenza e ripetizione, la natura dei postulati dell’immagine del pensiero. Questo tema mi ha
ossessionato in Logica del senso, dove l’altezza, la profondità e la superficie sono le coordinate del pensiero; l’ho
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ripreso in Proust e i segni, poiché Proust oppone tutta la potenza dei segni all’immagine greca; lo ritroviamo poi
con Félix in Mille piani, perché il rizoma è l’immagine del pensiero che si estende sotto quella degli alberi 6.
A tutto ciò, Deleuze assegna il nome di noologia, aggiungendo che «dovrebbe costituire i
prolegomeni alla filosofia»7, a dimostrazione della particolare rilevanza che tale argomento ricopre
nel percorso del suo pensiero, costituendo per esso una domanda sempre inevasa – e che proprio
in virtù di ciò si smarca dalla possibilità di essere intesa in maniera prettamente metodologica o
introduttiva: la noologia verrebbe terribilmente banalizzata e il suo valore quanto mai sminuito se
non si considerasse che essa è preambolo di una filosofia della differenza e della ripetizione, che fa
della sperimentazione in vivo della teoria e della creazione di concetti per ogni regione del pensiero
la sua chiave di volta. Per questo motivo, la noologia costituirà dei prolegomeni paradossali, da
ripetere ogni qual volta ci si impegni a pensare.
Su questo aspetto della noologia come prassi inesausta del pensiero vuole indirizzarsi il presente
contributo, verso la formazione di un pensiero propriamente critico, che al sapere come «tranquillo
possesso di una regola di soluzione»8 – la cui immagine è precisamente quella del metodo come
hodòs, sentiero già battuto da percorrere – oppone il movimento dell’apprendere, inappagato dal
semplice conseguimento del risultato, che fa del «passaggio vivente tra non-sapere e sapere»9 un
percorso indefinito di ricerca insistente della genesi del pensiero nelle sue condizioni materiali, un
«compito infinito, che appare nondimeno ricondotto alle circostanze e all’acquisizione, estromesso
dall’essenza che si suppone semplice del sapere in quanto inneità, elemento a priori o anche Idea
regolatrice»10. Ecco che la noologia si presenta come ripetizione, nella pratica dell’insistenza critica,
e come differenza, nell’affermazione di un’altra sensibilità, di un altro sentire, di un altro pensare:
questo è quanto intendiamo mostrare.
2. L’immagine dogmatica del pensiero
Per comprendere appieno il portato critico della noologia e, assieme, fare in modo che essa ne
eserciti tutto il potenziale, occorre anzitutto chiarificare i termini. Si tratta, quindi, di comprendere
più a fondo cosa si intenda per immagine del pensiero e capire in quale maniera essa operi nei
confronti del pensiero stesso. Solo allora potremo chiederci in quale misura la noologia possa
costituirsi come prassi critica e verso cosa.
In Differenza e ripetizione, Deleuze mostra come la tematica dell’immagine del pensiero sia collegata
al problema del cominciamento in filosofia, del principio del pensare11. La filosofia moderna si è
largamente scontrata con questo problema, cercando sempre di porre il cominciamento come
un’eliminazione di tutti i presupposti del pensiero, come un’emendazione dell’intelletto – basti solo
pensare all’individuazione degli idola nell’Instauratio magna baconiana o al rifiuto cartesiano di
accettare la definizione di uomo come animale ragionevole, «perché una tale definizione
presupporrebbe esplicitamente noti i concetti di ragionevole e di animale»12. Questa procedura è
analoga a quanto avviene con la fondazione della metodologia o dell’oggetto nelle scienze
cosiddette esatte: si identificano degli assiomi in grado di circoscrivere un ambito in cui il pensiero
possa operare esente dagli errori causati da presupposti oggettivi: «sono detti presupposti oggettivi i
concetti esplicitamente supposti da un concetto dato»13. Ma, contrariamente a quanto può
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avvenire nelle scienze, per le quali l’assiomatica rigorosa è – parzialmente o ideologicamente – in
grado di arginare l’incombenza dell’errore, in filosofia ci si trova tanto dinanzi a presupposti
oggettivi, quanto a presupposti di natura differente, che Deleuze nomina presupposti soggettivi.
Questo secondo tipo di presupposti si trova inviluppato nell’irriflesso, nel sentimento e, pertanto,
è ammesso o postulato in maniera implicita da un concetto. Riprendiamo l’esempio di Descartes.
Come si è visto, egli rifiuta la definizione di uomo come animale ragionevole in nome della
denuncia di un presupposto oggettivo o esplicito nella stessa: non possiamo definire con certezza il
concetto di uomo fintantoché ammettiamo o postuliamo come già noti i concetti di animale e
ragionevole. Egli necessita di un modo ulteriore di risolvere il problema – e lo trova nella
fondazione del Cogito. Tuttavia, Deleuze attacca fortemente il modo in cui Descartes aggira
l’impasse:
presentando il Cogito come una definizione, presume di neutralizzare tutti i presupposti oggettivi che gravano
sui procedimenti operanti per genere e differenza. È evidente tuttavia che egli non sfugge a presupposti di altra
specie, soggettivi o impliciti, […] per cui si suppone che ognuno sappia senza concetto ciò che significa io,
pensare, essere14.
Nelle parole di Deleuze, emerge una differenza ulteriore tra i due tipi di presupposti, che aggrava
in maggior misura l’accusa nei confronti del Cogito. Tale differenza non si esprime più soltanto
nell’aspetto conoscitivo (dimensione concettuale-esplicita ovvero sentimentale-implicita del
presupposto), ma ha a che fare con la possibilità stessa del riconoscimento del presupposto.
Difatti, ciò che rende difficile la sua individuazione è la particolare forma in cui si presenta e
attraverso cui opera: tale pregiudizio è detto implicito appunto per la sua totale aderenza al senso
comune, per la sua scomparsa dietro la formula del “tutti sanno”, “ognuno sa”. Esso viene a
designare quanto è comunemente ritenuto naturale, ciò che è riconosciuto da tutti: «Tutti sanno,
nessuno può negare, è la forma della rappresentazione e il discorso del rappresentante»15. Ciò che
Deleuze biasima del discorso cartesiano è dunque il suo presentarsi sotto una parvenza di purezza
– in nome di una pedissequa e sistematica emendazione dai presupposti oggettivi – sebbene non
risulti in grado di rendere conto dell’immagine del pensiero che lo informa. Essa immagine è
appunto la concezione pre-filosofica di cosa significhi pensare rivelata nelle pieghe del discorso di
Descartes, conforme ad un modello preconcetto e mai messo in discussione di ortodossia del pensiero.
A tale modello indiscusso, inconfutato, incontestato e in primo luogo irriflesso di rappresentazione
dell’attività del pensare, Deleuze dà il nome di immagine dogmatica o morale del pensiero. L’immagine
dogmatica del pensiero esprime quella modalità di impiego in cui il pensiero stesso non fa che
«impegnarsi nell’inattività completamente e con tutte le sue forze»16. Di questa peculiare
rappresentazione dell’attività del pensare, di cui già in Nietzsche e la filosofia17 Deleuze offre una
prima esplicitazione, dovremo allora individuare le articolazioni e le modalità di riproduzione.
Ad esprimerne in maniera essenziale i lineamenti sono innanzitutto ipostatizzazioni sedimentate,
automatismi – più o meno disinteressati – del pensiero, i quali assumono la forma di postulati,
sebbene di carattere peculiare: essi, infatti, non sono esplicitati al fine della costituzione di
un’assiomatica, poiché « non hanno bisogno di essere detti: agiscono tanto più efficacemente in
silenzio, nel presupposto dell’essenza come nella scelta degli esempi»18. Primo fra tutti è il
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presupposto che funge da vero e proprio narcotico del pensiero: l’idea secondo la quale esso agisce
sempre come esercizio naturale di una specifica facoltà dell’uomo, un vero e proprio pensiero
naturale frutto «di una buona volontà del pensatore e di una natura retta del pensiero»19 – da ciò si può
comprendere come l’immagine dogmatica veda nel pensiero niente di più che la riconferma del
senso comune e in esso il cominciamento della filosofia. Ed è proprio questa naturalezza, intesa
come spontaneità ed immediatezza, a garantire che il pensiero, in quanto senso comune, sia «la
cosa meglio ripartita al mondo»; non c’è dubbio, dice l’immagine del pensiero, esso è
inopinabilmente «affine al vero, possiede formalmente il vero e vuole materialmente il vero»20.
Inoltre, non si potrà certo trattare di un vero distante dal buon senso, che cioè si distanzi da esso e
dal retto utilizzo delle facoltà; non può darsi che il pensiero si diriga naturalmente verso una verità
paradossale; sarà, al contrario, una verità del riconoscimento, verso la quale la buona volontà del
pensatore orienta il pensiero e in esso la concordia facultatum, concertazione delle facoltà nel
superiore sensus communis, riproduce una verità ortodossa: «l’immagine del pensiero non è se non la
figura in cui si universalizza la doxa innalzandola al livello razionale»21. Fintanto che la filosofia
presuppone il suo cominciamento nell’immagine dogmatica del pensiero, essa si troverà
drammaticamente separata dal progetto di rompere con la doxa, non perché la filosofia si lasci
sedurre da questa o quella opinione particolare, ma perché presume di poter procedere non
mettendo in dubbio la forma del pensiero in cui pensa la doxa: ad una verità ritenuta da riconoscere
corrisponde un pensiero non problematico, che ricalca le sue domande su problemi ritenuti come
già dati. In ultima analisi, l’immagine dogmatica del pensiero lavora alacremente ai fianchi di un
pensiero della prassi, lo rende impotente e al servizio di una verità «bonacciona e amante degli agi,
che non si stanca di dare a tutti i poteri costituiti l’assicurazione che non causerà mai a nessuno il
minimo disturbo, poiché essa non è dopotutto che la scienza pura»22, frutto di un riconoscimento in
cui il riconosciuto «è tanto l’oggetto, quanto i valori proiettati su di esso»23.
Ecco allora individuato l’oggetto verso cui la noologia deve operare la sua attività critica:
l’immagine dogmatica del pensiero, quel «segno dei mostruosi sponsali in cui il pensiero “ritrova”
lo Stato, “la Chiesa”, ritrova tutti i valori del tempo che ha fatto passare sottilmente sotto la forma
pura di un eterno oggetto qualsiasi, santificato per l’eternità»24.
3. Genealogia e Teoria delle forze
A questo punto, appare doverosa una precisazione. A formare l’immagine dogmatica del pensiero
sono sì quelli che Deleuze definisce presupposti soggettivi, ma sembra emergere un senso ulteriore
da attribuire loro. Difatti, essi rappresentano senza dubbio la risposta di ciascun pensatore alla
domanda “che cosa significa pensare?”, ma non si limitano a designare errori sistematici cui un
singolo – appunto, un soggetto – sembra costretto a soggiacere. Se così fosse, ricadremmo ancora
una volta nel perimetro tracciato dalla stessa immagine dogmatica, la quale vede nell’errore l’unico
effetto che forze esterne al pensiero possono esercitare su di esso per distorcerlo. Ma la noologia
non vuole sostituirsi all’emendazione dell’intelletto; il suo compito non è affatto espungere da un
pensiero procedurale quelli che possono essere i limiti di un funzionamento efficiente del
marchingegno – nella fattispecie, i presupposti oggettivi. La noologia deve, invece, strutturarsi
come una peculiare teoria delle forze in quanto filosofia del senso e del valore: deve cioè assumere i
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tratti di una genealogia25. Ciò significa, in primo luogo, evitare «la tendenza a sostituire i reali
rapporti di forze con un rapporto astratto, una sorta di “misura” ritenuta in grado di esprimerli» 26
che la filosofia esibisce ogni qual volta soggiace all’immagine dogmatica. Difatti, qualora non
vengano valutate le effettive forze in gioco del pensiero e di ciò che gli si oppone, ci si limita a
trattare i presupposti soggettivi come rapporti astratti e ad attribuire ad essi il ruolo di errori, ossia di
misura della minore o maggiore distanza che intercorre tra il pensiero e la verità. In secondo luogo,
la genealogia deve mostrare quale rapporto vi sia tra forza, senso e valore. Deleuze è categorico nel
sostenere che «non troveremo mai il senso di una cosa […] se non sappiamo quale sia la forza che
se ne appropria, che la governa, che se ne impadronisce o che in essa si esprime», poiché ogni
fenomeno non è altro che «un segno, un sintomo il cui senso è dato da una forza attuale» 27,
vincitrice all’interno del campo di forze in cui il fenomeno si dà. Ogni forza si esprime
nell’appropriazione, nel dominio e nel governo di una data quantità di realtà e il senso di un
medesimo oggetto o fenomeno varia a seconda della forza che se ne appropria. Ciò significa che di
ogni fenomeno sarà possibile impostare la storia seguendo la «successione delle forze che lottano
per impadronirsene»28. La noologia dovrà allora comportarsi come la genealogia dell’immagine del
pensiero e strutturarsi come storia delle forze che lottano per impadronirsi del pensiero e, secondo
le parole di Nietzsche, percorrere a ritroso e comprendere «il susseguirsi di processi
d’assoggettamento […] più o meno spinti in profondità, più o meno indipendenti l’uno
dall’altro»29.
Da quanto detto, emergono due conseguenze. In primo luogo, i presupposti soggettivi assumono
un rilievo del tutto inaspettato: le forze che vogliono impadronirsi di quella «vaga idea di ciò che
significa pensare, dei mezzi e degli scopi»30 e che vengono a costituirli non sono soltanto quelle del
corpo, delle passioni o della varia metaforica dell’errore, poiché non sono le uniche forze a
comporre la relazione. Sarebbe vero solo per un soggetto disincarnato, emarginato dal consorzio
sociale e affetto da una forma cronica di solipsismo radicale. A costituire i presupposti soggettivi
sono anche quei pregiudizi espressi dalle forze di un’epoca, di una società, di un’istituzione, di
assetti storico-culturali che vanno ad agire sulle differenti soggettività. E, viceversa, possiamo
anche ritenere che le soggettività in questione non siano solamente i pensatori di cui finora si è
parlato, ma queste stesse società, epoche, istituzioni che portano una loro propria immagine del pensiero.
Pertanto, se di presupposti soggettivi si può parlare, è solo badando bene alla complessità effettiva
da attribuire alle soggettività in questione.
In secondo luogo, emerge come la noologia, nella misura nella quale è genealogia, non possa
separarsi da un’analisi storica – ma anche sociologica, economica, ecc. – delle condizioni della
genesi del pensiero, poiché ad essa fa capo una nozione complessa del senso, che esprime il gioco di
tutte le forze che lottano per appropriarsi di una determinata realtà. Per tutto ciò, cioè nella misura
nella quale la noologia ha a che fare con il senso, essa sarà una disciplina interpretativa.
Inoltre, il suo compito non si limita a ciò: se «il senso di una cosa è il rapporto tra la cosa e la forza
che se ne impadronisce, il valore di una cosa è la gerarchia delle forze che si esprimono nella cosa in
quanto fenomeno complesso»31; la noologia deve allora procedere dal senso al valore,
dall’interpretazione alla valutazione e ricusare energicamente il dogma dell’avalutatività. In questa
maniera, la noologia si costituirà come disciplina storica dell’analisi, dell’interpretazione e della
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valutazione delle forze. In una parola, sarà la disciplina dello smascheramento: «arte del guardare
sotto le maschere, di scoprire chi si maschera e perché, a che scopo una maschera viene riplasmata
e conservata»32.
4. La noologia come critica
Si mostra con sempre maggiore chiarezza l’importanza di una critica dell’immagine dogmatica del
pensiero, ora che si è esposto come essa immagine sia la risultante di un coacervo di forze affatto
disinteressate ad informare quella vaga idea di cosa significhi pensare posseduta da ognuno. A
questo proposito, ci sembra di poter parlare a ragion veduta al plurale, di critica delle immagini
dogmatiche del pensiero, di tutte quelle forme di sudditanza e narcolessia del pensiero cui è possibile
imputare una volontaria o involontaria tendenza alla passivizzazione della stessa prassi del pensare
o la coercizione alla permanenza nello stato di minorità.
Il primo compito di questa noologia critica sarà una rieducazione alla domanda. Non sarà più
possibile tollerare una pratica della riflessione che eserciti il proprio anodino processo ricalcando i
problemi e le domande su proposizioni corrispondenti, già date eternamente, che attendono solo
di essere rappresentate. È questo il modello lasciato in eredità dai Topici, in cui Aristotele è
chiarissimo nel sostenere che
Se si dice, ad esempio, Animale-pedestre-bipede è la definizione dell’uomo, o Animale è il genere dell’uomo, si
ottiene una proposizione; se ci si chiede invece se Animale-pedestre-bipede sia o no la definizione dell’uomo, si
ha un problema. E lo stesso vale per le altre nozioni. Ne risulta ovviamente che i problemi e le proposizioni
sono in numero uguale, poiché di ogni proposizione si può fare un problema, mutando semplicemente la
forma della frase33.
Questa concezione proposizionale del problema limita fortemente la capacità delle domande di
essere coerenti alla concezione polemica del senso, di un senso come effetto prodotto dalla lotta
delle forze: «se non si scorge che il senso o il problema è extra-proposizionale, che differisce
essenzialmente da ogni proposizione, ci si lascia sfuggire l’essenziale, la genesi dell’atto del
pensare»34. Soltanto lasciando che la domanda apra nuove vie potremo costituire nuovi problemi
mediante investimenti simbolici in campi specifici, potremo auscultare il gioco delle forze e dare vita
alla storia critica dei sensi in quanto storia delle variazioni e delle discontinuità delle forze che si
appropriano di un fenomeno e in esso si esprimono.
Resta da chiarire in quale senso declinare il concetto di critica, in quale senso cioè intendere il
portato critico della noologia: ciò significa seguire Deleuze nel suo confronto con Kant. Al filosofo
di Königsberg Deleuze attribuisce l’enorme merito di «aver concepito, nella Critica della ragion pura,
una critica immanente alla ragione che non si basasse né sul sentimento, né sull’esperienza o
qualsivoglia istanza esterna»35, come anche «l’idea di una filosofia legislatrice in quanto filosofia» a
compimento «di una critica interna in quanto critica: due idee che costituiscono il principale
contributo del kantismo, il suo contenuto liberatorio»36. Tuttavia, aggiunge Deleuze, se già
Nietzsche annoverava Kant tra gli «operai della filosofia»37, cioè tra coloro i quali si accontentano
di fare l’inventario dei valori comuni, è proprio perché già intravvedeva il limite interno alla
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concezione kantiana della critica: per Kant criticare si risolve, in ultima analisi, nell’uso corretto di
una facoltà, nel «criticare le “false applicazioni”, e dunque si critica la falsa morale, le false
conoscenze, le false religioni, ecc.»38; Kant, ispiratore del progetto critico in filosofia, finisce per
rappresentare «l’incarnazione perfetta della falsa critica»39; limitandosi a criticare le false
applicazioni di facoltà o principi ritenuti in sé legittimi, «l’ideale della conoscenza, la vera morale, la
fede, ne escono intatti»40. Non solo: a fare le spese della mancata coerenza del pensiero kantiano
sono gli stessi contenuti liberatori che esso ispira; la critica come corretto utilizzo e autolimitazione
delle facoltà rappresenta un paradossale capovolgimento:
L’intelletto e la ragione […] sono le istanze che ci costringono all’obbedienza anche quando non vogliamo più
obbedire a nessuno. Quando smettiamo di obbedire a Dio, allo Stato, ai nostri genitori sopraggiunge la ragione
per persuaderci ad essere ancora docili, dicendoci: sei tu che comandi. La ragione ci presenta le nostre schiavitù
e i nostri soggiogamenti come fossero altrettante forme di superiorità che fanno di noi degli esseri
ragionevoli41.
In questo senso, Deleuze non fa che esprimere altrimenti la distinzione – o la discrasia – tra critique
e Aufklärung che in seguito chiarirà magistralmente Foucault42, tra l’istanza dell’autolimitazione che
«dirà al sapere: sai bene fin dove sei in grado di sapere? Ragiona finché vuoi, ma sai bene fin dove
puoi ragionare senza pericolo?»43 e l’atteggiamento della disobbedienza volontaria, del sistematico
disassoggettamento nella forma dell’indocilità ragionata.
Va dunque posto sotto gli occhi che il compito, la missione di un pensiero radicalmente critico,
emancipatore e liberatorio, è la critica «delle forme vere e non dei falsi contenuti»44, poiché è
proprio nel sistematico, abituale e irriflesso consenso alle forme vere che avviene l’introiezione
implicita dei valori comuni, delle immagini dogmatiche.
5. Sospensione della credulità
Lo studio delle immagini del pensiero ha assunto progressivamente complessità e spessore tanto
che ad esso sembrano spettare incarichi diversi e difficilmente conciliabili: arte dell’interpretazione
delle forze e della valutazione delle maschere, genealogia, storia critica della variazione dei sensi,
rieducazione alla domanda e, infine, atteggiamento di indefessa e partecipata sospensione della
credulità. Tuttavia, a riassumere queste differenti sfaccettature della noologia vi sono numerose
convergenze.
In primo luogo, la ferma convinzione che pensare significhi impegnarsi in una prassi ben
determinata che nulla ha a che vedere con gli automatismi di una facoltà naturale, che comporta
fatica e reiterazione, analisi e cura, perché criticare è un prendersi cura e «non esiste una buona
distruzione senza amore»45. In secondo luogo, l’espunzione dell’errore e di ogni concezione della
fallacia esterna al pensiero poiché immagine complementare alla filosofia come ortodossia razionale.
Vi è, invece, un “negativo” maggiore che la inviluppa, rappresentato da ogni forma di bassezza del
pensiero: la stupidità, la pigrizia, il pressappochismo e tutte quelle impotenze proprie del pensiero,
irriducibili ad interruzioni della sua procedura, che dovremo riconoscere essere strutture del
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pensiero come tale46 e contro le quali sarà necessaria costante attenzione. In terzo luogo, la
distruzione delle immagini dogmatiche e morali, la demoralizzazione del pensiero:
La filosofia serve a rattristare: una filosofia che non rattristi, che non riesca a contrariare nessuno, che non sia in
grado di arrecare alcun danno alla stupidità e di smascherare lo scandalo, non è filosofia. Posto che sembra non
esserci alcuna disciplina al di fuori della filosofia che si prefigga lo scopo di opporsi criticamente a tutte le
mistificazioni, qualsiasi origine e finalità esse abbiano, l'unico modo in cui la filosofia potrà essere usata
consisterà nel denunciare la bassezza del pensiero in tutte le sue forme […]. Essa dovrà inoltre […] formare
uomini liberi, che non confondano cioè i fini della cultura con gli interessi dello Stato, della morale o della
religione, combattere il risentimento e la cattiva coscienza che hanno usurpato in noi il pensiero, sconfiggere il
negativo e il suo falso prestigio. Tutto questo può interessare soltanto alla filosofia che, in quanto critica, rivela
il suo compito più alto: la demistificazione 47.
Infine, l’affermazione di un pensiero intempestivo, che riconosce e sottolinea i limiti di una filosofia
eterna, come anche di una filosofia strettamente storicistica. Il pensiero intempestivo è un pensiero
delle discontinuità, che si pone in rapporto diretto con il proprio tempo, ma nel modo della
contrapposizione, della distanziazione dalle forme della bassezza del pensiero che nell’attuale si
incarnano e agiscono.
Ecco ciò che unisce i tratti così differenziati della noologia; ma, a ben vedere, questi punti
sembrano caratterizzare l’intera opera di Gilles Deleuze, in tutta la sua vastità. Essa si struttura
sistematicamente come forma di sfida al pensiero tout court, come sospensione della credulità, come
composita e disorganica messa in discussione di ciò che è scontato, come scardinamento
dell’ovvietà. Essa è una pratica immanente, una visione politica del pensiero nella convinzione che
non esista «filosofia eterna né filosofia storica: il carattere di eternità o di storicità della filosofia si
riferisce al suo essere sempre – e in ogni epoca – intempestiva»48. Ci sembra che Deleuze possa a
buon diritto essere annoverato tra i fautori di una storia critica delle idee.
Note
1
P. Godani, Deleuze, Carocci, Milano 2009, p. 9.
Ibidem.
3 G. Deleuze, Libération (22 settembre 1988), intervista con R. Maggiori, in Pourparlers (1972-1990), Édition de Minuit,
Paris 1990; tr. it. Sulla filosofia, in Pourparler, Quodlibet, Macerata 2000, p. 196.
4 Ivi, p. 197.
5 Ibidem.
6 Ivi, p. 198.
7 Ibidem.
8 G. Deleuze, Différence et répétition, Presses Universitaires de France, Paris 1968; tr. it. Differenza e ripetizione, Raffaello
Cortina Editore, Milano 1997, p. 214.
9 Ivi, p. 215.
10 Ibidem.
11 Cfr. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, op. cit., cap. 3: “L’immagine del pensiero”.
12 Ivi, p. 169.
13 Ibidem.
2
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14
Ibidem.
Ivi, p. 170.
16 G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, Presses Universitaires de France, Paris 1962; tr. it. Nietzsche e la filosofia, Einaudi,
Torino 2002, p. 161.
17 Cfr. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, op. cit., cap. 3, § 15: Nuova immagine del pensiero.
18 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, op. cit., p. 217
19 Ivi, p. 171.
20 Ivi, p. 172.
21 Ivi, p. 176.
22 F. W. Nietzsche, Unzeitgemässe Betrachtungen, Drittes Stück: Schopenhauer als Erzieher, Fritzsch, Leipzig 1874; tr. it.
Schopenhauer come educatore, Adelphi, Milano 1985, § 3.
23 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, op. cit., p. 177.
24 Ibidem.
25 Cfr. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, op. cit., cap. 1, § 1: Il concetto di genealogia.
26 Ivi, p. 110.
27 Ivi, p. 6.
28 Ibidem.
29 F. W. Nietzsche, Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift, Naumann, Leipzig 1887; tr. it. Genealogia della morale. Uno
scritto polemico, Adelphi, Milano 1984, p. 67.
30 G. Deleuze, Entretien avec Gilbert Deleuze [sic]. Intervista di Jean-Noël Vuarnet, in «Les Lettres françaises», n. 1223, 28
febbraio – 5 marzo 1968, tr. it. Nietzsche e l’immagine del pensiero, in L’isola deserta e altri scritti, Einaudi, Torino 2007, p.
173.
31 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, op. cit., p. 13.
32 Ivi, p. 9.
33 Aristotele, Topici, I, 4, 101b, 30-35.
34 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, op. cit., p. 204.
35 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, op. cit., p. 135.
36 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, op. cit., p. 137.
37 F. W. Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse. Vorspiel einer Philosophie der Zukunft, Naumann, Leipzig 1886; tr. it. Al di là
del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire, Adelphi, Milano 1977, n. 211.
38 G. Deleuze, Nietzsche e l’immagine del pensiero, op. cit., p. 171.
39 Ivi, p. 172.
40 Ivi, p. 171.
41 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, op. cit., p. 138.
42Michel Foucault, Qu’est-ce que la critique? (Critique et Aufklärung), Bullettin de la Société Française de Philosophie, avriljuin 1990, 2, pp. 35-63 ; tr. it., Illuminismo e critica, a c. di Paolo Napoli, Donzelli, Roma 1997.
43 Ivi, p. 42.
44 G. Deleuze, Nietzsche e l’immagine del pensiero, op. cit., p. 171.
45 Ivi, p. 172.
46 Sull’errore e la stupidità Cfr. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, op. cit., in particolare pp. 191-9.
47 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, op. cit., pp. 157-8.
48 Ivi, p. 160.
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