Natale: un augurio tra emozioni e ricordi

Natale: un augurio tra emozioni e ricordi
Andando indietro negli anni, le memorie, ammesso che interessino ancora, sembrano, di
solito, più accomodanti.
E anche se Pavese nel suo diario scriveva che Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi,
preferisco il Joseph Roth de La marcia di Radetsky nel passo in cui scrive che in quell’epoca si viveva di
ricordi come oggi giorno si vive della capacità di dimenticare alla svelta e senza esitazione.
Ogni tanto è opportuno una pausa: per guardarsi attorno, per capire dove si è arrivati e cosa
si sta facendo.
Natale ne offre l’occasione: per un augurio certo ma anche, e soprattutto, per una riflessione.
L’augurio, tradizionalmente, assume i contorni di una telefonata, sms, app, di una mail
animata o di un biglietto colorato, magari anche melodico.
Una volta in un anno si può fare; in realtà, coerentemente, spesso si continua ad essere
diplomatici, anche se si pretendono sinceri gli auguri.
Immaginate un biglietto d’ auguri del tipo: “Se avessi bisogno di un elemento per giudicare la
bassezza umana, tu me lo hai offerto. Sei un mentitore e un vile”.
Così Leandro Arpinati, generoso e onesto gerarca di Bologna, davanti alla scoperta del
fallimento dei suoi ideali, deluso profondamente dalla piega presa dal fascismo, non rassegnandosi
al suo errore né propenso ad accodarsi al gregge degli adulatori del duce, disposto al confino e alla
miseria, queste stesse parole scrisse in un biglietto di auguri a Storace, informatore del duce. Come
da copione fu confinato a Lipari, poi agli arresti domiciliari per essere poi ucciso dai partigiani nel
1945…
Ma erano altri tempi, altre persone.
La riflessione porta alla consapevolezza che ciò che esiste è destinato a invecchiare; che ogni
decisione o azione umana è superata nel momento stesso in cui viene assunta; che è sempre vano
ristabilire la normalità perché la normalità è solo la realtà di ieri.
Appare quindi fin troppo superfluo gioire eccessivamente di un successo poiché in esso
proliferano i germi dell’insuccesso: l’autocompiacimento per qualcosa di raggiunto offusca la
visione lucida perché genera sentimenti di invulnerabilità, superiorità, miope arroganza rispetto alla
vicenda umana in evoluzione.
Ma perché questi germi ancora sono così popolari?
In definitiva: esiste ancora una voce da ascoltare?
Quale significato ha per noi, oggi, l’ascolto di una voce afona che ci fa scegliere di metterci
da parte per essere un po’… di più?
Quella voce, ammesso che si riesca a udire nel frastuono dei significati morti che ci
sommergono, che si riesca a mettere a tacere l’invidia e a considerare la propria umana nullità, ci
suggerisce di rimettere in questione la rete, paralizzante, degli idoli.
Ma per non essere sommersi da suoni e urla senza senso è necessario “uscire dalla città”,
come i pastori del presepe, spinti dalla luce di una stella, per rincorrere un significato tra due esseri
ordinari, non di fronte a un vitello d’oro, ma tra un bue e un asinello senza nome.
Mi chiedo quale potrebbe essere, oggi, il volto di quei pastori, umili e semplici nell’era del
web.
Mi piace immaginare che i loro volti siano quelli che Lui stesso ha trovato somiglianti a sé:
volti che hanno fame, che hanno sete, volti nudi, volti forestieri, volti malati, peccatori.
Volti che procedono in un cammino senza timore perché Dio viene come un bambino: un
neonato non può far paura, si affida alle mani della madre, vive solo se qualcuno lo ama: così le
madri fanno vivere i propri figli, li nutrono di latte e di sogni, ma prima ancora di amore.
Verso il presepe, alla ricerca di una strada migliore: per ritrovare sogni e speranze, magari
una famiglia dove l’uomo è un padre giusto, un falegname, un vecchio uomo nuovo che conosce
l’amore, il rispetto della dignità; dove la tenerezza di una madre sa restituire quel senso della vita
che, a volte, sembra irrimediabilmente smarrito.
Il primo requisito è la fiducia nel tempo: quello, limitato, della nostra esistenza può vivere
questa esperienza, può partecipare delle conoscenze, delle emozioni e dei sentimenti che essa
genera, ma non la può compiere. Siamo chiamati solo a fare la nostra parte e a consegnarla a un altro
tempo, il tempo che verrà. Possiamo avere la visione d’ insieme del progetto ma esso non è un
nostro dominio: è solo un’eredità ricevuta da altri che vivifica nel cammino solo se consapevoli di
doverla cedere ad altri che verranno dopo di noi.
Gli idoli di cui siamo circondati non sono un pericolo: pericolo è la relazione che stabiliamo
con essi.
E’ questo che dobbiamo insegnare ai nostri ragazzi; di qui l’ardore della ricerca della verità
e dell’autenticità; il desiderio di migliorarci e non accontentarci, di aderire intimamente a ciò che
facciamo e diciamo.
La profondità dei valori, che è spirito, è troppo spesso barattata con il benessere materiale,
con la confortevole arroganza della presunzione, con la paralisi della coscienza, la pavidità
dell’azione, con l’autoreferenzialità: ogni ambiente ha i suoi professionisti!
Scriveva un mistico che la nostra missione sulla terra, da vivi, non possiamo compierla,
nella consapevolezza, tuttavia, che l’essere ignota non impedisce alla verità di esistere.
Eppure le verità che contano, i grandi princìpi, a Natale come sempre, si riducono alla fine a
due o tre. Sono quelli che da bambini ci hanno insegnato le persone che più ci hanno voluto bene. E
anche se non ci sono più le nevi di una volta, né quelle vigilie, né quelle cene, se siamo rimasti orfani
anche della patina delle oleografie sbiadite con i ritratti dei nonni dei nonni, dai colori spenti, nella
casa del padre che ormai non c’è più, ricerchiamo sempre, o almeno tentiamo di farlo, a Natale, quel
qualcosa di intraducibile che dovrebbe collocarsi da qualche parte dentro di noi, tra la coscienza e il
cuore. Quel qualcosa in cui trascendente e immanente si incontrano, l’unione tra cielo e terra, l’essere
consapevole della necessità di una pienezza propria, lontano da dove siamo.
Emozioni come quelle dell’amore (in realtà era “agape”, caritas) di Paolo di Tarso, amore
paziente e generoso, che non è invidioso, non si vanta, non si gonfia d'orgoglio, non cerca il proprio interesse,
non cede alla collera, dimentica i torti, non gode dell'ingiustizia, tutto scusa, di tutti ha fiducia, tutto sopporta,
mai perde la speranza, che ha verità e gioia come fine.
Emozioni che, nel presepe, preludono a una dimensione diversa, la proposta di un
cambiamento, l’opportunità di tornare a nascere aiutandoci a comprendere un tempo tutto nostro;
l’opportunità di riflettere, magari senza dirlo, sui nostri errori che, ogni anno, è uno dei più grandi
regali che riceviamo da questa festività.
Un caro augurio a tutti.
Il vostro Rettore