Gramsci_tra_pedagogia_e_filosofia

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Vincenzo Orsomarso
Gramsci tra pedagogia e filosofia1
Nelle pagine che seguono ci soffermeremo sulla lettura di Gramsci proposta da Angelo Broccoli
nei primi anni Settanta, in una fase in cui il dibattito sull’autore dei Quaderni del carcere era
particolarmente intenso anche in ambito pedagogico. Per questa ragione ci è sembrato opportuno
porre in relazione gli studi del pedagogista romano con gli interventi di altri autori interessati allo
stesso tema; si tratta di indagini che a nostro modo di vedere possono ancora oggi aiutarci a cogliere
il senso più complessivo del pensiero educativo di Gramsci.
Ebbene, l’opera di Broccoli su Antonio Gramsci e l’educazione come egemonia2 matura in un
contesto che vede lo svolgersi, fin dagli anni Sessanta, di indagini interessate ad esaminare il punto
di vista marxista sui temi dell’educazione e della formazione; a tale proposito vanno ricordati i
contributi di Dina Bertoni Jovine, parte dei quali risalgono alla seconda metà degli anni cinquanta e
raccolti successivamente da Angelo Semeraro in Principi di pedagogia socialista. Il marxismo e
l’educazione, Marx e la pedagogia moderna di Mario Alighiero Manacorda che nel 1970 pubblica
Il principio educativo in Gramsci, un testo, risultato di una intensa ricerca filologica condotta sui
manoscritti del carcere, di cui Broccoli tiene conto nelle sue argomentazioni e su cui avremo modo
di soffermarci nel corso di questo intervento3.
Va ricordata inoltre l’antologia dei luoghi sulla formazione presenti nell’opera complessiva di
Gramsci, La formazione dell’uomo, pubblicata nel 1967 a cura di Giovanni Urbani che rappresenta
un importante precedente in quanto ha avuto il merito di avviare gli studi sistematici sul punto di
vista gramsciano intorno ai temi dell’istruzione. Ma nel testo il rapporto, pur dichiarato, tra
egemonia e pedagogia vede quest’ultima, nella lunga introduzione di Urbani che precede la raccolta
antologica, collocata in posizione marginale e ridotta ad uno svolgimento unidirezionale, in un
quadro interpretativo dei rapporti tra spontaneità – direzione consapevole (tra dirigenti – diretti,
classe - partito, popolo – intellettuali, maestro – scolaro) di assoluta prevalenza del secondo termine
sul primo 4.
L’educazione come egemonia
La ricerca condotta da Angelo Broccoli nei primi anni Settanta su Antonio Gramsci rappresenta
un tentativo di ricostruzione delle linee fondamentali della teoria educativa gramsciana
«sull’approfondimento del concetto di egemonia»5. Termine quest’ultimo oggetto, in altri settori, di
accurati studi, ma quasi ignorato, fino ad allora, nel più ristretto ambito della riflessione pedagogica.
1
Il saggio che segue rappresenta un approfondimento e uno sviluppo della relazione tenuta nel corso della Giornata di
Studio in memoria di Angelo Broccoli, organizzata il 15 febbraio 2008 dal Dipartimento di Scienze dell’Educazione
dell’Università della Calabria . Pubblicato in «I problemi della pedagogia», anno LIV, luglio/dicembre 2008, n. 4-6, pp.
509-538.
2
A. Broccoli, Antonio Gramsci e l’educazione come egemonia, Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1972.
3
Per ciò che riguarda la costruzione del contesto in cui si colloca il lavoro di Angelo Broccoli rimandiamo a G.
Spadafora, La pedagogia laica in Italia e Angelo Broccoli, con Premessa di A. Santoni Rugiu, Firenze, La Nuova Italia,
1992, pp.41-48.
4
Al 1957 risale invece il contributo di Alessandro Natta sui Problemi della scuola negli scritti di Gramsci, in
«Società», luglio - agosto, 1957, un lavoro in cui la scuola è assunta a «strumento di egemonia» e il problema
dell’educazione è posto «come espressione dell’istanza della “riforma intellettuale e morale”» (p. 686) ; mentre da una
posizione critica che risente del clima del tempo la questione era stata affrontata fin dal 1953 da Lamberto Borghi in
Gramsci e i marxisti, in «Scuola e città», IV, 1953, successivamente in Id., Educazione e scuola nell’Italia di oggi,
Firenze, 1958, pp. 226 – 243.
5
«L’assunzione del concetto di egemonia – ha scritto Spadafora – come centrale per comprendere il significato del
marxismo gramsciano, porta il pedagogista romano a incamminarsi nella direzione fondamentale di ricerca che
influenzerà, al di là del lavoro su Gramsci, la sua costruzione teoretica – successiva e il significato della sua scelta
marxista: l’importanza della dimensione sovrastrutturale del marxismo e quindi la necessità di confrontarsi con il
“capovolgimento” culturale operato da Gramsci. E’ in questa prospettiva che egli parla di una “continuità” tra il
Va detto subito che il limite del lavoro di Broccoli va individuato nel riferimento all’edizione
tematica dei Quaderni, anche se, come vedremo, la lettura proposta di Gramsci presenta motivi di
profonda originalità.
Broccoli quindi si accinge ad un’impresa complessa che richiede l’inserimento dell’impegno
gramsciano relativamente all’educazione e alla scuola nel contesto più ampio dell’opera
dell’intellettuale rivoluzionario, e non poteva essere diversamente considerando la specifica visione
pedagogica di cui Gramsci è portatore: aspetto certo non unico ma neanche secondario del problema
dell’egemonia, in ogni caso parte di una più complessiva ipotesi di trasformazione.
Ebbene, a proposito della categoria gramsciana sopra riferita, Broccoli precisa in apertura del suo
lavoro, ricorrendo alle note dei Quaderni del carcere, che una volta negato ogni automatismo, nel
rapporto tra struttura e superstrutture, il concetto di egemonia acquista un ruolo centrale e «“ogni
rapporto di ‘egemonia’ ”» diventa nei Quaderni «“necessariamente un rapporto pedagogico”».
Seguendo però l’«“impostazione moderna della teoria e della pratica pedagogica”», ogni «
“rapporto tra maestro e scolaro è un rapporto attivo, di relazioni reciproche e pertanto ogni maestro
è sempre scolaro e ogni scolaro maestro”. Ma il rapporto pedagogico non poteva essere limitato
[…] ai rapporti “specificatamente scolastici”», «andava esteso a tutta la società nel suo complesso
“e per ogni individuo rispetto ad altri individui, tra ceti intellettuali e non intellettuali, tra governanti
e governati, tra élites e seguaci, tra dirigenti e diretti”»6.
Ed è da queste affermazioni che il pedagogista romano dichiara di prendere le mosse per l’esame
di un’opera che nelle sue valenze educative e pedagogiche si propone di «condurre i semplici a una
concezione superiore della vita, di “costruire un blocco intellettuale - morale” che renda
politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi di
intellettuali». D’altra parte a questo svolgimento del rapporto semplici - intellettuali «è rivolta in
massima parte l’attenzione di Gramsci», ed è ciò che attesta la «assoluta centralità del tema
pedagogico nell’opera del pensatore sardo». Anche se poi questo non ha nulla a che fare, secondo
Broccoli, con «una riduzione in senso pedagogico della filosofia della prassi»7.
Quella di Gramsci appare a Broccoli una «proposta» degna di essere approfondita
per la sua fede profonda nell’uomo onnilaterale, per la sua ansia di una saggezza vichiana capace di dirigere e di
dominare tutte le conoscenze. Ma soprattutto per aver intuito che il problema pedagogico o è il problema di una intera
struttura sociale, in tutta la gamma più o meno vasta delle sue articolazioni, oppure è sterile esercitazione di esperti,
edotti in questa o in quella tecnica, ma incapaci di promuovere l’effettivo sviluppo delle masse come degli individui8.
L’egemonia quindi come problema pedagogico che implica l’elaborazione di una «teoria della
comunicazione sociale» di cui Broccoli, attraverso una ricomposizione di spunti e intuizioni,
intende individuare le tracce.
A tale fine la ricostruzione del pensiero gramsciano muove dalla formazione e dall’impegno
politico ed educativo del giovane Gramsci. Dalla critica alla
«alta cultura» della «Critica Sociale» [che] ha ridotto la dottrina di Marx a uno «schema esteriore, a una legge naturale,
fatalmente verificantesi all’infuori della volontà degli uomini, della loro attività associativa, delle forze sociali che
questa attività sviluppa, diventando essa stessa determinante di progresso, motivo necessario di nuove forme di
produzione».
A fronte delle tendenze prevalenti nel marxismo della II Internazionale, la rivoluzione sovietica
del 1917 assume per Gramsci i caratteri di una Rivoluzione contro il «Capitale» di Marx9, l’esito di
Gramsci giovane e il Gramsci dei Quaderni, che si evidenzia nei concetti di egemonia e blocco storico» (G. Spadafora,
op. cit. p. 51).
6
A. Broccoli, op. cit., pp. 3 – 4.
7
Ivi, p. 5.
8
Ivi, p. 9.
9
«Il Capitale di Marx era in Russia il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale
necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un’era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo
una «azione volontaria e cosciente» che implica quell’impegno politico - educativo di classe
testimoniato dagli articoli e dalle note del giovane giornalista socialista, in cui Broccoli invita «a
rinvenire [con le necessarie cautele del caso] i primi fermenti di organizzazione futura del pensiero
gramsciano»10.
Sebbene poi il discorso del rivoluzionario sardo «sulla scuola […] in questo momento» risulti
«marginale, nella più generale rivendicazione di una maggiore cultura per il proletariato», Broccoli
non tralascia quei passaggi in cui il tema della scuola in senso stretto è centrale. In particolare lo
studioso romano richiama l’attenzione sull’articolo pubblicato sull’«Avanti» del 24 dicembre 1916
sotto la rubrica La scuola e i socialisti 11, dove Gramsci rivendica per il proletariato una scuola
disinteressata, un intervento di cui Broccoli sottolinea la rilevanza alla luce dei «limiti
dell’esperienza socialista in materia di politica scolastica, rappresentati dalla richiesta di scuole
elementari e professionali come di scuole tipiche del proletariato»12.
Un punto di vista quello del giovane Gramsci che per Angelo Broccoli spiega anche la polemica
«sul funzionamento delle università popolari»13 e il tentativo di dar vita ad un’associazione di
cultura, con «scopi e limiti di classe» , dedita ad un approfondimento disinteressato, «in cui possa
discutersi “tutto ciò che interessa o potrà interessare un giorno il movimento proletario”»14, luogo di
autoeducazione e dove si affermi lo spirito di ricerca.
Per quanto poi riguarda i caratteri politico – formativi della stampa socialista, Broccoli sottolinea
la rilevanza attribuita da Gramsci, fin dalle sue prime esperienze giornalistiche, ad un tono della
scrittura un «“tantino superiore”» alla media «perché ci sia uno stimolo al progresso intellettuale,
perché almeno un certo numero di lavoratori esca dall’indistinto generico delle rimasticature da
opuscoletti e consolidi il suo spirito in una visione critica superiore della storia e del mondo in cui
vive e lotta”»15.
Ma è con l’«Ordine Nuovo» e con il movimento dei Consigli che «Gramsci matura il punto più
alto del suo pensiero politico - educativo anteriore ai Quaderni»16, tra l’altro, attraverso un
occidentale, prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua
rivoluzione» (A. Gramsci, La rivoluzione contro il «Capitale», in A. Gramsci, La nostra città futura. Scritti torinesi
(1911-1922), a cura di A. D’Orsi, Roma, Carocci, 2004, p. 157)
10
Ivi, p. 31.
11
Al «proletariato – scrive Gramsci nello stesso testo - è necessaria una scuola disinteressata. Una scuola in cui sia data
al fanciullo la possibilità di formarsi, di diventare uomo, di acquistare quei criteri generali che servano allo svolgimento
del carattere. Una scuola umanistica, insomma come la intendevano gli antichi e i più recenti uomini del Rinascimento.
Una scuola che non ipotechi l'avvenire del fanciullo e costringa la sua volontà, la sua intelligenza, la sua coscienza in
formazione a muoversi entro un binario a stazione prefissata. Una scuola di libertà e di libera iniziativa e non una scuola
di schiavitù e di meccanicità». La polemica è rivolta contro quanti intendono ridurre l'insegnamento popolare alla sfera
professionale e di mestiere, una posizione espressa tanto dai liberali quanto da alcuni settori sindacalisti. A quest’ultimo
proposito va ricordato che l’articolo Socialismo e cultura, pubblicato a firma Alfa Gamma sul «Grido del popolo» del
29 gennaio 1916, si apre in polemica con Enrico Leone che «ripeteva alcuni luoghi comuni sulla cultura e
sull’intellettualismo in rapporto al proletariato, opponendogli la pratica, il fatto storico per i quali la classe sta
preparandosi con le sue stesse mani l’avvenire» (A. Gramsci, Cronache torinesi 1913 – 1917, a cura di S. Caprioglio,
Torino, Einaudi, 1980, p. 99). Anche se dopo il giovane Gramsci non va al di là del principio della partecipazione
meritocratica del proletariato ai «beni dello spirito». Non arriva a proporre una soluzione istituzionalmente nuova,
unitaria, si limita all'auspicio di una scuola professionale diversa, «Anche attraverso la cultura professionale può farsi
scaturire, dal fanciullo, l'uomo. Purché essa sia cultura educativa e non solo informativa, o non solo pratica manuale»
(ivi, p. 271). La critica ad una scuola limitatrice dello sviluppo, l'esigenza di formare uomini «completi», la ricerca di un
rapporto positivo tra educazione e istruzione, tra scuola umanistica e scuola professionale, sono tutti motivi destinati a
tornare in seguito e a trovare una completa proposta di soluzione (Cfr. M. A. Manacorda, Il principio educativo in
Gramsci, Roma, Armando Armando editore, 1970, pp.32 – 33).
12
A. Broccoli, op. cit., p., 33.
13
Gli sforzi delle Università popolari «assomigliavano ai primi contatti tra i mercanti inglesi e i negri dell’Africa: “Si
dava merce di paccottiglia per avere pepite d’oro”. Cioè, il contatto tra gli intellettuali e i semplici era risolto nel senso
di rendere banale la cultura borghese nello sforzo di avvicinamento alle classi popolari» (ivi, p. 38).
14
Ivi, pp. 38 – 39.
15
Ivi, p. 40.
16
Ivi, p. 48.
confronto che è anche una rivisitazione delle posizioni che sul piano della lotta culturale andavano
esprimendo il Proletkult e il gruppo di Clarté (Romain Rolland, Barbusse), a cui Gramsci, precisa
Broccoli, attribuiva il compito, e la cosa non poteva non riguardare anche il gruppo dell’«Ordine
Nuovo», di «promuovere nei lavoratori manuali ed intellettuali lo spirito di ricerca nel campo
filosofico e artistico, nel campo dell’indagine storica, in quello della creazione di nuove opere di
bellezza»17.
Broccoli non manca di sottolineare gli accenni presenti nell’«Ordine Nuovo» al tema delle
istituzioni scolastiche, come agli indirizzi possibili di politica scolastica; particolare inoltre è
l’attenzione, ben documentata nel testo, alla discussione che si va svolgendo nella «Russia dei
Soviet» intorno alla scuola, al politecnicismo, ai principi pedagogici ispiratori della costruzione del
socialismo. Un dibattito che ha rappresentato per Gramsci, secondo lo studioso romano, «uno
stimolo all’approfondimento di convinzioni personali» da «verificare poi a proposito della
situazione italiana»18.
Ma nell’immediato il Consiglio rimane il più «“idoneo organo di educazione reciproca e di
sviluppo del nuovo spirito sociale che il proletariato sia riuscito ad esprimere dall’esperienza viva
feconda della comunità di lavoro”»19, poiché ha creato quel «clima culturale» che consente livelli
superiori e originali di elaborazione teorica.
Dall’«Ordine Nuovo», dal biennio rosso, alla fondazione del partito comunista, alla conoscenza
dei termini in cui si dibatte e costruisce lo Stato socialista, Broccoli perviene al concetto di
egemonia, termine di complessa e profonda valenza educativa e che va acquistando il senso tanto di
direzione politica quanto di direzione culturale20; il che conduce ad individuare quali enti portatori
non solo il partito, ma tutte le altre istituzioni della società civile.
È il quadro in cui si colloca, ai fini della realizzazione del processo egemonico inteso come
capacità di un gruppo sociale di esercitare una direzione politico - culturale prima ancora del
«dominio», la relazione tra «spontaneità» e «direzione consapevole» che richiama l’elaborazione e
l’esercizio di una teoria della comunicazione .
L’intervento dell’educatore, maestro o moderno Principe, tende a rendere l’allievo attuale alla sua
epoca ed è nel conseguito comune «“clima culturale”» che si realizza il processo di reciproca
educazione. L’«allievo posto nelle condizioni di ricercare i termini della propria storicità e quindi
anche del modo in cui essa si è formata, investiga, in definitiva, su se stesso ed elaborando
criticamente la propria personalità si modifica e finisce per modificare i rapporti storici, quindi
l’ambiente e il maestro che ne è l’interprete genuino»21.
La spontaneità non viene negata ma ne viene sfatato il mito «che è disimpegno morale e
pedagogico», ma partire dalla spontaneità, conoscere
la spontaneità popolare ed individuale significa accertare di che tipo è questa spontaneità, cioè determinare le condizioni
delle masse come degli individui, il loro grado di maggiore o minore disgregazione culturale e politica, dal quale
dipende l’atteggiarsi concreto dell’intervento educativo ed egemonico. Non esiste, cioè, un rapporto educativo
comprensivo di tutte le situazioni possibili; ma sono piuttosto le diverse condizioni storiche degli individui come delle
masse a determinare i termini di quel rapporto. E la circostanza consente di impostare a livelli progressivamente più
elevati il conformismo e di giungere così all’effettivo miglioramento etico delle masse22.
Il presupposto dell’intervento politico - educativo «è una conoscenza del folklore e del senso
comune», quindi della composizione politico-culturale delle masse. «Come il maestro deve
17
Ivi, p. 50.
Ivi, p. 67.
19
Ivi, p. 56.
20
Qui Broccoli ricorre ad un famoso scritto di Norberto Bobbio, Gramsci e la concezione della società civile, in Pietro
Rossi (a cura di), Gramsci e la cultura contemporanea, vol I, Roma, Editori Riuniti, 1969, pp. 75 – 100.
21
A. Broccoli, Antonio Gramsci e l’educazione come egemonia, cit. pp. 155- 156.
22
Ivi, p. 93.
18
conoscere l’ambiente del fanciullo - scrive Broccoli -, anzi gli ambienti dei singoli fanciulli, così chi
esercita l’egemonia deve avvicinarsi al mondo delle masse per conoscerlo»23.
Ed è su questa base conoscitiva che si realizza una strategia pedagogica che tende a sostituire la
vecchia concezione del mondo e a «lavorare incessantemente per “elevare intellettualmente sempre
più vasti strati popolari, cioè per dare personalità all’elemento amorfo di massa, ciò che significa
lavorare a suscitare élites di intellettuali di tipo nuovo che sorgano direttamente dalla massa pur
rimanendo a contatto con essa per diventare le ‘stecche’ del busto”»24.
La direzione della ricerca gramsciana, come fin qui delineata, sembra «da un lato riguardare la
formazione di un tipo di intellettuale legato alle masse in quanto appartiene ad esse, dall’altro la
creazione di un tessuto connettivo che è dato dalle masse “in quanto tali”».
Tra le due direzioni quella «che sembra - a Broccoli - chiaramente privilegiata è la formazione
degli intellettuali legati alla classe operaia»; un atteggiamento spiegabile da un lato come «reazione
alla tradizionale noncuranza dell’esperienza socialista italiana25 fino a Gramsci di elaborare canali
educativi della classe operaia in tutto eguali, quanto a capacità di formazione, a quelli classici della
borghesia, dall’altro è il frutto di una costante preoccupazione di tipo politico di rendere egemone il
proletariato e di assicurare questa egemonia»26.
«Tutta l’opera gramsciana - per Broccoli - risulta percorsa da questo tema»27, in considerazione
dello stesso compito che il nuovo tipo di intellettuale è chiamato a svolgere, cioè «depurare la
mentalità popolare di ciò che è disgregato e farla assurgere a stadi superiori»28; «“a sollevare
continuamente nuovi strati di massa ad una vita culturale superiore”»29.
È l’obiettivo che consente di misurare le distanze tra la filosofia della prassi e l’idealismo, ma
anche da un certo marxismo intriso di meccanicismo e oggettivismo, che non mantiene quel
«contatto dinamico» che consente di intervenire sulla «spontaneità», «elemento» che non fu certo «
“trascurato e tanto meno disprezzato”» dalla direzione dell’«Ordine Nuovo» ma «“educato,
[…] indirizzato, […] purificato da tutto ciò che di estraneo poteva inquinarlo, per renderlo
omogeneo, ma in modo vivente, storicamente efficiente, con la teoria moderna”»30.
E’ evidente l’accettazione della dinamica dirigenti - diretti, una «distinzione [che] esiste anche
all’interno dei gruppi, come un portato della “divisione del lavoro”. Ma questa – sottolinea Broccoli
23
Ivi, p. 99.
Ivi, pp. 100 – 101.
25
«E’ noto che [il] Partito socialista italiano – scrive Broccoli - ritenne per molto tempo di dover dedicare i suoi sforzi
al potenziamento degli studi elementari e di quelli tecnici, considerati i soli studi delle classi popolari. D’altronde,
troppo frettolosamente si è a volte liquidato tale atteggiamento con un giudizio completamente negativo che non
riconosceva quanto di valido era in simile posizione. Si trattava allora di attribuire carattere prioritario a quel tipo di
studi, dal momento che le condizioni delle classi popolari non consentivano l’accesso ai gradi superiori. Il difetto,
piuttosto era quello di voler generalizzare la situazione esistente e di non inquadrare i problemi della scuola nel generale
ambito di una diversa strutturazione della società. In tal modo, ad esempio, alla richiesta di migliori condizioni di vita
per i lavoratori non corrispondeva per i socialisti una analoga battaglia per la scuola e l’istruzione. È con Antonio
Gramsci che il movimento operaio italiano finalmente acquista consapevolezza della cultura del proletariato. “ Se è vero
- egli scrive – che la storia universale è una catena degli sforzi che l’uomo ha fatto per liberarsi e dai privilegi e dai
pregiudizi e dalle idolatrie, non si capisce perché il proletariato, che un altro anello vuole aggiungere a quella catena,
non debba sapere come e perché e da chi sia stato preceduto, quale giovamento possa trarre da questo sapere”» (A.
Broccoli, Educazione e politica nel Mezzogiorno d’Italia (1767 – 1860), Firenze, La Nuova Italia, 1968, p. 233 n.).
26
A. Broccoli, Antonio Gramsci e l’educazione come egemonia, cit., p. 103.
27
Ivi p. 105.
28
Ivi, p. 121.
29
Ivi, p. 129.
30
Ivi, p. 133. Sono i termini in cui Gramsci risponde a chi aveva accusato il movimento torinese dei Consigli di essere
«“spontaneita” e “volontarista” o bergsoniano (!). L’accusa contraddittoria, analizzata, mostra la fecondità e la giustezza
della direzione impressagli. Questa direzione non era “astratta”, non consisteva nel ripetere meccanicamente delle
formule scientifiche o teoriche: non confondeva la politica, l’azione reale con la disquisizione teorica; essa si applicava
a uomini reali, formatisi in determinati rapporti storici, con determinati sentimenti, modi di vedere, frammenti di
concezioni del mondo ecc., che risultavano dalle combinazioni “spontanee” di un dato ambiente di produzione
materiale, con il “casuale” agglomerarsi in esso di elementi sociali disparati» (A. Gramsci, Quaderni del carcere,
Edizione critica dell’istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, p 330).
24
– è una distinzione estrinseca, che non tocca il problema fondamentale della perennità o della
variabilità della distinzione stessa».
A ulteriore smentita della «tesi così ricorrente che accentua l’elemento autoritario nella
costruzione gramsciana» l’autore ricorda come Gramsci sottolinei con vigore tra gli «errori più
gravi» quello che esistendo «“nello stesso gruppo […] la divisione tra governanti e governati”» si «
“crede che […] l’obbedienza debba essere automatica, debba avvenire senza bisogno di una
dimostrazione di ‘necessità’ e razionalità non solo, ma sia indiscutibile (qualcuno pensa, e ciò che è
peggio, opera secondo questo pensiero, che l’obbedienza ‘verrà’ senza essere domandata, senza che
la via da seguire sia indicata)”»31.
Lo stesso concetto di egemonia, attorno a cui Broccoli ritiene di poter ricostruire, la concezione
educativa gramsciana, si distanzia per il pedagogista romano dalla versione leniniana non solo
nell’anticipazione del processo a situazioni precedenti il dominio ma anche per la specificità del
rapporto pedagogico che si stabilisce, «“un rapporto attivo, di relazioni reciproche e pertanto ogni
maestro è sempre scolaro e ogni scolaro maestro”»32. Molte «delle proposte di interpretazioni di
quel rapporto in senso autoritario, se non propriamente coercitivo - precisa Broccoli - derivano da
una inesatta collocazione della funzione del maestro nei diversi momenti dell’egemonia»33; il
«maestro assume configurazioni diverse e diversi ruoli in relazione al progressivo arretramento del
folclore di fronte all’intuizione della realtà»34.
A conferma di quella «tendenza democratica» caratterizzante il pensiero gramsciano, che indica la
necessità di operare perché «“ogni ‘cittadino’ ”» possa «“diventare ‘governante”» e perché la
società lo ponga, «“sia pure ‘astrattamente’, nelle condizioni generali di poterlo diventare”»35, lo
studioso ricorre alla nota in cui Gramsci sottolinea come il «processo di sviluppo», nel senso sopra
precisato, sia legato
ad una dialettica intellettuali – massa; lo strato degli intellettuali si sviluppa quantitativamente e qualitativamente, ma
ogni balzo verso una nuova ‘ampiezza’ e complessità dello strato degli intellettuali è legato a un movimento analogo
della massa dei semplici, che si innalza verso livelli superiori di cultura e allarga simultaneamente la sua cerchia di
influenza, con punte individuali o anche di gruppi più o meno importanti verso lo strato degli intellettuali specializzati36.
In ogni caso la funzione e la posizione che il maestro assume nel «rapporto di egemonia è
assolutamente centrale»37, spetta a lui la lotta al «folclore di cui il bambino è inconsapevolmente
portatore»; la spontaneità del bambino non va però mortificata poiché «significa impedire questo
confronto continuo [tra il folclore e il mondo razionale dell’adulto], non permettere al mondo
inferiore di affiorare alle soglie della coscienza dell’educando e, contemporaneamente, all’impegno
educativo del maestro, in una sorta di denuncia o di rilevazione progressiva»38.
Se la spontaneità del bambino non può essere negata va rifiutata ogni concezione pedagogica che
riduca l’attività educativa ad un’azione tesa a «sgomitolare» il cervello del soggetto in formazione.
L’«“uomo è tutta una formazione storica”» e «“ogni generazione educa la nuova generazione, cioè
31
A. Broccoli, op. cit., p. 135.
Per Gramsci, a proposito sempre della spontaneità, si «presenta una questione teorica fondamentale […]: la teoria
moderna può essere in opposizione con i sentimenti “spontanei” delle masse? (“spontanei” nel senso non dovuti a
un’attività educatrice sistematica da parte di un gruppo dirigente già consapevole, ma formatosi attraverso l’esperienza
quotidiana illuminata dal “senso comune”, cioè dalla concezione tradizionale popolare del mondo, quello che molto
pedestremente si chiama “istinto” e non è anch’esso che un’acquisizione storica primitiva e elementare). Non può essere
in opposizione: tra di essi c’è differenza quantitativa, di grado, non di qualità: deve essere possibile una riduzione per
così dire reciproca, un passaggio dagli uni all’altra e viceversa» (A. Gramsci, op. cit., pp. 330 – 331).
33
A. Broccoli, op. cit., p. 140.
34
Ivi, p. 145.
35
Ivi, p. 187.
36
ivi, p. 140.
37
Ivi, p. 156.
38
Ivi p. 180.
32
la formazione e l’ educazione è una lotta contro gli istinti legati alle funzioni biologiche elementari,
una lotta contro la natura, per dominarla e creare l’uomo ‘attuale’ alla sua epoca”»39.
La lotta tra il folclore del bambino e «il mondo razionale dell’adulto» va realizzando in termini
dinamici e sul piano pedagogico il «rapporto spontaneità - direzione consapevole» e rappresenta il
presupposto per il «superamento della scuola attiva in quella creativa».
Superare la scuola attiva nella scuola creativa significa per Gramsci – scrive Broccoli - affermare un’esigenza di
storicità, nella quale l’alunno, dopo aver acquisito certe abitudini di disciplina e di controllo, si avvia verso un principio
di padronanza dell’ambiente, scoprendo nell’ambiente stesso la propria personalità per uno sforzo spontaneo e
autonomo.
E’ l’inizio, quindi, di una fase di autocreazione sul piano della propria personalità, che comporta una modifica del
rapporto pedagogico - egemonico rispetto alla scuola di base. Secondo quanto prima si è detto, la partecipazione
dell’alunno al rapporto diventa più attiva per effetto di modifiche che egli stesso introduce. Egli «indica» concretamente
i suoi bisogni educativi e si avvia a trasformare positivamente il primitivo compito di direzione del maestro in un
apporto di egemonia. Ciò significa, poi, che, sgominato il folclore, si intravede l’opportunità di un approccio più ampio
che il maestro mette in atto nella misura in cui l’alunno mostra di vivere il «clima culturale» del maestro stesso. In
termini gramsciani, scuola creativa significa passaggio alla fase in cui l’alunno presta il suo «consenso attivo» al
maestro e alla sua funzione egemonica, offendo egli stesso occasioni educative40.
Ecco allora, precisa Broccoli, che la fase ultima della scuola unitaria è per Gramsci «la scuola in
cui si tende a creare la coscienza dei valori fondamentali dell’umanesimo, a sollecitare l’
“autonomia intellettuale e l’autonomia morale necessarie per l’ulteriore specializzazione sia essa di
carattere scientifico (studi universitari) sia di carattere immediatamente produttivo”». Mentre
l’Università «rappresenta per Gramsci il coronamento di un processo di maturazione intellettuale e
morale, e non quindi, la sede dove è possibile sperimentare per la prima volta un metodo di ricerca
ed una capacità critica fino ad allora trascurati»41.
Ed è sulla base di queste argomentazioni che ad Angelo Broccoli
non sembra azzardato affermare che la pedagogia gramsciana si pone come una pedagogia di ricerca, come
continuazione e soluzione di problemi. Essa realizza l’unità maestro – fanciullo nella misura in cui, individuando e
risolvendo problemi, modifica continuamente i termini del rapporto e l’ambiente. Pedagogia della creatività, dunque,
nella misura in cui i suoi valori sono continuamente rinnovati dagli apporti del fanciullo come delle masse42.
Come abbiamo precisato in una delle note iniziali, Giuseppe Spadafora43ha sottolineato che
l’interpretazione che Broccoli offre di Gramsci influenza in modo decisivo l’approccio del
pedagogista romano al marxismo, una lettura dei testi marxiani tesa «a individuare – come scrive lo
stesso studioso in Marxismo e Educazione – le possibilità di esistenza di una teoria dell’educazione
ispirata ai canoni fondamentali del materialismo storico»44. Un proposito che si svolge sul metro
tanto delle Tesi su Feuerbach45 quanto della Prefazione a Per la critica dell’economia politica.
Ebbene, in merito a ciò, va ricordato che la terza Tesi su Feuerbach è il testo intorno al quale
Gramsci formula l’interrogativo se «l’affermazione dell’“educatore che deve essere educato”» non
39
Ivi, p. 160.
Ivi pp. 181 – 182.
41
Ivi, p. 211.
42
Ivi, p. 287.
43
G. Spadafora, op. cit. p. 51.
44
A. Broccoli, Marxismo e Educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1978, p. 15. L’obiettivo quindi dei tre saggi che
compongono il volume è quello di elaborare una «teoria generale dell’educazione basata sulla filosofia marxista» che ha
«come suo presupposto il compito scientifico di porsi come “un’analisi scientifica della realtà storica”, e come sua
finalità di analizzare il rapporto teoria – pratica e indicare soluzioni teoriche a questo problema» ( G. Spadafora, op. cit.
, p. 90).
45
Ed è alla terza Tesi su Feuerbach che Broccoli ricorre per evidenziare i limiti della tradizione culturale del
movimento operaio (cfr. A. Broccoli, Prefazione a G. Trebisacce, Marxismo e educazione in Antonio Labriola, Roma,
La Goliardica, 1979, pp. 5 –14).
40
ponga «un rapporto necessario di reazione attiva dell’uomo sulle strutture affermando l’unità del
processo reale»46.
La questione che Gramsci pone è quella dei «rapporti tra struttura e superstruttura», «un problema
cruciale del materialismo storico»47 da esplorare per Gramsci assumendo a filo conduttore alcuni
passi della Prefazione a Per la critica dell'economia politica.
Occorre muoversi nell’ambito di due principi: 1) quello che nessuna società si pone dei compiti per la cui soluzione
non esistano già le condizioni necessarie e sufficienti o esse non siano almeno in via di apparizione e di sviluppo; 2) e
quello che nessuna società si dissolve e può essere sostituita se prima non ha svolto tutte le forme di vita che sono
implicite nei suoi rapporti48.
Mentre nel Marx della Prefazione a Per la critica dell'economia politica la relazione tra sviluppo
delle forze produttive e coscienza sociale appariva ai teorici della Seconda Internazionale
consequenziale (con il «mutamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente
l’intera, gigantesca soprastruttura»49 che per l’appunto s’innalza sulla struttura economica), Gramsci
da quel passo ne ricava due principi e avverte che «questi principi devono prima essere svolti
criticamente in tutto la loro portata e depurati da ogni residuo di meccanicismo e fatalismo»50.
Gramsci opera una vera e propria trasformazione dell’interpretazione dell’enunciato di Marx, ne
rifiuta il nesso lineare che tiene insieme il testo marxiano, lo problematizza, ne ricava due canoni
metodologici, di cui uno non è conseguenza dell’altro, ma sono componenti da coordinare e sviluppare giacché dalla «riflessione su questi due canoni si può giungere allo svolgimento di tutta una
serie di altri principi di metodologia storica»51.Nel corso della stessa nota precisa che
l’errore in cui si cade spesso nelle analisi storico-politiche consiste nel non saper trovare il giusto rapporto tra ciò che è
organico e ciò che è occasionale: si riesce così ad esporre come immediatamente operanti cause che invece sono
operanti mediatamente, o ad affermare che le cause immediate sono le sole cause efficienti; nell’un caso si ha l’eccesso
di «economismo» o di dottrinarismo pedantesco, dall'altro l’eccesso di «ideologismo», nell'un caso si sopravalutano le
cause meccaniche; nell'altro si esalta l’elemento volontaristico e individuale.
Va stabilito quindi un «nesso dialettico tra i due ordini di movimento»52, tra «lo sviluppo» delle
«condizioni materiali» e «volontà collettiva», tra «premessa materiale» e «atti intellettuali».
In questo quadro di reciprocità compito della filosofia della prassi è quello di suscitare una
volontà collettiva, elaborare una nuova cultura popolare, un nuovo costume, un nuovo principio
educativo, un’egemonia come processo educativo.
Ecco che allora Broccoli, impegnato nella ricerca intorno a una teoria generale dell’educazione
fondata su presupposti marxisti, alla formazione che «tende a provocare una adaequatio secondo la
vecchia logica, tra soggetto e oggetto ovvero tra oggetto e soggetto», a seconda «che ci si muova
nell’ambito dell’idealismo ovvero del materialismo»53, oppone il richiamo alla terza Tesi su
Feuerbach, alle «“circostanze […] modificate dagli uomini”», quindi all’«“educatore stesso”» che
«“deve essere educato”»54.
L’uomo, scrive il pedagogista romano,
oltre che essere effetto di causa, è causa di se stesso. E una teoria generale dell’educazione deve occuparsi soprattutto
di questo. Se si sgombra il campo dall’ipotesi deterministica, qualunque essa sia, possiamo leggere diversamente una
frase sulla quale in molti hanno riflettuto: «Non è la coscienza che determina l’essere, ma è l’essere che determina la
46
A. Gramsci, op. cit., p. 1330.
Ivi, p. 455.
48
Ivi, p. 1579.
49
K. Marx, Prefazione a Per la critica dell’economia politica, Milano, 1975, p. 17.
50
A. Gramsci, op. cit., p. 1774.
51
Ivi, p. 1579.
52
Ivi, p. 1580.
53
A. Broccoli, Marxismo e Educazione, cit., p. 4.
54
Ivi, p. 3.
47
coscienza». Essa è diretta, ci pare di poter affermare, proprio contro l’astrazione idealistica e materialistica, che hanno
la pretesa di poter determinare, sia pure con l’ausilio dell’educazione, una nuova realtà, diversa da quella attuale, senza
accorgersi di esprimere in modo necessitato quella realtà, che a parole si vuole cambiare, come modello ideale e
naturale.
Occorre riflettere sulla reciproca di questa proposizione. L’essere determina la coscienza dell’uomo in quanto è il
risultato di una nuova realtà che è conseguente al processo di trasformazione55.
I processi educativi acquistano quindi ampi margini di autonomia ma nella consapevolezza che
«non esiste la possibilità di migliorare e educare l’uomo, se non eliminando contemporaneamente i
pesanti condizionamenti che l’ambiente esercita su di lui»56. L’educazione può operare in
profondità solo «se è in accordo con processi di trasformazione più ampi e più vasti»57, dichiara
Broccoli, se è parte costitutiva di quel blocco storico che aspira al mutamento sociale e culturale, a
combinare in termini indissolubili riforma economica e riforma morale e intellettuale.
Conformismo e americanismo
Due anni prima della pubblicazione di Antonio Gramsci e l’educazione come egemonia Mario
Alighiero Manacorda aveva condotto un esame, ben presente a Broccoli, delle opere dell’autore
sardo, centrando l’attenzione sulle categorie di americanismo e conformismo, nonché sul lavoro
umano quale concetto che li sorregge. I due termini sono assunti a punti di arrivo della ricerca
gramsciana sul principio educativo, a cui l’intellettuale comunista perviene negli anni del carcere
attraverso una lunga riflessione.
Ebbene, seguendo la ricostruzione di Manacorda, dopo l’esame degli scritti giovanili l’indagine
procede nella lettura delle lettere dal carcere che per lo studioso, con la loro datazione precisa,
offrono il vantaggio di consentire una ricostruzione della formazione, degli sviluppi e dei punti
d’arrivo della riflessione pedagogica gramsciana58.
Le lettere ai familiari svolgono un incessante discorso sull’educazione, a un livello che, con
Gramsci, Manacorda «chiama “molecolare”, e che trova piena corrispondenza nella sua
meditazione a livello politico “universale”. Nelle lettere - continua Manacorda - si può anzi
cogliere il primo configurarsi di temi che poi si trasferiscono per una più distesa considerazione
nelle note dei quaderni» 59.
Il primo di questi motivi riguarda il rapporto tra educatore ed educando (che sul piano
“universale” corrisponde a quello tra intellettuali e masse), un problema che pone a Gramsci la
necessità di misurarsi con l’alternativa pedagogica tra puerocentrismo, innatismo, spontaneismo da
una parte e con quello che Gramsci chiama conformismo, coercizione, autoritarismo, dall’altra. Un
secondo motivo riguarda il «rapporto tra scuola e società, tra istruzione e lavoro», questione che si
ricollega, come precisa Manacorda, all’esame dell’«americanismo»; infine il tema dei contenuti
dell’istruzione60.
Ed è nelle stesse lettere che Gramsci dà una prima risposta «alle sue incertezze tra lo
spontaneismo e l’autoritarismo o conformismo»: nell’educazione «non si può lasciar fare alle “forze
spontanee della natura”, perché l’uomo non è natura, bensì “tutta una formazione storica ottenuta
con la coercizione”».
55
Ivi, p. 38.
Ivi, p. 33.
57
Ivi p. 105.
58
Cfr. M. A. Manacorda, op. cit., p. 69.
59
M. A. Manacorda, Introduzione, a A. Gramsci, L’alternativa pedagogica, a cura di M. A. Manacorda, Firenze, La
Nuova Italia Editrice, 1972, p. XVII. Manacorda precisa che le «testimonianze di una riflessione non puramente
occasionale appaiono, […] nelle lettere, soprattutto dal momento in cui, definitivamente condannato dal Tribunale
speciale fascista, Gramsci avrà davanti a sé una lunga prospettiva di mancanza di libertà, e la famiglia e la politica
diverranno di necessità oggetto di meditazione distaccata» (ibidem).
60
Ivi, p. XVIII.
56
Le «inclinazioni più profonde e permanenti sono non un dato naturale, ma al contrario, […] il
risultato dello sviluppo: un esito che, appunto, si manifesta soltanto quando questo sviluppo sia
sufficientemente avanzato per poter dar luogo a una personalità»; ma la «coercizione» a cui
Gramsci pensa non nega «la conquista storica della spontaneità, [ma] deve recuperarla su un piano
più alto»61.
Quello di Gramsci è un «conformismo […] volto a promuovere uno sviluppo totale, non a
condizionare scelte premature. Lo scopo, da non perdere mai di vista, della scuola e di tutto il
processo formativo deve essere lo sviluppo non già di questa o di quella attitudine che paia
emergere spontaneamente, nella presunzione di cogliere le doti naturali […], bensì “lo sviluppo
armonioso di tutte le attività”»62.
Affermazioni in cui si coglie la ragione della radicale critica a qualsiasi precoce orientamento
professionale ma anche l’influenza dell’esperienza sovietica sulla pedagogia gramsciana, il
ripensare originalmente, precisa Manacorda, il motivo fondativo del punto di vista marxista
sull’educazione: «la formazione di uomini armoniosamente, totalmente, onnilateralmente
sviluppati»63.
Va chiarito però, come fa Manacorda, che Gramsci parla
di metodi e di fini educativi non per «salvare» il singolo individuo, ma per formare la totalità degli individui, l’uomomassa o l’uomo collettivo. Proprio per questo il rapporto pedagogico non si può esaurire nel modesto ambito delle
tecniche didattiche, […], cioè di un rapporto «molecolare» insegnante – alunno, ma investe tutta la società nel suo
complesso64.
Pertanto deve poggiare su concrete premesse materiali, misurarsi con i processi di innovazione
tecnico – organizzativa, per la formazione di una soggettività «capace di far fronte alle esigenze
della produzione industriale», preparata «non solo al lavoro, ma anche ad un modo di vita ad esse
conforme»65. Conformismo e americanismo, considerato quest’ultimo come il punto più avanzato
dell’industrialismo moderno, si incontrano nella ricerca di metodi educativi non spontaneistici ma,
nella prospettiva gramsciana, plasticamente «conformanti» alla nuova fase di sviluppo industriale.
I motivi pedagogici presenti nelle lettere e a cui abbiamo fatto prima riferimento (la relazione tra
educatore ed educando, quello tra scuola e società, tra istruzione e lavoro, e il tema dei contenuti
dell’istruzione), si ripropongono nelle note dei primi quaderni, soprattutto nel primo e nel quarto,
testi in cui Gramsci «prende le mosse dai temi “universali” del rapporto pedagogico - politico»,
sebbene, sottolinea Manacorda, i temi dell’americanismo e del conformismo «non siano i primi a
esser trattati in forma esplicita nei quaderni»66.
Infatti la prima questione che Gramsci affronta, «che sarà sempre centrale – secondo Manacorda
- in tutta la sua riflessione fino a diventare il motivo intorno a cui tutti gli altri graviteranno [è]
quello degli intellettuali», quali agenti «della supremazia che in ogni società la classe dominante
esercita sulle classi subalterne, e che Gramsci definisce anche come direzione intellettuale e morale
o, più spesso e più sinteticamente, come egemonia»67.
Il tema, che viene affrontato sin dal primo quaderno, è ripreso nel quarto, «proprio come
introduzione alle note più sistematiche sulla scuola»; le argomentazioni gramsciane si svolgono
intorno alla collocazione sociale e alla funzione degli intellettuali, al rapporto con il «moderno
Principe», alla rilevanza che hanno nella costruzione di un processo egemonico.
61
M. A. Manacorda, Il principio educativo in Gramsci, cit., p. 117.
Ivi, p. 128.
63
Ibidem.
64
Ivi, p 139.
65
M. A. Manacorda, Introduzione, a A. Gramsci, L’alternativa pedagogica, cit., p. XX.
66
Ivi, pp. XX- XXI.
67
Ivi, p. XXII.
62
E’ in questo contesto che «tutte le strutture specificatamente educative, e in particolare la scuola,
non solo emergono in primo piano, ma si coordinano strettamente a tutta la vita culturale e
produttiva»68.
Accanto al tema «centrale degli intellettuali e del moderno Principe» Manacorda vede subito
affrontati nei Quaderni i temi, tra loro intrecciati, dell’americanismo e del conformismo.
Il primo, che rappresenta l’espressione più dinamica dell’industrialismo moderno, in più
interessato all’ «“elaborazione forzata di un nuovo tipo umano”», è concepito da Gramsci, scrive
Manacorda, «come la risposta, sul piano pedagogico sia molecolare che universale, alle esigenze
dell’industrialismo: esso significa il riconoscimento della necessità di un “apprendissaggio”, di un
adattamento psico – fisico a condizioni non “naturali” ma storiche di lavoro e di vita»69.
Non è un tema nuovo, a tale proposito Manacorda cita, tra l’altro, un articolo di Pietro Mosso70,
pubblicato dall’«Ordine Nuovo», su Il sistema Taylor e i Consigli dei produttori, ma soprattutto fa
riferimento alle lettere dal carcere; dove, a partire dal 1929, Gramsci «manifesta il suo dubbio sulla
validità educativa del meccano, fino all’ottobre del 1930, quando il suo dubbio ormai pare risolto»
in un’educazione tecnologica nutrita da una solida conoscenza storico - culturale.
Fin dalle prime note sull’americanismo, il prigioniero comunista, rivendica alla «battaglia dell’
“Ordine Nuovo” un suo carattere “americanista”», «una forma di americanismo “accetta alle masse
operaie”»71. Con ciò Gramsci sottolinea «la vocazione del movimento operaio italiano - o almeno di
quella parte a cui aderì […] - per i problemi della razionalizzazione del lavoro, con tutto ciò che
comporta in fatto di formazione dell’uomo»; gli operai italiani sono stati quindi «portatori delle
moderne esigenze industriali» ma lo sono stati «“a modo loro”».
«L’industrialismo - Manacorda cita la nota, Animalità e industralismo, che chiude il primo
quaderno - è una continua vittoria sull’animalità dell’uomo, un processo ininterrotto e doloroso di
soggiogamento degli istinti a nuove e rigide abitudini di ordine di esattezza, di precisione».
Affermazioni che rendono evidente, secondo lo storico della pedagogia, come la
meccanizzazione del lavoro, che [Gramsci] aveva denunziato da giovane, nel 1922, al congresso della Federazione
giovanile comunista, e che aveva segnalato come un pericolo nella lettera alla moglie sul meccano, dell’inizio del 1929,
è qui assunta e riconosciuta come un aspetto inevitabile del processo storico, come una cosa sempre esistita […], e che
si è esercitata in forme di coercizione brutale, perché era una coercizione esterna, di una classe su un’altra classe. Ciò
che si deve respingere non è, dunque, la coercizione in quanto vittoria sugli istinti animaleschi, ma solo la coercizione
in quanto imposizione brutale dall’esterno. In questo senso Gramsci svolge anche le successive considerazioni sulle
crisi di libertinismo e sulle risposte coercitive che si sono avute finora nella storia, fino al recente dopoguerra, sempre
opponendo all’utopismo illuministico e libertario il taylorismo e la razionalizzazione, cioè i nuovi metodi di lavoro che
domandano anche una rigida disciplina degli istinti sessuali72.
L’elaborazione di un nuovo tipo umano implica necessariamente un certo grado di coercizione
anche nella prospettiva socialista, che non può però scadere nel «“bonapartismo”», come nel caso
sovietico; Gramsci fa riferimento alla tendenza trotskista all’industrializzazione e alla promozione
di un adeguato modo di vita delle masse operaie: «“il modello militare era diventato un pregiudizio
funesto”»73, forse, per gli stessi destini della costruzione socialista.
D’altronde se la «“ricostruzione”» non può che essere opera della classe «“che crea le basi
materiali”» del «“nuovo ordine”» è allo stesso gruppo sociale che spetta il compito di «“trovare il
68
Ivi, p. XXIII.
Ivi, p. XXIV.
70
Su Pietro Mosso e sulla sua collaborazione all’ «Ordine Nuovo» rimandiamo a G. Mastroianni, Vico e la rivoluzione.
Gramsci e il diamat, Pisa, ETS, 1979, pp. 106 – 115; inoltre V. Orsomarso, Il progresso intellettuale di massa, Soveria
Mannelli, Rubbettino, 2007, pp. 154 – 158.
71
M. A. Manacorda, Il principio educativo in Gramsci, cit., p. 166.
72
Ivi, p. 188.
73
Ivi, p. 219.
69
sistema di vita per far diventare ‘libertà’ ciò che oggi è ‘necessità’ ”»74, un sistema «“di vita
‘originale’ e non di marca americana”», «il che vuol poi dire, sovietico o socialista»75.
E’ evidente, per Manacorda, come Gramsci non sia
un superficiale esaltatore di tutto l’americanismo: è soltanto ben consapevole che esso rappresenta un’esigenza tecnica e
sociale moderna, non esorcizzabile dall’esterno: il problema consisterà dunque per lui […] se «l’esigenza tecnica può
essere pensata concretamente separata dagli interessi della classe dominante, non solo, ma unita con gli interessi della
classe ancora subalterna»76.
Anche in questo senso «“la vita collettiva e individuale deve essere organizzata per il massimo
rendimento dell’apparato produttivo”»; il lavoro pertanto è il «punto di riferimento anche per la
strutturazione degli istituti intellettuali e morali», così «l’attività educativa diretta e positiva accanto
a tutte le altre istituzioni per la formazione del produttore e del cittadino»77.
Gramsci ha risolto in questi termini i suoi iniziali dubbi sull’americanismo ma per andare oltre,
«segnando nettamente il distacco dalla “inaudita brutalità” di un metodo volto solo a condizionare
l’uomo all’immediato interesse della fabbrica, e cercando le prospettive razionali di soluzione»
delle contraddizioni proposte dalla nuova organizzazione sociale della produzione78.
È nel passaggio ad una fase più avanzata dell’organizzazione della produzione che Gramsci
individua l’origine e il significato della crisi della scuola, di cui intravede la soluzione nella
creazione di una scuola unica di base, disinteressata, cioè non professionale, ma tale da
contemperare le competenze culturali con la capacità di operare «manualmente», cioè,
«tecnicamente, industrialmente».
La scuola unica di base, scrive Manacorda,
si configurerà tutta come scuola attiva e libera dalle forme tradizionali di disciplina, solleciterà al massimo la
partecipazione degli allievi. Tuttavia questo attivismo - che Gramsci […] ha respinto soltanto nelle sue «curiose
involuzioni» innatiste e spontaneiste - comporterà nei suoi primi gradi un inevitabile dogmatismo o conformismo, non
potrà, cioè, rinunciare a proporre contenuti culturali attraverso rigorose metodologie; si tratterà tuttavia di un
dogmatismo «dinamico». […]. Nei gradi successivi, cioè al termine ormai della preadolescenza, questa scuola sarà non
solo attiva ma anche creativa, con illimitata autodisciplina intellettuale e autonomia morale79.
L’inadeguatezza della risposta idealistica alla crisi della scuola, determinata dall’affermarsi di una
nuova organizzazione sociale della produzione, e l’irriproponibilità dell’umanesimo tradizionale
richiede una risposta anche sul piano culturale e didattico certo non semplice, «giacché si tratta di
trovare una materia o una serie di materie disposte didatticamente in modo da essere ugualmente
formative». Gramsci è inoltre consapevole del fatto che «il problema non è esclusivamente didattico
– pedagogico, ma culturale e politico nel senso più lato, giacché si tratta di superare una crisi
originatasi per il distacco della vecchia scuola dalla vita, e definitasi per la casuale spontaneità delle
risposte fin qui date»; questo perché è mancata la consapevolezza profonda delle ragioni della crisi
e, soprattutto, la forza sociale interessata e capace di risolverla.
Il problema che si pone adesso alla filosofia della praxis, pertanto al movimento operaio, è quello
di definire un «nuovo umanesimo», un «nuovo intellettualismo», quindi, precisa Manacorda, un
nuovo tipo di intellettuale - il tecnico legato alla produzione industriale – la cui funzione è di essere «persuasore
permanente», costruttore, organizzatore. La sua formazione «dalla tecnica - lavoro giunge alla tecnica – scienza e alla
concezione umanistico - storica». Così, in questa educazione, che con Marx chiameremmo tecnologica, teorica e
pratica, Gramsci sembra recuperare i valori di quello storicismo, che era parte integrante dell’umanesimo tradizionale.
74
Ivi, p. 264.
Cfr. ivi, p. 365 – 366.
76
Ivi, pp. 272 – 273.
77
Ivi, p. 275.
78
Cfr. ivi, p. 367.
79
M. A. Manacorda, Introduzione, ad A. Gramsci, L’alternativa pedagogica, cit., p. XXVII.
75
Non era, del resto, - chiede Manacorda - proprio il tema «storia e storiografia», insieme con «gli intellettuali» e
«l’americanismo», il terzo tema del suo piano di lavoro del 1929?
Nei Quaderni si va pertanto delineando una nuova idea di formazione, in cui l’educazione tecnica
costituisce la base del nuovo tipo di intellettuale, non appiattito sullo specialismo ma le cui
competenze si precisano nella combinazione del «motivo scientifico - tecnico» con il «motivo
storicistico», anche attraverso la «“storia della scienza e della tecnica”».
«Un nuovo storicismo», esito di un itinerario educativo che non può essere circoscritto ai futuri
gruppi dirigenti ma che deve riguardare la «formazione dell’uomo».
Gramsci, scrive Manacorda, non va oltre l’affermazione della necessità e delle difficoltà di una
adeguata sostituzione dei vecchi contenuti dell’insegnamento, ma ha il merito di avere «indicato la
direzione “razionale” dello sviluppo [la scuola unica di base], il nuovo rapporto che va stabilendosi
tra lavoro intellettuale e lavoro industriale, tra università e accademie come punto d’incontro di
ricerca e produzione, di cultura e professione»80.
È alla luce di questo quadro di indicazioni, nonché della prospettiva di trasformazione politica e
sociale di cui è portatrice la filosofia della praxis, che si stabilisce il nesso tra conformismo e
americanismo.
La «lotta, la coercizione sociale, il conformismo appunto […] sono il non esorcizzabile processo
di adeguamento dell’uomo alle esigenze della produzione, intesa marxianamente come vera storia
della natura e dell’uomo». Ma al «conformismo meccanico» Gramsci oppone «quel conformismo
dinamico che non solo adatta l’individuo all’ambiente, ma lo educa a dominarlo».
Se «conformismo – dichiara Manacorda - significa socialità» e l’«americanismo (o
industrialismo) “non di marca americana”», che ne rappresenta «la ragione effettiva e la misura»,
significa «sovietismo (o socialismo)», ebbene i due termini sono i concetti di riferimento del
programma educativo gramsciano, chiamato a contribuire, in modo determinante, alla «formazione
di uomini contemporanei o attuali alla loro epoca, capaci di operare col massimo di economia, di
rendimento, di utilitarismo, governando consapevolmente le forze della natura al fine di
socializzarle»81.
Le leggi della storia come leggi di tendenza
Interpretazioni, quelle di Broccoli e Manacorda, che nonostante le differenze di contenuto e di
metodo, attribuiscono una effettiva centralità ad una pedagogia che va al di là degli scritti
propriamente dedicati all’educazione82, ma che si spiega nell’ambito di un ripensamento della
filosofia della praxis, in quanto fattore essenziale per la formazione di una volontà collettiva che,
pur misurandosi con la concreta complessità della storia, non rinuncia a essere soggettività fondante
il movimento reale.
E’ negli scritti gramsciani del carcere che il contrasto tra il «vecchio e il nuovo socialismo»,
secondo Giovanni Matroianni, trova la sua definizione, «a partire da una lettera del ’32 “sul metodo
di ricerca nelle scienze economiche proprio del Ricardo e sulle innovazioni che Ricardo ha
introdotto nella critica metodologica”». Del testo Mastroianni sottolinea alcuni quesiti gramsciani
intorno ad un eventuale significato dell’opera dell’economista inglese «“nella storia della filosofia
oltre che nella storia della scienza economica”»; inoltre, se «“abbia contribuito a indirizzare i primi
teorici della filosofia della praxis al superamento della filosofia hegeliana e alla costruzione del loro
nuovo storicismo, depurato da ogni traccia di logica speculativa”». Ma per Gramsci, sottolinea
Matroianni, pare che si debba «“vedere oltre”» e «“identificare un apporto”» definito «“sintetico”»
riguardante «“l’intuizione del mondo e il modo di pensare”»83.
80
M. A. Manacorda, Il principio educativo in Gramsci, cit. p. 334.
Ivi, pp. 280 – 281.
82
Cfr. G. Spadafora, L’identità negativa della pedagogia, Milano, Edizioni Unicopli, 1992, p. 68.
83
G. Mastroianni, Antonio Labriola e la filosofia in Italia, Urbino, Argalìa Editore, 1976, p. 13.
81
I quesiti troveranno risoluzione in una considerazione della «filosofia della praxis […] “uguale a
Hegel più Davide Ricardo” nel senso che “ha universalizzato le scoperte di Ricardo estendendole
adeguatamente a tutta la storia, quindi ricavandone originalmente una nuova concezione del
mondo”»84.
Un punto di vista che si lascia alle spalle il Labriola che, per Mastroianni, «non riesce a stabilire
un equilibrio fra libertà e necessità, fra gli uomini e la storia», perché
gli uomini li vede presi «in modo necessario e ineludibile» in un corso di cose che «trascende ogni nostra simpatia ed
ogni nostro subiettivo assentimento» e nel quale non c’è nulla «di assolutamente irrazionale», «d’immotivato», «di
meramente superfluo». Nemmeno spetta ad essi, agli uomini, d’inoculare ad arte, di importare «ab extra» nella società
presente la dissoluzione. «Il comunisno critico non fabbrica le rivoluzioni, non prepara le insurrezioni, non arma le
sommosse […] Non è esso un seminario [Non è, insomma, un seminario] in cui si formi lo stato maggiore dei capitani
della rivoluzione proletaria; ma è solo la coscienza di tale rivoluzione, e soprattutto [in certe contingenze], la coscienza
delle sue difficoltà». E la rivoluzione non può essere, «se non un [ semplice] portato dello sviluppo delle cose».
Certo, precisa lo storico della filosofia, «gli scritti che seguono a quello in memoria del Manifest,
si svolgono sul filo di un’eloquenza meno drastica e rischiosa», ma gli «uomini trovano sempre,
nelle condizioni positive del fatto di cui sono protagonisti, “le ragioni, e la legge, e il ritmo” della
loro azione. Manca solo (e non è che possano sottrarsi) che essi faccian la parte».
La «piega oggettivistica» dell’interpretazione labrioliana della praxis, ridotta a «un avvicinarsi al
“fare delle cose”», ad «un diventare partecipi»,
è del resto sottolineata dalla contemporanea interpretazione della «dialettica della storia», che il Marx e l’Engels
«trassero dall’idealismo di Hegel», e del «comunismo critico», come «inversione di Hegel» e semplice sostituzione
«alla semovenza ritmica d’un pensiero per sé stante», della «semovenza delle cose, delle quali il pensiero è da ultimo un
prodotto»85.
E’ anche così che la «“previsione morfologica, con cui Labriola caratterizzava la scientificità del
marxismo”»86, acquista carattere di necessità87; quindi diversamente da quanto asserito da Angelo
Broccoli88, per Mastroianni Labriola è alle spalle di Gramsci, ma non c’è solo il Cassinate che
«“per ora”», date le circostanze, non vede per il movimento operaio e socialista «“altro ufficio da
quello in fuori di preparare la educazione democratica del popolo minuto” »; il Labriola testimone,
anzi, «il testimone più insigne dei limiti d’origine del movimento, della sua radicale incapacità “di
tracciare e seguire […] una linea di lotta per avanzare verso il socialismo partendo dalle condizioni
attuali e muovendosi sul terreno della società presente”»89. In più, è venuta meno a Gramsci, nel
corso del maturare degli eventi successivi all’Ottobre, «la certezza che la primavera del 1917 era
84
Ivi, p. 151.
Ivi, pp. 59 – 61.
86
G. Mastroianni, Vico e la rivoluzione. Gramsci e il diamat, cit., p. 9.
87
Per Nicola Siciliani de Cumis la previsione morfologica è «anzitutto riproduzione intelligente ma storicamente
dipendente di forme, comunque aderenti alle condizioni date, in quanto risultano organiche all’insieme. E’ poi
immersione critica totale e totalizzante in un processo di realtà storiche complesse, qui ed ora conoscibili, analizzabili,
sintetizzabili in una forma. E’ ancora proposito etico-politico-pedagogico, decisamente aperto al nuovo, ma limitato ed
autolimitantesi a priori nelle cause e negli effetti, perché storicamente connesso alle circostanze e da queste
determinato» (N. Siciliani de Cumis, Il criterio del “morfologico” secondo Labriola, in Antonio Labriola e la sua
Università. Mostra documentaria per i Settecento anni della “Sapienza” (1303-2003). A Cento anni dalla morte di
Antonio Labriola (1904-2004). A cura di N. Siciliani de Cumis, Roma, Aracne, 2005, pp. 29-30).
88
Per Broccoli l’ «egemonia di Gramsci è in definitiva – e non importa che egli ne avesse o meno coscienza – la
previsione “morfologica” di Labriola, ma perfezionata e resa idonea alla concreta lotta politica» (A. Broccoli, Ideologia
e educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1974, p. 157), in quanto conoscenza e progetto politico che fa leva su ben
precisate condizioni storiche, che assume la rivoluzione anche come «“coscienza delle sue difficoltà”» (ivi, p. 171).
Sull’interpretazione di Broccoli del rapporto Labriola – Gramsci cfr. G. Spadafora, La pedagogia laica in Italia e
Angelo Broccoli, cit. pp. 67 –71.
89
G. Mastroianni, Antonio Labriola e la filosofia in Italia, cit. p. 65; inoltre cfr. di G. Mastroianni, Gramsci e Labriola:
l’equivoco della continuità, in «Il giornale critico di filosofia italiana», n.1, 1987, dello stesso autore, Per una rilettura
dei Quaderni, «Belfagor», settembre, 1991.
85
parsa verificare, della risposta socialista che “è nelle coscienze di tutti, e si trasformerà in decisione
irrevocabile non appena potrà esprimersi in un ambiente di libertà spirituale assoluta, senza che il
suffragio sia pervertito dall’intervento della polizia e dalla minaccia della forca o dell’esilio”»90.
Sono le premesse di un processo di elaborazione che matura nello stato di reclusione a cui
Gramsci è costretto dopo il 1926, a partire da un Lenin rivisitato, un Lenin « “uomo politico” che
scrive di filosofia” nei Quaderni 4 (XIII) e 11 (XVIII), la cui “vera” filosofia è invece da ricercarsi
“negli scritti di politica”».
Ciò che Gramsci, secondo Mastroianni, ritiene storicamente necessaria è un’opera di «revisione»
che renda il «marxismo filosoficamente all’altezza dei suoi risultati politici». È l’enunciazione di un
programma di lavoro che, sempre per Mastroianni, va individuando
il punto debole non in una o in un’altra risoluzione di merito, ma nella difficoltà con cui il marxismo viene rompendo
con le «correnti estranee alla dottrina originale» che l’hanno sostenuto (e condizionato) durante la sua minorità sociale e
politica, e scoprendo di bastare a se stesso, di contenere in sé «tutti gli elementi fondamentali per costruire una totale ed
integrale concezione del mondo, una totale filosofia e teoria delle scienze naturali, non solo, ma anche per vivificare una
integrale organizzazione pratica della società, cioè per diventare una totale, integrale civiltà»91.
In questo «passaggio […] alla filosofia»92 Marx
diventa uno che tira dai «nuovi canoni metodologici introdotti dal Ricardo nella scienza economica» una «innovazione
filosofica»: «la scoperta del principio logico formale della “legge di tendenza”, che porta a definire scientificamente i
concetti fondamentali nell’economia di “homo oeconomicus” e di “mercato determinato” non è stata una scoperta di
valore anche gnoseologico? Non implica appunto una nuova “immanenza”, una nuova concezione della “necessità” e
della libertà ecc.? Questa traduzione mi pare appunto abbia fatto la filosofia della praxis che ha universalizzato le
scoperte di Ricardo estendendole adeguatamente a tutta la storia, quindi ricavandone originalmente una nuova
concezione del mondo». La «regolarità» dei «fatti storici» non è più ritagliata, né in una «legge di metafisica di
“determinismo” », né in una «legge “generale” di causalità», ma in uno «svolgimento» in cui «si costituiscono forze
relativamente permanenti».
Pertanto, continua Mastroianni, ricorrendo ai Quaderni
90
G. Mastroianni, Vico e la rivoluzione. Gramsci e il diamat, Pisa, ETS, 1979, p. 14.
Ivi, pp. 66 – 67. E’ alla luce di tale esigenza che Gramsci dichiara «la necessità di rimettere in circolazione Antonio
Labriola e di far predominare la sua impostazione del problema filosofico». Dal «momento in cui un gruppo subalterno
diventa realmente autonomo ed egemone suscitando un nuovo tipo di Stato, nasce concretamente l’esigenza di costruire
un nuovo ordine intellettuale e morale, cioè un nuovo tipo di società e quindi l’esigenza di elaborare i concetti più
universali, le armi ideologiche più raffinate e decisive». Ebbene «Labriola, affermando che la filosofia della prassi è
indipendente da ogni altra corrente filosofica, è autosufficente, è il solo che abbia cercato di costruire scientificamente
la filosofia della prassi» a fronte della tendenza «ortodossa, rappresentata dal Plekhanov (cfr. I problemi fondamentali)
che in realtà […] ricade nel materialismo volgare» e di quell’insieme di «tendenze che non accettano la così detta
“ortodossia” del pedantismo tedesco» e che hanno preteso «di collegare la filosifia della prassi al kantismo o ad altre
tendenze filosofiche non positivistiche e materialistiche» (A. Gramsci, op. cit. p. 1507 - 1509). Ma in merito
all’educazione del papuano, e più in generale al tema del colonialismo, il «modo di pensare implicito» del Labriola
«nella risposta […] non pare […] dialettico e progressivo, ma piuttosto meccanico e retrivo, come quello “pedagogico
– religioso” del Gentile che non è altro che una derivazione del concetto che la “religione è buona per il popolo”
(popolo = fanciullo = fase primitiva del pensiero cui corrisponde la religione ecc. ) cioè la rinunzia (tendenziosa) a
educare il popolo […]. Che nelle scuole elementari sia necessaria una esposizione “dogmatica” delle nozioni
scientifiche o sia necessaria una “mitologia” non significa che il dogma debba essere quello religioso e la mitologia
quella determinata mitologia. Che un popolo o un gruppo sociale arretrato abbia bisogno di una disciplina esteriore
coercitiva, per l’essere educato civilmente, non significa che debba essere ridotto in schiavitù […]. C’è una coercizione
di tipo militare anche per il lavoro, che si può applicare anche alla classe dominante, e che non è “schiavitù”, ma
l’espressione adeguata della Pedagogia moderna rivolta ad educare un elemento immaturo (che è bensì immaturo, ma è
tale vicino ad elementi già maturi, mentre la schiavitù organicamente è l’espressione di condizioni universalmente
immature). Lo Spaventa, che si metteva dal punto di vista della borghesia liberale contro i “sofismi” storicistici delle
classi retrive, esprimeva, in forma sarcastica, una concezione ben più progressiva e dialettica che non il Labriola e il
Gentile» (ivi, pp. 1366 – 1368).
92
G. Mastroianni, Vico e la rivoluzione. Gramsci e il diamat, cit., p. 17.
91
esiste «necessità quando esiste una premessa efficiente e attiva, la cui consapevolezza negli uomini sia diventata
operosa ponendo dei fini concreti alla coscienza collettiva, e costituendo un complesso di convinzioni e di credenze
potentemente agente come le “credenze popolari”. Nella premessa devono essere contenute, già sviluppate o in via di
sviluppo, le condizioni materiali necessarie e sufficienti per la realizzazione dell’impulso di volontà collettiva, ma è
chiaro che da questa premessa “materiale”, calcolabile quantitativamente, non può essere disgiunto un certo livello di
cultura, un complesso di atti intellettuali e da questi (come loro prodotto e conseguenza) un certo complesso di passioni
e sentimenti imperiosi, cioè che abbiano la forza di indurre all’azione “a tutti i costi”»93.
La relazione posta tra «premessa materiale» e «atti intellettuali» non è meccanica, esclude
qualsiasi automatismo; la filosofia della prassi è chiamata a suscitare una volontà collettiva, ad
elaborare una nuova cultura popolare, un nuovo senso comune, un nuovo principio educativo, il
tutto «conforme ad una concezione del mondo» ben piantata ma non per questo semplicemente
appiattita sui processi strutturali.
La filosofia della praxis, qui Gramsci risponde al Croce che attribuisce al marxismo la
responsabilità di aver rimesso in circolazione «il dualismo teologico» e posto «un “dio ignoto struttura”», non stacca «la struttura dalle superstrutture […] concepisce il loro sviluppo come
intimamente connesso e necessariamente interrelativo e reciproco». Ma la struttura non è
neanche per metafora paragonabile a un «dio ignoto»: essa è concepita in modo ultrarealistico, tale da poter essere
studiata coi metodi delle scienze naturali ed esatte e anzi appunto per questa sua «consistenza» oggettivamente
controllabile la concezione della storia è stata ritenuta «scientifica». Forse che la struttura è concepita come qualcosa di
immobile ed assoluto o non invece come realtà stessa in movimento e l’affermazione della Tesi su Feuerbach dello
«educatore che deve essere educato» non pone un rapporto necessario di reazione attiva dell’uomo sulla struttura,
affermando l’unità del processo del reale?
Ecco allora che il «concetto di “blocco storico” costruito dal Sorel coglieva appunto in pieno
questa unità sostenuta dalla filosofia della praxis» 94.
A mó di conclusione provvisoria
Come abbiamo avuto modo di sottolineare, per Angelo Broccoli trattare la teoria educativa
gramsciana «sull’approfondimento del concetto di egemonia» implica la collocazione dell’impegno
pedagogico dell’intellettuale comunista nel contesto più ampio della sua opera. D’altronde, ed è
bene ribadirlo, «ogni rapporto di “egemonia”» diventa nei Quaderni «necessariamente un rapporto
pedagogico»95, ma si tratta, è questo l’aspetto su cui insiste Broccoli, di un rapporto attivo, di
reciprocità, che va esteso all’insieme delle relazioni sociali e politiche da realizzare e che allo stesso
tempo non nega la spontaneità ma ne sfata il mito e tende a conseguire quel comune «clima
culturale» che consente il realizzarsi del processo di reciproca riduzione.
Pertanto lo stesso concetto gramsciano di egemonia si distanzia da quello leniniano non solo
nell’anticipazione del processo di realizzazione dell’egemonia alla fase precedente il dominio
politico ma anche per la specificità della relazione maestro – allievo, che è poi quello tra dirigenti –
diretti, intellettuali – masse.
Sono i presupposti pedagogici di una effettiva «tendenza democratica» che può realizzarsi nella
misura in cui ogni cittadino è posto nella condizione di diventare soggetto attivo del movimento
reale e che acquista i caratteri della ricerca continua in ragione di una pedagogia, quella gramsciana,
che Broccoli definisce della «creatività» per i continui e rinnovati «apporti del fanciullo come delle
masse»96.
L’educazione quindi come egemonia, precisata nella sua radicale specificità rispetto alla
tradizione comunista, come riforma morale e intellettuale chiamata a rintracciare, in modo del tutto
originale i suoi presupposti materiali ai livelli più avanzati dello sviluppo delle forze produttive.
93
Ivi, pp. 77 – 78.
A. Gramsci, op. cit., p. 1300.
95
Ivi, pp. 1330 – 1331.
96
A. Broccoli, Antonio Gramsci e l’educazione come egemonia, cit., p. 287.
94
Il che spiega l’intrecciarsi, sottolineato da Manacorda di conformismo e americanismo; la
questione è «se sia possibile creare un “conformismo”, un uomo collettivo senza scatenare una certa
misura di fanatismo, […], criticamente insomma, come coscienza di necessità liberamente accettata
perché “praticamente” riconosciuta tale»97.
Il problema di fondo riguarda i modi e le forme della trasformazione sociale, quindi anche la
realizzazione di un conformismo inteso come processo di socializzazione che non si riduce ad
«accomodazione sociale»98ma che muove nel senso della formazione di un nuovo equilibrio psicofisico «non imposto dal di fuori» ma «accetto alle masse operaie», che avevano rappresentato, nel
corso «della storia italiana prima del ‘22», le «nuove e più moderne esigenze industriali»99.
Gramsci fa riferimento al segmento più avanzato politicamente e culturalmente della classe
operaia italiana e all’esperienza dell’ «Ordine Nuovo», la questione di fondo che si pone
all’educazione costitutiva una diffusa capacità di autogoverno è quello di procedere
dall’insegnamento «quasi puramente dogmatico», che «tende a disciplinare, quindi a livellare, a
ottenere una specie di “conformismo [...] dinamico”», alla «fase creativa o di lavoro autonomo e
indipendente […] in cui l’autodisciplina intellettuale e la autonomia morale è teoricamente
illimitata»100.
Un processo educativo di massa che si realizza nella misura in cui si stabilisce un nuovo rapporto
tra lavoro manuale e intellettuale. D’altronde l’educazione tecnica, sottolinea più volte Manacorda,
«strettamente legata al lavoro industriale» costituisce la base del nuovo intellettuale; ma
competenze tecniche, scientifiche e «concezione umanistica storica» devono rappresentare
l’impasto culturale dell’ «uomo onnilaterale», dell’uomo collettivo.
Il tutto nel quadro di un’accurata rivalutazione del momento politico – educativo e culturale, nello
sforzo di liberare la filosofia della praxis da ogni esito garantito, dato automaticamente tanto dai
meccanismi e dalle contraddizioni oggettive dell’apparato economico – produttivo capitalista
quanto da una rivoluzione intesa come atto collettivo determinato dall’incoercibile volontà operaia,
a cui pure il giovane Gramsci aveva affidato le sorti della rivoluzione.
E’ la revisione a cui si accinge nei Quaderni, alla ricerca delle forme di una Weltanschauung
proletaria liberata da qualsiasi considerazione teleologica della storia, che per realizzarsi deve
tenere insieme struttura e super - strutture, declinarsi nella costruzione di una egemonia, in una
diffusa capacità educativa e autoeducativa del tutto specifica, come per l’appunto precisa Angelo
Broccoli nei sui studi gramsciani.
97
A. Gramsci, op. cit., p. 1876.
A. Labriola, Del materialismo storico. Delucidazione preliminare, in Id., La concezione materialistica della storia,
Introduzione di E. Garin, Bari, Laterza, 1965, p. 136.
99
A. Gramsci, op. cit., p. 2146.
100
Ivi, p, 1526.
98
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